Capitolo XVII CONSERVAZIONE E GESTIONE DEI DIRITTI DEL LAVORATORE Sezione I Il trasferimento di azienda Sommario: 548. La regola dell’insensibilita` del rapporto di lavoro alle vicende dell’imprenditore, nel codice civile e nel diritto comunitario. — 549. Nozione di trasferimento d’azienda. L’oggetto del trasferimento, fra diritto interno e diritto comunitario. — 550. Segue. La nozione di «ramo d’azienda» e la questione dell’uso del trasferimento parziale come forma di decentramento o segmentazione del processo produttivo. Ambivalenza della disciplina speciale della fattispecie. — 551. Segue. Che cosa si intende per «trasferimento». — 552. La procedura preventiva di informazione ed esame congiunto con le organizzazioni sindacali. — 553. Continuita` del rapporto di lavoro, corresponsabilita` solidale di cedente e cessionario per i crediti pregressi del lavoratore e disciplina collettiva applicabile al rapporto ceduto. — 554. La questione della derogabilita` in sede collettiva della disciplina speciale ex art. 2112 c.c. — 555. Inapplicabilita` della disciplina speciale inerente alla continuita` dei rapporti individuali nel caso di crisi d’impresa, salvo accordo sindacale contrario. — 556. La nozione di lavoratore rilevante per l’applicazione della disciplina speciale. 548. La regola dell’insensibilita` del rapporto di lavoro alle vicende dell’imprenditore, nel codice civile e nel diritto comunitario. — Nella parte della trattazione dedicata al divieto di interposizione abbiamo osservato (§ 119) come gia` nel codice civile del 1942 incominci a delinearsi una regola destinata ad assumere in se´guito un rilievo cardinale nel sistema del nostro diritto del lavoro: quella per la quale le vicende dell’imprenditore non hanno incidenza giuridica diretta sul rapporto di lavoro. In forza di questa regola, ne´ il fallimento dell’imprenditore (art. 2119 c.c., u. c.) ne´, analogamente, la sua morte (§ 494) o la messa in liquidazione della societa` incidono sulla tutela della continuita` del posto di lavoro, ben potendo l’attivita` aziendale essere continuata dal curatore fallimentare in esercizio provvisorio, o da un erede dell’imprenditore individuale deceduto, o dal liquidatore, in attesa di un nuovo imprenditore che, rilevando l’azienda, prosegua l’impresa. Costituisce, a ben vedere, espressione della stessa regola generale la norma che dal 1942 disciplina il trasferimento di azienda (art. 2112): il mutamento dell’imprenditore cui si assiste in tutti i casi in cui l’azienda viene in qualsiasi forma ceduta a un nuovo titolare e` senz’altro classificabile tra le vicende proprie dell’imprenditore stesso (è un suo mutamento di identità soggettiva), che in quanto tali non hanno incidenza giuridica diretta sul rapporto di lavoro — come del resto non l’hanno, di regola, sugli altri rapporti giuridici facenti capo all’impresa: art. 2558 c.c. (1) —, salvo che per l’aggiunta di un nuovo debitore a garanzia dei crediti maturati dal lavoratore nei confronti del vecchio datore di lavoro. Salvo il caso di dimissioni del lavoratore, dunque, il rapporto prosegue senza soluzione di continuita` alle dipendenze del cessionario, il quale risponde in solido con il cedente per i suoi debiti pregressi. Quando il codice civile venne emanato, ne´ il codice stesso ne´ alcuna altra norma legislativa ponevano alcun limite causale alla facolta` di recesso del datore di lavoro (§ 513). Nulla vietava pertanto — e l’art. 2112 nella sua formulazione originaria espressamente consentiva — che prima della cessione dell’azienda il suo titolare licenziasse tutti o parte dei dipendenti, ovviamente accollandosene i costi in termini di preavviso e competenze di fine rapporto. Con l’avvento del regime di limitazione della facolta` di recesso del datore di cui alla legge n. 604/1966, dottrina e giurisprudenza si sono su`bito unanimemente orientate nel senso di considerare senz’altro illegittimo il licenziamento motivato dal trasferimento dell’azienda, senza attendere che l’art. 2112 c.c. venisse riscritto e la previsione della possibilita` di licenziamento venisse formalmente soppressa (cio` che, come vedremo tra breve, sarebbe poi accaduto con una legge del 1990). Nel corso degli anni ’70, sul trasferimento d’azienda e` intervenuto anche l’ordinamento comunitario con una direttiva emanata in applicazione dell’attuale art. 94 del Trattato (allora art. 100), sul presupposto che le differenze di disciplina fra gli ordinamenti degli Stati membri avrebbero potuto «ripercuotersi direttamente sul funzionamento del mercato comune» e in particolare sul mercato dei capitali, la cui liberta` di movimento deve bensi` essere garantita, ma senza che ne derivi danno per i lavoratori delle imprese coinvolte (2). La direttiva — 14 febbraio 1977 n. 187 — sanciva la regola della prosecuzione del rapporto di lavoro in capo al cessionario dell’azienda, senza soluzione di continuita`, e imponeva che la cessione venisse preceduta da una comunicazione alle organizzazioni sindacali dei lavoratori di tutte le informazioni rilevanti in proposito e da un esame congiunto delle conseguenze del mutamento della titolarita` dell’azienda sui rapporti di lavoro. Alla direttiva e` stata data applicazione nel nostro ordinamento — con il grave ritardo che ci è purtroppo consueto — mediante l’art. 47 della legge 29 dicembre 1990 n. 428, che a tal fine ha parzialmente modificato l’art. 2112 c.c. e ha posto a carico di cedente e cessionario l’onere di informazione preventiva nei confronti delle organizzazioni sindacali e di esame congiunto con le stesse delle conseguenze del trasferimento per i lavoratori interessati (3). La direttiva del 1977 e` stata poi incisivamente modificata dalla direttiva 29 giugno 1998 n. 50 (4) e poco dopo sostituita con il «testo unico» delle norme comunitarie in materia di trasferimento di azienda emanato mediante la direttiva 12 marzo 2001 n. 23, con il quale e` stata meglio precisata, in aderenza alla giurisprudenza della Corte di Giustizia, la definizione della fattispecie a cui la disciplina comunitaria si applica (trasferimento di qualsiasi «entita` economica che conservi la propria identita`, intesa come insieme di mezzi organizzati al fine di svolgere un’attivita` economica, sia essa essenziale o accessoria»); sono stati inoltre meglio precisati alcuni aspetti della disciplina: in particolare gli effetti del trasferimento sulla normativa collettiva applicabile ai rapporti individuali di lavoro interessati. L’adeguamento dell’ordinamento italiano a questa direttiva e` avvenuto con il d.lgs. 2 febbraio 2001 n. 18 (5), che costituisce oggi la fonte di disciplina della materia nel nostro ordinamento interno e il cui contenuto e` esposto nelle pagine che seguono. 549. Nozione di trasferimento d’azienda. L’oggetto del trasferimento, fra diritto interno e diritto comunitario. — Nell’elaborazione dottrinale e giurisprudenziale della nozione di «azienda», ai fini dell’art. 2112 c.c., era nettamente prevalsa in passato una sua concezione oggettiva, sostanzialmente coerente con quella propria del diritto commerciale: azienda come insieme di beni, materiali e immateriali, ordinato all’esercizio di un’attivita` produttiva (6). Nell’ultimo quindicennio, a questo orientamento riferito al nostro ordinamento interno e` venuta sovrapponendosi la giurisprudenza della Corte di Giustizia (7), che, ai fini della direttiva comunitaria, ha adottato una nozione della fattispecie piu` ampia e, a dire il vero, definita in modo non sufficientemente preciso: la disciplina speciale lavoristica, secondo questa giurisprudenza comunitaria, si applica non soltanto nel caso in cui a essere trasferita sia un’organizzazione di beni ordinata all’esercizio di una attivita` di impresa, ma anche quando a essere trasferita sia l’attivita` stessa, purche´ il nuovo gestore utilizzi per il suo esercizio una qualche «entita` economica» che dopo il trasferimento conservi la propria identita`. In altre parole, il passaggio del personale alle dipendenze del cessionario e` considerato dalla Corte di Giustizia — non senza qualche grattacapo per chi deve uniformarsi alle sue statuizioni — in prima istanza come elemento costitutivo della fattispecie («se assorbi la parte piu` rilevante del personale del vecchio gestore ...»), quindi come effetto della medesima («... devi assorbirne anche la parte restante») (8). Cosi`, ad esempio, in un caso di appalto di servizi ad alta intensita` di manodopera perso da un’impresa e assunto da un’altra appaltatrice, la Corte ha ritenuto che si configuri la fattispecie disciplinata dalla direttiva se la nuova appaltatrice utilizzi per l’esecuzione del servizio «una parte essenziale, in termini di numero e di competenza, del personale specificamente destinato dal predecessore a tali compiti» (9). Lo stesso discorso sembra doversi fare in riferimento al trasferimento di portafogli di un’impresa assicuratrice (10). Essenziale, in questo ordine di idee, non e` il trasferimento di un complesso organizzato di beni strumentali, ma la prosecuzione della stessa attivita` da parte di un nuovo soggetto, essendo sufficiente per stabilire che si tratta della stessa attivita` il fatto che vi sia un qualche rilevante elemento materiale o immateriale di continuita` fra le due gestioni. Questo orientamento della giurisprudenza della Corte di Lussemburgo trova un riscontro testuale nelle direttive del 1977 e del 1998, confermato nel testo unico del 2001 (§ 548), dove la fattispecie di riferimento e` indicata come trasferimento «d’impresa o di parte di impresa», oltre che «di stabilimenti o di parte di stabilimenti» (art. 1, lett. a): riscontro testuale tanto piu` rilevante se si considera l’ampiezza della nozione di «impresa» propria del diritto comunitario della concorrenza (nella quale si ricomprendono anche le attivita` libero-professionali e tutti i servizi suscettibili di essere resi in un mercato concorrenziale, ancorche´ gestiti da enti pubblici), precisandosi che puo` trattarsi anche di attivita` non esercitata a fini di lucro; ma la direttiva richiede pur sempre che il trasferimento si fondi su di una «cessione contrattuale» stipulata fra vecchio e nuovo titolare, oppure su di un atto di fusione societaria (11). Quanto al nostro ordinamento interno, con il quinto comma introdotto nell’art. 2112 c.c. dal d.lgs. n. 18/2001 il legislatore ha inteso uniformarsi il piu` possibile al diritto comunitario e alla relativa giurisprudenza, ampliando e complicando la fattispecie in modo da ricomprendervi la successione (non soltanto nella titolarita` di un’organizzazione aziendale intesa in senso materiale, bensi` anche) nella gestione di un’attivita`, ma al tempo stesso cercando di fornirne una definizione sufficientemente precisa: per trasferimento d’azienda deve dunque intendersi, secondo la nuova norma, «qualsiasi operazione che comporti il mutamento nella titolarita` di un’attivita` economica organizzata, con o senza scopo di lucro, al fine della produzione o dello scambio di beni o di servizi, preesistente al trasferimento e che conserva nel trasferimento la propria identita`» (12). La nostra giurisprudenza interna, dal canto suo, e` in netta prevalenza orientata ad assumere la nuova nozione comunitaria di «trasferimento di azienda o di impresa» come criterio di interpretazione della nozione fatta propria dal legislatore nazionale (13). Diritto comunitario e diritto interno concorrono dunque ad ampliare notevolmente la nozione di «azienda» come oggetto del trasferimento rilevante nel diritto del lavoro, rispetto alla nozione di azienda rilevante nel diritto commerciale: la disciplina speciale si applica, certo, in tutti i casi in cui si assista al trasferimento di un’azienda intesa nel senso proprio del diritto commerciale, e anche al trasferimento di un’organizzazione non finalizzata al lucro (14), ma si applica altresi` in tutti i casi in cui si assista invece soltanto alla successione di un nuovo soggetto al vecchio nella gestione di un’attivita` riconducibile alla nozione comunitaria di «impresa», con utilizzazione della parte quantitativamente e qualitativamente piu` rilevante della manodopera gia` utilizzata in precedenza (15). 