3530 57KB - Cultura Cattolica

annuncio pubblicitario
KIERKEGAARD A cura di Diego Fusaro (da www.filosofico.net)
Vedi anche http://it.wikipedia.org/wiki/S%C3%B8ren_Kierkegaard
L'opera di Kierkegaard si colloca negli anni immediatamente precedenti il 1850 e, benché il filosofo
sia morto prematuramente, ci ha lasciato un numero cospicuo di scritti. Importante nella sua
formazione è il luogo di nascita, la Danimarca, che in quegli anni si configurava come una sorta di
periferia del mondo intellettuale tedesco e, proprio per questo, risentiva molto del pensiero
hegeliano. E non a caso Hegel sarà l'idolo polemico contro il quale Kierkegaard costruirà il proprio
sistema filosofico, pur avendo in gioventù aderito all'hegelismo (cosa di cui si pentirà esclamando
"io, stupido hegeliano").
Formazione
Nella sua formazione culturale ha molto peso la famiglia, in particolare il padre, che trasmette al
figlio l'attaccamento alla religione luterana (in particolare il forte senso del peccato). Di
Kierkegaard possediamo un diario, nel quale trovano spazio, e anzi vengono ingigantite, anche le
situazioni più banali, quale ad esempio la rottura del fidanzamento.
Ed è nel diario che troviamo narrato un episodio, riguardante il padre, che sconvolse indelebilmente
il giovane Kierkegaard: racconta di aver visto il padre commettere uno di quei peccati che lui stesso
sempre condannava e quest'esperienza rappresentò un vero trauma, poiché vide crollare una figura
austera nella quale nutriva fiducia. Fin dalle pagine del diario, ci si può rendere conto di come in
Kierkegaard sia costante l'idea che, al di sotto della superficie, anche quando tutto sembra andar
bene, vi sia in realtà un tarlo profondo che corrode ogni cosa di nascosto: ed è proprio questo tarlo
che Kierkegaard si propone di indagare con la sua filosofia.
Tornando alla formazione del giovane filosofo, il padre lo spinse a seguire gli studi di teologia per
poter diventare pastore protestante, ma tali studi si protrassero troppo a lungo per via di
quell'incapacità di prendere decisioni che ben si evincerà dagli sviluppi della sua filosofia: è come
se Kierkegaard volesse prolungare in eterno la propria adolescenza, senza mai diventar uomo.
Questa fase corrisponderà ad uno dei tre "stadi della vita" (estetico, etico, religioso) che il filosofo
delineerà nella sua riflessione: anzi, si potrebbe dire che in fin dei conti i tre stadi della vita umana
altro non sono che i tre stadi della vita personale di Kierkegaard.
Il fidanzamento con Regina Olsen
Altro episodio centrale nella vita del pensatore danese è un lungo fidanzamento che, in prospettiva,
avrebbe potuto rappresentare quella vita adulta, tanto temuta, che continuava a rinviare; e proprio
per questo vi sarà la rottura del fidanzamento. Ma non per questo Kierkegaard dovrà fare il pastore
protestante per guadagnarsi da vivere: infatti, egli, dopo la morte del padre, ereditò un patrimonio
tale da potersi permettere di vivere di rendita; e così, senza inserirsi nella vita matrimoniale o in
quella lavorativa, egli si dedicherà a quello "stadio" da lui definito come religioso, entrando in
conflitto con la Chiesa luterana della Danimarca: ad essa rimproverava aspramente il fatto che
andasse sempre più istituzionalizzandosi.
La religione di Kierkegaard sarà, infatti, drammatica e sofferta e, in tale prospettiva, inconciliabile
con quella della Chiesa danese, che con il suo eccessivo adattamento alla società ("teologia
liberale") ben poco aveva di drammatico. E, a tal proposito, Kierkegaard gioca la carta di Lutero
contro il luteranesimo stesso: in Lutero, infatti, convivono due aspetti contrastanti, per cui, da un
lato, troviamo una religiosità profonda e drammatica, caratterizzata da un disperato tentativo di
rispettare la regola, e, dall'altro lato, un costante invito ad inserirsi nella società civile, nella
convinzione che un vero cristiano debba inquadrarsi nella società attraverso il lavoro e la famiglia.
