Antonio Labriola critico della cultura del suo

Antonio Labriola e la sua Università
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Antonio Labriola critico della cultura del suo tempo.
I concetti, le parole, i segni
Volendo dire dell’Antonio Labriola uomo di “cultura” e maestro di “critica” nel suo tempo,
occorre probabilmente prendere le mosse dal suo stesso modo d’intendere i due concetti di cultura
e di critica, e dal suo percepirsi, nei diversi momenti della vita, quale critico della cultura del proprio
tempo: quindi anche – egli precisa nel pieno della maturità - quale professore universitario
nell’«esercizio di questa funzione affatto definita, che non è da confondere con quella
dell’apostolo, del predicatore, del propagandista, del giornalista» [1]. (Scritti ped. p. 578). Una
funzione “scientifica”, che si traduce in una tecnica peculiare d’intervento nelle “cose”, in un’etica
della cultura, in un’educazione alla critica. E dunque, a suo modo, in una politica.
Infatti è precisamente di questo che Labriola si occupa in un modo o nell’altro per circa un
quarantennio, ed ex Cathedra, nella sua Università, in quanto critico di quella cultura che per
l’appunto lo concerne: e che, anche al di là degli standard linguistici dell’epoca, egli preferisce
designare come “coltura”, con riferimento anche alla funzione del coltivare, dell’educare,
dell’istruire. E dunque del formarsi e del formare, mediante l’insegnamento e l’apprendimento che
consapevolmente (socraticamente) gliene ne deriva anche come docente:
Chi sta sulla cattedra universitaria, non deve occuparsi di cronaca quotidiana, non deve esporre la sua
opinione su cose particolari, non deve arringare né agitare, ma insegnare, cioè dimostrare, spiegare,
interpretare le cose. Egli deve chiarire i concetti, le parole, i segni, sceverare le regole fondamentali,
formulare le dottrine, presentare le modalità dello sviluppo, condurre ad unità i singoli processi, per quanto
più questo gli può riuscire possibile [2]. (Scritti Ped., p. 578)
E prendendo le mosse dai «giornali dell’ultima quindicina» (così dice Labriola), porsi quelle
domande che servono ad intendere le realtà e le contraddizioni del proprio tempo (queste guerre
tra popoli, queste lotte sociali in corso), per arrivare a risolvere «i fatti politici attuali nei momenti e
nei moventi, di remota preparazione quelli e di intima impulsione questi» [3]. E per riuscire quindi
ad intenderli criticamente (cioè storicamente e formativamente).
Ma che cosa significa critica secondo Labriola? Che vogliono dire per lui coltura e cultura del suo
tempo? C’è la possibilità, nell’insieme dell’opera labrioliana da un capo all’altro del suo prodursi, di
rintracciare i termini di una risposta in qualche modo unitaria a tali interrogativi? E, anche al di là
degli scatti d’umore del professor «Rabbiola» e delle caratteristiche “esecuzioni capitali” del
«piccolo Robespierre del Caffè Aragno» [4], come bisogna intendere più in generale, in Labriola, la
nettezza, la drasticità e crudezza di talune sue opinioni ed espressioni su alcuni uomini di cultura
del proprio tempo?
Se è vero infatti, secondo Labriola, che «le idee non cascano dal cielo» e che la storia delle idee
«non consiste nel circolo vizioso delle idee che spiegano se stesse» [5], è altrettanto vero che le idee,
quelle che son frutto del positivo lavoro della critica, non si trovano con lo sconto ai mercati
generali. E magari con quelle facilitazioni culturali e semplificazioni concettuali che, al tempo di
Labriola, vengono a suo avviso praticando nella «Scienza» (che per Labriola vuol dire anzitutto
filosofia) i neokantiani e gli idealisti, gli spiritualisti e i positivisti acritici. Specialmente i positivisti
niente affatto “positivi”, di varie nazionalità e generazioni, con cui egli variamente polemizza.
Esemplificando, rimane cioè per noi il problema di quale rilievo etico-teoretico attribuire alle
stesse fulminanti definizioni labrioliane del «grande eunuco» e «gran pontefice» del Positivismo,
che sembra invece assommare in sé sia i difetti di un volgare empirismo mascherato di scientificità
sia gli eccessi di una dissimulata teologia camuffata di razionalità [6]. Egualmente, sul piano della
subitaneità di certe frequenti reazioni verbali ed epistolari, occorre spiegare nei vari momenti e
contesti la stessa schiettezza e durezza con cui avviene lo svillaneggiamento di questi professori
«scemi», «scemi di mente» (figli e magari nipoti di altri professori «idioti» e «poveri scemi») [7], e di
quel letterato «vanesio», e di quest’altro narciso che fa «la storia intima delle sue letture, fino alla
fotografia della penna della quale si serve» [8].
Se per Labriola, infatti, risulta immediatamente incontenibile il biasimo per quel certo filosofo
«vilissimo […] inconcludente ciarlatano […] neo-commendatore e […] lustrascarpe di ministri», è
altrettanto irrefrenabile il giudizio variamente maturato sull’«ultrasiciliano» pensatore, «un po’
infatuato di sé, un po’ presuntuoso», che viene negando «la comprensione filosofica della natura e
della storia» [9]. Sicché nello stesso ordine di pensieri, ed anche al di là delle circostanze del
momento, non rimane che da intendere il rifiuto in blocco di tutte queste filosofie «neokantiane,
neokritiche, neopositivistiche, empiriocritiche, immanenti, contingenziali, neotomistiche,
buddistiche, realidealistiche, fessistiche, ciarlatane - da averne piene le tasche e tutte le altre borse»
[10].
Non meraviglia quindi, in un siffatto quadro di repulse complessive (che sono tuttavia da
datare e contestualizzare puntualmente nel loro esplicitarsi), la definizione, una volta, di
«ciucciarello» per il filosofo neokantiano responsabile delle sue «fesserie» “antropologiche”, della
taccia di «bestia» per il pedagogista di grido e di «buono, ma pusillanime» per un altro professore
nell’esercizio della sua funzione [11]. Né stupisce la liquidazione senza appello di quelle filosofie
che si spacciano per “nuove”, ma che non sono niente altro «coglionerie» filosofiche, niente di più
che «filosofie di privato uso ed invenzione» [12]. E la dice lunga il «pasticcio» che questo noto
scrittore impersona con la sua «faccia tosta […] infinita» di «imbroglione», di «plagiario», cioè di
«un mixtum compositum di megalomania, di camorra letteraria e di vanità di mala femmina
sputtaneggiata»? [13].
Certo, si tratta di situazioni antagonistiche, che in qualche modo è lo stesso Labriola a stimolare
e ad enfatizzare. Repulsioni umorali, viscerali, che sono per così dire costitutive della sua
complessiva biografia intellettuale e morale; e che cercano una spiegazione, oltre che in precise
questioni di merito tra testi, contesti e pretesti polemici, nello stesso autobiografismo metodologico
labrioliano [14], nella sua stessa ironia ed autoironia (pedagogica ed autopedagogica). Idiosincrasie
umane, che sembrano introdurre per così dire geneticamente sia agli aspetti teoretici, tecnicoconoscitivi, sia a quelli etico-politici ed educativi della dottrina, di cui la «pedagogica» è parte.
Il che avviene fin dal primo momento in cui la dimensione scientifica si affaccia
consapevolmente in Labriola, come ricerca del criterio di verità filosofiche, di valori culturali e
spinte deontologiche fondanti. E, per la pars destruens, come critica delle semplificazioni
spiritualistiche, degli onniscienti razionalismi, degli empirismi volgari, dei positivismi trionfanti
[15]; per la pars construens, come ricerca del “proprio e nuovo”, all’inizio nell’ambito del «principio
dello Hegellismo», poi nell’ottica della «curvatura herbartiana», quindi del «materialismo storico»
[16]; e dunque, come impegno storico e politico ed etico-pedagogico, a costruire una cultura della
critica, individuale e sociale, effettivamente “altra”.
È così che Labriola procede anzitutto, fin da giovanissimo, nella critica all’intellettualismo
astratto (già dai primi anni Sessanta dell’Ottocento, scrivendo contro il “ritorno a Kant” di
Eduardo Zeller) [17] e, contemporaneamente, nella critica alla scolastica hegeliana (l’opposizione ai
«vortici» dell’idealismo assoluto di stretta osservanza) [18]. Prosegue poi il suo discorso, ampliando
ed approfondendo i propri quadri di riferimento culturale, oltre che nell’insegnamento nella critica
militante e, via via, nei saggi monografici su Spinoza e su Socrate, sulla “libertà morale”, su
“morale e religione”, sull’“insegnamento della storia”, sul “concetto della libertà”; e con articoli
giornalistici, recensioni accademiche, collaborazioni di diverso tipo, sempre e comunque
finalizzate all’incontro di cultura, etica, educazione, scuola, società, politica.
E dunque, nel corso di tutta la carriera universitaria, nell’affermazione di una deontologia
professionale, comprendente da un lato l’antipatia di Labriola verso quel tipo di intellettuale «scrio
scrio» (come si esprime) [19], specialista al punto da perdere di vista il senso dei problemi generali
della cultura e della vita; e, dall’altro lato, l’accordo con un tipo di uomo di cultura ideale, padrone
di tutte le proprie funzioni didattiche e scientifiche, competentissimo nella propria disciplina ed
aperto a dimensioni interdisciplinari, diligente nella preparazione delle lezioni e nello svolgimento
dei corsi, attento al piano degli studi, assiduo nella cura degli studenti, responsabile delle proprie
scelte nei consigli di facoltà, nei concorsi universitari, nelle attività di ricerca e nelle altre
incombenze del ruolo (aggiornamento degli insegnanti, ispezioni didattiche, presenza attiva nella
società civile, impegno politico-culturale-pedagogico ad ogni possibile livello)…
Di qui per Labriola, ad un certo punto, la preferenza (per esplicito polemica nei confronti
dell’università e della «scienza burocratica»), del far lezione di diritti e doveri agli operai; e la
propensione a dialogare, piuttosto che con colleghi professori, con stiratrici e sartine; e ad avere a
che fare, ai vari livelli, con insegnanti elementari, giornalisti, tipografi, agitatori sociali e sindacali,
militanti di partito, ministri, burocrati, preti, editori, organizzatori culturali, professionisti, cittadini
qualsiasi [20]. E, procedendo oltre, la scelta teorica di includere nelle proprie riflessioni e lezioni di
filosofia della storia una specifica considerazione dei «poveri», dei «fanciulli», dei «vecchi», degli
«inabili», degli «ammalati» [21].
È così pertanto che il Labriola più maturo viene affermando e confermando variamente la
propria idea di critica maturata negli anni, come opposizione alle «false opinioni», al “vuoto” di
scienza, al «verbalismo» e a tutto ciò che, in un modo o nell’altro, rappresenta per lui quel mal
vezzo italiano (ma non solo italiano) per cui «il culto e l’impero delle parole» finisce per corrodere
e spegnere ed addirittura per sostituirsi al «senso vivo e reale delle cose» [22] a tutto vantaggio
dell’«ideologia» marxisticamente intesa come «cattiva coscienza» [23]. Ed è ciò a cui Labriola, da
un capo all’altro della sua opera, non fa che opporre la «critica storica in senso filologico» ed in
quanto «prodotto naturale della coltura e della vita» [24] (Socrate, pp. 35, 36-37); la critica, come
attività del «correggere, rettificare e esaminare le opinioni altrui» [25] (p. 53 delle Opere II a cura di
Dal Pane) e come «ricerca storica» [26] (p. 127) in opposizione a «qualsiasi» idea di «filosofia della
storia» a mo’ di «dommatica del nostro secolo» [27] (p. 278), una volta assunto che
non può aversi alcun progresso scientifico dove manca la prima e irrecusabile condizione di ogni metodo
scientifico: la chiarezza del problema, e la ferma delimitazione dei concetti, che sono da elaborare ed applicare [28].
Ed è qui, fin dal principio, che si ha a che fare con un Labriola recensore della cultura del
proprio tempo, che nasce e cresce, per così dire, al cospetto di istanze pedagogiche tra loro
contraddittorie ed opposte: quelle che cioè gli derivano positivamente dall’insegnamento di
Bertrando Spaventa, che, a suo parere, «possiede schietto senso scientifico ed ha scritto molte cose
notevoli» [29]; e quelle altre che scaturiscono in negativo degli insegnamenti di tutt’altro genere,
per esempio dei Floriano Del Zio, Giuseppe De Luca, Raffaele Mariano: «gente che» (ma non loro
soltanto) - ancora secondo Labriola - «non ha alcuna cittadinanza nel mondo della scienza» [30].
È un Labriola, questo, che avendo cominciato per tempo ad esercitare da hegeliano le armi della
critica contro il neo-kantismo di Zeller, sente per così dire di essersi reso immune da «quella
philosophia pigrorum, di cui il degno Kant parla in qualche luogo» (p. 280 vol. III Opere Dal Pane).
Un Labriola che delinea subito con chiarezza, il proprio quadro teorico, obiettando criticamente da
un lato contro il “puramente empirico” e lo psicologismo semplicemente “descrittivo”, da un altro
lato contro le formalizzazioni “assolute” del “sapere” e le ipostatizzazioni di un “conoscibile ora
attualmente tutto conosciuto”.
Un Labriola mentalmente hegeliano che - si diceva - obietta con eguale forza polemica, da un
lato, contro il “soggettivismo” di Zeller:
La Teorica della Conoscenza dello Zeller, è una disciplina puramente empirica, una descrittiva
psicologica; in conseguenza della quale, e della Logica formale, si otterranno esatte ricerche, ma non un
sistema filosofico [31].
Da un altro lato, contro una certa scolastica hegeliana:
[…] A me pare che l’impotenza sia nella Scuola, e non nel principio. Anzi la Scuola è stata l’esagerazione
del principio. Hegel intese per sapere assoluto, che la conoscenza è in sé tutto il conoscibile; ma il conoscibile certo
non è ora attualmente tutto conosciuto [32].
Anche perché il conoscente, l’uomo con le sue passioni (senza le quali, secondo Labriola, non si
dà «storia»), è una macchina molto complessa, che porta in se stesso «la sfinge che l’interroga»,
dando a se medesimo «la risposta» [33]. (cfr. p. 120 di Dal Pane I). Le passioni, che sono da trattare
come veri e propri oggetti di culto; da coltivare religiosamente, «come dice l’Apostolo, di fede a fede»
[34]; e dunque da mettere «alla pruova», tenendo «a mente che la vita si vive e non si pensa» [35].