550. Segue. La nozione di «ramo d’azienda» e la questione dell’uso del trasferimento parziale come forma di decentramento o segmentazione del processo produttivo. Ambivalenza della disciplina speciale della fattispecie. — Anche l’ampliamento della fattispecie volto a ricomprendervi il trasferimento del (solo) «ramo» di un’azienda era stato gia` operato da dottrina e giurisprudenza precedenti alla riforma del diritto comunitario del 1998-2001 e alla conseguente riforma del nostro ordinamento interno: era gia` da gran tempo pacifico, dunque, che la disciplina speciale relativa ai rapporti di lavoro dovesse applicarsi anche nel caso in cui a essere trasferito fosse soltanto uno stabilimento o reparto autonomo, un’unita` produttiva, insomma un segmento dell’organizzazione aziendale idoneo a costituire azienda ai fini che qui interessano, anche se fino alla prima meta` degli anni ’90 aveva prevalso una giurisprudenza in concreto piu` restrittiva, rispetto a quella prevalente oggi, circa la configurabilita`, nel ramo ceduto, di un’«azienda» a se´ stante (16). L’applicabilita` della disciplina speciale anche al caso di trasferimento limitato a un ramo dell’azienda ha sempre avuto, sul piano della tutela degli interessi dei lavoratori coinvolti, un effetto ambivalente. Se e` vero, infatti, che la disciplina speciale garantisce ai lavoratori stessi — come vedremo meglio a suo luogo (§ 553) — la continuita` del rapporto di lavoro e la responsabilita` solidale del vecchio e del nuovo datore di lavoro per i crediti maturati fino al momento della cessione, nonche´ la garanzia di un incisivo controllo sindacale preventivo sulle prospettive occupazionali e di trattamento che con la cessione stessa si aprono (§ 552), e` pero` anche vero che l’applicazione della disciplina speciale esonera il vecchio datore di lavoro dalla necessita` del consenso del lavoratore per il trasferimento della titolarita` del rapporto individuale in capo al cessionario. Esaminiamo la cosa piu` da vicino. A norma dell’art. 1406 c.c., la cessione del contratto, in linea generale, non e` efficace nei confronti del contraente ceduto se questi non vi ha prestato il proprio consenso. Il codice civile, con l’art. 2112, ha sottratto fin dall’inizio all’applicazione di questa regola i contratti di lavoro coinvolti nel trasferimento d’azienda, sul presupposto che nessun lavoratore potesse avere interesse a negare il proprio consenso alla cessione, poiche´ cosi` si sarebbe esposto al sicuro licenziamento da parte dell’imprenditore ormai spogliato dell’azienda ceduta. La norma era dunque — come del resto e` tuttora — ispirata all’idea che il lavoratore fosse privato della facolta` di rifiutare la cessione del proprio contratto, avendo pero` in cambio la garanzia della continuita` del rapporto nonostante il mutamento del titolare dell’azienda. Senonche´ l’interesse a rifiutare la cessione, logicamente inesistente nel caso di trasferimento dell’intera azienda, torna invece ad assumere un rilievo ben preciso nel caso della cessione di un ramo di essa, poiché il lavoratore ben può preferire di rimanere nell’impresa per la quale ha lavorato fino a quel momento, facendo affidamento sulla difficolta` per il datore di licenziarlo all’indomani dell’operazione (§ 516, lett. e e g; § 541) e ritenendo, per converso, che l’impresa cessionaria possa garantirgli minore sicurezza o un trattamento comunque deteriore. Vista in questa ottica, la qualificazione dell’operazione come trasferimento d’azienda, con conseguente applicazione dell’art. 2112 c.c., priva il lavoratore di un potere di veto che altrimenti gli sarebbe attribuito dall’art. 1406 e che egli potrebbe, eccome, aver interesse a esercitare (17). È ben vero che la compressione dell’autonomia individuale del lavoratore ad opera dell’art. 2112 e` controbilanciata dal controllo che le organizzazioni sindacali possono esercitare preventivamente sul trasferimento d’azienda, mediante la procedura di esame congiunto prevista dall’art. 47 della legge n. 428/1990 (§ 552); ma sovente tale potere di controllo non e` sufficiente per garantire il singolo lavoratore contro tutti i pregiudizi che dall’operazione possono derivargli. In questi casi egli ha interesse a sostenere che la cessione non ha per oggetto un ramo d’azienda, ma soltanto un insieme di beni privo di una sua «identita` produttiva» autonoma; e il datore di lavoro ha, viceversa, l’interesse simmetricamente contrario, per poter conseguire il risultato della cessione dei contratti di lavoro senza necessita` del consenso dei singoli lavoratori interessati. È significativo, a questo riguardo, che sia stata considerata legittima la pattuizione in sede collettiva di una restrizione della nozione di trasferimento di azienda, finalizzata a un miglioramento della posizione individuale del lavoratore, rispetto alla definizione legislativa (18). Quando non operino garanzie contrattuali particolari, accade dunque che un imprenditore possa, nella forma del trasferimento di ramo d’azienda, attuare un’operazione di «esternalizzazione» di parti o fasi anche assai rilevanti della propria produzione (§ 114) (19), liberandosi unilateralmente della parte corrispondente degli organici aziendali (sul presupposto della comprovata loro afferenza al ramo stesso), senza sottostare ad alcun controllo giudiziale sui motivi dell’operazione e senza necessita` di consenso dei lavoratori trasferiti (20): il solo «filtro» di questa scelta e` costituito dalla procedura di esame congiunto preventivo in sede sindacale. La questione si fa particolarmente delicata quando l’operazione di decentramento produttivo avviene senza mutamento della dislocazione dell’attivita` ceduta, la quale continua a essere svolta nello stesso perimetro aziendale nel quale essa veniva svolta in precedenza e nel quale continuano a svolgersi le altre attivita` rimaste assoggettate al primo imprenditore, mutando soltanto la titolarita` giuridica della gestione, cioe` l’imprenditore a cui essa fa capo (c.d. processi di «terziarizzazione interna», che hanno costituito una forma assai diffusa della c.d. «privatizzazione» della gestione dei servizi pubblici nell’ultimo decennio) (21). La questione stessa poi diventa ancor piu` delicata quando il «ramo» d’azienda trasferito non ha una sua fisionomia ben definita, onde non e` chiaro quali siano i lavoratori che ad esso afferiscono e i cui rapporti di lavoro devono quindi considerarsi ceduti al nuovo imprenditore. Non sono mancate, in proposito, voci dottrinali e pronunce giudiziali nel senso della liberta` del cedente e del cessionario di accordarsi per l’esclusione del passaggio alle dipendenze del secondo di una parte degli addetti al ramo ceduto (22). La descritta ambivalenza della disciplina della materia spiega, almeno in parte, il travaglio legislativo a cui si e` assistito negli ultimi anni, e che e` tuttora in corso, sulla definizione del campo di applicazione della disciplina speciale. Proprio per sottoporre a controllo giudiziale l’utilizzazione del trasferimento di ramo d’azienda in funzione di sfoltimento dell’organico, il quinto comma dell’art. 2112 c.c., nella sua nuova formulazione, specifica che l’effetto traslativo dei rapporti di lavoro in capo al nuovo imprenditore si produce soltanto quando il complesso di beni ceduto abbia carattere di autonomia funzionale e lo conservi anche dopo la cessione: cio` che, peraltro, era gia` stato affermato senza sostanziali incertezze dalla giurisprudenza precedente (23). Ora, pero`, nell’accordo tripartito del luglio 2002 (denominato, con eccesso di enfasi, «Patto per l’Italia») il Governo e le associazioni stipulanti hanno previsto che la norma venga nuovamente modificata, con la soppressione del requisito dell’«autonomia» funzionale del ramo d’azienda, ai fini dell’applicazione della normativa speciale; e il disegno di legge n. 3193/2002, in discussione in Parlamento, ha recepito questa opzione. Quando esso sarà stato approvato, e la delega legislativa in esso contenuta sarà stata esercitata, ne conseguira` un ampliamento del campo di applicazione dell’art. 2112, con aumento, per un verso, dell’area del controllo sindacale sui trasferimenti di ramo d’azienda, ma con corrispondente riduzione della possibilita` individuale di veto alla cessione del rapporto da parte del singolo lavoratore interessato. 551. Segue. Che cosa si intende per «trasferimento». — Era da tempo acquisito in dottrina e giurisprudenza che per «trasferimento», ai fini dell’art. 2112 c.c., dovesse intendersi qualsiasi negozio che comportasse un mutamento nella titolarita` della gestione dell’azienda: non soltanto, dunque, il contratto di compravendita, ma anche la cessione in locazione o successione di conduttori (24), la cessione in usufrutto o in comodato (25), il conferimento in societa` (26), o qualsiasi altra forma di cessione, che avesse l’effetto di assoggettare l’azienda al potere di gestione di un nuovo soggetto, capace di esercitarlo per proprio conto e a proprio rischio. Ora questo ampliamento della nozione di trasferimento e` sancito esplicitamente dal quinto comma dell’art. 2112, come modificato dal d.lgs. n. 18/2001, nel quale i termini «venditore» e «acquirente» sono sinificativamente sostituiti con «cedente» e «cessionario». La fusione societaria, sulla cui sussumibilita` nella nozione di trasferimento d’azienda ai fini dell’art. 2112 c.c. la dottrina prevalente aveva espresso opinione contraria (27), e` ora esplicitamente indicata tra i casi di trasferimento assoggettati alla disciplina lavoristica speciale dalle direttive comunitarie del 1998 e del 2001 sopra citate. È invece sicuramente esclusa la configurabilita` del trasferimento d’azienda nel trasferimento del «pacchetto» azionario di maggioranza di una societa` (28). L’art. 2112 c.c., nella sua nuova formulazione, non si limita a confermare esplicitamente l’irrilevanza del tipo di contratto utilizzato dalle parti per attuare il trasferimento della gestione, bensi` aggiunge che rientra nella fattispecie disciplinata anche il trasferimento determinato da un «provvedimento»: il legislatore italiano ha voluto evidentemente uniformarsi alla giurisprudenza della Corte di Giustizia (cui per questo aspetto non si e` invece uniformato il legislatore comunitario) tendente a ricomprendere nella fattispecie soggetta alla disciplina lavoristica speciale anche la successione tra imprenditori nella titolarita` di una concessione o autorizzazione amministrativa per lo svolgimento di determinate attivita` (29), o in un appalto di servizi. Deve tuttavia considerarsi in ogni caso come elemento imprescindibile della fattispecie, in aderenza alla stessa giurisprudenza della Corte di Giustizia, quando non vi sia trasferimento di un insieme organizzato di mezzi strumentali, almeno la successione tra i due gestori nella titolarita` di «una parte quantitativamente e qualitativamente rilevante della manodopera utilizzata» per lo svolgimento del servizio (§ 549). Questa nozione ampliata del trasferimento d’azienda soggetto alla disciplina speciale pone, nella zona di confine, qualche problema di applicazione pratica non facilmente risolvibile; si pensi, ad esempio, al caso dell’imprenditore che, avendo perduto un appalto o concessione amministrativa per lo svolgimento di un servizio, comunichi il licenziamento ad alcuni dei propri dipendenti in precedenza utilizzati per tale attivita`: secondo l’orientamento giurisprudenziale citato, parrebbe che tali licenziamenti siano destinati a essere annullati, per ... difetto sopravvenuto della procedura preventiva di esame congiunto del trasferimento di azienda, nel caso in cui l’imprenditore subentrato nello stesso appalto o concessione assuma alle proprie dipendenze una «parte quantitativamente e qualitativamente rilevante» degli stessi lavoratori. Abbiamo gia` incontrato un caso di «invalidita` sopravvenuta» del licenziamento per omissione della procedura preventiva, trattando del licenziamento collettivo come fattispecie ad attuazione progressiva (§ 539); ma in quel caso l’invalidita` sopravviene per fatto imputabile allo stesso imprenditore che e` stato autore del licenziamento in questione, mentre