Ecco perché Lutero appare nel contempo come uomo medioevale (per la sua religiosità disperata) e
moderno (per la centralità della società e del lavoro). E proprio l'invito luterano ad inquadrarsi nella
società sarà accettato da Kierkegaard nel secondo stadio della vita, quello etico (invito già peraltro
accettato da Hegel nel momento dell'Eticità). Ed è però per colpa di Hegel e del suo abbandono
della drammaticità religiosa che la Chiesa luterana è diventata quel che è diventata, dice
Kierkegaard: adagiatasi sulle posizioni hegeliane, essa si è scordata dell'aspetto drammatico della
religione in Lutero e si è concentrata solamente sull'inserimento nella società così come essa è (e
proprio questo porterà la Chiesa luterana ad aderire al nazismo). Kierkegaard, a differenza delle
tendenze hegelizzanti, fa prevalere di Lutero la sfera drammatica e disperata, occupandosi
principalmente di problematiche esistenziali. Infatti, non gli interessa come sia fatto il mondo, ma il
destino dell'uomo di fronte alle proprie scelte, ed è in virtù di questo interessamento che
Kierkegaard può essere considerato un esistenzialista , collocandosi in quel filone di pensiero
destinato a riscuotere così grande successo nel Novecento.
Uomo come “quel singolo”.
E da vero esistenzialista, mira a comprendere l'uomo nella sua individualità, poiché gli uomini non
sono nulla all'infuori che nella loro individualità; gli interessi di Kierkegaard vertono (a differenza
di quelli di Hegel) sull'esistenza e non sull'essenza e l'esistenza in questione è quella del singolo. Ed
è proprio su queste considerazioni che matura l'avversione di Kierkegaard nei confronti di Hegel,
accusato di voler inquadrare ogni cosa (compreso l'uomo) in categorie troppo astratte e sganciate
dalla realtà: e infatti Hegel non parla mai del singolo uomo, ma sempre del popolo o dell'umanità. E
anche quando parla dell'uomo, in realtà sembra che non stia parlando di noi, sostiene Kierkegaard;
da qui emerge il suo interesse per l'io come singolo, ovvero per l'io concreto, sganciato dalla
nebulosa astrattezza in cui l'aveva avvolto Hegel. Del resto, osserva Kierkegaard, checché ne pensi
Hegel, noi siamo nel mondo come singoli, ancor prima che come umanità e spirito. Prima di
addentrarci nel merito della sua filosofia, passiamo in rassegna gli illustri antecedenti di
Kierkegaard: in primo luogo, come abbiam visto, troviamo Lutero, da cui mutua il concetto di fede
e di angoscia (per Lutero la paura è paura di qualcosa, l'angoscia è paura del nulla); accanto all'eroe
della Riforma protestante, troviamo Blaise Pascal e il suo disinteresse per i discorsi teologici su
Dio; a Pascal interessava non tanto se Dio esistesse, quanto piuttosto che senso avesse per l'uomo
credere in Dio. E' curioso notare come sia Lutero sia Pascal non siano filosofi in senso stretto: in
loro la filosofia è al confine con la religione e anche in Kierkegaard, in qualche misura, sarà così; il
suo pensiero, non a caso, dopo una sepoltura durata mezzo secolo, verrà ripreso e fatto rinascere da
un nutrito gruppo di teologi (tra cui Barth). E in effetti si può ben capire perché un pensiero
interessato all'esistenza tenda a scivolare nella religione: Aristotele aveva fatto notare che la scienza
è sempre scienza dell'universale e che l'individuale esula da essa. Infatti, posso dire che cosa è
l'uomo o che cosa è il triangolo solo dopo che li ho definiti, ma il singolo uomo (Socrate, Gorgia,
Platone, ecc.) non è definibile, ma sfugge ad ogni forma di inquadramento intellettuale (e dunque ad
ogni forma di filosofia), cosicchè per indagare l'esistenza dei singoli è necessario percorrere strade
alternative. E così l'esistenzialismo di Kierkegaard, di Lutero e di Pascal prova la via religiosa,
mentre quello del Novecento prova quella del teatro e della letteratura (Sartre e Camus), poiché il
teatro, la letteratura e la religione consentono di presentare situazioni concrete ed individuali.