Con buona pace dello stesso Spaventa, dal quale il ventiquattrenne Labriola, consumando il
proprio scontento esistenziale nell’amore per Rosalia von Sprenger, dichiara ad un certo punto di
essersi allontanato:
Veramente quello che ha inaridito sempre il mio cuore sono le mie relazioni, e niente me ne fa più fede
quanto l’allontanamento da Spaventa. Quest’uomo stomachevole ha sciupato un tempo tanto del mio amore
e della mia fiducia, senza darmi in cambio che noia e mal’umore. Ora che veggo lui uomo fra gli altri, e più
meschino di molti altri, non so se debba piangere o ridere della mia sciocchezza! Tanto è vero che l’uomo non
è che un lento prodotto del suo lavoro, e che il suo destino è di raccogliere i tardi frutti dei suoi disinganni
[…]. Se il mondo m’ha negato ricetto, se tutti m’hanno maltrattato, io non risponderò certo coi pianti del
romantico, né con le minacce del liberale da commedia - questa era la mia maniera di prima - ma risponderò
coi fatti. Che tutte queste parole oltre ad essere una manifestazione matura del mio animo, si riferiscono
anche a dei piccoli incidenti, lo intenderai bene. Ma sai anche che la somma delle piccole esperienze acquista
nell’anima un valore infinito, innanzi al quale i fatti singoli perdono interamente ogni valore [36] (p. 224,
lettere Miccolis).
«Dagli elementi della formazione, alla cosa formata» [37] - verrebbe da ripetere col Labriola
della maturità. Ed è su questi presupposti anche sentimentali, umorali, che viene difatti a formarsi
un Labriola critico del suo mondo culturale. Un Labriola che, intervenendo “geneticamente” nel
proprio back-ground ideologico ed etico-politico-pedagogico, saprà fare scaturire, con le proprie
passioni, gli orientamenti scientifici, le istanze ideali e morali e le prospettive sociali e politiche, che
originalmente gli appartengono.
Un Labriola pedagogo del “sé”, che vuol farsi al tempo stesso pedagogo dell’“altro da sé”; e che
usa la propria esperienza del “dover essere”, per mettere oggettivamente in discussione quel che
di criticabile gli sembra di scorgere sia in se stesso che negli altri, come individui. Un Labriola
“hegeliano” ed “herbartiano sociale”, e dunque un Labriola, che quanto più osserva e relativizza la
prima persona, tanto più prende le distanze anche dalla seconda e dalla terza persona. Per
raggiungere, così facendo, il “noi”, il “voi”, gli “essi”, quali ipotetici soggetti di educazione.
Scrive infatti a Benedetto Croce, al «letterato», «individualista», «edonista» Croce:
Voi soffrite la più grave malattia, che è quella di doversi occupare di sé stesso. Gli organi son tutti fatti
per travagliarsi in altro, e se son costretti a reagire sopra di sé stessi (io scrivo sé sempre con l’accento), si
guastano.
Fate un bel viaggio per intuire l’altro che è fuori di voi, e poi voi stesso: studiate il vostro cuoco, che
sebbene sia tanto stupido, è pure il vostro simile, e merita tutte le attenzioni, e tutti i riguardi della vostra
filosofia: amministrando i vostri beni lavorateci un po’ attorno, perché la fortuna diventi in qualche maniera
un merito: e se non potete fare altro compatite gli storpi, i ciechi, i matti, ed i birbanti, pensando che voi siete
in qualche maniera come loro, o quasi.
Perché il busillis sta qui: di avere una religione senza Dio; il che se confina con l’assurdo, niente toglie che
sia vero [38]. (Lettere Gerr.Sant., p. 237).
Su questo registro etico-politico-educativo, nonostante i “salti” della teoria, da un tempo
all’altro della vita di Labriola (dallo hegelismo allo herbartismo al marxismo, dal liberalismo alla
democrazia radicale al socialismo), non si può dire ci sia in lui alcuna soluzione di continuità nella
forma dell’acquisizione culturale e nei modi della contrapposizione storica al portato ideologico,
acritico, del proprio tempo. Ciò che in Labriola si mantiene ben ferma, invece, è la sua polemica
contro i «pregiudizi» d’ogni sorta. Compresi quelli suoi proprî.
Per esempio, contro i «pregiudizi speculativi» (gli «speculativen Vorurtheilen») di Augusto
Vera, che derivano insieme da mancanza di «scienza» e da carenza di «buona fede», sicché «la
critica non può farci nulla» [39]. E difatti:
quando poi vediamo che qualcuno s’immagina che si possano prendere i fatti del sapere storico, alla cui
ricerca critica e elaborazione scientifica tante discipline si affaticano, e con un paio di parole magiche gettarli
nel vortice dell’idealismo assoluto, e che si possa inoltre passar sopra orgogliosamente a tutte le questioni
della linguistica e della mitologia, della storia del diritto e della statistica, dell’etica storica e comparata, noi
pensiamo che un tal procedere confina con la temerità; ovvero dobbiamo astenerci da ogni diritto di
pronunziare un giudizio sulla coscienziosità dell’autore” [40].
Quanto agli sviluppi di questa posizione “di principio”, da Labriola in seguito sempre
confermata, essi finiscono col coincidere con le stesse formulazioni e riformulazioni labrioliane dei
concetti di “critica” e di “cultura”, nelle diverse dimensioni a cui gli è possibile accedere: in
filosofia, in pedagogia, in politica. Comunque in forza del criterio ermeneutico di sempre, dall’anti
- Zeller e dall’anti - Vera in avanti. E che si conferma nei Saggi sul materialismo storico:
Tendenza (formale e critica) al monismo, da una parte, virtuosità a tenersi equilibratamente in un campo
di specializzata ricerca, dall’altra parte: - ecco il risultato. Per poco che s’esca da questa linea, o si ricade nel
semplice empirismo (la non-filosofia), o si trascende alla iper-filosofia, ossia alla pretesa di rappresentarsi in
atto l’Universo, come chi ne possedesse la intuizione intellettuale (p. 223 dei Saggi, ed. Gerr. E Guerra).
Di qui, secondo Labriola, la necessità di quel tipo di operosità critica, che se incomincia col
significare osservazione, disamina, analisi e notazione di difetti di una determinata posizione
mentale o azione pratica, finisce anche col voler dire considerazione attenta e decisamente
finalizzata dei termini di un problema e della loro genesi. E che, rispetto alla cultura del proprio
tempo, esprime, ora biasimo, censura, correzione, rimprovero, discussione, negazione,
opposizione, polemica, ora capacità di informazione, notazione, recensione, rassegna, trattazione,
giudizio, integrazione, cooperazione, formazione, approfondimento, interpretazione.
E si tratta, in ogni caso, di un’attività intellettuale criticamente elevata, selettiva, e tuttavia
composita, ibrida, impura. Un’attività culturale, che non è mai fine a se stessa, ma sempre e
comunque diretta a produrre altra attività. Ad intervenire pedagogicamente nelle realtà umane le
più diverse.
E per esempio, nella vita di tutti i giorni, criticando questo o quell’intellettuale, «stranissimo ma
assai simpatico goliardo» [41], «minchione» oppure «minchionatore», «coglione» o «coglionatore»
[42]; additando all’attenzione i «turpemente corotti», gli «artisti impulcinelliti», la «ciarlataneria
cretina», i «paolotti», ecc.; ovvero recensendo quell’altro saggista «somarello, prosuntuosello,
intrigantello, farabuttello, le cui opinioni non contano nemmeno per riderci» [43]. O ancora
sigmatizzando le azioni di quei giornalisti «mascalzoni» e «marmaglia», «di solito tanto ignoranti» e
con «la sensibilità della malizia» [44]; ovvero giudicando senza peli sulla lingua le azioni di quei
«socialisti» e «internazionalisti» nostrani, che si dimostrano «asini», «rigattieri della letteratura
socialista», «cretini», «volgari», «confusionisti ed amorfisti» [45].
Un’attività formativa, morfologica, questa di Labriola, che sorgendo nella sua quotidianità
all’incrocio di teoria e pratica, viene a costituirsi come conoscenza e come etica; e, nella propria
ambivalente peculiarità, a rispecchiarsi nell’opera educativa e quindi a riflettersi nella vita. Così
come avviene nel Socrate [46].
Dove non a caso, assieme all’idea-guida di una critica della cultura, compare un concetto,
altrettanto variegato, di una cultura della critica. Un concetto che chiama in causa le nozioni di
civiltà e progresso, di individuale e sociale, di civismo ed arte, di «tradizione letteraria come
mezzo di coltura» e di «paideia» («lettura, recitazione, canto, ginnastica») [47]. Un’idea di
formazione critica.
E tira in ballo le «vedute» del singolo ed il loro radicamento interpersonale, collettivo, nei
«bisogni e nella coltura del tempo»; e, quanto a Socrate, mette in relazione il «meramente
scientifico» ed il concretamente pratico, le «condizioni della coltura ateniese» e «il risultato cui
pervenne Socrate con le sue ricerche», la religiosità di Socrate ed il concetto di utilità e di
eudaimonia «nella storia della coltura greca», l’«antitesi così pronunziata» che rappresenta Socrate
nel suo tempo e l’assoluta novità dell’oggetto e del risultato della ricerca socratica che, nelle sue
stratificazioni storiche ed elementarità quotidiane, procede ben oltre il suo tempo [48].
(Socrate, II vol. Opere Dal Pane, pp. 40-42, 46, 48, 51-52, 54, 59, 61-62, 68, 91, 93, 102-104, 127,
168, 248 e passim).
E questo, nonostante i limiti del “socratismo”, e della stessa filosofia e dei suoi insegnamenti, di
cui Labriola vuol essere criticamente ed autocriticamente cosapevole. Quando scrive a Croce:
Dopo 26 anni che insegno filosofia mi son persuaso che la filosofia non s’insegna a nessuno. Marx ed
Engels non ebbero che un solo torto, e fu quello di volere insegnare la filosofia alle moltitudini (dei Kautsky,
Bernstein, Lafargue, Turati!), alle quali basta la logichetta formale. Tu, Sorel ed altri avete fatto bene a
scoprire i volgarismi dei marxisti, ma non per questo avete trovato una nuova teoria della conoscenza. Anche
per questo rispetto la storia è catastrofica. La sommazione empirica delle osservazioni parziali non dà mai la
nuova Weltanschauung - il criticismo non è tutta la filosofia. La filosofia non può esistere che come factum
già bello e compiuto [49].(Lettere, III, p. 947).
Che però non esaurisce il compito del filosofo e dell’educatore in quanto critico della cultura del
suo tempo. Perché al di là della filosofia e delle sue temporanee compiutezze, occorre fare i conti
con le urgenze della realtà e del portato della storia, con il dominio delle cose e le sue pesantezze
di più lungo periodo. E con la vita e le sue estemporaneità ed imprevedibilità, e con le sue passioni
e contraddizioni.
Il che non può non riguardare le stesse materie insegnate da Labriola all’Università: Filosofia
morale e pedagogia, Filosofia della storia e, infine, Filosofia teoretica. Insegnamenti, cioè, che al di
là dei loro contenuti e forme disciplinari specifiche, Labriola intende come ambiti della critica, da un
lato, della iper - filosofia (la sopravvalutazione del pensiero, in quanto anticipatore di realtà
assolute), da un altro lato, della non - filosofia (la sottovalutazione del pensiero, nell’ambito della
pura e semplice esperienza empirica).
Insegnamenti, d’altra parte, questi di Labriola [50], che si prolungano fuori dell’Università,
negli scritti, nelle lettere, nella vita; ma che, in un modo o nell’altro, pur nella loro informalità ed
estemporaneità mediante battute ad effetto e corrosive aggettivazioni, tendono tuttavia a
riproporre gli stessi meccanismi di giudizio…
A partire, poniamo, da Herbert Spencer, «quintessenza del borghesismo anarchico», il «gran
pontefice Spencer», «il grande eunuco Spencer» [51]. Ma perché grande eunuco? «»«»
Tra cultura della critica e critica della cultura
Autoeducazione come educazione
Di modo che Socrate, il Socrate di Labriola, mediante l’esercizio della critica e della «presente e
viva» nozione di «coltura»,
facendo la propria educazione […] era diventato educatore […] e facendo della sua vita un problema
educativo, con l’educare sé medesimo e gli altri al tempo stesso, mentre poneva termine al dilettantismo
sofistico, impedì che la filosofia tornasse ad essere mera ricerca dei fenomeni naturali [52].
Che era poi un modo anche questo, per Labriola, di rileggersi autobiograficamente nella
filigrana dell’opera non scritta, ma solo raccontata di Socrate; e di costruire però ulteriori parametri
critici, oltre che sul Socrate della tradizione, sulla cultura del proprio tempo. Di più, era un modo
di riflettere socialmente, ed ancor più radicalmente, sulle stesse nozioni di cultura e di critica.
Un modo di confrontarsi criticamente con uomini e cose del “presente”, usando della “coltura”
come fatto conoscitivo, teoretico, e come fatto pratico-formativo, educativo. Come strumento di
autoeducazione e di educazione. Di coltivazione di interessi [53] (p. 187 vol III Dal Pane) e di
distinzione tecnica di funzioni. Perché
son molte le cose che bisogna apprendere praticandole, così perché il praticarle è l’unico mezzo per bene
impararle, come perché importa per ragioni di utilità preparar nell’animo insieme ai dati ideali della coltura
certe attitudini peculiari del fare. Ma oltre che parecchie di coteste attitudini tecniche hanno il loro reale
fondamento nella coltura dello spirito, non si dee mai confondere i risguardi dell’utilità con quelli
dell’educazione interiore [54] (p. 168, III Dal Pane).
La “coltura” come terreno di coltivazione di interessi [55] (p. 187 vol III Dal Pane). La “critica”
come laboratorio del diritto del «popolo minuto» alla cultura e dei doveri della cultura verso se
stessa e verso l’altro da sé. La critica della cultura, quindi, nei due sensi soggettivo ed oggettivo del
genitivo: e come fatto tecnico-disciplinare e come modalità propria e nuova d’intervento eticopolitico-pedagogico nelle cose del proprio tempo.
Ed insomma come formulazione iniziale, elementare, di un’autocritica delle cose [56]. Il che per
Labriola comporta subito, rispetto al “reale”, una articolazione funzionale dei nessi di “coltura
prima” e “coltura spirituale”, di “coltura generale” e “coltura speciale”, di “coltura popolare” e
“tecnica della coltura”. E la proposta pedagogica di un “dover essere” della critica, oltre che tra gli
uomini di cultura, nella scuola e nella società.
E difatti, argomenta Labriola:
Astrattamente parlando, la coltura generale, che è quella alla definizione della quale la pedagogica è
principalmente rivolta, deve informare l’ordinamento pratico delle scuole in maniera che chiunque prenda a
frequentarle possa acquistarvi, non soltanto le attitudini che sono di qualche utilità per la vita, ma eziandio
l’insieme delle inclinazioni interiori, da cui risulta il sentimento umano nella pienezza della parola, e quindi
la capacità ad operare con rettitudine di mente e di cuore. Cotesto ideale non è cosa del tutto nuova nel
mondo, e la società, nel lungo corso della vita ha fatto di molti tentativi per avvicinarvisi, ne fa ora e ne farà
dei maggiori nell’avvenire. Ma non devesi però dimenticare, che i problemi pratici non si risolvono col solo
aiuto di un ideale ben concepito e ben disegnato, perché bisogna aver molta considerazione alla materia in
cui si vuole che esso pigli forma stabile di attuazione. E per cotesta ragione bisogna pensare, che le
condizioni reali della società presentano grandissimo ostacolo al concetto di una coltura generale comune a
tutti; perché oltre ad essere molti quelli che non possono frequentare alcuna sorta di scuole, sono pur molti
quelli che frequentandone, vi rimangono assai poco tempo, a causa delle arti manuali, al cui esercizio
devono al più presto attendere [57]. (p. 212 vol III Dal Pane).