nel caso qui in esame l’invalidita` sopravviene per fatto di un terzo, sul quale l’autore del licenziamento non ha alcun potere e del quale pertanto parrebbe non poterglisi imputare alcuna responsabilita`. Dottrina e giurisprudenza sembrano concordare sulla non configurabilita` della fattispecie che qui interessa nella requisizione di azienda con affidamento provvisorio della gestione a soggetto diverso dal suo titolare, poiche´ la stessa ragion d’essere di questo provvedimento autoritativo — cautelare, urgente e contingente — esclude l’applicabilita` della procedura sindacale preventiva e la ragionevolezza di qualsiasi imposizione al gestore provvisorio di responsabilita` verso i lavoratori per i loro crediti pregressi (30). Un discorso analogo parrebbe doversi svolgere in riferimento al caso del sequestro con nomina di custode giudiziario dell’azienda; ma su questo punto si registra qualche incertezza giurisprudenziale (31). La configurabilita` del trasferimento d’azienda ex art. 2112 c.c. e` stata esclusa in un caso nel quale l’attivita` di un’impresa privata operante per un consorzio portuale era stata temporaneamente assorbita dal consorzio stesso in conseguenza di un provvedimento amministrativo che aveva disposto in tal senso (32). Una disciplina speciale e` stata dettata in un primo tempo dall’art. 122 del d.P.R. 28 gennaio 1988 n. 43 per la successione di concessionari nel rapporto di lavoro del personale delle esattorie soppresse in forza della legge 4 ottobre 1986 n. 657 (33); in un secondo tempo dall’art. 63, c. 4o, del d.lgs. 13 aprile 1999 n. 112, emanato in forza della delega contenuta nella legge 28 settembre 1998 n. 337, secondo il quale «il personale che, alla scadenza o cessazione del rapporto di concessione, risulta iscritto da almeno due anni al relativo fondo di previdenza, ha diritto ad essere mantenuto in servizio dal subentrante concessionario senza soluzione di continuita`». Disposizione, questa, la cui compatibilita` con la disciplina comunitaria della materia appare dubbia nella parte in cui essa condiziona la continuita` del rapporto a un requisito di anzianita` di servizio. Una disciplina speciale diversa e` contenuta nell’art. 10, 2o c., del d.l. 23 dicembre 1976 n. 857, convertito nella l. 26 febbraio 1977 n. 39, per il caso in cui il commissario liquidatore di compagnia assicuratrice provvede a riassumere il personale gia` dipendente dalla stessa: la norma, come si e` gia` visto a suo luogo (§ 493), e` interpretata nel senso che essa dispone implicitamente l’estinzione ope legis del precedente rapporto in capo a tutti i dipendenti (34). Quanto, infine, al subentro nella titolarita` dei rapporti di lavoro da parte dell’erede, nel caso di morte dell’imprenditore individuale (§ 494), a me sembra senz’altro preferibile la tesi secondo cui la continuita` dei rapporti stessi e la responsabilita` del nuovo soggetto per i debiti pregressi si fonda sulla regola generale di diritto delle successioni ereditarie e non sull’art. 2112 c.c. (35). 552. La procedura preventiva di informazione ed esame congiunto con le organizzazioni sindacali. — A norma dell’art. 47 della legge n. 428/1990, come modificato e in larga parte riscritto dall’art. 2 del d.lgs. n. 18/2001 (§ 548), «quando si intenda effettuare, ai sensi dell’art. 2112 del codice civile, un trasferimento d’azienda in cui sono complessivamente occupati piu` di quindici lavoratori, anche nel caso in cui il trasferimento riguardi una parte d’azienda, ai sensi del medesimo articolo 2112, il cedente e il cessionario devono darne comunicazione per iscritto almeno venticinque giorni prima che sia perfezionato l’atto da cui deriva il trasferimento o che sia raggiunta un’intesa vincolante tra le parti, se precedente, alle rispettive rappresentanze sindacali unitarie, ovvero alle rappresentanze sindacali costituite, a norma dell’art. 19 della legge 20 maggio 1970 n. 300, nelle unita` produttive interessate, nonche´ ai sindacati di categoria che hanno stipulato il contratto collettivo applicato nelle imprese interessate al trasferimento». Quando tali rappresentanze sindacali non siano costituite, l’obbligo di informazione deve essere adempiuto mediante comunicazione alle organizzazioni sindacali «comparativamente maggiormente rappresentative». Oggetto dell’informazione dovuta, a norma dello stesso articolo, e` innanzitutto la data del trasferimento, prevista o proposta; inoltre, analogamente a quanto previsto per il licenziamento collettivo (§ 540), i motivi che inducono cedente e cessionario all’operazione; infine «le sue conseguenze giuridiche, economiche e sociali per i lavoratori» e «le eventuali misure previste nei confronti di questi ultimi». A norma del secondo comma, su richiesta scritta delle organizzazioni sindacali interessate o delle loro rappresentanze, presentata entro sette giorni dalla comunicazione di cui si e` detto, il cedente e il cessionario sono tenuti ad avviare entro ulteriori sette giorni un esame congiunto con le stesse organizzazioni o rappresentanze; esame che, se entro dieci giorni non si e` raggiunto un accordo, scaduto quel termine deve considerarsi comunque concluso. In perfetta aderenza al dettato comunitario (art. 7, 4o c. della direttiva), il quarto comma dell’art. 47 sancisce l’irrilevanza, ai fini degli obblighi di informazione ed esame congiunto, del fatto che le decisioni circa il trasferimento non siano state adottate dall’impresa datrice di lavoro ma da un’impresa che la controlla: «la mancata trasmissione da parte di quest’ultima delle informazioni necessarie non giustifica l’inadempimento» dei predetti doveri. Il terzo comma precisa, conformemente all’orientamento costante della giurisprudenza (36), che l’inadempimento dei doveri di informazione ed esame congiunto costituisce condotta antisindacale (§ 61). La legge invece non dice esplicitamente quali siano gli effetti di quell’inadempimento sulla validita` dell’atto traslativo e sui rapporti individuali: prevale in proposito la tesi secondo cui all’inadempimento consegue soltanto l’inefficacia dell’atto di trasferimento sul piano dei rapporti individuali, restando dunque l’atto stesso valido ed efficace nei rapporti tra cedente e cessionario, ma non producendo esso l’effetto del passaggio della titolarita` dei rapporti di lavoro in capo a quest’ultimo (37); non mancano però pronunce nel senso della nullita` dell’atto, con conseguente sua inefficacia anche nel rapporto tra cedente e cessionario (38). 553. Continuita` del rapporto di lavoro, corresponsabilita` solidale di cedente e cessionario per i crediti pregressi del lavoratore e disciplina collettiva applicabile al rapporto ceduto. — Il mutamento della persona titolare dell’impresa, come si e` detto (§ 548) non ha alcuna incidenza diretta sulla tutela della stabilita` del rapporto di lavoro, quale che ne sia l’intensita`, ma comporta il subentro del nuovo gestore nella titolarita` del rapporto stesso e di tutte le relative posizioni attive e passive, senza necessita` del consenso del lavoratore ceduto (39): il rapporto pertanto prosegue, di regola, con il cessionario, senza soluzione di continuita`, e «il lavoratore conserva tutti i diritti che ne derivano» (art. 2112 c.c., 1o c., e art. 3, c. 1o, della direttiva). Questo non significa che il cedente o il cessionario non possano, rispettivamente prima o dopo che la cessione abbia avuto effetto, procedere a licenziamenti individuali o collettivi; ma questi dovranno essere motivati con circostanze o esigenze aziendali diverse dal trasferimento dell’azienda o del suo ramo, poiche´ questo «non costituisce di per se´ motivo di licenziamento» (art. 2112 c.c., c. 4o, in aderenza all’art. 4, c. 1o, della direttiva) (40): cosi`, ad esempio, il cedente ben puo` attuare la soppressione di alcuni posti di lavoro prima della cessione, nel rispetto della disciplina sostanziale e procedurale applicabile. Ne e` conferma il sesto comma dell’art. 47 della legge n. 428/1990, che attribuisce in tal caso ai licenziati dal cedente («i lavoratori che non passano alle dipendenze dell’acquirente») un diritto di precedenza per la riassunzione alle dipendenze del cessionario, precisando che in tal caso «non trova applicazione l’articolo 2112»: si costituisce, dunque un rapporto di lavoro nuovo a tutti gli effetti, in analogia con quanto disposto dalla legge in materia di riassunzione del lavoratore che abbia subi`to un licenziamento collettivo (§ 534) (41). La norma qui in esame differisce pero` da quella testé citata in materia di licenziamento collettivo in quanto dispone che il diritto di precedenza possa essere esercitato «entro un anno dalla data del trasferimento»: il termine annuale entro il quale il diritto di precedenza puo` essere fatto valere decorre dunque dal trasferimento e non dalla cessazione del rapporto di lavoro precedente. Resta da chiedersi quanto tempo prima del trasferimento il licenziamento debba avvenire perche´ la norma speciale di cui al sesto comma dell’art. 47 non si applichi (ovvero: fino a quando il rapporto di lavoro con il vecchio datore debba protrarsi, prima del trasferimento d’azienda, perche´ il licenziato possa considerarsi un «lavoratore che non passa alle dipendenze dell’acquirente»); la mia opinione in proposito e` che la norma in esame abbia l’effetto di estendere fino a un anno dal trasferimento il diritto di precedenza che, fino a un anno dal licenziamento, il lavoratore potrebbe comunque far valere nei confronti del cessionario anche in assenza della norma speciale medesima. Nel testo attuale dell’art. 2112 non compare la disposizione contenuta nel suo testo originario, secondo la quale il licenziamento doveva essere intimato al lavoratore «in tempo utile», cioe` in modo tale da produrre l’effetto dell’estinzione del rapporto prima del trasferimento della titolarita` dell’azienda (42). Qualora pertanto il trasferimento avvenga prima della scadenza del termine di preavviso, il rapporto prosegue per il lasso di tempo residuo alle dipendenze del cessionario; ma non e` necessario che quest’ultimo intimi un nuovo licenziamento perche´ l’effetto estintivo si produca, salve le cause eventuali di invalidità del recesso (vizio formale, difetto di giustificazione, motivo illecito, ecc.) (§ 523). Anche il lavoratore, ovviamente, puo` recedere in qualsiasi momento, prima o dopo il trasferimento. La legge agevola tale opzione, disponendo che se le dimissioni vengono rassegnate entro tre mesi dal trasferimento e motivate con «una sostanziale modifica» effettivamente verificatasi nelle condizioni di lavoro in conseguenza di esso, si applica la disciplina delle dimissioni per giusta causa ex art. 2119 c.c. (§ 495) (ancora art. 2112, c. 4o, e art. 4, c. 2o, della direttiva). Cedente e cessionario sono coobbligati in solido per tutti i crediti che il lavoratore aveva al tempo del trasferimento (c. 2o: disposizione non vincolata dalla direttiva), indipendentemente dal fatto che a quel tempo essi risultassero, o no, dalle scritture aziendali (43). La coobbligazione si estende quindi anche al risarcimento del danno conseguente a licenziamento illegittimo precedente al trasferimento, nonostante che la sentenza di annullamento intervenga in epoca successiva, nonche´ al risarcimento del danno conseguente a violazione pregressa dell’obbligo di sicurezza ex art. 2087 c.c. (§ 227), o a violazione del diritto del lavoratore all’esercizio della professionalita` dedotta in contratto ex art. 2103 c.c. (§ 297), ancorche´ il danno stesso venga accertato soltanto dopo il trasferimento (44). Si e` discusso se la coobbligazione solidale si estenda anche ai crediti rimasti insoddisfatti del lavoratore il cui rapporto con il vecchio datore di lavoro sia gia` validamente cessato alla data del trasferimento dell’azienda, registrandosi in proposito dissensi dottrinali e giurisprudenziali sia in riferimento alla normativa previgente, sia in riferimento alla attuale (45). Si e` discusso inoltre se, come a me parrebbe piu` logico, la coobbligazione solidale si estenda alla porzione del t.f.r. maturata prima del trasferimento, ancorche´ a quella data non ancora esigibile, o se invece il relativo debito