Ecco perché Kierkegaard è un pensatore religioso che cerca di incarnare in persone concrete le sue
categorie generali (questo spiega anche perché scrivesse spesso sotto pseudonimo): troveremo
pertanto personaggi desunti dal mito, dalla tradizione letteraria e religiosa, che rappresentano
costantemente il singolo; Don Giovanni rappresenterà l'incarnazione estetica, Guglielmo e
Agamennone quella etica, Adamo e Abramo quella religiosa.
Pensiero
Entriamo ora nel merito della filosofia kierkegaardiana: esistenza, possibilità e singolarità sono le
tre categorie con cui la filosofia esistenzialista del pensatore danese si oppone alle filosofie
tradizionali, in particolare a quella di Hegel, vista come eccessivamente astratta e per questo
incapace di cogliere la realtà. Queste stesse accuse venivano in quegli anni mosse all'hegelismo da
pensatori come Marx, Feuerbach e Schopenhauer: ma Kierkegaard si differenzia da essi in quanto
prova a recuperare la concretezza dell'esistenza dei singoli, nella convinzione che la realtà non sia
l'essenza dell'uomo (lo Spirito hegeliano), ma l'esistenza effettiva. E Kierkegaard vuole proprio
indagare il singolo, caratterizzato dall'essere irriducibile all'universalità. Ecco dunque che la
categoria di esistenza viene contrapposta a quella hegeliana di essenza; e per far ciò, il pensatore
danese si riaggancia alle riflessioni dello Schelling maturo che aveva rinfacciato ad Hegel di aver
elaborato una filosofia "negativa", cioè incapace di cogliere, al di là dell'essenza, l'esistenza
dell'uomo. E infatti, l'errore imperdonabile di Hegel sta nell'aver fatto derivare in modo necessario
l'esistenza dall'essenza (la Natura come derivazione necessaria dall'essenza dell'Idea), senza
accorgersi dell'incapacità dell'essenza di spiegare l'esistenza. Tuttavia Kierkegaard, pur
apprezzando Schelling per queste riflessioni, ne critica l'eccessiva nebulosità del discorso, come se
dietro ad essa si nascondesse troppa astrattezza. Dunque, abbandonato Schelling, cerca conferme
dell'irriducibilità dell'esistenza all'essenza in altri pensatori e le trova in Kant: quest'ultimo, infatti,
aveva smontato la prova ontologica dell'esistenza di Dio elaborata da Anselmo di Aosta mettendo in
evidenza come l'esistenza sia un qualcosa di sganciato ed indipendente dall'essenza, cosicchè
(diceva Kant) dall'essenza del concetto di Dio non se ne può dedurre l'esistenza. In altri termini, per
Kant l'esistenza era una "posizione" assoluta che esulava completamente dall'essenza.
L’esistenza contro l’essenza
E Kierkegaard, riprendendo queste considerazioni, conduce un'analisi della categoria di esistenza
che fonderà la riflessione degli esistenzialisti novecenteschi: essi faranno, infatti, notare che esistere
(dal latino existo , "vengo fuori") significa venir fuori dal concetto, ossia non essere riconducibili ad
essenza, riconfermando la tesi kantiana secondo cui l'essenza e l'esistenza sono indipendenti.
Sempre nel Novecento, si farà notare che l'esistenza è un venir fuori nel senso che, in fin dei conti,
ciascuno di noi non è mai tutto in se stesso, ovvero non si è mai solamente ciò che si è, ma anche
ciò che si sta decidendo progettualmente di essere, con la conseguenza che l'uomo non è tanto quel
che è nel presente, quanto piuttosto ciò che verrà ad essere in seguito alle sue scelte. L'accezione di
esistenza colta dall'esistenzialismo, dunque, è duplice: implica il venir fuori dal concetto e da se
stessi (e il venir fuori da se stessi in Kierkegaard è solo implicito).
Presente/futuro contro il passato
Centrale nel pensiero di Kierkegaard è, accanto alla categoria di esistenza, quella di futuro: Hegel
individuava come dimensione temporale fondamentale il passato, facendo notare che "essenza"
vuol dire "ciò che è stato" (come già aveva mostrato Aristotele), cosicchè il pensatore tedesco non
si lasciava mai andare a descrizioni del futuro, ma restava saldamente ancorato al presente e,
soprattutto, al passato. Ma, dice Kierkegaard, la nostra categoria è quella del presente che si proietta
nel futuro, poichè ciascuno di noi esiste come singolo e progetta la propria vita affacciato
sull'avvenire. E così il futuro viene contrapposto al passato, come l'esistenza è contrapposta
all'essenza; allo stesso modo Kierkegaard contrappone la singolarità indagata dalla sua filosofia
all'universalità del pensiero hegeliano.