Di qui, la persuasione di Labriola che «le difformi tradizioni generali o nazionali della coltura»
stiano alla base di «tutte quelle diverse maniere di scuola elementare, complementare,
professionale, reale, classica, o come altro si chiamino, che al presente si vedono istituite nei diversi
paesi civili» [58]. L’idea cioè, che la “coltura generale” sia la prima discriminante sociale; la “critica”,
una discriminante tra le discriminanti culturali, una discriminante di civiltà (pp. 212-13).
E dunque:
Cotesto principio ha la sua norma certa nel bisogno oramai comune a tutti i paesi civili, che si debba, cioè,
nel più breve periodo di tempo fornire di una qualche coltura ordinata e precisa tutti i giovanetti, che ben
presto avran mestieri d’addirsi all’esercizio delle minute arti dell’agricoltura, del commercio e dell’industria
[…]. Guardata sotto cotesto aspetto, la questione della coltura prima, o popolare che si dica, diventa assai
grave, e la soluzione di essa non può sembrar cosa facile a chi abbia una qualche notizia esatta delle
condizioni della società, e di quanto sia ardua cosa il menarla innanzi nelle vie della coltura spirituale.
Di fatti è cosa del tutto priva di significato il parlare della coltura popolare, quando non si è ancora in
grado di ordinar le scuole in maniera da ingenerare nei giovanetti l’attitudine ad esaminare con occhio
sicuro le cose del mondo interiore ed esteriore; di ordinarle, cioè, in guisa che l’istruzione produca una
orientazione certa dell’intelligenza ed un regolato moto dell’animo nell’apprezzare i beni della vita. In una
parola non merita il nome di scuola popolare un istituto, nel quale non si trovi modo di assolvere tutto intero
il compito educativo; per quanto breve il tempo dell’istruzione, per quanto ristrette le materie didattiche e
scarsa la elaborazione che è lecito di dar loro con l’esercizio della riflessione (pp. 214-15. Cerca qui il
“papuano”).
“Cultura generale” e “culture speciali”
Il problema secondo Labriola, fin dall’inizio, è pertanto quello, da un lato di lavorare ad un
ampliamento degli ambiti della cultura generale nella scuola e fuori della scuola, da un altro lato di
allargare la nozione stessa di sfera critica al maggior numero possibile di utenze e interferenze
culturali specifiche, individuali e sociali. È quel che sottolinea all’inizio degli anni Settanta,
criticando l’insegnamento scolastico in Francia e in Italia, alla luce dei pregi e difetti delle rispettive
“culture sociali”, del riconoscimento dei limiti di ciascuna di esse e della necessità del loro
superamento in virtù soprattutto della “coltura generale”.
Scrive infatti Labriola:
I difetti dell’insegnamento francese non si riflettono profondamente in tutta la vita nazionale, per ché in
Francia c’è una sfera più larga della coltura che a noi manca. Quelle miriadi di romanzi e di commedie che
inondano il mondo da un secolo a questa volta sono il prodotto di una coltura sociale di cui non s’ha idea
presso di noi, e sebbene non siano sempre la prova migliore dell’ingegno e del gusto francese, non può
negarsi che per molte classi di quella società formano un pascolo intellettuale non sempre pregevole.
D’altra parte la coltura scientifica e accademica è rimasta colà sempre in una sfera d’uomini privilegiati,
che hanno poco o niun contatto con l’insegnamento secondario, e che vanno a correre la carriera della
celebrità nell’unico centro di vitalità nazionale che s’abbia la Francia, Parigi [59].(Scritti pedagogici, p. 134).
E dunque, quanto all’Italia:
Bisogna provvedere che la posizione del professore secondario sia una volta per sempre circondata di
quelle guarentigie di rispettabilità e di seria coltura che sole possono invogliare la parte eletta della gioventù
a consacrarsi all’insegnamento […]. Una sola cosa a noi par chiara, che sino a quando all’aritmetica dei punti,
alla somma numerica delle conoscenze speciali non verrà surrogato un criterio qualitativo della cultura
generale, in Italia non ci sarà insegnamento secondario [60] (Ivi, p. 138).
Ecco perché, proprio in funzione della crescita qualitativa e quantitativa della sfera critica,
conviene usare della “storia” e dei suoi “insegnamenti”, sia in senso soggettivo sia in senso oggettivo
(siamo nel 1876, anno della caduta della Destra storica); e badare metodologicamente a tutta una
serie di variabili culturali, non di poco conto nella riuscita dell’impresa didattica: così, per esempio,
la «differenza di età e di coltura che corre fra l’educatore e l’educando» (Scritti ped., p. 256); i
«pregiudizi di famiglia, di classe, di partito, di nazione», che «sono come tanti impedimenti al retto
discernimento simpatetico degli stati d’animo dei contemporanei» (ivi, p. 275). E quanta e quale
«cultura avanza», rispetto alla «antecedente cultura dei giovanetti», al nesso «coltura generale» e
«interessi professionali», alla «coltura», quindi, come «possibile istrumento di utilità» (pp. 276, 296,
322), ma tenendo presente, in Labriola, la seguente duplice e tuttavia limitativa circostanza
“critica”, sulla quale riflettere:
A misura poi che la cultura avanzi crescerà da per sé il sentimento critico. E come questo è di molte
specie, nel corso della cultura generale converrà svilupparne una forma sola, che è quella la quale risulta dal
bisogno di trovar nei fatti l’intima verosimiglianza, e la coerenza intrinseca dei rapporti loro. La critica che
cade specialmente su la validità dei documenti, per essere materia peculiare di studio professionale, rimarrà
esclusa dal campo della didattica generale. (Pp. 294-94).
Ed è ciò che, tra l’altro, fa intravedere l’ampia gamma dei profili culturali che la posizione
labrioliana effettivamente comporta, dall’interno della relazione stabilita da Labriola tra “coltura
generale” e “colture speciali”. Una relazione che, come s’è detto, chiama in causa il tema della
diffusione e dell’elevamento della cultura, oggetto anche di esposizione statistica; il tema dello
studio delle istituzioni scolastiche in Italia, comparate con quelle di diversi paesi; il tema della
«scuola popolare», quello dello Stato «vigilatore della cultura» e quell’altro della «crescita di
coltura» che, se torna certamente utile a chiunque su diversi piani, non può che giovare anche
all’«intima religiosità dell’animo» dei credenti [61]. (nota sulle Facoltà teologiche, in Scritti
pedagogici; e su Scritti politici, pp. 106, 121, 144, 169).
Da cui discende, da una parte, il tipo di critica e di autocritica esercitata da Labriola, quando
lamenta:
Mentre ci manca, starei per dire, il pane cotidiano del leggere e dello scrivere, che è tutto quello che ci
possa dare la scoletta delle due classi d’obbligo, mentre sappiamo quanto sia scarsa la frequenza di così
meschina scuola, e quanto vergognosamente grande il numero degli analfabeti, ci siam messi comodamente
a discutere delle alte ragioni scientifiche della pedagogia, per trascinare i maestri dietro all’una o all’altra
bandiera della filosofia! (p. 135 di Scritti politici).
Da un’altra parte, ciò che ne scaturisce, è il proposito di Labriola di intervenire
pedagogicamente nella critica alla cultura del suo tempo, sviluppando il seguente ragionamento:
che «la scuola» debba fondarsi «esclusivamente sul concetto più generale ed umano della coltura
accessibile, per ragion di certezza e di evidenza, ad ogni mente, fuori dallo influsso della credenza
religiosa» (p. 145, di Scritti politici); che «il principio e il fondamento della scuola deve essere tutto
nel concetto di coltura», che è sinonimo di critica:
Parleremo della coltura, che è forza di precisa osservazione, è vivacità di fantasia corretta, è penetrazione
di pensiero nelle cose, è umanità di sociali intendimenti. La coltura non è ostile ad alcuna delle
manifestazioni sane e veraci dello spirito, soprattutto non ostacola l’intima religiosità dell’animo, la quale
non ha niente a che fare coi sistemi teologici imposti per forma di ortodossia, né con l’autorità del
sacerdozio, ché anzi ogni sacerdozio costituito in forma di ordine, di ceto e di privilegio ne è la precisa
negazione.
Gli è per effetto di cotesta forza che dicesi coltura, della quale voi avete ad essere diffonditori e difensori
nell’animo delle moltitudini, che l’ufficio vostro non può rinchiudersi nella istrumentalità del leggere e dello
scrivere, ma deve estendersi alla osservazione che anto guadagna, quanto perde di campo e di presa la
superstizione, della quale è il preciso opposto; deve essere motolibero di pensiero, che diminuisca l’ossequio
cieco alle autorità esteriori (p. 148 di Scritti politici).
E più oltre, a più riprese:
Parlo in nome della coltura. La scuola popolare è il mio vero ideale, senza di essa non avremo democrazia,
cioè amministrazione frenata e consapevole, giudice popolare, eguaglianza morale. Bisogna togliere il
governo della cosa pubblica ai borghesuccoli e dottoruccoli (Scritti politici, 1888, p. 169).
E dunque:
Il diritto alla coltura si concepisce ed esplica in termini brevi e precisi: fornire tutti delle più elementari
conoscenze e delle più generali attitudini mediante la scuola schiettamente popolare. Due gl’intenti umani e
sociali. Fare che tutti entrino nella vita consapevoli delle proprie forze, e capaci di scegliersi il lavoro:
sopprimere il più gran numero che mai si possa di artificiali differenze, perché rimanga posto e campo a
quelle sole che provengono da dono d’intelligenza e da vocazione di attitudini. Questo ideale della scuola
popolare dell’avvenire, che metta tutti indistintamente in contatto dei primissimi elementi del sapere, e
faccia lecito a ciascuno di salire tanto quanto porti la capacità sua. Il preciso contrario di quanto accade ora;
che quelli i quali, per caso e fortuna, entrino in pochi nella palestra delle arti e degli studi superiori (mi
scusino gli studenti che anche oggi m’ascoltano), credendosi privilegiati d’ingegno perché privilegiati di
mezzi, guardano d’alto in basso la massa esclusa dalla cultura, e usurpando poi a privato esercizio la
scienza, che è dono della umanità, come medici, ingegneri, avvocati, farmacisti, speculano su le naturali
miserie, e su i bisogni e su le sofferenze sociali. Oh! molte di quelle professioni, dette liberali per derisione,
spariranno; cioè si convertiranno in servizi pubblici e obbligatori, perché dell’uomo non rimanga esposto alla
gara se non quanto è di genio, di scienza d’arte, e d’ispirazione di virtù (Scritti politici, 1888 o 1899, p. 181).
E non è tutto.
L’Università della critica e l’“autocritica delle cose”
Non è un caso, infatti, che proprio il discorso del ‘96-‘97 su L’Università e la libertà della scienza
[62], risulti essere in ultima analisi una sorta di summa delle posizioni autocritiche di Labriola in
fatto di critica della cultura del proprio tempo. Almeno di quella universitaria, e di quella della
Facoltà di Filosofia e Lettere in specie, che - scrive Labriola - ora «è diventata, o è prossima a
diventare una scuola; anzi è tante scuole di specialisti e di ricercatori, e direi quasi di tecnici, se tale
espressione non dovesse parere troppo stridente» [63]. (pp. 13-14 Ia ediz.)
Già nella scelta del tema della prolusione, s’intravede subito un primo elemento di distinzione
critico-autocritica nella sottolineatura della relativa novità dell’argomento prescelto. Il quale, come
Labriola spiega, può far confondere la «cosa insolita» di questa relazione accademica con «uno
squarcio di prosa politica di occasione», o con «un articolo di rivista» (p. 9).
In realtà, invece, Labriola non intende fare né una cosa né l’altra. Intende se mai confermare, fin
dalle prime battute, la natura peculiare del diritto-dovere di professore universitario, in quanto
«reca in sé stessa la sua propria ragion d’essere, e la misura dell’esercizio suo» (p. 10). Di
un’attività critica, cioè, che viene per l’appunto esercitandosi tra didattica e ricerca, tra motivi
“pratici” professionalizzanti e motivi “scientifici” disinteressati.
In altri termini, Labriola si trova sì nella condizione d’essersi «tolto su le spalle un carico che
non del tutto collima con le abitudini disquisitive e critiche della mia attività accademica» (p. 10);
ma accetta, tra oralità e scrittura, di non sottrarsi a questa ibridazione di competenze, distinguendo
intanto tra discorso «scritto e poi ridetto» e discorso da dare in un secondo momento «nella
stampa» (p. 10 + nota sulla nota). E già nel parlare di ciò di cui parlerà, nel modo in cui intende
farlo, Labriola mescola cioè critica ed autocritica, dimensioni strumentali e finalità euristiche,
mediazioni linguistiche e immediatezza comunicativa.
E benché la cosa provoca «del dissenso» (p. 11), questo non toglie che è proprio nell’«opera
assidua e cotidiana» dell’Università che «si misura l’importanza» di essa. È di un siffatto livello
critico ed autocritico, magari polemico, che la funzione del docente universitario vive e si alimenta:
E quanto ai possibili dissensi, gli è cosa ammessa, gli è cosa convenuta oramai, che noi non siam qui per
dommatizzare, o per edificarci a vicenda; ma ci siamo per discutere, per criticare, per ricercare [64]. (p. 11).
Ma per discutere, criticare, ricercare che cosa? E Labriola risponde: che nell’Università si discute,
si critica, si ricerca non soltanto di ciò di cui le singole scienze si occupano «su le grandi vie della
esperienza e della sperimentazione», indipendentemente dalla filosofia. Non unicamente, quindi,
delle «scoverte» scientifiche e delle «novità» disciplinari che, in quanto tali, non sono materia del
filosofare. Non esclusivamente del positivo, in quanto entra positivamente in relazione con la filosofia.
C’è anche dell’altro, invece, di cui l’Università deve necessariamente occuparsi, movendo da se
stessa in quanto circoscritto campo d’indagine culturale. Ed autocriticandosi come “cosa” tra le
“cose” (tra l’economia e la società, la politica e la pedagogia, ecc.). L’Università, cioè, come luogo
di fruizione e di produzione di “scienza”. Come critica della realtà e dell’esperienza, nel quadro
della «profonda crisi» in cui versa la filosofia, «della quale non è chi sappia vedere e prevedere la
risoluzione senza un esame specificato di tutti i fondamentali problemi delle singole scienze». (p.
12).