gravi soltanto sul cessionario (46). Una recente pronuncia di Cassazione esclude l’estensione della coobbligazione solidale al debito contributivo contratto dal datore di lavoro cedente nei confronti dell’istituto previdenziale, sul presupposto dell’estraneita` del lavoratore a tale rapporto obbligatorio (47). Ancora a norma del secondo comma il lavoratore puo` validamente liberare il cedente (ossia il vecchio datore di lavoro) dalla sua residua obbligazione, nelle forme di cui si dira` trattando delle conciliazioni inoppugnabili (§ 562); cosi` come egli puo`, secondo la regola generale (§ 498), validamente rinunciare alla prosecuzione del rapporto con il cessionario (48). Il lavoratore conserva, dunque, i diritti derivanti dalla propria anzianita` di servizio precedente al trasferimento (49) e, piu` in generale, tutti i diritti derivanti dal proprio contratto individuale di lavoro, ivi compresi quelli nascenti da uso aziendale (§ 76); ma questo non impedisce che nella nuova gestione il rapporto venga a essere regolato da una disciplina collettiva diversa rispetto a quella applicabile in precedenza, anche se in parte o in tutto meno favorevole per il lavoratore interessato: sappiamo, infatti, che le clausole collettive applicabili a un rapporto in un determinato momento non si incorporano nel contratto individuale (§ 71) e possono pertanto mutare nel tempo, senza che per questo possa considerarsi leso alcun «diritto acquisito» del lavoratore. Il terzo comma dell’art. 2112 si limita a prevedere, a questo proposito, che la disciplina collettiva — di livello nazionale, territoriale, o aziendale — applicabile al rapporto immediatamente prima del trasferimento d’azienda continui ad applicarsi fino alla sua scadenza naturale, se assoggettata a un termine finale, altrimenti a tempo indeterminato, salvo, in entrambi i casi, che essa venga sostituita mediante un apposito accordo aziendale — c.d. «accordo di ingresso» o «di armonizzazione» — o comunque un nuovo contratto collettivo applicabile ai rapporti di lavoro facenti capo al nuovo gestore (sul punto v. anche l’art. 3, c. 3o, della direttiva) (50). Cosi`, ad esempio, quando un’impresa metalmeccanica ceda un proprio reparto commerciale a un’impresa del settore terziario, il contratto collettivo nazionale del settore metalmeccanico continuera` ad applicarsi ai rapporti di lavoro ceduti fino alla sua scadenza quadriennale, per essere sostituito da quel momento, come fonte di disciplina degli stessi rapporti, dal contratto collettivo nazionale per il settore terziario. Se, al momento del trasferimento, presso l’impresa cedente e` applicabile un contratto aziendale, questo pure continuera` ad applicarsi fino alla sua scadenza; e se privo di scadenza continuera` ad applicarsi a tempo indeterminato, salvo che il gestore cessionario stipuli un nuovo contratto aziendale, il quale in entrambi i casi sara` idoneo a sostituire immediatamente il precedente, nei limiti del proprio campo soggettivo di applicazione. Se l’accordo deve considerarsi di natura dismissiva, la soluzione della questione del limite di applicazione soggettiva dipende dall’opzione dell’interprete fra l’impostazione «trentanovista» fondata sul principio maggioritario (la coalizione sindacale stipulante che ha la maggioranza degli iscritti nell’unità produttiva considerata puo` contrattare con efficacia erga omnes nel suo ambito) e l’impostazione tradizionale, tuttora prevalente in giurisprudenza, fondata essenzialmente sull’adesione del singolo lavoratore al sindacato stipulante o sulla recezione tacita o esplicita della disciplina collettiva nel contratto individuale (§§ 68-69) (51). L’applicabilita` al lavoratore ceduto, superata la fase transitoria, della disciplina collettiva propria dell’impresa cessionaria non significa che il lavoratore stesso abbia diritto a una totale parita` di trattamento rispetto ai vecchi dipendenti di questa: nulla vieta che la stessa disciplina collettiva o il regolamento aziendale condizionino il godimento di un determinato beneficio al fatto che il lavoratore fosse gia` alle dipendenze di quell’impresa a una certa data, precedente al trasferimento (52). 554. La questione della derogabilita` in sede collettiva della disciplina speciale ex art. 2112 c.c. — In passato era stata prevista la possibilita` che, nelle situazioni di crisi aziendale accertate in sede amministrativa, l’accordo sindacale circa il trasferimento dell’azienda potesse produrre l’effetto di escludere l’applicazione del primo comma dell’art. 2112 c.c., cioe` della prosecuzione automatica del rapporto con il cessionario (l. n. 215/1978, art. 1, c. 3o) (53). Quella norma sembra doversi considerare implicitamente abrogata, o meglio assorbita, dal quinto comma dell’art. 47 della legge n. 428/1990, che, come si vedra` meglio nel paragrafo seguente, esclude senz’altro l’applicabilita` dell’intero art. 2112 c.c. nelle situazioni di crisi aziendale accertata in sede amministrativa o con attivazione di procedura concorsuale. Resta aperta la questione della validita` della rinuncia in sede collettiva, in funzione della salvaguardia dei posti di lavoro, di una parte dei diritti attribuiti dall’art. 2112 c.c. ai lavoratori ceduti nei confronti del datore di lavoro cessionario, nelle situazioni di crisi aziendale non accertata in sede amministrativa e/o non accompagnata da procedura concorsuale. Oggi sembra prevalere nella nostra giurisprudenza interna la tesi favorevole alla validita` di tale rinuncia in sede collettiva, salva la limitazione della sua efficacia ai soli rapporti facenti capo a lavoratori iscritti all’associazione stipulante o che abbiano aderito all’accordo: e` stato, ad esempio, qualificato come transazione collettiva (§ 563) in se´ valida, ancorche´ applicabile soltanto ai lavoratori che vi abbiano individualmente prestato consenso, l’accordo sindacale che aveva liberato il nuovo datore di lavoro dall’obbligo di riconoscere ai dipendenti acquisiti l’anzianita` di servizio precedente al trasferimento dell’azienda (54). E non manca chi ha sostenuto la derogabilita` in sede collettiva aziendale, ex art. 2112 c.c., c. 3o, della disciplina contenuta nei due commi precedenti, anche con effetti erga omnes in seno all’azienda interessata, indipendentemente dall’adesione individuale del lavoratore interessato (55). 555. Inapplicabilita` della disciplina speciale inerente alla continuita` dei rapporti individuali nel caso di crisi d’impresa, salvo accordo sindacale contrario. — La direttiva comunitaria esclude espressamente dal campo di applicazione delle regole inerenti alla continuita` dei rapporti di lavoro (artt. 3 e 4 della direttiva stessa) il trasferimento di impresa o azienda o parte di essa in costanza di procedura concorsuale finalizzata alla liquidazione dei beni aziendali (56). Altrettanto fa, nel nostro ordinamento interno, il quinto comma dell’art. 47 della legge n. 428/1990, che, come si è visto nel paragrafo precedente, esclude l’applicazione dell’art. 2112 c.c., salvo diverso accordo sindacale, nei trasferimenti di attivita` che avvengano nel contesto di una procedura fallimentare, di concordato preventivo con cessione dei beni, di liquidazione coatta amministrativa (57), o di amministrazione straordinaria (ora disciplinata dal d.lgs. 8 luglio 1999 n. 270) (58), «nel caso in cui la continuazione dell’attivita` non sia stata disposta o sia cessata e ... sia stato raggiunto un accordo [in sede sindacale] circa il mantenimento anche parziale dell’occupazione» (59): in questi casi, dunque, deve ritenersi che il vecchio datore — o curatore fallimentare — possa e debba intimare al lavoratore il licenziamento e che il cessionario dell’azienda debba poi procedere — se vincolato in tal senso dall’accordo sindacale — all’assunzione ex novo dello stesso lavoratore (60). L’art. 2112 si applica regolarmente, invece, quando il trasferimento avvenga prima della dichiarazione di fallimento o comunque dell’apertura della procedura concorsuale (61). Ai casi di procedura concorsuale la nostra legge aggiunge, per escluderlo dal campo di applicazione dell’art. 2112 c.c., quello della situazione di crisi aziendale accertata dall’autorita` amministrativa competente (§ 535) (62), sempre a condizione che sia stato raggiunto un accordo sindacale circa il «mantenimento anche parziale dell’occupazione» (63). Questo, pero`, non e` compreso tra le deroghe ammesse dalla direttiva comunitaria: donde un contrasto fra la nostra legge interna e la direttiva, che e` stato rilevato dalla Corte di Giustizia (64) e che ha dato luogo a un rilevante dibattito dottrinale e giurisprudenziale sul comportamento dovuto dal nostro giudice interno in attesa che il contrasto venga superato dal legislatore nazionale (§ 16) (65). La crisi aziendale accertata in sede amministrativa e non accompagnata da procedura concorsuale non basterebbe dunque a determinare la disapplicazione dell’art. 2112; questo pero` non significa che tutti i dipendenti dell’impresa in crisi abbiano senz’altro diritto alla continuazione del rapporto con il cessionario per un tempo indeterminato: il diritto comunitario non impedisce affatto che essi vengano licenziati per riduzione del personale, o dal vecchio datore di lavoro prima del trasferimento, o dal nuovo in un tempo successivo (66). Nei casi testé indicati non operano dunque le tutele di cui all’art. 2112 c.c.; deve pero` applicarsi senza eccezioni la procedura preventiva di informazione ed esame congiunto con le organizzazioni sindacali e le loro rappresentanze aziendali (§ 552). E la procedura puo`, ovviamente, portare a un accordo che preveda l’applicazione dell’art. 2112 anche in quei casi (ancora quinto comma dell’art. 47). Questa ipotesi presenta un interesse tutto particolare sul piano sistematico, poiche´ la norma consente qui all’autonomia collettiva di sottrarre all’autonomia individuale una prerogativa di cui questa altrimenti, non applicandosi l’art. 2112, disporrebbe: quella cioe` di consentire o no il trasferimento della titolarita` del rapporto di lavoro in capo al cessionario. Non si tratta di «accordo di gestione» in senso proprio (§ 71), poiche´ esso non interviene a regolare l’esercizio di un potere che il datore potrebbe altrimenti esercitare unilateralmente; si pone dunque, in questa materia, il problema dell’efficacia soggettiva dell’accordo aziendale, sul quale rinvio a quanto osservato nel paragrafo precedente. 556. La nozione di lavoratore rilevante per l’applicazione della disciplina speciale. — La direttiva vincola gli Stati membri a estendere la disciplina speciale del trasferimento d’impresa o d’azienda a «ogni persona che nello Stato membro interessato e` tutelata [come lavoratore] nell’ambito del diritto nazionale del lavoro» (art. 2, c. 1o, lett. d): il campo di applicazione della direttiva puo` dunque variare marginalmente da un ordinamento interno all’altro, a seconda della definizione della fattispecie di riferimento di ciascun diritto del lavoro nazionale. Si pone a questo proposito la questione se, ai fini della direttiva, possa intendersi «tutelato come lavoratore» nel nostro ordinamento anche il «parasubordinato», ovvero titolare di un rapporto di collaborazione autonoma coordinata e continuativa (§ 89). L’orientamento tendenziale del nostro diritto interno — coerente in questo con l’orientamento del diritto comunitario, di cui ho fatto cenno a suo luogo (§§ 10 e 96) — mi indurrebbe a rispondere affermativamente al quesito: anche il collaboratore continuativo autonomo e` in qualche misura tutelato dal nostro ordinamento come lavoratore; e lo sara` sempre piu` estesamente in futuro; donde la conseguenza che anche quel rapporto di collaborazione — e in particolare il rapporto di agenzia, o quello del promotore finanziario — dovrebbe proseguire con il nuovo gestore senza soluzione di continuita`, essendo quest’ultimo coobbligato in solido con il precedente per i crediti del collaboratore maturati e non soddisfatti al momento del trasferimento. Su questo punto, pero`, non ho trovato alcuna voce dottrinale conforme, ne´ alcuna voce giurisprudenziale (67). Sezione II Rinuncia, transazione e arbitrato Sommario: 557. Inderogabilita` della disciplina del rapporto di lavoro e invalidita` degli atti dispositivi dei diritti che ne nascono in capo al lavoratore. Evoluzione della disciplina legislativa della materia. — 558. Annullabilita` dell’atto di disposizione ex post di un diritto gia` maturato, a norma dell’art. 2113 c.c. Nullita` della pattuizione peggiorativa ex ante della disciplina del rapporto rispetto alla disposizione inderogabile, a norma dell’art. 1418 c.c. — 559. Le rinunce valide in quanto aventi per oggetto diritti disponibili. La pattuizione della cessazione del rapporto. — 560. Requisiti formali e sostanziali della rinuncia e della transazione. La quietanza liberatoria generica. — 561. L’impugnazione dell’atto dismissivo annullabile e il suo effetto. — 562. Le rinunce valide in quanto atti di «autonomia negoziale assistita»: conciliazione in sede sindacale, amministrativa o giudiziale. — 563. La questione delle rinunce o transazioni collettive. — 564. La soluzione arbitrale delle controversie individuali e collettive. — 565. L’incerta distinzione fra arbitrato rituale e irrituale. — 566. Disciplina della clausola compromissoria. — 567. L’impugnazione del lodo e la questione se sia ammissibile l’arbitrato irrituale secondo equita`. — 568. I limiti attuali dell’arbitrato-transazione. — 569. Applicabilita` della disciplina delle rinunce, transazioni, conciliazioni e arbitrato anche al lavoro parasubordinato. 