Possibilità contro necessità
Infine, alla necessità tipica del sistema hegeliano, egli contrappone la possibilità: se la scienza e la
filosofia cercano di scoprire le leggi necessarie del funzionamento della realtà, l'esistenza, dal canto
suo, sfugge alla necessità; ciascuno di noi, infatti, per quel che riguarda l'essenza è necessariamente
uomo, ma per quel che riguarda l'esistenza è libero di effettuare le proprie scelte guardando al
futuro e le scelte non possono che farsi nella possibilità.
Dalla possibilità alla soggettività
Dalla categoria della possibilità si passa così a quella della soggettività, ossia della verità
soggettiva: infatti, l'analisi che Kierkegaard vuole fare della realtà non è oggettiva, ma dell'uomo
singolo nella sua soggettività. Kierkegaard, da buon cristiano, è convinto che vi sia oggettivamente
una religione vera (quella cristiana) e una miriade di religioni false; ma, da vero esistenzialista, più
che occuparsi della verità universale di tali religioni, si occupa del modo in cui ciascuno si rapporta
soggettivamente ad esse. Ciò equivale a dire che a Kierkegaard, pascalianamente, interessa non
tanto se Dio esista, quanto piuttosto che importanza abbia per l'esistenza soggettiva credere o meno
nell'esistenza di Dio. "E' più facile che sia salvato un persecutore di cristiani che non un insegnante
di teologia" egli afferma, a sottolineare che il persecutore ha vissuto autenticamente (anche se in
modo sbagliato) le proprie convinzioni, mentre l'insegnante fa il proprio lavoro in maniera
puramente oggettiva, senza partecipazione soggettiva; allo stesso modo, la verità scoperta da
Galileo era oggettiva, mentre quella di Giordano Bruno era soggettiva e, pertanto, doveva essere
vissuta fino alla morte.
I tre stadi della vita
Ed è dentro queste categorie che Kierkegaard costruisce (in Aut-aut e Timore e tremore ) quelli che
lui chiama "stadi della vita" (estetico, etico, religioso): Aut-aut segna il passaggio dal primo stadio
(estetico) al secondo (etico), mentre Timore e tremore (espressione desunta da san Paolo) segna il
passaggio dal secondo (etico) al terzo stadio (religioso).
Gli stadi della vita sono tre modelli generali di vita che, tipicamente, l'individuo può scegliere nella
sua esistenza e queste scelte sono, tendenzialmente, in sequenza, per cui si tenderà a partire dallo
stadio estetico per poi passare gradualmente agli altri due. Ne consegue che lo stato etico nasce
come superamento di quello estetico, e quello religioso come superamento di quello etico: tuttavia,
non si tratta di un superamento di matrice hegeliana, cioè retto dalla necessità (altrimenti tutte le
categorie esistenzialiste perderebbero di significato); al contrario, il passaggio da uno stadio all'altro
è dettato da una libera scelta del singolo. Certo, il pieno sviluppo di uno stadio può creare
condizioni favorevoli per il passaggio allo stadio successivo, ma, in ultima analisi, spetta sempre al
singolo scegliere se compiere il " salto mortale ", ossia uscire da quello stadio e passare al seguente
o rimanervi. Un'evidente analogia con la dialettica hegeliana sta nel fatto che anche qui ci troviamo
di fronte ad un procedimento triadico: tuttavia il procedimento kierkegaardiano si differenzia
perchè, oltre ad avvenire liberamente e non secondo necessità, riguarda sempre e solo i singoli e
non l'universale; inoltre, la logica hegeliana era quella dell' "et-et", dove cioè valeva tutto e il
contrario di tutto, visto che l'intelletto coglieva le contraddizioni e la ragione le ricuciva mettendo in
evidenza come esse si richiamassero a vicenda: in altri termini, Hegel coglieva le contraddizioni
solo per negarle e superarle, cosicchè, detto banalmente, il nero era sempre anche bianco e pertanto
si trattava di una logica dove valeva sia A sia B ("et-et"). E questo, nota Kierkegaard, è un
procedimento corretto solo se riferito alla sfera dell'astratto: se passiamo all'esistenza, la logica
dell'et-et perde di significato, in quanto quando il singolo sceglie una cosa, per questo stesso motivo
ne esclude altre. Ne consegue che se per la logica vale l'et-et, per l'esistenza vale invece l'aut-aut
(come recita il titolo dell'opera di Kierkegaard): si sceglie o questo o quello, e la scelta dell'uno
implica l'esclusione dell'altro.