Ecco perché, secondo Labriola, occorre rimboccarsi le maniche ed affrontare il problema nel
punto di maggiore evidenza e gravità. Il che vuol dire: nel punto in cui si comincia con l’incontrare
i
due gravissimi pregiudizii, i quali son tanto più difficili da vincere, in quanto che rimangono come
consacrati nella opinione di molti dai ricordi di gloriose tradizioni. Il primo è, che in mezzo a noi siano
ancora i continuatori dell’Umanesimo, e poi, via via, i maestri del ben parlare, e i preparatori dell’oratoria e
della poetica. E l’altro pregiudizio è, che la filosofia sia tuttora quel sommo ed imperiale magistero su
l’universo scibile, che essa fu, o parve, in passato, e che consista pur sempre nelle semplici anticipazioni del
pensiero su quella esperienza naturale, storica e sociale, su la quale ora, come sicuro fondamento, poggiano
le scienze propriamente dette [65] (pp. 12-13).
In altri termini, a parere di Labriola, bisogna farsi criticamente consapevoli delle profonde
trasformazioni disciplinari in atto (ad opera, per esempio, della glottologia, della filologia come
“conoscenza del conosciuto”, della metodologia storica, delle scienze sociali, ecc.); e premunirsi, da
un lato, contro le polverizzazioni empiriche e le generalizzazioni aprioristiche dei “filosofi” in
senso riduttivo e totalizzante. Dei quali Labriola dice:
A cotesti sopravvissuti del passato deve essere parso cosa singolare, che, p. e. le mie lezioni di etica, di
pedagogica e di filosofia della storia s’aggirassero sempre in particolari ricerche entro l’ambito di determinate
questioni, e non spaziassero più in quella filosofia, che avrebbe da abbracciare, come in bella prospettiva, e
per via di definizioni e di categorie, la totalità del reale e tutte le forme del sapere [66]. (p. 13).
Di qui, per Labriola, la necessità di storicizzarsi in quanto docente universitario e di polemizzare
con quei «fermenti del pensiero», niente affatto idonei a sviluppare «una novella sistematica
filosofica, che tutto il campo della esperienza contenga e domini»; e che dal suo punto di vista,
anche per altre ragioni, non lo persuadono punto. E dunque:
Passo sopra alle filosofie di privato uso ed invenzione, come è il caso dei Nietzsche e dei von Hartmenn; e
mi risparmio ogni critica di quei pretesi ritorni ai filosofi di altri tempi, che danno per risultato una filologia
in cambio della filosofia [67], come è accaduto ai Neokantiani. Mi soffermo solo a notare il quasi inverosimile
equivoco verbale, per il quale molti ingenuamente, e specie in Italia, confondono senz’altro quella specificata
filosofia, che è il Positivismo, col positivo, ossia col positivamente acquisito nella interminabile nuova
esperienza sociale e naturale. A costoro capita di non saper distinguere p. e. nello Spencer ciò che è merito
incontrastabile in lui, d’aver cioè concorso a formare la fisiologia generale, da ciò che è impotenza in lui a
spiegare un solo fatto storico concreto per mezzo della sua sociologia del tutto schematica. A costoro accade
di non distinguere, nello stesso Spencer, ciò che è dello scienziato, da ciò che è del filosofo, il quale, giocando
di scherma con le categorie dell’omogeneo, dell’eterogeneo, dell’indistinto e del differenziato, del conosciuto e
dell’inconoscibile, è anche lui un trapassato: è, cioè, a volte un Kant inconsapevole, e a volte un Hegel in
caricatura [68]. (pp. 15-16).
È la stessa Università, d’altra parte, a risentire delle esagerazioni e dei difetti di questa temperie
filosofica. Sono gli stessi docenti ad attirarsi quindi pubblicamente varie critiche sui giornali, in
parlamento, tra i cittadini («La critica su l’opera nostra s’è fatta negli ultimi tempi, senza dubbio,
assai viva nel pubblico», per essere i professori universitari colpevoli dei tumulti studenteschi,
della disoccupazione professionale, di eccessiva libertà nell’insegnamento, ecc. [69]).
Per cui secondo Labriola, in quanto docenti, bisogna rendersi autocritici e saper riconoscere sia
le ragioni storiche di «cotesta incuria» delle cose universitarie, sia i segni dell’inversione di tendenza
(«ai professori italiani è premuto soprattutto, in quest’ultimo trentennio, di rimettersi al passo con
gli scienziati degli altri paesi […]. L’iniziativa scientifica è di nuovo possibile […]. L’Università è
nuovamente vitale» [70]). Egualmente, occorre entrare nel merito dei pregi e dei difetti della
«nostra Università» e riconoscere, da un lato i vantaggi della sua apertura alle donne, della
pubblicità delle lezioni e della libertà di ricerca e d’insegnamento; da un altro lato, i danni che
provengono dall’arbitrio dei docenti nel non far lezione, dalla «gran magagna» rappresentata dagli
esami e la professionalizzazione dell’Università, dalla parcellizzazione delle discipline,
dall’esagerato enciclopedismo e dalle prevaricazioni dell’incompetenza («il volgare
tradizionalismo e lo specialismo esagerato» [71]/p. 486 di Scritti pedagog. Riporta sulla prima
ediz.).
E dunque, in un’altra occasione e per un diverso motivo:
Senza far questioni puramente verbali, ma entrando nell’intrinseco della cosa, gli è chiaro che insegnare
non è amministrare, e quindi l’insegnante in quanto insegna non è impiegato. Tanto più poi perché ciò che
insegna può comunicarlo agli altri per tante altre vie (Epistolario, vol. III, p. 732).
Il che, se non avviene nelle forma pedagogica giusta, comporta un declassamento
dell’insegnamento nel senso della sua burocratizzazione. Che è un concetto presentissimo in
Labriola, da un capo all’altro della sua carriera di intellettuale:
Cita qui lettera a Spaventa sulla “burocrazia della scienza”, sulla stiratrice e sulla sartina ecc.
Io in cotesta burocrazia scientifica mi ci trovo molto a disagio: - ma d’altra parte non so, dopo tanti e così
varii tentativi, che forma dovrebbero avere i concorsi. Credo sia preferibile di aspettare che si migliorino
innanzi tutto i cervelli dei concorrenti. A fartela breve questa faccenduola del concorso mi è stata di una noia
straordinaria (p. 996 Ep. III).
Un modo di pensare, cioè, che con le opportune variazioni e contestualizzazioni, finisce con
l’adattarsi variamente, e con lo spiegare nell’intrinseco, un po’ tutto il Labriola critico della cultura
del proprio tempo.
L’autocritico ed ipercritico Labriola
Il Labriola che, se sottopone a rigorosa disamina critica coloro che ha dinanzi a sé (singoli e
gruppi, istituzioni e rappresentanze sociali, movimenti politici e istanze di partito, ecc.), non
esclude dall’indagine se stesso ed il suo proprio ambito di responsabilità tecnica. Il che gli accade
sia da «filosofo astratto» e «liberale» in politica (“scrissi contro i principi del liberalismo”), sia da
socialista e marxista. Giacché il marxismo «non rimarrà tutto rinchiuso negli scritti di Marx e di
Engels», e la «dottrina», essendo «in sé la critica», così «non può essere continuata, applicata e
corretta, se non criticamente» (pp. 187 dei Saggi).
Di qui, la stessa tensione autocritica di Labriola nel corso del proprio lavoro di studioso, «per
ribattere i pregiudizii correnti» (p. 652); ed il concreto farsi della critica su tutta una serie di piani: a
cominciare dalla critica al verbalismo, al fraseologismo, all’astrattismo e al naturalismo immediato (con
le loro attinenze). Una critica, questa, che ripropone in altra forma l’opposizione di Labriola ad
un’idea riduttiva della «cultura», quale «vizio delle menti addottrinate coi soli mezzi letterarii» e
mediante quel «culto» e «impero delle parole», che riesce «a corrodervi e a spegnervi il senso vivo
e reale delle cose» (Saggi. Gerr. E Guer., p. 75, e cfr. p. 629).
Là dove la prolungata osservazione, il reiterato esperimento, il sicuro maneggio di raffinati istrumenti,
l’applicazione totale o almeno parziale del calcolo, finiron per mettere la mente in una metodica relazione
con le cose e con le variazion loro, come è il caso delle scienze naturali propriamente dette, ivi il mito ed il
culto delle parole rimasero oramai superati e vinti, ed ivi le questioni terminologiche non hanno in fin delle
fini se non il valore subordinato di una mera convenzione. Nello studio, invece, dei rapporti e delle vicende
umane, le passioni, e gl’interessi, e i pregiudizi di scuola, di setta, di classe, di religione, e poi l’abuso
letterario dei mezzi tradizionali della rappresentanza del pensiero, e poi la scolastica non mai vinta e anzi
sempre rinascente, o fanno velo alle cose effettuali, o inavvertitamente le trasformano in termini, e parole, e
modi di dire astratti e convenzionali.
Il che comporta la conseguenza di una «filosofia popolare» e dei conseguenti «pregiudizi», che
ricorrono come derivati fraseologici per le bocche dei politicanti di mestiere, dei così detti pubblicisti e dei
gazzettieri d’ogni sorta e maniera, ed offrono il fulcro della retorica alla così detta opinione pubblica,
ma che dileguano, «non appena sorge la critica della conoscenza» (p. 79). «Le idee» infatti «non
cascano dal cielo», perché anche «le idee suppongono un terreno di condizioni sociali, ed hanno la
loro tecnica: ed il pensiero è anch’esso una forma del lavoro» (p. 111). Di modo che ciò
che decide di tale passaggio dalla ingenuità alla critica è la osservazione metodica […] e, più che l’osservazione,
l’esperimento volontariamente e tecnicamente condotto […]. Sperimentando, noi diventiamo collaboratori
della natura; - noi produciamo ad arte ciò che la natura per sé produce (p. 210).
Al contrario:
La indubbia ricorrenza del vizio metafisico, che alcune volte a dirittura confina con la mitologia, ci dee
rendere indulgenti verso le cause e condizioni, o direttamente psichiche o più generalmente sociali, che per
tanto tempo ritardarono in passato l’apparizione del pensiero critico, coscientemente sperimentale e
cautamente antiverbalistico […]. Gli uomini non furon mai esclusivamente teologisti o metafisici, come non
saranno mai esclusivamente scientifici. Il più umile selvaggio che paventa i feticci, sa che il fiume su cui
nuoti controcorrente, e nel suo elementarissimo esercizio del lavoro ha in sé un embrione di esperienza e di
scienza. Ai giorni nostri ci sono, viceversa, degli scienziati con la mente ingombra di mitologia. La
metafisica, nel senso di ciò che sarebbe il contrario della correttezza scientifica, non è già un fatto
precisamente così preistorico, da stare alla pari col tatuaggio e con l’antropofagia! (p. 215).
La perfetta immedesimazione della filosofia, ossia del pensiero criticamente consapevole, con la materia
del saputo, ossia la completa eliminazione del divario tradizionale tra scienza e filosofia, è una tendenza del
nostro tempo: tendenza, che il più delle volte rimane però un semplice desideratum (p. 217).
Ecco perché probabilmente, in presenza di una siffatta sproporzione, certi giudizi di Labriola
verso gli altri, e verso se stesso, risultano spesso e volentieri così duri ed intransigenti, coloriti ed
estremi, contenuto e forma. A maggior ragione se si tratta dei propri compagni di strada, della
cultura che essi esprimono:
Noi non siamo ancora usciti dal Bakuninismo, e il socialismo italiano è ancora fatto degli spostati, dagli
avventurieri, dagl’imbroglioni e dagli snobisti […]. Non siamo buoni a far niente (p. 756).
Io sono entrato in un periodo di curiosa crisi (non quella del marxismo) […] sono in crisi con me stesso
perché tutto quello che si fa o si possa fare nella scienza e nella vita si riduce, nel nostro paese, a fare un buco
nell’acqua (p. 845).
Pare che il socialismo sia diventato - occultismo (p. 870).
Ciò che in Italia fu chiamato socialismo è tutto in rovina. La cosa ti parrà evidente - ma io non ho
pazienza di dirtene tutte le ragioni. E vale la pena di andar rinnovando tanta merda (p. 874).
E ne vale la pena, per una ragione che è tutt’insieme culturale, critica e pedagogica. E che si spiega
alla luce di ciò che è concretamente “storico” e “sociale”, e che s’oppone alla logica e alla psicologia
delle distinzioni astratte e delle atomizzazioni incondizionate: e cioè alla logica e alla psicologia dei
«letterati» ed «edonisti» del tipo di Benedetto Croce.
E dunque
Immergersi nel concreto delle correlatività sociali e storiche gli è cosa per molti intelletti di una difficoltà
quasi insuperabile. Invece di pigliare l’insieme sociale, come un dato in cui geneticamente si rivolgono le
leggi, le quali sono relazioni di movimento, molti hanno bisogno di rappresentarsi delle cose fisse, per es.,
l’egoismo di qua, l’altruismo di là, così via. Il caso caratteristico è quello dei moderni edonisti. Non si
arrestano alla compagine sociale, come al dato specifico della dottrina economica, ma risalgono ai giudizi di
valutazione, come alla premessa (logico-psicologica) della Economica. In questi giudizi trovano una scala […].
In cotesta astratta atomistica delle condizioni, degli apprezzamenti e delle quantità di beni, non si sa più che
cosa sia la storia, e il progresso si risolve in una mera parvenza (221-22).
Ecco perché, se sono le rigidità e le chiusure dei “giudizi di valore” in logica e psicologia, in
morale e in economia a indurre Labriola alla critica, mentre è la complessità e la concretezza dei
processi storico-sociali a determinare in i
Elenco definizioni ad effetto
Saggi,
p. 19
“Spencer, quintessenza di boghesismo anemicamente anarchico”.
p. 53
il “gran pontefice Spencer”.
p. 225
“In fondo a cotesta fraseologia dello Spencer si cela il dio del catechismo… il residuo di una
iperfilosofia, che rassomiglia, come la religione, al culto di quell’ignoto, che, in uno medesimo
tempo, si dichiara ignoto, e pur si afferma di conoscere in certa guisa facendone oggetto di
riverenza”.
“Il grande eunuco Spencer” (così in Lettere ad Engels, 13 giugno 1894)
p. 197
Gli “ internazionalisti” che non intendono il valore delle lingue “sono da chiamarsi
confusionisti ed amorfisti”.
p. 307
non essere come coloro che credono di dovere aggiungere alle loro pubblicazioni “la storia
intima delle loro letture, fino alla fotografia della penna della quale si servono”.