557. Inderogabilita` della disciplina del rapporto di lavoro e invalidita` degli atti dispositivi dei diritti che ne nascono in capo al lavoratore. Evoluzione della disciplina legislativa della materia. — Abbiamo esaminato all’inizio di questa trattazione (§§ 3-7) le ragioni per cui il diritto del lavoro nasce come limitazione dell’autonomia individuale del lavoratore: nasce, cioe`, sotto il segno dell’inderogabilita`. Le prime manifestazioni legislative esplicite di questo carattere generale della disciplina, nell’ordinamento italiano, si rinvengono nell’art. 8 del r.d.l. 15 marzo 1923 n. 692, che commina la nullita` per qualsiasi «pattuizione contraria alle disposizioni» contenute nel decreto stesso, e nel disposto di portata assai piu` ampia contenuto nell’art. 17 del r.d.l. 13 novembre 1924 n. 1825 sull’impiego privato, che precisa la natura unidirezionale dell’inderogabilita` della disciplina del rapporto di lavoro («inderogabilita` in peius»): «Le disposizioni del presente decreto saranno osservate malgrado ogni patto in contrario, salvo il caso di convenzioni od usi piu` favorevoli all’impiegato e salvo il caso che il presente decreto espressamente ne consenta la deroga consensuale» (68). L’indisponibilita` del diritto attribuito al lavoratore dalla norma costituisce la conseguenza tipica, per cosi` dire naturale, dell’inderogabilita` della norma stessa. Non pero` una conseguenza strettamente necessaria: il divieto di deroga convenzionale alla norma potrebbe infatti (in astratto) essere assistito da una sanzione diversa dall’invalidita` dell’atto dispositivo o abdicativo; e nella stessa nozione di invalidita` dell’atto dispositivo ben possono annoverarsi sanzioni di varia gravita`, dalla nullita` all’annullabilita`, all’inefficacia temporanea o parziale. L’inderogabilita`, inoltre, puo` non essere assoluta, ma temperata dalla possibilita` di deroga in sede collettiva, oppure di deroga convenzionale individuale stipulata a certe condizioni o in determinate forme; essa, inoltre, puo` non essere perpetua, ma limitata a un determinato lasso di tempo: si puo` pensare, per esempio, a un divieto di disposizione del diritto limitato alla durata del rapporto di lavoro, ma non esteso al periodo successivo, nel quale il lavoratore non e` piu` in posizione di soggezione nei confronti del datore di lavoro (69). La mera enunciazione della regola dell’inderogabilita` in peius contenuta nel decreto sull’impiego privato del 1924 ha fatto dunque sorgere numerosi problemi per l’individuazione dei limiti e dei modi concreti della sua applicazione, dando luogo a un cospicuo dibattito dottrinale, con rilevanti ricadute giurisprudenziali (70). In questo contesto, al termine del ventennio corporativo, interviene il legislatore con l’art. 2113 del codice civile, comminando la sanzione dell’annullabilita` per le rinunce e le transazioni stipulate dal lavoratore, in costanza di rapporto o dopo la sua cessazione, su diritti nascenti da norme inderogabili di fonte legislativa o collettiva: sanzione azionabile da parte dello stesso lavoratore mediante impugnazione entro il termine di decadenza di tre mesi dalla cessazione del rapporto, o dalla stipulazione dell’atto, se successiva. Questo intervento legislativo vale pero` a risolvere solo in parte le questioni individuate e discusse da dottrina e giurisprudenza nel ventennio precedente; e altre questioni sorgono con la caduta del regime corporativo (in particolare quella relativa alla fonte dell’inderogabilita` della disciplina collettiva post-corporativa e alla validita` degli atti dispositivi o abdicativi di diritti individuali compiuti da soggetti collettivi) e con l’emanazione di nuovi divieti specifici di disposizione di diritti del lavoratore (quale quello contenuto nell’art. 36 Cost. in materia di riposo annuale: § 343; o quello contenuto nell’art. 13 St. lav. in materia di ius variandi del datore, dove, in apparente difformita` dall’art. 2113 c.c., e` espressamente comminata la nullita` del patto dismissivo: § 294). A una nuova sistemazione legislativa della materia si giunge soltanto con la legge di riforma del processo del lavoro, 11 agosto 1973 n. 533, che novella al tempo stesso l’art. 2113 c.c. sulle rinunce e transazioni e gli artt. 410 e 411 c.p.c. sulle «conciliazioni» in sede sindacale, amministrativa e giudiziale. Se questa riforma risolve la questione del fondamento dell’inderogabilita` dei contratti collettivi post-corporativi (§§ 63 e 66) e, parzialmente, quella della validita` degli atti di «autonomia negoziale individuale assistita» (le «conciliazioni»: § 562), essa lascia pero` irrisolte le questioni sistematiche generali circa la natura della sanzione o delle sanzioni che colpiscono l’atto dismissivo invalido, la definizione del rispettivo campo di applicazione, la validita` delle transazioni collettive. Saranno pertanto dottrina e giurisprudenza a incaricarsi della soluzione di tali questioni, giungendo peraltro a conclusioni oggi largamente condivise, alle quali faremo riferimento nelle pagine che seguono. Su di un punto, pero`, il nuovo art. 2113 c.c. consente di fare chiarezza: cioe` che l’inderogabilita` della disposizione legislativa o collettiva non genera una indisponibilita` assoluta del diritto che la disposizione stessa attribuisce al lavoratore. L’atto dispositivo e` possibile, a determinate condizioni; e anche quando quelle condizioni non sono rispettate l’atto, invalido all’origine, puo` essere — per cosi` dire — convalidato nel suo contenuto dispositivo dalla mancata impugnazione entro il termine di decadenza. Deve dunque concludersene che i diritti attribuiti al lavoratore da norme inderogabili di legge o contratto collettivo, quando non si tratti di diritti della personalita` per loro natura inalienabili (come il diritto di liberta` di pensiero, o il diritto all’integrita` fisica), non possono considerarsi senz’altro «indisponibili», ancorche´ non possano considerarsi neppure pienamente disponibili (71). Si spiega cosi` il fatto che il diritto del lavoratore alla retribuzione o al trattamento di fine rapporto sia — come vedremo a suo luogo (§ 570) — esplicitamente assoggettato dal codice civile alla prescrizione, nonostante che il codice stesso ne esenti altrettanto esplicitamente i diritti indisponibili. 558. Annullabilita` dell’atto di disposizione ex post di un diritto gia` maturato, a norma dell’art. 2113 c.c. Nullita` della pattuizione peggiorativa ex ante della disciplina del rapporto rispetto alla disposizione inderogabile, a norma dell’art. 1418 c.c. — Una prima acquisizione su cui oggi si registra un consenso molto ampio riguarda la natura della sanzione disposta dall’art. 2113 c.c.: si tratta di annullabilita` dell’atto dismissivo, condizionata alla sua impugnazione entro il termine di decadenza fissato dalla norma in sei mesi dalla cessazione del rapporto di lavoro, o dalla stipulazione dell’atto se successiva (72); decorso inutilmente tale termine, l’invalidita` dell’atto e` sanata definitivamente (73). L’acquisizione ulteriore, sulla quale pure si registra oggi un consenso molto ampio, riguarda il campo di applicazione del regime di annullabilita` di cui all’art. 2113: esso comprende soltanto gli atti, unilaterali o bilaterali, con i quali il lavoratore rinunci a diritti gia` entrati a far parte del suo patrimonio, quali ad esempio il diritto a retribuzioni maturate per lavoro ordinario o straordinario gia` eseguito, oppure il diritto all’indennita` sostitutiva di ferie non godute in anni precedenti, oppure ancora il diritto al risarcimento del danno patito in conseguenza di un difetto di igiene o sicurezza del luogo di lavoro, o in conseguenza di dequalificazione subi`ta in passato (74); donde consegue che oggetto della rinuncia annullabile e` sempre un diritto di credito. Il regime di annullabilita` di cui all’art. 2113 non si applica, invece, alle pattuizioni con le quali il lavoratore accetti per il futuro una disciplina del singolo istituto contrattuale (75) peggiore rispetto a quella inderogabilmente disposta dalla legge o dalla contrattazione collettiva: in questo caso la pattuizione, nulla ex art. 1418 c.c. per contrasto con norma imperativa, viene sostituita di diritto da quest’ultima, essendo considerata dall’ordinamento tamquam non esset (76). Il regime di annullabilita` di cui all’art. 2113 e` formalmente lo stesso per l’atto dismissivo di diritti gia` maturati stipulato in costanza di rapporto e quello stipulato dopo la cessazione. Tuttavia, il fatto che il termine di decadenza per l’impugnazione non possa decorrere in costanza di rapporto condanna il primo a una sorta di «instabilita`» assai piu` marcata del secondo, che la dottrina non ha mancato di sottolineare (77). L’assoggettamento dell’atto dismissivo al regime di annullabilita` ex art. 2113 non esclude, ovviamente, che l’atto stesso possa essere assoggettato anche all’annullamento di diritto comune, in particolare nelle ipotesi di vizio della volonta` di cui agli artt. 1427-1440 c.c. (v. in proposito § 202). È altrettanto pacifico che in questo caso non si applichi il termine di decadenza posto dall’art. 2113, bensi` soltanto il termine prescrizionale quinquennale di cui all’art. 1442 c.c. (570). 559. Le rinunce valide in quanto aventi per oggetto diritti disponibili. La pattuizione della cessazione del rapporto. — L’annullabilita` non e` comminata dall’art. 2113 per qualsiasi rinuncia o transazione stipulata dal lavoratore su diritti inerenti al lavoro, bensi` soltanto per quella avente ad oggetto «diritti derivanti da disposizioni inderogabili della legge e dei contratti o accordi collettivi». Sono dunque di per se´ valide e inoppugnabili (salvo il rispetto delle disposizioni di diritto comune sui negozi in generale e sulle transazioni in particolare: artt. 1965-1976 c.c.), innanzitutto, le rinunce o transazioni su qualsiasi diritto che al lavoratore derivi soltanto dal suo contratto individuale (78), quale ad esempio il diritto a un «superminimo» ad personam (§ 245), oppure a una riduzione o collocazione particolare dell’orario di lavoro pattuita direttamente con il datore: e si osservi come qui l’atto dismissivo sia pienamente valido non soltanto se riferito a un diritto gia` entrato a far parte del patrimonio del lavoratore (come nel caso della rinuncia a un «superminimo» gia` maturato), ma anche se volto a modificare la disciplina del rapporto futuro. È sottratto al regime di cui all’art. 2113 anche l’atto col quale il lavoratore rinuncia al posto di lavoro, sia esso stipulato in forma unilaterale (dimissioni: § 495) o in forma bilaterale (risoluzione consensuale: § 498; rinuncia all’impugnazione del licenziamento) (79), con la sola eccezione delle dimissioni della lavoratrice madre durante il periodo di interdizione del licenziamento, per le quali vige la disciplina speciale di cui si e` detto a suo luogo (§ 403) (80). Va tuttavia osservato in proposito che quando la cessazione del rapporto venga pattuita nel contesto di una transazione piu` ampia, avente per oggetto anche diritti derivanti da norme legislative o collettive inderogabili, l’annullabilita` dell’atto in riferimento a questi ultimi diritti investe anche la pattuizione relativa alla cessazione del rapporto (81). 