Stadio estetico
Detto questo, Kierkegaard cala i tre stadi della vita in personaggi concreti: l'eroe del momento
estetico è il Don Giovanni, personaggio desunto dall'omonima opera di Mozart (riconosciuta da
Kierkegaard, come da Schopenhauer, capolavoro assoluto della musica). Don Giovanni è il
seduttore che mira a conquistare tutte le donne che gli capitano sotto mano ed è per questo il
simbolo della vita estetica, ovvero del vivere le sensazioni che il mondo fornisce; l'esperienza
estetica è prevalentemente di tipo quantitativo (alla qualità delle donne Don Giovanni preferisce la
quantità) e consiste, essenzialmente, nel vivere dell'istante, godendo in maniera puntiforme di ogni
sensazione che la realtà offre. La prima caratteristica dell'esteta sarà pertanto di presentarsi come
spirito assolutamente libero: ma in realtà egli è tutto fuorchè libero. E' infatti il mondo che sceglie
per lui: l'unica scelta che egli fa è di non scegliere, ossia di scegliere che sia il mondo a scegliere
per lui. E infatti Don Giovanni, scegliendo tutte le donne, non ne sceglie nessuna: è il mondo che
gliele offre; la libertà di cui l'esteta si vanta è allora una mancanza di libertà, la dominazione della
realtà di cui si sente capace è solo apparente, e la sua soggettività è del tutto inesistente visto che
non compie scelte. Accanto alla seduzione fisica incarnata dal don Giovanni, Kierkegaard propone,
con la figura di Johannes (che compare in alcune lettere), il seduttore intellettuale, capace di sedurre
attraverso le epistole. La vita dell'esteta, che sembrava traboccante di libertà, si rivela invece essere
tutto l'opposto (capovolgimento più hegeliano del previsto): l'esito di questa rinuncia alla libertà di
costruire la propria vita nel tempo è la disperazione. Infatti, in una situazione in cui il soggetto si
smarrisce e si trova privo di libertà, non può non nascere la disperazione. E' un esito necessario: ma
non è necessaria (bensì è libera) la scelta di uscire da questa disperazione. La figura dell'esteta, nota
Kierkegaard, è cosciente della disperazione, ma spesso sa metabolizzarla vivendola esteticamente:
un po’ come l'ape che si sposta di fiore in fiore e carpisce nell'istante ciò che le è offerto, quando
perviene alla disperazione può viverla esteticamente (un po’ come il protagonista de Il piacere di
D'Annunzio), in modo aristocratico, dicendo di aver capito che la vita non ha un senso e, proprio in
virtù di questa scoperta, rivendicando una presunta superiorità. Dunque, la disperazione è il risultato
necessario della vita estetica: ma poi sta all'uomo scegliere se vivere esteticamente anche la
disperazione o passare allo stadio successivo, quello della vita etica.