Epistolario, vol. III
p. 681
Su Chiappelli. “Vuoi tu vedere quanto quest’uomo è scemo di mente”; p. 693: “Oramai tutti i
professori mi sembrano tanti Chiappelli”.
p. 683 “quel vilissimo Mariano” e a p. 688 “quel’inconcludente ciarlatano… Neocommendatore e… lustrascarpe di ministri”.
p. 691
A. Puviani “buono, ma pusillanime; cosicché non osa dir male dei suoi persecutori, se non a
mezza voce”.
p. 694
“Quel Loria è un vero imbroglione. Tutti i momenti scovro (come di recente in BöhmBawerk) che egli ha sempre plagiato, in un modo curioso… cioè storpiando e sofisticando
quello che copia”.
p. 750-51
il “pasticcio Loria”….. “Passano 10 anni che quest’uomo passa per scopritore-completatorecorrettore-storpiatore-plagiario e ciarlatano (e spesso questi giudizi s’intrecciano negli stessi
giornali dal Socialista alla Critica Sociale) e lui non si risolve a dire mai: Marx è questo ed io
sono quest’altro. Un mixtum compositum di megalomania, di camorra letteraria e di vanità di
mala femmina sputtaneggiata”.
p. 764
“La faccia tosta di Loria è infinita”.
p. 716
E. De Marinis, autore di un saggio sul comunista Vincenzo Russo, è “un somarello,
prosuntuosello, intrigantello, farabuttello, le cui opinioni non contano nemmeno per riderci”.
p. 719
Croce? “un letterato”.
p. 724
“le fesserie che dice Tocco a proposito del libro di Calenda su Campanella”.
p. 748
Guglielmo Ferrero, “uno stranissimo ma assai simpatico goliardo”.
p. 760
“Io sono….. fuori della grazia di Dio per questo benedetto Avanti - non perché sia male
impostato, cosa naturale in un giornale che comincia - non perché si stampi da Perino sotto
tariffa al quale ha venduto gli annunzii, perché ciò è italianamente plausibile - non perché sia il
recapito di molti ex studenti, goliardi, avventurieri e simile genia - non perché abbia
sconfessato l’articolo di Ferrero, e pubblicato quelle belle porcherie di Zerboglio, Lombroso,
Pozzi e simili - non perché dica delle impertinenze stupide - non perché si sua fatto inutilmente
pregare fin d’ora di annunziare il tuo opuscolo su Loria - né per altre cose simili - ma
principalmente per quell’articolo di oggi diretto all’Osservatore Romano, nel quale uno stupido
impasto di dottrinarismo da osteria di villaggio e di pretesa ironia da arlecchino danno il
risultato che il socialismo si confonda con il sciosciammocchismo”.
p. 915:
I giornalisti italiani, “di solito sono tanto ignoranti, hanno la sensibilità della malizia”.
p. 769 In polemica con Il Mattino: “Con tali mascalzoni non ci si può aver da fare”.
p. 770
“Turati, Avanti e simile genìa son tutta marmaglia”.
p. 841:
Turati “rigattiere della letteratura socialista”.
p. 819
“Il capitolo Arturo [Labriola] diventa… oscenamente noioso. Non vorrei i tuoi fastidii
devano crescere per questo mascalzone (vero!) più del tollerabile”.
p. 821
“quell’asino di Colajanni”.
p. 822
“quello scemo di Graf”.
p. 826
“E così il Positivismo è dilagato… e i cretini d’Italia sono diventati maestri dell’Olanda Feri
oggi viaggia appunto l’Olanda facendo conferenze, stipendiato dai Socialisti, comprese le spese
per la moglie!)”.
p. 841
“Turati potrebbe fare il rigattiere della letteratura socialistica”.
p. 849:
A proposito del saggio di Croce sull’intepretazione e la critica di alcuni concetti del
marxismo, tradotto sul “Devenir social”:
“Avevo cominciato a scrivere sopra un esemplare diverse note… ma poi lasciai stare: per non
fare un saggio, sopra un saggio di critica di un saggio.
Ma ora la cosa mi è abbastanza lontana (ossia mi è obbiettiva), e posso parlartene senza
fermarmi su i singoli punti. Se mi fermassi su i singoli punti io dovei dirti che quello scritto mi
ha fatto una cattiva impressione per la immaturità nel maneggio del pensiero. E quando dico
immaturo non intendo decidere del vero e del falso. Nietzsche è maturissimo nel dire le
coglionerie che dice, mentre Schelling fu sempre immaturo, unfertig, e unbeholfen”
(impreparato e impacciato)… segue la critica a Croce e al suo “pacifico ozio di epicureo
contemplante”, per diverse pagine…
p. 935:
A Croce: “Ti dico solo questo: che se tu fai una circolare a tutti i rappresentanti
dell’edonismo delle due parti del mondo, non ne troverai uno che voglia accordarsi col
marxismo”.
p. 878
“quel povero leprotto di Ciccotti”.
pp. 882-83
“le volgarità che Plekanoff ha scritto contro Bernstein”.
p. 947:
“Dopo 26 anni che insegno filosofia mi son persuaso che la filosofia non s’insegna a
nessuno. Marx ed Engels non ebbero che un solo torto, e fu quello di volere insegnare la
filosofia alle moltitudini (dei Kautsky, Bernstein, Lafargue, Turati!), alle quali basta la
logichetta formale. Tu, Sorel ed altri avete fatto bene a scoprire i volgarismi dei marzisti, ma non
per questo avete trovato una nuova teoria della conoscenza. Anche per questo rispetto la storia è
catastrofica. La sommatone empirica delle osservazioni perzialki non dà mai la nuova
Welanschauung - il criticismo non è tutta la filosofia. La filosofia non può esistere che come
factum già bello e compiuto”.
p. 948:
Ora per noi italiani che viviamo fori delle grandi correnti della storia (la sola cosa veramente
storica per noi è il Papa!) – che non abbiamo da mettere in scena che mafiosi, camorristi, prefetti
ladri, processi scandalosi, impotenza amministrativa, insipienza politica, dotti ciarlatani, plebi
brutali, politicanti da caffè (compresi quasi tutti quanti i socialisti) è quasi impossibile di
orientarsi su le condizioni del mondo, che ci sfuggono per difficoltà obbiettive e per difetto di
compagine subiettiva”.
p. 958:
“Io del resto… faccio il filosofo. Spero di scovrire anch’io, un giorno o l’altro, quel famoso
Kant, che è la delizia dei decadenti tedeschi”.
p. 989:
“Quanto all’Idealismo, e sua cosiddetta rinascita etc… io veramente non ho mai avuto mai
molta tenerezza per la lotta delle nomenclature, né in filosofia, né in politica… e nel caso attuale
date le mie condizioni presenti (sono stanco, affranto, da 14 mesi ho appena leggicchiato
qualche cosa, e in generale mi considero come chi abbia perduto prospettiva ed avvenire). Vedo
però che in tutta Europa corre una reazione contro lo storicismo, il positivismo, il Darvinismo,
l’evoluzionismo etc. etc. e a ciò si mescola lo spirito borghese decadente, il cattolicesimo rinato, e
una feroce neoscolastica e neosofistica. Per tale contesto storico il cosiddetto Idealismo (la qual
parola in genere è applicabile ad ogni filosofia) vuol dire l’antistorico, l’antidivenire etc. È un
arresto dello spirito scientifico, è un regresso”.
p. 996:
“Io in cotesta burocrazia scientifica mi ci trovo molto a disagio: - ma d’altra parte non so,
dopo tanti e così varii tentativi, che forma dovrebbero avere i concorsi. Credo sia preferibile di
aspettare che si migliorino innanzi tutto i cervelli dei concorrenti. A fartela breve questa
faccenduola del concorso mi è stata di una noia straordinaria”.
p. 1001
“Il Gentile m’era parso sempre un po’ infatuato di sé, un po’ presuntuoso… un po’
ultrasiciliano, in somma. Ma come in fondo l’ho visto due volte sole incidentalmente; e non ho
proprio l’obbligo, né l’occasione, di pensare a lui, così non m’ero fermato mai a configurarmene
dentro di me la natura morale”.
p.1003:
Ti sei mai reso conto della portata e delle conseguenze di questo modo di ragionare? La
conseguenza più semplice è questa: non c’è scienza di nulla che sia empiricamente dato – c’è
solo scienza dei cosiddetti concetti puri e questi sono enunciabili tutti in giudizii analitici. Altro
che dialettica (hegeliana o marxistica!) – altro che giudizi sintetici a priori – altro che Spencer e
Wundt e altre evoluzion – questa è filosofia wolfiana bella e buona……… Dacché insegno qui
(il prossimo febbraio farebbe anni 30 se io non fossi un professore in partibus)ne ho viste
passare tante filosofie neokantiane, neokritiche, neopositivistiche, empiriocritiche, immanenti,
contingenziali, neotomistiche buddistiche, realidealistiche, fessistiche, ciarlatane - da averne
piene le tasche e tutte le altre borse.
p. 1004:
“Dell’idiota ne dava a tutto pasto Iaja… proprio D. Bertrando, che per variare chiamava
Maturi un povero scemo. Ti basta? Di Gentile non m’importa d’approfondire più nulla. Faccia il
comodo suo… e invochi il perdono di Hegel per gli spropositi che gli attribuisce… Giudizii
analitici! È un modo di servirsi delle formule kantiane per ispiegarsi. E poi hai capito… perché
neghi la comprensione filosofica della natura e della storia… E ti par poco? Quello Spirito che
non ha niente che fare con la Natura da cui risulta e con la Storia che è la somma delle sue
manifestazioni deve essere… un bel Mamozio. Mandamelo come dono della Befana”.
Critica
Zeller
Nel lessico di Labriola, “critica” nel senso kantiano e neokantiano di criticismo, però in nome di
un principio più alto della dimensione critica (Hegel, Spaventa).
Le passioni/Spinoza-Shakespeare, come parte integrante della critica, della storia…
Socrate:
Socrate come “un prodotto naturale della coltura e della vita ateniese”.
critica moderna storica pp. 35, 36-37.
p. 35, in senso tecnico, critica storica su basi filologiche, (Socrate, pp. 36-37), opposizione alle
false opinioni.
IMPORTANTE
Nel Socrate e a proposito di Socrate altrove (per es. in Dal Pane, La vita e il pensiero, da me
citato, oppure nel III vol delle Opere, p. 5-6).
p. 127 di Ricerche sul problema della libertà: “ricerca storica e critica”.
p. 53: critica come un “correggere, rettificare, e esaminare le opinioni altrui”.
1872 rec. a Vera, Dal Pane III, pp. 278 sgg.
p.278
la “mostruosa congiunzione” di filosofia e storia, nella filosofia della storia;
contro la filosofia della storia “dommatica del nostro secolo”.
“non può aversi alcun progresso scientifico dove manca la prima e irrecusabile condizione di
ogni metodo scientifico: la chiarezza del problema, e la ferma delimitazione dei concetti, che sono da
elaborare ed applicare”.
contro i “pregiudizi… i pregiudizi speculativi”, “in buona fede”, e “la critica non può farci
nulla”. “Ma, quando poi vediamo che qualcuno s’immagina che si possano prendere i fatti del
sapere storico, alla cui ricerca critica e elaborazione scientifica tante discipline si affaticano, e con
un paio di parole magiche gettarli nel vortice dell’idealismo assoluto, e che si possa inoltre passar
sopra orgogliosamente a tutte le questioni della linguistica e della mitologia, della storia del diritto
e della statistica, dell’etica storica e comparata, noi pensiamo che un tal procedere confina con la
temerità; ovvero dobbiamo astenerci da ogni diritto di pronunziare un giudizio sulla coscienziosità
dell’autore”.
p. 280 “Si potrebbe qui facilmente ricordare quella philosophia pigrorum, di cui il degno Kant
parla in qualche luogo, e chiudere tranquillamente il libro senza leggere più oltre”.
Spaventa “possiede schietto sensi scientifico ed ha scritto molte cose notevoli”.
“Del Zio, De Luca e Mariano, gente che non ha alcuna cittadinanza nel mondo della scienza”.
De Sanctis “critico e non già un filosofo”.
Cultura, coltura
Socrate:
Cultura artistica contemporanea e Socrate pp. 51, 52, 61.
Ateniese 40, 41-42, 54.
Greca 46, 48, 51, 52, 59, 62, 68, 91, 93, 102-103, 127, 168, 248.
Cultura come paideia, (leggere, recitare, canto, ginnastica).
p. 40: Socrate si avvale certamente “della tradizione letteraria come mezzo di coltura”, tuttavia
“il carattere delle sue vedute, e l’influenza che esercitarono, mostrano chiaramente quanto quelle
fossero radicate nei bisogni e nella coltura del tempo. Sotto questo riguardo, tutte le molteplici
pendenze ricercative delle varie scuole filosofiche hanno potuto esercitare una influenza più o
meno diretta sullo sviluppo della sua coscienza, e disporlo a quel bisogno incessante di esaminare
con certezza scientifica i fenomeni interni della vita etica….
Cultura come civiltà.
Cultura come complesso degli elementi di una formazione, di una genesi in un determinato
tempo e luogo.
Tuttavia contrapposizione della soggettività, il proprio e il nuovo di Socrate.
p. 42: “le condizioni della coltura ateniese, ed il risultato cui pervenne Socrate con le sue
ricerche costituiscono un’antitesi così pronunziata, che rimane sempre vero quello che si è detto
ripetutamente di lui, esser egli stato maestro a sé medesimo… L’oggetto e la natura della ricerca
socratica sono affatto nuovi.
p. 59 il “meramente scientifico” va integrato con il concretamente culturale.
pp. 102-103: “Il pensiero s’era svolto in tanta buona armonia con tutto il progresso della coltura,
che Socrate, come abbiamo già visto, malgrado le profonde collisioni cui dette motivo, non
s’avvide di quanto si discostasse dalle tradizionali convinzioni, e non volle mai essere riconosciuto
né come maestro, né come filosofo”.
pp. 103-104:
“In un tempo, quando non s’avea pur sentore di quello che potess’essere l’economia privata e
pubblica, la scienza del dritto, dello stato, o dell’amministrazione, e la tecnica delle arti, era
naturale che l’esigenza di determinare i concetti pratici s’avvertisse solo dal punto di vista
dell’utilità, e che si spiegasse unicamente nella sua immediata ed occasionale natura”.
p. 127: Socrate e i suoi concetti (per es. eudaimonia), “nella storia della coltura greca”.
p. 168: All’epoca di Pericle, Atene come “il centro di tutta la coltura ellenica”.
p. 248: “la metropoli della coltura greca”.
In Ricerche sul problema della libertà:
cultura:
- elementare, 310.
- generale, 127, 157, 182, 189, 220, 313-314.
- ostacolo che presentano le condizioni reali della società a una cultura generale comune a tutti,
p. 212.
- popolare, 215.
- speciale pedagogica, 314.
- tecnica, 188.
aggiungi p. 168. C’È COLTURA E COLTURA “COLTURA PRIMA” E “COLTURA
SPIRITUALE”.