560. Requisiti formali e sostanziali della rinuncia e della transazione. La quietanza liberatoria generica. — L’atto dismissivo assoggettato al regime di cui all’art. 2113 puo` essere di natura unilaterale (rinuncia) o contrattuale (transazione). Nel primo caso l’atto non e` soggetto ad alcun requisito di forma: la rinuncia puo` dunque essere dichiarata anche verbalmente e puo` persino manifestarsi in forma tacita, per comportamento concludente del lavoratore (82). Nel secondo caso, invece, l’art. 1967 c.c. richiede la forma scritta ad probationem. Una ulteriore differenza tra le due fattispecie sta nel fatto che la causa della transazione, a differenza dell’atto dismissivo unilaterale, presuppone la possibilita` di una controversia (possibilita` che deve senz’altro escludersi quando la questione sia stata interamente decisa da una sentenza passata in giudicato) (83) e l’interesse comune alle parti di evitare la lite: la transazione consiste appunto nell’incontro della volonta` negoziale delle parti di prevenirla mediante reciproche concessioni, ovvero rinunciando ciascuna a una parte delle proprie pretese. Tanto nel caso dell’atto unilaterale, quanto nel caso della transazione, perche´ possa configurarsi una rinuncia giuridicamente rilevante da parte del lavoratore — valida o annullabile che essa sia, in relazione al suo oggetto — occorre innanzitutto che sia inequivoca la manifestazione della volonta` dismissiva (84); occorre inoltre l’inequivoca individuazione dei diritti che egli ha inteso dismettere: in particolare, deve trattarsi di uno o piu` determinati crediti retributivi, risarcitori, o di altro genere. Non costituisce dunque rinuncia la dichiarazione generica di «non avere null’altro da pretendere» nei confronti del datore di lavoro, o di ricevere un certo pagamento «a saldo e stralcio di ogni e qualsiasi proprio credito» (85); a meno che dal contesto in cui tale dichiarazione viene resa dal lavoratore possa desumersi chiaramente a quale credito egli intenda rinunciare: cosi`, ad esempio, nel caso in cui l’atto, pur formulato genericamente, sia stato stipulato dopo che era stata presentata una rivendicazione di contenuto ben preciso e dopo che su di essa si era svolta una trattativa tra le parti (86). 561. L’impugnazione dell’atto dismissivo annullabile e il suo effetto. — L’impugnazione della rinuncia o transazione puo` essere compiuta dal lavoratore, purche´ entro il termine di decadenza stabilito dall’art. 2113 (§ 558), «con qualsiasi atto scritto, anche stragiudiziale, idoneo a renderne nota la volonta`» di rivendicare l’adempimento del credito insoddisfatto. La volonta` del lavoratore in tal senso puo` risultare dall’atto scritto anche implicitamente (87). Poiche´ l’impugnazione e` atto unilaterale recettizio, il documento che la contiene deve essere comunicato entro il termine al debitore: non e` dunque sufficiente il deposito presso la cancelleria del tribunale del ricorso contenente la rivendicazione. In applicazione analogica di quanto disposto dall’art. 6 della legge 15 luglio 1966 n. 604 per l’impugnazione del licenziamento, deve ritenersi idonea a configurare impugnazione della rinuncia o transazione anche la rivendicazione presentata dall’associazione sindacale, in nome e per conto del singolo lavoratore (88). A norma del secondo comma dell’art. 410 c.p.c., il termine di decadenza di sei mesi per l’impugnazione dell’atto dismissivo resta sospeso dal momento della «comunicazione della richiesta di espletamento del tentativo di conciliazione» di cui al primo comma dello stesso articolo (§ 562), fino a venti giorni dopo la conclusione della procedura. Per «comunicazione della richiesta» parrebbe qui doversi intendere quella che il lavoratore fa all’ufficio amministrativo competente, e non quella che l’ufficio stesso fa al datore di lavoro. L’impugnazione, secondo l’opinione prevalente, produce immediatamente l’effetto dell’annullamento della rinuncia o transazione invalida; in questo ordine di idee, la successiva sentenza ha effetto dichiarativo dell’avvenuto annullamento e non effetto costitutivo. Quando l’impugnazione riguarda una transazione, l’annullamento non puo` che riguardare l’atto bilaterale nella sua interezza, ivi comprese le singole disposizioni in ipotesi vantaggiose per il lavoratore rispetto alla disciplina inderogabile applicabile (89). 562. Le rinunce valide in quanto atti di «autonomia negoziale assistita»: conciliazione in sede sindacale, amministrativa o giudiziale. — Il quarto e ultimo comma dell’art. 2113 esclude dal novero delle rinunce e transazioni invalide la «conciliazione intervenuta ai sensi degli articoli 185, 410 e 411 del codice di procedura civile»: cioe` la conciliazione stipulata in sede sindacale, in sede amministrativa o in sede giudiziale, dove si presume che il lavoratore non possa essere soggetto a pressioni indebite, ne´ possa essere male informato sui propri diritti. L’uso del termine «conciliazione» nelle norme teste` citate appare dovuto a una forma di pruderie giuslavoristica; il legislatore sembra riluttante a riconoscere che il lavoratore possa, sia pure debitamente assistito e informato, validamente rinunciare a propri diritti: se il lavoratore rinuncia ad agire — sembra voler significare il termine «conciliazione» — e` perche´ si e` convinto di non poter vantare il diritto inizialmente rivendicato; le parti, dunque, non «transigono», ma «si conciliano» tra loro, riconoscendosi reciprocamente cio` che reciprocamente e` effettivamente dovuto. Le cose, pero`, non stanno cosi` e questa scelta terminologica non deve trarre in inganno: innanzitutto perche´ si da` quotidianamente un’infinita` di situazioni nelle quali che cosa sia effettivamente dovuto tra le parti, a norma di legge e di contratto, non e` individuabile se non attraverso un giudizio, il cui esito dipende da un gran numero di circostanze non conoscibili ex ante; in tali situazioni, cio` che prestatore e datore di lavoro fanno quando «si conciliano» in sede sindacale, amministrativa, o giudiziale, non e` altro che un incontrarsi in un punto intermedio tra le rispettive posizioni iniziali per evitare la lite: ne´ piu` ne´ meno, dunque, che una transazione. Va poi aggiunto che, pur debitamente assistito in sede sindacale, amministrativa o giudiziale, il lavoratore puo` anche indursi a rinunciare integralmente a un proprio diritto di credito gia` maturato nei confronti del datore di lavoro, per i motivi piu` svariati: ad esempio, perche´ e` convinto che l’impresa sia in difficolta` e che sia opportuno aiutarla a uscire dalla crisi, oppure perche´ la valida stipulazione di una siffatta rinuncia costituisce la condizione per poter accedere a determinati benefici di altro genere previsti da un accordo aziendale, oppure ancora perche´ in altra sede le parti hanno concordato la promozione di un’opera benefica, in funzione della quale il lavoratore rinuncia a una propria rivendicazione. Il termine «conciliazione» deve dunque essere inteso come indicativo di un insieme di atti senz’altro riconducibili alla nozione legale generale di rinuncia o a quella di transazione, qualificati pero` dal fatto di essere stipulati in una sede e in una forma che la legge specificamente stabilisce, al fine di garantire liberta` effettiva e informazione piena del lavoratore circa i suoi diritti e poter quindi esentare gli atti stessi dal regime di invalidita` di cui all’art. 2113: si parla in proposito di «autonomia negoziale individuale assistita». Prevale in dottrina la tesi secondo cui oggetto della «conciliazione» inoppugnabile a cui fa riferimento l’ultimo comma dell’art. 2113 puo` essere soltanto un diritto di credito gia` maturato in capo al lavoratore, ovvero lo stesso oggetto della rinuncia o transazione soggetta al regime di annullabilita` di cui ai primi tre commi dello stesso articolo; non puo`, invece, la «conciliazione» inoppugnabile contenere una disposizione contraria a norma imperativa in riferimento alla disciplina futura del rapporto di lavoro tra le parti: disposizione che non sfuggirebbe alla nullita` comminata dall’art. 1418 c.c. (§ 558) (90). Perche´ la transazione o rinuncia «in sede sindacale» abbia il carattere dell’inoppugnabilita` di cui all’ultimo comma dell’art. 2113, essa deve essere stipulata dal lavoratore con l’assistenza di un funzionario od operatore dell’associazione sindacale di sua fiducia specificamente incaricato di tale compito dall’associazione stessa (91). La sussistenza di questo incarico specifico solitamente si desume dal fatto che il sindacalista abbia depositato la propria firma presso la Direzione provinciale del lavoro, in un registro riservato appunto ai funzionari e operatori addetti alle vertenze, che viene utilizzato anche per la verifica dell’autenticita` della sottoscrizione dagli stessi apposta sotto le conciliazioni depositate presso l’ufficio a norma del terzo comma dell’art. 411 c.p.c. Si e` lungamente discusso se per l’inoppugnabilita` della conciliazione di questo tipo sia necessario, o no, che essa costituisca l’esito di una procedura di conciliazione prevista da contratto collettivo applicabile al singolo rapporto cui la controversia si riferisce (92); sembra fornire un solido fondamento per la risposta negativa l’art. 5 della legge 11 maggio 1990 n. 108, che (in materia di licenziamento individuale) distingue esplicitamente le procedure di conciliazione previste dai contratti e accordi collettivi di lavoro da quelle previste dagli artt. 410 e 411 c.p.c. (93). Nel silenzio della legge deve, a mio avviso, ritenersi che possa fornire assistenza idonea al lavoratore, ai fini dell’inoppugnabilita` della transazione, qualsiasi associazione sindacale — purche´ genuina e non «di comodo» ex art. 17 St. lav. (§ 50) — e non soltanto quella «maggiormente rappresentativa» (94). Quanto alla transazione o rinuncia «in sede amministrativa», essa puo` costituire l’esito del tentativo di conciliazione che deve essere obbligatoriamente esperito prima della promozione del giudizio, nelle controversie di lavoro, a norma del primo comma dell’art. 410 c.p.c.; ma puo` anche essere stipulata al di fuori di quella procedura, essendo sufficiente a tal fine che le parti siano ricevute dalla apposita commissione istituita presso la Direzione provinciale del lavoro e che — verificata da parte di questa la piena informazione del lavoratore circa i suoi diritti e la genuinita` della sua determinazione — l’accordo sia stipulato davanti alla commissione stessa (95). La transazione o rinuncia in sede giudiziale, infine, costituisce di regola l’esito del tentativo di conciliazione che, a norma del primo comma dell’art. 420 c.p.c., il giudice obbligatoriamente esperisce all’inizio del procedimento promosso per la soluzione di una controversia di lavoro. Il codice di procedura civile stabilisce i modi nei quali il verbale di conciliazione — sia questa stipulata in sede sindacale, amministrativa o giudiziale — acquista il valore di titolo esecutivo: lo acquista immediatamente il verbale di conciliazione giudiziale, poiche´ esso e` redatto e sottoscritto dal giudice (art. 420, 3o c.); il verbale di conciliazione amministrativa lo acquista in seguito al deposito presso la cancelleria del giudice competente, che ne verifica la regolarita` formale e ne dichiara l’esecutivita` (art. 411, 2o c.); il verbale di conciliazione sindacale lo acquista in seguito al deposito presso la Direzione provinciale del lavoro che ne verifica l’autenticita` e provvede a sua volta a depositarlo presso la cancelleria del giudice competente al pari del verbale di conciliazione amministrativa, ai fini dell’emanazione del decreto da parte del giudice (art. 411, 3o c.). Dottrina e giurisprudenza nettamente prevalenti concordano sul punto che l’emanazione del decreto e` necessaria soltanto per l’acquisizione da parte del verbale di conciliazione del valore di titolo esecutivo, ma non ai fini della sua inoppugnabilita` a norma dell’ultimo comma dell’art. 2113 (96). 