Stadio etico
Ecco dunque che è la disperazione a portare al superamento del momento estetico, un po’ come in
Lutero era la desperatio fiducialis a portare alla salvezza. Analogamente a come era in Hegel, anche
in Kierkegaard lo stadio della vita etica si caratterizza come dimensione in cui l'uomo vive calato
nei valori della collettività: la figura che meglio incarna tale stadio è quella del consigliere di stato
Guglielmo, classico burocrate statale. Egli viene presentato come corrispondente epistolare che si
rivolge tramite lettera ad un amico più giovane che si trova in difficoltà sulla strada da scegliere,
indeciso tra vita estetica e vita etica. E Guglielmo, con forti richiami alla tradizione luterana, gli
illustra i valori positivi della vita matrimoniale (che rientra nello stadio della vita etica), invitandolo
a calarsi professionalmente e matrimonialmente nei valori della vita etica. Se la scelta della vita
estetica è, paradossalmente, di non scegliere, quella della vita etica consiste invece nello scegliere di
scegliere: si è consapevoli di scegliere e di portare fino in fondo tali scelte. Se poi la dimensione
temporale della vita estetica era puntiforme, quella della vita etica si configura piuttosto come una
linea retta, ovvero come scelta che avviene nel tempo del progetto: non avendo un progetto, la vita
estetica viveva nell'istante; avendocelo, quella etica progetta nel tempo. L'uomo etico vuole infatti
cambiare continuamente e per questo l'etica vive nella ripetizione, cioè nel desiderare di continuo la
scelta fatta a suo tempo: la vita matrimoniale e quella lavorativa ne sono il simbolo. Tuttavia, anche
l'atteggiamento etico entra in crisi: pur essendo superamento di quello estetico, ha il limite di
mancare di valore assoluto, dal momento che la vita umana è finita e l'uomo etico è privo di un
aggancio con l'Assoluto; da ciò scaturisce una crisi che travolge la finitezza dell'uomo etico ed è
simboleggiata dal pentimento, ovvero dal rendersi conto della propria finitudine che rende
insignificanti le scelte etiche.
Stadio religioso
Scatta a questo punto la possibilità di una nuova dimensione, quella della vita religiosa, che trova in
Abramo il suo eroe. Dio gli chiede di sacrificare suo figlio Isacco e, proprio quando sta per farlo,
viene bloccato da un messo divino. L'accettazione totale della volontà divina simboleggia l'uomo
religioso, che si caratterizza anche per il fatto di essere completamente solo nel suo agire e, anzi, in
conflitto con la comunità che condannerebbe l'uccisione del figlio. Dunque Abramo è solo e va
contro l'eticità: ecco perchè nella Bibbia l'uomo religioso è spesso solo nel deserto, dove può parlare
a tu per tu con Dio stesso. Questo rappresenta quell'aggancio con l'Assoluto di cui la sfera etica
manca: inoltre, il Dio di Abramo non è (come già aveva detto Pascal) quello dei filosofi, degli
scienzati e dei teologi, ma è il Dio persona con cui si può dialogare abbandonando la civiltà. E
Kierkegaard nota che, a differenza di quella di Abramo, la scelta di Agamennone, il quale, per poter
salpare con la flotta, deve ingraziarsi gli dei sacrificando la propria figlia Ifigenia, è una scelta etica,
che non viene compiuta in solitudine a tu per tu con Dio (infatti Agamennone è attorniato dal coro,
emblema del popolo greco e quindi dell'eticità). Succede (un po’ come nella scommessa di Pascal)
che chi si è giocato tutto puntando su Dio ha fatto la scelta più libera che si potesse fare e, oltre a
riavere tutto ciò che era disposto a perdere (Isacco), ci ha anche guadagnato (diventando capostipite
del popolo eletto). L'uomo religioso vive nel "momento", ovvero nella riproposizione dell'istante,
ma è un istante dotato di senso assoluto, poiché, se l'estetica è mancanza di tempo e l'etica è tempo
lineare, la religiosità è inserzione dell'eternità nel tempo, ovvero è l'eterno che si cala nel tempo
(anche in Hegel l'idea atemporale si calava nello spazio della natura e nel tempo dello spirito). Qui
però non c'è mediazione tra eternità e tempo, in quanto è l'eternità che irrompe nel tempo facendone
saltare le regole, idea che ben si accosta a quella cristiana di Dio che si incarna in Cristo e nella
storia. Se Hegel insisteva che tale calarsi di Dio è una metafora usata dalla religione per esprimere il
calarsi dell'Idea nella natura, per Kierkegaard non è così ed egli infatti si riaggancia al cristianesimo
radicale, caratterizzato dal fatto che non si concepisca come continuazione e completamento della
tradizione classica, ma come opposizione ad essa (Tertulliano rientrava in quest'ambito): il
comportamento di Abramo, dice Kierkegaard, è assurdo agli occhi della filosofia, è un paradosso; lo
stesso san Paolo (che dapprima fu persecutore dei cristiani) definì la croce come "follia per i
pagani", a sottolineare l'assurdità dell'eternità che irrompe nel tempo.