“son molte le cose che bisogna apprendere praticandole, così perché il praticarle è l’unico
mezzo per bene impararle, come perché importa per ragioni di utilità preparar nell’animo insieme
ai dati ideali della coltura certe attitudini peculiari del fare. Ma oltre che parecchie di coteste
attitudini tecniche hanno il loro reale fondamento nella coltura dello spirito, non si dee mai
confondere i riguardi dell’utilità con quelli dell’educazione interiore”.
aggiungi p. 187.
cultura, come “coltura”, come “coltivare” un “interesse”.
pp. 214-215: IMPORTANTE PER IL PAPUANO - “COLTURA PRIMA” E “COLTURA
SPIRITUALE”…
“Cotesto principio ha la sua norma certa nel bisogno oramai comune a tutti i paesi civili, che si
debba, cioè, nel più breve periodo di tempo fornire di una qualche coltura ordinata e precisa tutti
i giovanetti, che ben presto avran mestieri d’addirsi all’esercizio delle minute arti dell’agricoltura,
del commercio e dell’industria…
Guardata sotto cotesto aspetto, la questione della coltura prima, o popolare che si dica, diventa
assai grave, e la soluzione di essa non può sembrar cosa facile a chi abbia una qualche notizia
esatta delle condizioni della società, e di quanto sia ardua cosa il menarla innanzi nelle vie della
coltura spirituale.
Di fatti è cosa del tutto priva di significato il parlare della coltura popolare, quando non si è
ancora in grado di ordinar le scuole in maniera da ingenerare nei giovanetti l’attitudine ad
esaminare con occhio sicuro le cose del mondo interiore ed esteriore; di ordinarle, cioè, in guisa
che l’istruzione produca una orientazione certa dell’intelligenza ed un regolato moto dell’animo
nell’apprezzare i beni della vita. In una parola non merita il nome di scuola popolare un istituto,
nel quale non si trovi modo di assolvere tutto intero il compito educativo; per quanto breve il
tempo dell’istruzione, per quanto ristrette le materie didattiche e scarsa la elaborazione che è lecito
di dar loro con l’esercizio della riflessione”.
DA SCRITTI PEDAGOGICI.
IMPORTANTE:
1871 p. 134.
“I difetti dell’insegnamento francese non si riflettono profondamente in tutta la vita nazionale,
per ché in Francia c’è una sfera più larga della coltura che a noi manca. Quelle miriadi di romanzi e
di commedie che inondano il mondo da un secolo a questa volta sono il prodotto di una coltura
sociale di cui non s’ha idea presso di noi, e sebbene non siano sempre la prova migliore
dell’ingegno e del gusto francese, non può negarsi che per molte classi di quella società formano
un pascolo intellettuale non sempre pregevole.
D’altra parte la coltura scientifica e accademica è rimasta colà sempre in una sfera d’uomini
privilegiati, che hanno poco o niun contatto con l’insegnamento secondario, e che vanno a correre
la carriera della celebrità nell’unico centro di vitalità nazionale che s’abbia la Francia,
Parigi…………
p. 138.
“Bisogna provvedere che la posizione del professore secondario sia una volta per sempre
circondata di quelle guarentigie di rispettabilità e di seria coltura che sole possono invogliare la
parte elettra della gioventù a consacrarsi all’insegnamento…….
Una sola cosa a noi par chiara, che sino a quando all’aritmetica dei punti, alla somma numerica
delle conoscenze speciali non verrà surrogato un criterio qualitativo della cultura generale, in Italia
non ci sarà insegnamento secondario”.
Da DELL’INSEGNAMENTO DELLA STORIA, SCRITTI PEDAGOGICI.
p. 256:
la “differenza di età e di coltura che corre fra l’educatore e l’educando”.
p. 275:
“I pregiudizi di famiglia, di classe, di partito, di nazione sono come tanti impedimenti al resto
discernimento simpatetico degli stati d’animo dei contemporanei……”.
p. 276:
“A misura che la cultura avanza si va più oltre di così”.
ATTENZIONE QUI LIMITE “PAPUANO” p. 294-94:
“A misura poi che la cultura avanzi crescerà da per sé il sentimento critico. E come questo è di
molte specie, nel corso della cultura generale converrà svilupparne una forma sola, che è quella la
quale risulta dal bisogno di trovar nei fatti l’intima verosimiglianza, e la coerenza intrinseca dei
rapporti loro. La critica che cade specialmente su la validità dei documenti, per essere materia
peculiare di studio professionale, rimarrà esclusa dal campo della didattica generale”.
p. 296:
la “antecedente cultura dei giovanetti”.
p. 322:
“coltura generale” e “interessi professionali”, “possibile istrumento pratico di utilità”.
La scuola nei diversi paesi è considerata alla stregua di queste idee.
Filosofia e università, 1887.
p. 486:
“La tesi che io sostengo….. riflette con la massima imparzialità le più generali tendenze della
cultura e del pensiero dei nostri tempi. Essa mira a combattere due pregiudizi egualmente
perniciosi alla cultura: il volgare tradizionalismo e lo specialismo esagerato”.
p. 578:
Il compito dell’insegnante:
“Ciò che deve e che non può fare a meno di essere libero, è l’esercizio di questa funzione affatto
definita, che non è da confondere con quella dell’apostolo, del predicatore, del propagandista, del
giornalista. Chi sta sulla cattedra universitaria, non deve occuparsi di cronaca quotidiana, non
deve esporre la sua opinione su cose particolari, non deve arringare né agitare, ma insegnare, cioè
dimostrare, spiegare, interpretare le cose. Egli deve chiarire i concetti, le parole, i segni, sceverare
le regole fondamentali, formulare le dottrine, presentare le modalità dello sviluppo, condurre ad
unità i singoli processi, per quanto più questo gli può riuscire possibile”.
Da Epistolario, vol. III.
p. 732
Ma vedi in L’Università e la libertà della scienza.
“Senza far questioni puramente verbali, ma entrando nell’intrinseco della cosa, gli è chiaro che
insegnare non è amministrare, e quindi l’insegnante in quanto insegna non è impiegato. Tanto più
poi perché ciò che insegna può comunicarlo agli altri per tante altre vie”.
Da Dal Pane vol. III
aggiungi p. 305, a proposito di Celesia, p. 305:
La storia della pedagogia, “La quale, in fondo si deve ridurre alla storia dei concetti teoretici
intorno al bene educare, e non può confondersi con la storia dei metodi o della coltura in generale;
e molto meno con la storia delle istituzioni scolastiche: le quali cose tutte il Celesta ha messo
dentro il suo libro”.
p. 310, il Giardino-scuola, “istrumento di coltura elementare, per la gente di campagna”.
pp. 313-314: la “coltura generale” (che si suppone in funzione di una coltura speciale) e la
“coltura speciale” “coltura speciale didattica” (pedagogica).
“professionale, reale, classica, o come altro si chiamino, che al presente si vedono istituite nei
diversi paesi civili”…… la “coltura generale” come discriminante.
Da In memoria del Manifesto.
Saggi/GERRATANA-GUERRA, pp. 18-19.
Il L. è critico della cultura del proprio tempo in forza di questo principio scientifico:
In polemica con i Positivisti
Cultura = scienza:
“Per ciò noi socialisti, che ci lasciamo ben volentieri chiamare scientifici, se altri non intende per
cotal modo di confonderci coi Positivisti, ospiti spesso ma dea noi non sempre ben accetti, che a
loro grado monopolizzano il nome di scienza, noi non ci battiamo i fianchi per sostenere una tesi
astratta e generica, come fossimo causidici o sofisti: né ci affanniamo a dimostrare la razionalità
degli intenti nostri. I nostri intenti non sono se non la espressione teorica e la pratica esplicazione
dei dati che ci offre la interpretazione del processo che si compie attraverso noi e intorno a noi; e
che è tutto nei rapporti obiettivi della vita sociale, di cui noi siamo soggetto ed oggetto, causa ed
effetto, termine e parte. I nostri intenti son razionali, non perché fondati sopra argomenti tratti
dalla ragion ragionante, ma perché desunti dalla obiettiva considerazione delle cose; il che è
quanto dire dalle dilucidazione del processo loro, che non è, né può essere, un resultato del nostro
arbitrio, anzi il nostro arbitrio vince ed aggrega”.
È il “comunismo critico” che interessa a Labriola.
Che s’oppone a quelli che, “facendo professione di dotta ignoranza, quando non siano a
dirittura fanfaroni, ciarlatani o allegri sportisti, regalano al comunismo critico precursori, patroni,
alleati e maestri d’ogni genere, in oltraggio al senso comune e alla volgare cronologia………
critica al positivismo, a Comte e Spencer
Dall’Epistolario Vol. III Gerr-Sant.
CRITICA DEL VERBALISMO
p. 629
A proposito del 2° Saggio, Del materialismo storico:
“Procedo qui in questo saggio per via di esclusione critica. I primi quattro paragrafi trattano
di quel che segue - contro il verbalismo (ossia l’argomentare p. e. della definizione della
materia) - contro il concettualismo immediato, che poi degenera in fraseologia (fato – fortuna –
caso – logica delle cose) - contro l’astratto tradurre tuta la storia (compresa la psicologia sociale)
in categorie economiche - contro il naturalismo immediato (p. e. estendere alla storia del
Darwinismo)”.
Da “Del materialismo storico”.
La critica del verbalismo.
p. 75:
Il verbalismo è “quel vizio delle menti addottrinate coi soli mezzi letterarii della cultura”.
Esso sorge quando “il culto e l’impero delle parole” riescono “a corrodervi e a spegnervi il
senso vivo e reale delle cose”.
“Là dove la prolungata osservazione, il reiterato esperimento, il sicuro maneggio di raffinati
istrumenti, l’applicazione totale o almeno parziale del calcolo, finiron per mettere la mente in una
metodica relazione con le cose e con le variazion loro, come è il caso delle scienze naturali
propriamente dette, ivi il mito ed il culto delle parole rimasero oramai superati e vinti, ed ivi le
questioni terminologiche non hanno in fin delle fini se non il valore subordinato di una mera
convenzione. Nello studio, invece, dei rapporti e delle vicende umane, le passioni, e gl’interessi, e i
pregiudizi di scuola, di setta, di classe, di religione, e poi l’abuso letterario dei mezzi tradizionali
della rappresentanza del pensiero, e poi la scolastica non mai vinta e anzi sempre rinascente, o
fanno velo alle cose effettuali, o inavvertitamente le trasformano in termini, e parole, e modi di dire
astratti e convenzionali”.
p. 79
La “filosofia popolare”, i “pregiudizii” che “ricorrono come derivati fraseologici per le
bocche dei politicanti di mestiere, dei così detti pubblicisti e dei gazzettieri d’ogni sorta e
maniera, ed offrono il fulcro della retorica alla così detta “opinione pubblica”, dileguano “non
appena sorge la critica della conoscenza”.
p. 111
“Le idee non cascano dal cielo…….. Anche le idee suppongono un terreno di condizioni sociali,
ed hanno la loro tecnica: ed il pensiero è anch’esso una forma del lavoro”.
p. 187
AUTOCRITICA
“Il Marxismo……. Non è e non rimarrà tutto rinchiuso negli scritti di Marx e di Engels…….
Come quella dottrina è il sé la critica, così non può essere continuata, applicata e corretta, se
non criticamente”.
p. 210
“Ciò che decide di tale passaggio dalla ingenuità alla critica è la osservazione metodica….. e,
più che l’osservazione, l’esperimento volontariamente e tecnicamente condotto…….
Sperimentando, noi diventiamo collaboratori della natura; - noi produciamo ad arte ciò che la
natura per sé produce”.
p. 215 QUI PAPUANO
“La indubbia ricorrenza del vizio metafisico, che alcune volte a dirittura confina con la
mitologia, ci dee rendere indulgenti verso le cause e condizioni, o direttamente psichiche o più
generalmente sociali, che per tanto tempo ritardarono in passato l’apparizione del pensiero
critico, coscientemente sperimentale e cautamente antiverbalistico……. Gli uomini non furon
mai esclusivamente teologisti o metafisici, come non saranno mai esclusivamente scientifici. Il
più umile selvaggio che paventa i feticci, sa che il fiume su cui nuoti controcorrente, e nel suo
elementarissimo esercizio del lavoro ha in sé un embrione di esperienza e di scienza. Ai giorni
nostri ci sono, viceversa, degli scienziati con la mente ingombra di mitologia. La metafisica, nel
senso di ciò che sarebbe il contrario della correttezza scientifica, non è già un fatto precisamente
così preistorico, da stare alla pari col tatuaggio e con l’antropofagia!”.
p. 217
“La perfetta immedesimazione della filosofia, ossia del pensiero criticamente consapevole,
con la materia del saputo, ossia la completa eliminazione del divario tradizionale tra scienza e
filosofia, è una tendenza del nostro tempo: tendenza, che il più delle volte rimane però un
semplice desideratum.
Il Labriola autocritico ed ipercritico.
pp. 221-22 LA CRITICA A CROCE.
“Immergersi nel concreto delle correlatività sociali e storiche gli è cosa per molti intelletti di
una difficoltà quasi insuperabile. Invece di pigliare l’insieme sociale, come un dato in cui
geneticamente si rivolgono le leggi, le quali sono relazioni di movimento, molti hanno bisogno
di rappresentarsi delle cose fisse, per es., l’egoismo di qua, l’altruismo di là, così via. Il caso
caratteristico è quello dei moderni edonisti. Non si arrestano alla compagine sociale, come al
dato specifico della dottrina economica, ma risalgono ai giudizi di valutazione, come alla
premessa (logico-psicologica) della Economica. In questi giudizi trovano una scala… In cotesta
astratta atomistica delle condizioni, degli apprezzamenti e delle quantità di beni, non si sa più
che cosa sia la storia, e il progresso si risolve in una mera parvenza”.
p. 223
“Tendenza (formale e critica) al monismo, da una parte, virtuosità a tenersi equilibratamente
in un campo di specializzata ricerca, dall’altra parte: - ecco il risultato. Per poco che s’esca da
questa linea, o si ricade nel semplice empirismo (la non-filosofia), o si trascende alla iperfilosofia, ossia alla pretesa di rappresentarsi in atto l’Universo, come chi ne possedesse la
intuizione intellettuale”.
AUTOCRITICA
p. 187 di Saggi/Gerratana e Guerra.
“Il Marxismo……. Non è e non rimarrà tutto rinchiuso negli scritti di Marx e di Engels…….
Come quella dottrina è il sé la critica, così non può essere continuata, applicata e corretta, se
non criticamente”.
p. 135 di Scritti politici
135 AUTOCRITICA
IMPORTANTE!!!!!!
“Mentre ci manca, starei per dire, il pane cotidiano del leggere e dello scrivere, che è tutto
quello che cimossa dare la scoletta delle due classi d’obbligo, mentre sappiamo quanto sia scarsa la
frequenza di così meschina scuola, e quanto vergognosamente grande il numero degli analfabeti, ci
siam messi comodamente a discutere delle alte ragioni scientifiche della pedagogia, per trascinare i
maestri dietro all’una o all’altra bandiera della filosofia!…… Per ciò mi fo lecito di chiedere alla
Società degli insegnanti di Roma di proporsi due questioni. La prima suona così: ricondurre la
speculazione pedagogica nei suoi veri termini di guida e di mezzo di orientazione per la cultura
preparatoria e complementare del maestro, perché non invada il campo delle scienze sociali ed
economiche”.