563. La questione delle rinunce o transazioni collettive. — Accade talvolta che sorga una controversia circa l’applicazione corretta di una disposizione legislativa o collettiva, alla quale e` interessata una pluralita` di lavoratori, e che una soluzione transattiva venga trovata in sede sindacale, ponendosi in tal caso la questione dell’efficacia della pattuizione collettiva nei confronti dei singoli lavoratori. A questo proposito, occorre distinguere la pattuizione sindacale di natura dispositiva, cioe` quella che dispone dei crediti gia` maturati (o che si pretende essere gia` maturati) in capo ai singoli lavoratori, da quella di natura normativa, cioe` che modifica la disciplina futura del rapporto. Quanto alla pattuizione sindacale del primo tipo, prevale in dottrina e soprattutto in giurisprudenza la tesi secondo cui, avendo per oggetto diritti che sono ormai entrati a far parte del patrimonio del singolo lavoratore (siano essi certi o incerti), tale pattuizione esorbiterebbe dalla funzione tipicamente e peculiarmente propria dell’autonomia collettiva, consistente nella disciplina di rapporti di lavoro in futuro: tale pattuizione sindacale dovrebbe pertanto essere considerata alla stregua del contratto plurisoggettivo, cui potrebbe essere riconosciuta efficacia soltanto nei limiti del mandato che il singolo lavoratore abbia conferito all’associazione sindacale stipulante, o dell’adesione alla pattuizione transattiva che il lavoratore stesso abbia manifestato successivamente (97). A me sembra, pero`, piu` convincente la tesi — pur nettamente minoritaria — secondo la quale, quando la controversia verta sull’interpretazione di un contratto collettivo, essa puo` essere risolta mediante un nuovo accordo collettivo dalle stesse parti firmatarie del precedente; nuovo accordo che non opera necessariamente come una sorta di «interpretazione autentica» della pattuizione controversa, potendo esso anche operare proprio in termini di soluzione transattiva, ovvero di disposizione di un interesse collettivo, con effetto diretto e immediato sui rapporti individuali, analogamente a quanto previsto per il settore pubblico dall’art. 53 del d.lgs. 3 febbraio 1993 n. 29: «il contratto va interpretato nei termini in cui i medesimi paciscenti collettivi hanno successivamente determinato, cosi` come avverrebbe ove sopravvenisse una sentenza» (98). A sostegno della tesi maggioritaria contraria milita l’argomento sopra menzionato, di peso non trascurabile: quando la controversia sorge, la vecchia disposizione collettiva ha gia` generato dei diritti soggettivi che, una volta maturati nel corso dello svolgimento del rapporto di lavoro, sono ormai entrati a far parte del patrimonio dei singoli lavoratori; ma a questo argomento ben puo` obiettarsi, senza peccare di un eccesso di pragmatismo, che se l’interpretazione della disposizione collettiva e` incerta al punto da generare una nuova negoziazione e una nuova pattuizione in proposito fra le parti stipulanti, senza quella pattuizione collettiva i diritti stessi sarebbero in qualche misura di fatto a rischio; e non si vede davvero in nome di quale interesse — che non sia quello del ceto forense — tale situazione di rischio e incertezza collettiva debba necessariamente dare luogo a una pioggia di procedimenti giudiziali individuali, destinati a essere risolti da sentenze di merito contrastanti fra loro (poiche´ l’assestamento giurisprudenziale richiede solitamente molti anni per essere raggiunto), quando una soluzione della controversia assai piu` rapida e meno costosa sarebbe perseguibile mediante una nuova pattuizione fra le stesse associazioni sindacali e imprenditoriali che hanno disposto originariamente della materia ora controversa (99). Un discorso diverso e` quello relativo alla pattuizione sindacale che risolva la controversia ridisciplinando la materia per il futuro: questa non puo` evidentemente disporre un trattamento deteriore per il singolo lavoratore rispetto a quanto disposto da una norma legislativa (salvo che questa espressamente lo consenta: v. ad es. § 554), senza incorrere nella sanzione della nullita` ex art. 1418 c.c.; essa puo` invece disporre un trattamento deteriore rispetto a quanto disposto in precedenza da altra fonte collettiva, ponendosi in tal caso soltanto la questione generale, della quale si e` trattato a suo luogo (§ 71), dell’efficacia soggettiva del contratto collettivo contrastante con un altro contratto precedente, di pari o diverso livello, sottoscritto o no dalle stesse associazioni sindacali. 564. La soluzione arbitrale delle controversie individuali e collettive. — La regola dell’inderogabilita`, di cui si e` detto all’inizio di questa sezione, non e` suscettibile soltanto di essere violata con pattuizioni peggiorative rispetto alla norma inderogabile o con atti dismissivi di vario genere (cio` cui pone argine la disciplina delle rinunce e transazioni, della quale si e` detto nei paragrafi che precedono), ma anche di essere aggirata con la devoluzione pattizia delle eventuali controversie future o di una controversia in atto a un arbitro privato, la cui decisione puo` essere ispirata a principi o regole diverse da quelle poste dall’ordinamento. Questo spiega le cautele — sulle quali torneremo nel § 566 — delle quali l’ordinamento stesso circonda il compromesso (cioe` il patto che devolve una controversia determinata alla cognizione e decisione di un arbitro o collegio arbitrale) e la clausola compromissoria (cioe` quella che, inserita in un contratto, prevede la detta soluzione arbitrale per le eventuali controversie future che possano sorgere circa la sua attuazione) (100): cautele che tutt’oggi nettamente prevalgono sull’apprezzamento, pure largamente diffuso tra i protagonisti del dibattito sulle politiche del lavoro e sull’amministrazione della giustizia in questo campo, nei confronti dell’arbitrato come strumento di decongestionamento degli uffici giudiziali e di riduzione del costo della giustizia del lavoro (101). Le stesse cautele, pero`, non si spiegano in riferimento alla clausola compromissoria contenuta in un contratto collettivo in riferimento alle possibili controversie relative a materie disciplinate esclusivamente dal contratto stesso: non si vede davvero, sul piano costituzionale, perche´ si debbano privare le stesse parti collettive, che attribuiscono ai lavoratori di un settore o di un’azienda un determinato diritto, della facolta` di predisporre un meccanismo cogestito per la soluzione delle controversie future relative allo stesso diritto, cosi` come il legislatore statuale predispone un meccanismo pubblico per la soluzione delle controversie relative all’applicazione di norme da lui stesso poste (102). Le stesse ragioni che mi inducono a considerare valida ed efficace nei confronti di tutti i lavoratori cui si applica un contratto collettivo la transazione collettiva su di un diritto nascente esclusivamente da quel contratto, stipulata dalle associazioni che ne sono state firmatarie (§ 563), mi inducono a ritenere logicamente compatibile con i principi dell’ordinamento che il lavoratore cui un contratto collettivo attribuisca un determinato beneficio venga vincolato dalla medesima fonte a farlo valere in determinate forme (anche di giurisdizione privata), anche sostanzialmente limitative del beneficio stesso sul piano sostanziale, almeno fino a quando la limitazione non contrasti con principi e regole inderogabili dell’ordinamento statuale. In questo ordine di idee, da piu` parti si auspica una riforma della disciplina dell’arbitrato che elimini l’incongruenza, consentendo il radicarsi di una giurisdizione sindacale sulle materie disciplinate esclusivamente dal contratto collettivo, quali soprattutto la retribuzione e l’inquadramento professionale, ma anche l’indennizzo per il licenziamento ingiustificato nell’area del lavoro dirigenziale, dove la legge non pone limiti sostanziali alla facoltà di recesso ordinario del datore (103): materie sulle quali si registra un gran numero di controversie, oggi devolute nella quasi totalita` ai giudici del lavoro, con il conseguente congestionamento dei loro uffici, il sovradimensionamento del ruolo degli avvocati e l’ipertrofia del business della giustizia del lavoro che caratterizza il sistema italiano rispetto a quello degli altri Paesi, anche con ordinamenti di diritto sostanziale del lavoro simili al nostro (104). Un discorso in tutto analogo puo` proporsi in riferimento alle controversie giuridiche vertenti sull’interpretazione di una clausola contenuta in contratto collettivo (si pensi al caso, sul quale sono stati versati fiumi di inchiostro, della controversia sull’interpretazione corretta del «protocollo Scotti» del 1983 circa il computo dei «decimali di punto» dell’indennita` di contingenza) (105): qui l’arbitrato sindacale, a mio avviso, ben potrebbe spingersi — cosi` come puo` spingersi l’accordo diretto fra le parti collettive, di cui si e` detto nel paragrafo precedente — alla riscrittura della disposizione collettiva con effetto per il futuro, svolgendo una funzione non giurisdizionale ma schiettamente normativa, nel quadro della disciplina generale dell’autonomia collettiva (106). Non mi risulta, pero`, che alcuna controversia giuridica collettiva sia mai stata risolta in questo modo, nell’esperienza italiana, nonostante che qualche accenno a una procedura di questo genere si trovi in alcuni accordi interconfederali (107): la questione della validita` e degli effetti del lodo arbitrale cosi` ottenuto, che vede la nostra dottrina titubante e perplessa (108), e` dunque per ora soltanto accademica. 565. L’incerta distinzione fra arbitrato rituale e irrituale. — La legge distingue l’arbitrato rituale dall’arbitrato irrituale, disponendo per quest’ultimo una disciplina speciale in parte diversa (§§ 567 e 568). La distinzione tradizionale fra le due fattispecie, che traeva origine da una sentenza della Corte di Cassazione piemontese dei primi del secolo riferita alla decisione di un collegio probivirale su di una controversia di lavoro (109), poteva esprimersi cosi`: l’arbitrato rituale costituisce una forma particolare di vera e propria giurisdizione, nella quale l’arbitro decide la controversia individuandone la soluzione corretta secondo principi e regole dell’ordinamento, svolgendo pertanto ne´ piu` ne´ meno che la funzione del giudice; il lodo da lui emanato ha quindi — dopo l’omologazione — sostanzialmente e formalmente il valore di una sentenza (110); l’arbitrato irrituale costituisce invece una procedura particolare di transazione, basata sull’accordo tra le parti di affidare all’arbitro la definizione pattizia della controversia. In altre parole, con l’accordo per l’arbitrato irrituale le parti non attribuiscono all’arbitro un potere giurisdizionale, bensi` gli devolvono la propria autonomia negoziale: come se le parti stesse apponessero la propria sottoscrizione sotto un foglio bianco, affidando all’arbitro di scrivere il contenuto di un accordo destinato a evitare la lite (111). Nell’ordine di idee tradizionale, il lodo irrituale non sarebbe stato altro che una transazione e gli spazi per la sua impugnazione sarebbero stati soltanto quelli previsti per la transazione dall’art. 2113 c.c., oltre che quelli di diritto comune, attinenti ai vizi della volonta` negoziale; infatti cosi` disponeva il terzo comma dell’art. 5 della legge n. 533/1973: «si osservano le disposizioni dell’art. 2113, secondo e terzo comma, del codice civile». In quell’ordine di idee, gli spazi di impugnazione erano, per un verso, assai piu` ristretti di quelli che si offrono per il lodo rituale (§ 567), poiche´ doveva escludersi un controllo di merito della decisione dell’arbitro alla stregua dell’interpretazione corretta del diritto vigente (non essendo la decisione irrituale un atto di interpretazione e