Cristianesimo e religione
Ecco perchè per Kierkegaard il cristianesimo è la religione del paradosso che fa saltare le categorie
della tradizione classica. E così la filosofia kierkegaardiana si avvita sulla riflessione religiosa, la
cui categoria principale è quella di angoscia : il concetto, che sarà ripreso dagli esistenzialisti del
Novecento, fu esaminato dettagliatamente per la prima volta da Lutero, che definì l'angoscia come
paura del nulla, ossia paura priva di un oggetto. Kierkegaard la riprende in quest'accezione e si può
notare come essa e l'angoscia siano facce della stessa medaglia: la disperazione, infatti, è quel senso
del nulla interiore che l'esteta prova nel rendersi conto che la vita estetica è nulla; si tratta di una
sorta di tarlo interiore che mette in luce la nullità di fondo che caratterizza l'esistenza umana.
L'angoscia, dal canto suo, è esteriore rispetto alla disperazione ed è legata alla categoria di
possibilità: infatti, nota Kierkegaard, la categoria di possibilità è ambigua, poichè da un lato è
positiva ( "ciò che l'uomo desidera sempre e comunque è una possibilità") perchè rende possibile la
libertà e l'allontanamento dalla disperazione, ma, dall'altro lato, è negativa, in quanto possibilità
vuol sempre anche dire possibilità di cadere nel nulla ed è per questo accostata al senso di vertigine
che si prova a guardar giù dalle alture. Infatti, quando si sceglie si ha sempre l'impressione di poter
essere risucchiati dal vuoto e di poter piombare nel baratro del nulla. Dunque, se l'essere in senso
hegeliano è sempre necessario, l'esistenza, invece, è libera di scegliere bene o male e proprio per
questo è strutturalmente legata al senso di angoscia, ovvero alla paura di precipitare nel nulla. Ed è
dalle vicende di Adamo e del suo peccato originale che affiora la bivalenza della possibilità: ma se
la paura è una condizione accidentale (che si verifica cioè solo in presenza dell'oggetto che incute
timore), l'angoscia, invece, è costitutiva dell'esistenza umana proprio perchè l'esistenza è possibilità
e la possibilità genera angoscia. L'unica paura necessaria, esulante da ogni accidentalità, è la morte:
ma la paura della morte, nota Kierkegaard, è essa stessa angoscia, in quanto è timore del nulla.
Alla categoria di angoscia è indisgiungibilmente connessa quella di fede: la fede è la sola cosa,
aggrappandoci alla quale, possiamo compiere quel salto decisivo che ci consente di uscire
dall'angoscia. Finché restiamo nella nostra condizione umana, il timore del nulla non può essere
debellato (nell'estetica per la sua non-libertà di scelta e nell'etica per la sua finitudine), ma non
appena optiamo per la scelta religiosa (abbracciando la fede), ecco allora che sfuggiamo
all'angoscia e alla disperazione e troviamo un riparo da essi nell'Assoluto.
Nel Novecento, accanto agli esistenzialisti credenti e a quelli difficili da catalogare, come
Heidegger (Vattimo dà di lui un'interpretazione non-religiosa), vi saranno anche esistenzialisti atei
che riprenderanno le riflessioni di Kierkegaard, rimproverando però al filosofo danese e, in
generale, all'esistenzialismo religioso di aver tradito l'istanza esistenzialistica originaria ricorrendo a
Dio: infatti, l'esistenzialismo è tutto incentrato sulla possibilità ed essa, per essere tale, non può
agganciarsi a Dio, perchè così facendo si approda al porto sicuro della fede e si tappa l'enorme falla
del nulla, tipica della ricerca esistenzialista. Camus, ad esempio, insisterà vivamente sul concetto di
assurdo e sull'accettazione da parte dell'uomo dell'assurdità dell'esistenza; l'uomo di Camus saprà
dunque vivere fino in fondo la condizione di ineliminabile assurdità dell'esistenza. Tuttavia, contro
la critica mossa dall'esistenzialismo ateo, si può spezzare una lancia in favore di Kierkegaard,
facendo notare come per lui la fede non rinneghi la matrice esistenzialista: infatti, egli non la
concepisce in modo tranquillo e sereno, come un porto in cui trovar riparo; al contrario, la vive in
modo drammatico e problematico (l'immagine della fede è per lui Abramo), come l'avevano vissuta
Tertulliano, san Paolo, Lutero e Pascal, non in modo tranquillo e sereno come Erasmo e Tommaso.
Scarica