Autocritica
Da Epistolario, vol III.
p. 634
Autocritica più critica.
A Croce:
“tu farai bene a seguire l’indola tua propria, e a non seguire i consigli di nessuno, compresi i
miei, perché così solo potrai lavorare con gusto, con soddisfazione e con effetto, e senza il
fastidio di dover corrispondere a un dato programma preconcetto. Ma ti prego di non scambiare
questa tua condizione subiettiva, né col socialismo, né con quello che ora occorrerebbe all’Italia
per migliorare la sua cultura. Il socialismo non ha niente che fare con la erudizione”.
p. 651
A proposito di Del materialismo storico
“Non so se dipende dal mio cattivo umore fisico (ho un ostinato catarro al petto) o dal mio
cattivo umore morale, per un sacco di pensieri che ho per la testa, questo saggio non mi piace
punto”.
p. 652
la “mia cantafavola………… per ribattere i pregiudizii correnti; mi pare anche di non essere
uscito dai limiti di una dilucidazione preliminare… ma nell’insieme lo scritto non mi piace, e lo
pubblico solo per non sentirti borbottare”.
p. 756
“Noi non siamo ancora usciti dal Bakuninismo, e il socialismo italiano è ancora fatto degli
spostati, dagli avventurieri, dagl’imbroglioni e dagli snobisti”…. “Non siamo buoni a far
niente”.
p. 757
“Colgo questa occasione per dirti che tu ti sei avventurato troppo ad affermare l’esistenza (sia
pure ipotetica) dell’economia pura. E perché non il diritto puro – l’estetica pura - la bugia pura?
– e la storia dove se ne va?”.
p. 760
“Io sono….. fuori della grazia di Dio per questo benedetto Avanti - non perché sia male
impostato, cosa naturale in un giornale che comincia - non perché si stampi da Perino sotto
tariffa al quale ha venduto gli annunzii, perché ciò è italianamente plausibile - non perché sia il
recapito di molti ex studenti, goliardi, avventurieri e simile genia - non perché abbia
sconfessato l’articolo di Ferrero, e pubblicato quelle belle porcherie di Zerboglio, Lombroso,
Pozzi e simili - non perché dica delle impertinenze stupide - non perché si sia fatto inutilmente
pregare fin d’ora di annunziare il tuo opuscolo su Loria - né per altre cose simili - ma
principalmente per quell’articolo di oggi diretto all’Osservatore Romano, nel quale uno stupido
impasto di dottrinarismo da osteria di villaggio e di pretesa ironia da arlecchino danno il
risultato che il socialismo si confonda con il sciosciammocchismo”.
A proposito di Discorrendo di socialismo e di filosofia.
p. 806 dell’Epistolario, vol. III.
Sul Cristianesimo, “gli appunti che scrissi a Roma sono un po’ troppo superficiali”.
p. 811
“Mi pare che di questo mio libercolo tu (che ne sei l’auctor) non sei entusiasta come le altre
volte. Io sono disposto alle modificazioni che tu mi suggerirai - 1) se sono caduto in qualche
contraddizione formale e materiale 2) se qualche espressione aspra è da togliere.
Non voglio però che lo scritto abbia il liscio, l’omogeneo, l’organico, il filato di un libro……
A me occorre serbare la non omogeneità epistolare - perché a) così solo sono giustificato di
discorrere dell’universo scibile, il che sarebbe ciarlataneria in una trattazione ex professo. b)
così solo mi è lecito di mettere assieme socialismo, scienza, filosofia e bizzarria. c) perché così
mi libero dalla seccatura del Marxismo settario d) e così stabilisco in modo facile, quali sono le
disposizioni di mente, nelle quali si devono mettere coloro che s’occupano di materialismo
storico”.
p. 819
p. 845
“Tu mi chiedi notizie di me. Che cosa vuoi che ti dica? Io sono entrato in un periodo di
curiosa crisi (non quella del marxismo)…………… sono in crisi con me stesso perché tutto
quello che si fa o si possa fare nella scienza e nella vita si riduce, nel nostro paese, a fare un
buco nell’acqua”.
p. 870
“Pare che il socialismo sia dientato - occultismo”.
p. 874
“Ciò che in Italia fu chiamato socialismo è tutto in rovina. La cosa ti parrà evidente - ma io
non ho pazienza di dirtene tutte le ragioni. E vale la pena di andar rinnovando tanta merda”.
p. 905
“Ti abbandono anche le pretese differenze tra Marx ed Engels - perché questa è anche una
questione dottrinale - ed erudita. Io son tanto cretino, che quelle differenze non le vedo. Ma io
per queste differenze fui sempre un cretino. Io non riuscii mai ad interessarmi per la lotta tra
Spaventae e Vera, Rosnkranz e Michelet, tra Strümpell e Drobisch e coisì via. Sonom poco
accessibile alla discussione delle cose inutili.
Tu che sei stato l’editore dei miei saggi - e che li hai letti tante volte per la stampa - saprai
meglio di ogni altro, che io non ho inteso né DIPOPOLARIZZARE Marx, né di portarci delle
particolari correzioni. Ho scritto quello che vedo e capisco io in quella forma definitiva di cui
sono capace. E così farò sempre senza entrare in filologia.
Elenco definizioni ad effetto
Saggi,
p. 19
“Spencer, quintessenza di boghesismo nemicamente anarchico”.
p. 53
il “gran pontefice Spencer”.
p. 225
“In fondo a cotesta fraseologia dello Spencer si cela il dio del catechismo… il residuo di una
iperfilosofia, che rassomiglia, come la religione, al culto di quell’ignoto, che, in uno medesimo
tempo, si dichiara ignoto, e pur si afferma di conoscere in certa guisa facendone oggetto di
riverenza”.
“Il grande eunuco Spencer” (così in Lettere ad Engels, 13 giugno 1894).
p. 197
Gli “internazionalisti” che non intendono il valore delle lingue “sono da chiamarsi
confusionisti ed amorfisti”.
p. 307
non essere come coloro che credono di dovere aggiungere alle loro pubblicazioni “la storia
intima delle loro letture, fino alla fotografia della penna della quale si servono”.
Epistolario, vol. III
p. 681
Su Chiappelli. “Vuoi tu vedere quanto quest’uomo è scemo di mente”; p. 693: “Oramai tutti i
professori mi sembrano tanti Chiappelli”.
p. 683 “quel vilissimo Mariano” e a p. 688 “quell’inconcludente ciarlatano……. Neocommendatore e….. lustrascarpe di ministri”.
p. 691
B. Puviani “buono, ma pusillanime; cosicché non osa dir male dei suoi persecutori, se non a
mezza voce”.
p. 694
“Quel Loria è un vero imbroglione. Tutti i momenti scovro (come di recente in BöhmBawerk) che egli ha sempre plagiato, in un modo curioso… cioè storpiando e sofisticando
quello che copia”.
p. 750-51
il “pasticcio Loria”….. “Passano 10 anni che quest’uomo passa per scopritore-completatorecorrettore-storpiatore-plagiario e ciarlatano (e spesso questi giudizi s’intrecciano negli stessi
giornali dal Socialista alla Critica Sociale) e lui non si risolve a dire mai: Marx è questo ed io
sono quest’altro. Un mixtum compositum di megalomania, di camorra letteraria e di vanità di
mala femmina sputtaneggiata”.
p. 764
“La faccia tosta di Loria è infinita”.
p. 716
E. De Marinis, autore di un saggio sul comunista Vincenzo Russo, è “un somarello,
prosuntuosello, intrigantello, farabuttello, le cui opinioni non contano nemmeno per riderci”.
p. 719
Croce? “un letterato”.
p. 724
“le fesserie che dice Tocco a proposito del libro di Calenda su Campanella”.
p. 748
Guglielmo Ferrero, “uno stranissimo ma assai simpatico goliardo”.
p. 760
“Io sono….. fuori della grazia di Dio per questo benedetto Avanti - non perché sia male
impostato, cosa naturale in un giornale che comincia - non perché si stampi da Perino sotto
tariffa al quale ha venduto gli annunzii, perché ciò è italianamente plausibile - non perché sia il
recapito di molti ex studenti, goliardi, avventurieri e simile genia - non perché abbia
sconfessato l’articolo di Ferrero, e pubblicato quelle belle porcherie di Zerboglio, Lombroso,
Pozzi e simili - non perché dica delle impertinenze stupide - non perché si sua fatto inutilmente
pregare fin d’ora di annunziare il tuo opuscolo su Loria - né per altre cose simili - ma
principalmente per quell’articolo di oggi diretto all’Osservatore Romano , nel quale uno stupido
impasto di dottrinarismo da osteria di villaggio e di pretesa ironia da arlecchino danno il
risultato che il socialismo si confonda con il sciosciammocchismo”.
p. 915:
I giornalisti italiani, “di solito sono tanto ignoranti, hanno la sensibilità della malizia”.
p. 769 In polemica con Il Mattino: “Con tali mascalzoni non ci si può aver da fare”.
p. 770
“Turati, Avanti e simile genìa son tutta marmaglia”.
p. 841:
Turati “rigattiere della letteratura socialista”.
p. 819
“Il capitolo Arturo [Labriola] diventa… oscenamente noioso. Non vorrei i tuoi fastidii
devano crescere per questo mascalzone (vero!) più del tollerabile”.
p. 821
“quell’asino di Colajanni”.
p. 822
“quello scemo di Graf”.
p. 826
“E così il Positivismo è dilagato… e i cretini d’Italia sono diventati maestri dell’Olanda Feri
oggi viaggia appunto l’Olanda facendo conferenze, stipendiato dai Socialisti, comprese le spese
per la moglie!)”.
p. 841
“Turati potrebbe fare il rigattiere della letteratura socialistica.
p. 849:
A proposito del saggio di Croce sull’intepretazione e la critica di alcuni concetti del
marxismo, tradotto sul “Devenir social”:
“Avevo cominciato a scrivere sopra un esemplare diverse note… ma poi lasciai stare: per non
fare un saggio, sopra un saggio di critica di un saggio.
Ma ora la cosa mi è abbastanza lontana (ossia mi è obbiettiva), e posso parlartene senza
fermarmi su i singoli punti. Se mi fermassi su i singoli punti io dovei dirti che quello scritto mi
ha fatto una cattiva impressione per la immaturità nel maneggio del pensiero. E quando dico
immaturo non intendo decidere del vero e del falso. Nietzsche è maturassimo nel dire le
coglionerie che dice, mentre Schelling fu sempre immaturo, unfertig, e unbeholfen”
(impreparato e impacciato)…….. segue la critica a Croce e al suo “pacifico ozio di epicureo
contemplante”, per diverse pagine……
p. 935:
A Croce: “Ti dico solo questo: che se tu fai una circolare a tutti i rappresentanti
dell’edonismo delle due parti del mondo, non ne troverai uno che voglia accordarsi col
marxismo”.
p. 878
“quel povero leprotto di Ciccotti”.
pp. 882-83
“le volgarità che Plekanoff ha scritto contro Bernstein”.
p. 947:
“Dopo 26 anni che insegno filosofia mi son persuaso che la filosofia non s’insegna a
nessuno. Marx ed Engels non ebbero che un solo torto, e fu quello di volere insegnare la
filosofia alle moltitudini (dei Kautsky, Bernstein, Lafargue, Turati!), alle quali basta la
logichetta formale. Tu, Sorel ed altri avete fatto bene a scoprire i volgarismi dei marzisti, ma non
per questo avete trovato una nuova teoria della conoscenza. Anche per questo rispetto la storia è
catastrofica. La sommatone empirica delle osservazioni perzialki non dà mai la nuova
Welanschauung - il criticismo non è tutta la filosofia. La filosofia non può esistere che come
factum già bello e compiuto”.
p. 948:
Ora per noi italiani che viviamo fori delle grandi correnti della storia (la sola cosa veramente
storica per noi è il Papa!) – che non abbiamo da mettere in scena che mafiosi, camorristi, prefetti
ladri, processi scandalosi, impotenza amministrativa, insipienza politica, dotti ciarlatani, plebi
brutali, politicanti da caffè (compresi quasi tutti quanti i socialisti) è quasi impossibile di
orientarsi su le condizioni del mondo, che ci sfuggono per difficoltà obbiettive e per difetto di
compagine subiettiva”.
p. 958:
“Io del resto… faccio il filosofo. Spero di scovrire anch’io, un giorno o l’altro, quel famoso
Kant, che è la delizia dei decadenti tedeschi”.
p. 989:
“Quanto all’Idealismo, e sua cosiddetta rinascita etc… io veramente non ho mai avuto mai
molta tenerezza per la lotta delle nomenclature, né in filosofia, né in politica… e nel caso attuale
date le mie condizioni presenti (sono stanco, affranto, da 14 mesi ho appena leggicchiato
qualche cosa, e in generale mi considero come chi abbia perduto prospettiva ed avvenire). Vedo
però che in tutta Europa corre una reazione contro lo storicismo, il positivismo, il Darvinismo,
l’evoluzionismo etc. etc. e a ciò si mescola lo spirito borghese decadente, il cattolicesimo rinato, e
una feroce neoscolastica e neosofistica. Per tale contesto storico il cosiddetto Idealismo (la qual
parola in genere è applicabile ad ogni filosofia) vuol dire l’antistorico, l’antidivenire etc. È un
arresto dello spirito scientifico, è un regresso”.
p. 996:
“Io in cotesta burocrazia scientifica mi ci trovo molto a disagio: - ma d’altra parte non so,
dopo tanti e così varii tentativi, che forma dovrebbero avere i concorsi. Credo sia preferibile di
aspettare che si migliorino innanzi tutto i cervelli dei concorrenti. A fartela breve questa
faccenduola del concorso mi è stata di una noia straordinaria”.
p. 1001
“Il Gentile m’era parso sempre un po’…
Sono enunciabili tutti in giudizii analitici. Altro che dialettica (hegeliana o marxistica!) –
altro che giudizi sintetici a priori – altro che Spencer e Wundt e altre evoluzion – questa è
filosofia wolfiana bella e buona……… Dacché insegno qui (il prossimo febbraio farebbe anni
30 se io non fossi un professore in partibus)ne ho viste passare tante filosofie neokantiane,
neokritiche, neopositivistiche, empiriocritiche, immanenti, contingenziali, neotomistiche
buddistiche, realidealistiche, fessistiche, ciarlatane - da averne piene le tasche e tutte le altre
borse”.
p. 1004:
“Dell’idiota ne dava a tutto pasto Iaja… proprio D. Bertrando, che per variare chiamava
Maturi un povero scemo. Ti basta? Di Gentile non m’importa d’approfondire più nulla. Faccia il
comodo suo… e invochi il perdono di Hegel per gli spropositi che gli attribuisce… Giudizii
analitici! È un modo di servirsi delle formule kantiane per ispiegarsi. E poi hai capito… perché
neghi la comprensione filosofica della natura e della storia… E ti par poco? Quello Spirito che
non ha niente che fare con la Natura da cui risulta e con la Storia che è la somma delle sue
manifestazioni deve essere… un bel Mamozio. Mandamelo come dono della Befana”.
p. 486:
“La tesi che io sostengo….. riflette con la massima imparzialità le più generali tendenze della
cultura e del pensiero dei nostri tempi. Essa mira a combattere due pregiudizi egualmente
perniciosi alla cultura: il volgare tradizionalismo e lo specialismo esagerato”.
Da Dal Pane vol. III.
aggiungi p. 305, a proposito di Celesia, p. 305:
La storia della pedagogia, “La quale, in fondo si deve ridurre alla storia dei concetti teoretici
intorno al bene educare, e non può confondersi con la storia dei metodi o della coltura in generale;
e molto meno con la storia delle istituzioni scolastiche: le quali cose tutte il Celesta ha messo
dentro il suo libro”.
p. 310, il Giardino-scuola, “istrumento di coltura elementare, per la gente di campagna”.
pp. 313-314: la “coltura generale” (che si suppone in funzione di una coltura speciale) e la
“coltura speciale” “coltura speciale didattica” (pedagogica).
professionale, reale, classica, o come altro si chiamino, che al presente si vedono istituite nei
diversi “paesi civili”…… la “coltura generale” come discriminante.
Da In memoria del Manifesto.
Saggi/GERRATANA-GUERRA, pp. 18-19.
Il L. è critico della cultura del proprio tempo in forza di questo principio scientifico:
In polemica con i Positivisti.
Cultura = scienza:
“Per ciò noi socialisti, che ci lasciamo ben volentieri chiamare scientifici, se altri non intende per
cotal modo di confonderci coi Positivisti, ospiti spesso ma dea noi non sempre ben accetti, che a
loro grado monopolizzano il nome di scienza, noi non ci battiamo i fianchi per sostenere una tesi
astratta e generica, come fossimo causidici o sofisti: né ci affanniamo a dimostrare la razionalità
degli intenti nostri. I nostri intenti non sono se non la espressione teorica e la pratica esplicazione
dei dati che ci offre la interpretazione del processo che si compie attraverso noi e intorno a noi; e
che è tutto nei rapporti obiettivi della vita sociale, di cui noi siamo soggetto ed oggetto, causa ed
effetto, termine e parte. I nostri intenti son razionali, non perché fondati sopra argomenti tratti
dalla ragion ragionante, ma perché desunti dalla obiettiva considerazione delle cose; il che è
quanto dire dalle dilucidazione del processo loro, che non è, né può essere, un resultato del nostro
arbitrio, anzi il nostro arbitrio vince ed aggrega”.
È il “comunismo critico” che interessa a Labriola
Che s’oppone a quelli che, “facendo professione di dotta ignoranza, quando non siano a
dirittura fanfaroni, ciarlatani o allegri sportisti, regalano al comunismo critico precursori, patroni,
alleati e maestri d’ogni genere, in oltraggio al senso comune e alla volgare cronologia………
…………..
……………
…………
critica al positivismo, a Comte e Spencer
p. 845
“Tu mi chiedi notizie di me. Che cosa vuoi che ti dica? Io sono entrato in un periodo di
curiosa crisi (non quella del marxismo)…………… sono in crisi con me stesso perché tutto
quello che si fa o si possa fare nella scienza e nella vita si riduce, nel nostro paese, a fare un
buco nell’acqua”.
p. 870
“Pare che il socialismo sia dientato - occultismo”.
p. 874
“Ciò che in Italia fu chiamato socialismo è tutto in rovina. La cosa ti parrà evidente - ma io
non ho pazienza di dirtene tutte le ragioni. E vale la pena di andar rinnovando tanta merda”.
p. 905
“Ti abbandono anche le pretese differenze tra Marx ed Engels - perché questa è anche una
questione dottrinale - ed erudita. Io son tanto cretino, che quelle differenze non le vedo. Ma io
per queste differenze fui sempre un cretino. Io non riuscii mai ad interessarmi per la lotta tra
Spaventae e Vera, Rosnkranz e Michelet, tra Strümpell e Drobisch e così via. Sono poco
accessibile alla discussione delle cose inutili.
Tu che sei stato l’editore dei miei saggi - e che li hai letti tante volte per la stampa - saprai
meglio di ogni altro, che io non ho inteso né DIPOPOLARIZZARE Marx, né di portarci delle
particolari correzioni. Ho scritto quello che vedo e capisco io in quella forma definitiva di cui
sono capace. E così farò sempre senza entrare in filologia.
«»«»
Da Dal Pane vol. III.
aggiungi p. 305, a proposito di Celesia, p. 305:
La storia della pedagogia, “La quale, in fondo si deve ridurre alla storia dei concetti teoretici
intorno al bene educare, e non può confondersi con la storia dei metodi o della coltura in generale;
e molto meno con la storia delle istituzioni scolastiche: le quali cose tutte il Celesta ha messo
dentro il suo libro”.
p. 310, il Giardino-scuola, “istrumento di coltura elementare, per la gente di campagna”.
pp. 313-314: la “coltura generale” (che si suppone in funzione di una coltura speciale) e la
“coltura speciale” “coltura speciale didattica” (pedagogica).
professionale, reale, classica, o come altro si chiamino, che al presente si vedono istituite nei
diversi “paesi civili”…… la “coltura generale” come discriminante.
Da In memoria del Manifesto.
Saggi/GERRATANA-GUERRA, pp. 18-19.
Il L. è critico della cultura del proprio tempo in forza di questo principio scientifico:
In polemica con i Positivisti
Cultura = scienza:
“Per ciò noi socialisti, che ci lasciamo ben volentieri chiamare scientifici, se altri non intende per
cotal modo di confonderci coi Positivisti, ospiti spesso ma dea noi non sempre ben accetti, che a
loro grado monopolizzano il nome di scienza, noi non ci battiamo i fianchi per sostenere una tesi
astratta e generica, come fossimo causidici o sofisti: né ci affanniamo a dimostrare la razionalità
degli intenti nostri. I nostri intenti non sono se non la espressione teorica e la pratica esplicazione
dei dati che ci offre la interpretazione del processo che si compie attraverso noi e intorno a noi; e
che è tutto nei rapporti obiettivi della vita sociale, di cui noi siamo soggetto ed oggetto, causa ed
effetto, termine e parte. I nostri intenti son razionali, non perché fondati sopra argomenti tratti
dalla ragion ragionante, ma perché desunti dalla obiettiva considerazione delle cose; il che è
quanto dire dalle dilucidazione del processo loro, che non è, né può essere, un resultato del nostro
arbitrio, anzi il nostro arbitrio vince ed aggrega”.
È il “comunismo critico” che interessa a Labriola.
Che s’oppone a quelli che, “facendo professione di dotta ignoranza, quando non siano a
dirittura fanfaroni, ciarlatani o allegri sportisti, regalano al comunismo critico precursori, patroni,
alleati e maestri d’ogni genere, in oltraggio al senso comune e alla volgare cronologia………
…………..
……………
…………
critica al positivismo, a Comte e Spencer
AUTOCRITICA
p. 187 di Saggi/ Gerratana e Guerra.
“Il Marxismo……. Non è e non rimarrà tutto rinchiuso negli scritti di Marx e di Engels…….
Come quella dottrina è il sé la critica, così non può essere continuata, applicata e corretta, se
non criticamente”.
p. 135 di Scritti politici
135 AUTOCRITICA
IMPORTANTE!!!!!!
“Mentre ci manca, starei per dire, il pane cotidiano del leggere e dello scrivere, che è tutto
quello che cimossa dare la scoletta delle due classi d’obbligo, mentre sappiamo quanto sia scarsa la
frequenza di così meschina scuola, e quanto vergognosamente grande il numero degli analfabeti, ci
siam messi comodamente a discutere delle alte ragioni scientifiche della pedagogia, per trascinare i
maestri dietro all’una o all’altra bandiera della filosofia!…… Per ciò mi fo lecito di chiedere alla
Società degli insegnanti di Roma di proporsi due questioni. La prima suona così: ricondurre la
speculazione pedagogica nei suoi veri termini di guida e di mezzo di orientazione per la cultura
preparatoria e complementare del maestro, perché non invada il campo delle scienze sociali ed
economiche”.
Autocritica
Da Epistolario, vol III.
p. 634
Autocritica più critica.
A Croce:
“tu farai bene a seguire l’indola tua propria, e a non seguire i consigli di nessuno, compresi i
miei, perché così solo potrai lavorare con gusto, con soddisfazione e con effetto, e senza il
fastidio di dover corrispondere a un dato programma preconcetto. Ma ti prego di non scambiare
questa tua condizione subiettiva, né col socialismo, né con quello che ora occorrerebbe all’Italia
per migliorare la sua cultura. Il socialismo non ha niente che fare con la erudizione”.
p. 651
A proposito di Del materialismo storico.
“Non so se dipende dal mio cattivo umore fisico (ho un ostinato catarro al petto) o dal mio
cattivo umore morale, per un sacco di pensieri che ho per la testa, questo saggio non mi piace
punto”.
p. 652
la “mia cantafavola………… per ribattere i pregiudizii correnti; mi pare anche di non essere
uscito dai limiti di una dilucidazione preliminare… ma nell’insieme lo scritto non mi piace, e lo
pubblico solo per non sentirti borbottare”.
p. 756
“Noi non siamo ancora usciti dal Bakuninismo, e il socialismo italiano è ancora fatto degli
spostati, dagli avventurieri, dagl’imbroglioni e dagli snobisti”…. “Non siamo buoni a far
niente”.
p. 757
“Colgo questa occasione per dirti che tu ti sei avventurato troppo ad affermare l’esistenza (sia
pure ipotetica) dell’economia pura. E perché non il diritto puro – l'estetica pura - la bugia pura?
– e la storia dove se ne va?”
p. 760
“Io sono….. fuori della grazia di Dio per questo benedetto Avanti - non perché sia male
impostato, cosa naturale in un giornale che comincia - non perché si stampi da Perino sotto
tariffa al quale ha venduto gli annunzii, perché ciò è italianamente plausibile - non perché sia il
recapito di molti ex studenti, goliardi, avventurieri e simile genia - non perché abbia
sconfessato l’articolo di Ferrero, e pubblicato quelle belle porcherie di Zerboglio, Lombroso,
Pozzi e simili - non perché dica delle impertinenze stupide - non perché si sua fatto inutilmente
pregare fin d’ora di annunziare il tuo opuscolo su Loria - né per altre cose simili - ma
principalmente per quell’articolo di oggi diretto all’Osservatore Romano, nel quale uno stupido
impasto di dottrinarismo da osteria di villaggio e di pretesa ironia da arlecchino danno il
risultato che il socialismo si confonda con il sciosciammocchismo”.
A proposito di Discorrendo di socialismo e di filosofia.
p. 806 dell’Epistolario, vol. III.
Sul Cristianesimo, “gli appunti che scrissi a Roma sono un po’ troppo superficiali”.
p. 811
“Mi pare che di questo mio libercolo tu (che ne sei l’auctor) non sei entusiasta come le altre
volte. Io sono disposto alle modificazioni che tu mi suggerirai - 1) se sono caduto in qualche
contraddizione formale e materiale 2) se qualche espressione aspra è da togliere.
Non voglio però che lo scritto abbia il liscio, l’omogeneo, l’organico, il filato di un libro……
A me occorre serbare la non omogeneità epistolare - perché a) così solo sono giustificato di
discorrere dell’universo scibile, il che sarebbe ciarlataneria in una trattazione ex professo. b)
così solo mi è lecito di mettere assieme socialismo, scienza, filosofia e bizzarria. c) perché così
mi libero dalla seccatura del Marxismo settario d) e così stabilisco in modo facile, quali sono le
disposizioni di mente, nelle quali si devono mettere coloro che s’occupano di materialismo
storico”.
p. 819
“Tutto questo insieme di cose, che in Italia si chiama il socialismo diventa poco per volta una
mafia, una camorra, una compagnia di avventurieri, una banda di buontemponi, una
manomissione del senso comune. Quei signorini dell’Avanti stanno come all’agguato per tirare
dalle tasche del prossimo dei denari - e per opprimere il pubblico di ingiurie, villanie e
diffamazioni. Quando tu vorrai conoscere in forma perfetta il paradigma di tali persone, io ti
manderò la relazione (rarissima!) di Marx su la cacciata di Bakunin dalla Internazionale (Aja).
Lì imparerai tutto.
p. 845
“Tu mi chiedi notizie di me. Che cosa vuoi che ti dica? Io sono entrato in un periodo di
curiosa crisi (non quella del marxismo)…………… sono in crisi con me stesso perché tutto
quello che si fa o si possa fare nella scienza e nella vita si riduce, nel nostro paese, a fare un
buco nell’acqua”.
p. 870
“Pare che il socialismo sia diventato - occultismo”.
p. 874
“Ciò che in Italia fu chiamato socialismo è tutto in rovina. La cosa ti parrà evidente - ma io
non ho pazienza di dirtene tutte le ragioni. E vale la pena di andar rinnovando tanta merda”.
p. 905
“Ti abbandono anche le pretese differenze tra Marx ed Engels - perché questa è anche una
questione dottrinale - ed erudita. Io son tanto cretino, che quelle differenze non le vedo. Ma io
per queste differenze fui sempre un cretino. Io non riuscii mai ad interessarmi per la lotta tra
Spaventa e Vera, Rosnkranz e Michelet, tra Strümpell e Drobisch e così via. Sono poco
accessibile alla discussione delle cose inutili.
Tu che sei stato l’editore dei miei saggi - e che li hai letti tante volte per la stampa - saprai
meglio di ogni altro, che io non ho inteso né DIPOPOLARIZZARE Marx, né di portarci delle
particolari correzioni. Ho scritto quello che vedo e capisco io in quella forma definitiva di cui
sono capace. E così farò sempre senza entrare in filologia.
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[50] Il «sor Toto Labriola», dalla «scenza» e dalla «parola pronta e affascinatrice», le cui lezioni
erano tra l’altro allietate da «certe ragazze» che mostrano «’n grugnetto che consola»; ovvero il
Labriola, soprannominato «piccolo Robespierre del Caffè Aragno» o «rabbiola», ecc.
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[67] Da una lettera a Croce (ediz. Gerratana - Santucci): «Ti abbandono anche le pretese
differenze tra Marx ed Engels - perché questa è anche una questione dottrinale - ed erudita. Io son
tanto cretino, che quelle differenze non le vedo. Ma io per queste differenze fui sempre un cretino.
Io non riuscii mai ad interessarmi per la lotta tra Spaventa e Vera, Rosenkranz e Michelet, tra
Strümpell e Drobisch e così via. Sono poco accessibile alla discussione delle cose inutili.
Tu che sei stato l’editore dei miei saggi - e che li hai letti tante volte per la stampa - saprai
meglio di ogni altro, che io non ho inteso né DI POPOLARIZZARE Marx, né di portarci delle
particolari correzioni. Ho scritto quello che vedo e capisco io in quella forma definitiva di cui sono
capace. E così farò sempre senza entrare in filologia». (p. 905).
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