applicazione della legge, ma sostanzialmente un atto di disposizione negoziale tra le parti); gli spazi di impugnazione erano invece, per altro verso, piu` ampi, quando la controversia avesse avuto per oggetto diritti nascenti da norma inderogabile di legge o di contratto collettivo, essendo in tal caso il lodo-transazione sempre impugnabile entro il termine di sei mesi stabilito dall’art. 2113 c.c. (§ 558). Senonche´ la dottrina dell’ultimo trentennio (112) ha progressivamente manifestato contrarieta` alla configurazione del lodo, nell’arbitrato irrituale, in termini di mero contratto transattivo fra le parti, sottolineando alcune innegabili incongruenze di questa costruzione con la disciplina legislativa della materia, oltre che con la prassi corrente: si e` sottolineato, in particolare, che la transazione deve necessariamente contenere, in qualche misura, una concessione di ciascuna delle parti nei confronti dell’altra, mentre il lodo irrituale ben puo` accogliere in toto le pretese di una delle parti, se l’arbitro le ritiene giuridicamente fondate. Anche la Corte di Cassazione ha preso posizione contro la netta distinzione tradizionale fra arbitrato irrituale come istituto di natura negoziale e arbitrato rituale come istituto di natura processuale, ritenendo che entrambi gli istituti abbiano fonte negoziale e al tempo stesso funzione sostanzialmente giurisdizionale: «sicche´ la differenza tra le due figure finisce in realta` col ridursi alla maggiore o minore immediatezza del riscontro giurisdizionale offerto alle contestazioni che possano insorgere dopo la pronuncia del lodo» (113), cioe` alla disciplina degli effetti, delle conseguenze. Questo orientamento dottrinale e giurisprudenziale e` stato infine fatto proprio dal legislatore con l’abrogazione del terzo comma dell’art. 5 della legge n. 533/1973 — contenente il riferimento sopra citato all’art. 2113 c.c. — per mezzo dell’art. 43, settimo comma, del d.lgs. 31 marzo 1998 n. 80 (abrogazione poi confermata dall’art. 72, primo comma, lett. c, del d.lgs. n. 165/2001) e con la modifica della rubrica dell’art. 412-ter c.p.c. disposta dal d.lgs. 29 ottobre 1998 n. 387, con la quale alla parola «arbitrato» e` stato aggiunto l’aggettivo «irrituale» (114). In conseguenza del nuovo orientamento dominante in dottrina e giurisprudenza e dei due interventi legislativi del 1998, la differenza ontologica tra le due fattispecie (arbitrato rituale e irrituale) diventa assai esigua, per non dire del tutto evanescente (115); e ancor piu` esigua appare la ragion d’essere residua della distinzione, che peraltro il legislatore ha mostrato di voler mantenere in vita, col conservare il primo comma del gia` citato art. 5 della legge n. 533/1973 e con la modifica della rubrica dell’art. 412-ter c.p.c. disposta dal d.lgs. n. 387/1998, della quale si e` appena detto. Secondo giurisprudenza e dottrina prevalenti, l’arbitrato irrituale si distinguerebbe ora da quello rituale: — quanto agli elementi costitutivi della fattispecie, soltanto per essere il primo una forma di soluzione di controversia che e` stata oggetto di tentativo di conciliazione in sede amministrativa o sindacale, applicandosi la procedura prevista dalla legge o dal contratto collettivo: soluzione affidata allo stesso organo collegiale che ha presieduto al suddetto tentativo di conciliazione (116); — quanto alla disciplina, per il regime applicabile alla clausola compromissoria (ma, come vedremo nel paragrafo che segue, vi e` motivo di ritenere che la disciplina della clausola compromissoria per l’arbitrato irrituale, pur dettata da norma diversa, sia sostanzialmente identica rispetto a quella relativa all’arbitrato rituale), nonche´ per il regime dell’impugnazione del lodo e della sua esecutivita` (§ 567). Prevale la tesi secondo cui dovrebbe qualificarsi senz’altro come irrituale l’arbitrato in materia di provvedimenti disciplinari previsto dall’art. 7 St. lav. e quello in materia di licenziamento individuale previsto dall’art. 7 della l. n. 604/1966 e dall’art. 5 della l. 11 maggio 1990 n. 108 (117). L’affermazione non e`, pero`, debitamente argomentata; e non si vede il motivo — ne´ logico-sistematico, ne´ fondato su di un dato normativo positivo — per cui la soluzione arbitrale delle controversie in materia di provvedimenti disciplinari o licenziamenti non possa rientrare anche nella fattispecie dell’arbitrato rituale (118). Lo stesso discorso vale per un terzo caso nel quale la legge prevede espressamente la possibilita` di soluzione arbitrale in materia di lavoro: quello della controversia sulla determinazione dell’equo compenso per l’invenzione del lavoratore (§ 268), la cui soluzione per mezzo di un collegio arbitrale e` prevista dall’art. 25 del r.d. 29 giugno 1939 n. 1127, riproducente l’art. 23, c. 4o, del r.d. 13 settembre 1934 n. 1602. Un discorso a se´ stante va svolto invece per il «lodo» della Commissione di Garanzia per lo sciopero nei servizi pubblici previsto dall’art. 13, lett. b, della legge 12 giugno 1990 n. 146 (§ 433), al quale non sembra che si possa attribuire natura ed efficacia diverse da quelle del provvedimento che la stessa Commissione adotta, a norma della lett. a dello stesso articolo, in caso di mancato accordo tra le parti circa la regolamentazione dello sciopero nel settore (119). Quanto alla gestione dell’inquadramento professionale ad opera dei «collegi paritetici» previsti dal terzo comma dell’art. 96 disp. att. c.c., o dai contratti collettivi, e alla relativa possibile configurazione in termini di arbitraggio, ovvero di determinazione di un elemento del contratto collettivo ad opera di un terzo al quale tale compito e` stato concordemente affidato dalle parti, rinvio al § 189 (120). 566. Disciplina della clausola compromissoria. — La disciplina speciale della clausola compromissoria e dell’arbitrato rituale in materia di lavoro e` contenuta nel secondo comma dell’art. 808 c.p.c., gia` modificato dall’art. 4 della legge 11 agosto 1973 n. 533, poi sostituito dall’art. 3 della legge 5 gennaio 1994 n. 25, che ammette questa forma di soluzione delle controversie di lavoro a condizione che essa sia prevista in un contratto collettivo applicabile (121), il quale deve, a pena di nullita` della clausola, consentire a entrambe le parti di rifiutare l’arbitrato e adire l’autorita` giudiziaria. La clausola compromissoria, contenuta in contratto collettivo o individuale, e` nulla se autorizza l’arbitro a decidere secondo equita` invece che secondo diritto; e` altresi` nulla se dispone l’inoppugnabilita` del lodo arbitrale. Per l’arbitrato irrituale una disposizione in tutto analoga e` contenuta nell’art. 5 della l. n. 533/1973, il quale stabilisce che esso «e` ammesso soltanto nei casi previsti dalla legge ovvero dai contratti e accordi collettivi. In questo ultimo caso, cio` deve avvenire senza pregiudizio della facolta` delle parti di adire l’autorita` giudiziaria» (122). La disciplina della materia e` ulteriormente precisata dal primo comma dell’art. 412-ter inserito nel codice di procedura civile dal d.lgs. 31 marzo 1998 n. 80 e modificato dall’art. 19, c. 12o, del d.lgs. 29 ottobre 1998 n. 387, a norma del quale «se il tentativo di conciliazione [reso obbligatorio per tutte le controversie di lavoro dal nuovo art. 410 c.p.c.] non riesce o comunque e` decorso il termine per l’espletamento, le parti possono concordare di deferire ad arbitri la risoluzione della controversia, anche tramite l’organizzazione sindacale alla quale aderiscono o abbiano conferito mandato, se i contratti o accordi collettivi nazionali di lavoro prevedono tale facolta` e stabiliscono: a) le modalita` della richiesta di devoluzione della controversia al collegio arbitrale e il termine entro il quale l’altra parte puo` aderirvi; b) la composizione del collegio arbitrale e la procedura per la nomina del presidente e dei componenti; c) le forme e i modi di espletamento dell’eventuale istruttoria; d) il termine entro il quale il collegio deve emettere il lodo, dandone comunicazione alle parti interessate (123); e) i criteri per la liquidazione dei compensi agli arbitri». Con questa disposizione sembra essere stata implicitamente abrogata la possibilita` di soluzione arbitrale della controversia in materia di licenziamento prevista dall’art. 5 della legge n. 108/1990, quando in tal senso non disponga un contratto collettivo (124) (ma v. quanto si dira` nel § 568 circa l’ammissibilita` di un arbitrato-transazione in materia di cessazione del rapporto di lavoro). Il secondo comma dello stesso art. 412-ter prevede la possibilita` che il contratto collettivo istituisca uno o piu` collegi arbitrali stabili, come da tempo accade nel settore dei dirigenti. Che l’art. 412-ter c.p.c. sia applicabile soltanto all’arbitrato irrituale e non a quello rituale corrisponde all’intenzione manifestata dal legislatore con la modifica in questo senso della rubrica dello stesso articolo, disposta con l’art. 19, c. 12o, del gia` citato d.lgs. n. 387/1998; e in questo senso si e` pronunciata la Corte di Cassazione (125). Senonche´ e` stato osservato che rubrica legis non est lex e che il contenuto letterale e sostanziale della norma non autorizza a considerarla limitata all’arbitrato irrituale, in un contesto nel quale — attribuita anche a questo natura giurisdizionale — la distinzione sostanziale tra i due tipi di arbitrato risulta inafferrabile (126). Le differenze della disposizione contenuta nell’art. 412-ter rispetto a quella contenuta nell’art. 808 c.p.c. consistono comunque, come si e` appena visto, soltanto in alcune precisazioni: il contratto collettivo nel quale l’arbitrato e` previsto deve essere — a norma dell’art. 412-ter — di livello nazionale (ma nulla dice neppure l’art. 412-ter circa la qualita` delle associazioni abilitate a stipularlo) e deve disciplinare specificamente alcuni aspetti del procedimento arbitrale, quali la composizione del collegio, i termini per l’adesione della parte convenuta e per l’emanazione del lodo, le modalita` di svolgimento dell’istruttoria e i criteri di liquidazione dei compensi agli arbitri. Non e` dato comprendere per quali motivi queste stesse precisazioni non dovrebbero applicarsi anche all’arbitrato rituale; mentre l’esclusione dell’arbitrato rituale dal loro campo di applicazione presterebbe il fianco alla censura di incostituzionalita` per contrasto con gli artt. 3 e 35 Cost. 567. L’impugnazione del lodo e la questione se sia ammissibile l’arbitrato irrituale secondo equita`. — L’impugnazione del lodo irrituale e` ora disciplinata dall’art. 412-quater, che contribuisce in modo decisivo a distinguere la disciplina dell’istituto qui indicato con l’espressione «arbitrato irrituale» dalla disciplina della transazione, contenuta nell’art. 2113 c.c.: l’impugnazione deve ora avvenire per mezzo di ricorso giudiziale, non essendo sufficiente l’atto stragiudiziale (127); essa e` sottoposta al termine di trenta giorni e non di sei mesi; la competenza per il giudizio e` attribuita bensi` al tribunale (invece che alla corte d’appello, come e` invece previsto dall’art. 828 c.p.c. per il lodo rituale), ma «in unico grado», cosi` sottolineandosi la natura sostanzialmente giurisdizionale del lodo, quale primo grado del giudizio (128). Il decreto legislativo n. 80/1998 aveva individuato le ragioni ammissibili di impugnazione del lodo nella violazione di disposizioni inderogabili di legge e nel difetto assoluto di motivazione; il decreto n. 387/1998, emanato pochi mesi dopo, ha invece eliminato ogni indicazione circa i motivi di invalidita` del lodo, sorgendone pertanto la questione, allo stato irrisolta, se sia ora ammissibile o no anche l’impugnazione per omesso o errato accertamento dei fatti di causa, nonche´ per insufficienza di motivazione (129) e se sia ammissibile l’impugnazione per violazione di norme inderogabili, o se invece l’arbitro possa giudicare secondo equita` (130). La disciplina dell’arbitrato irrituale si distingue da quella dell’arbitrato rituale anche per cio` che riguarda l’esecutivita` del lodo. Mentre per l’arbitrato rituale dispone l’art. 825 c.p.c. (a norma del quale il lodo puo` essere immediatamente depositato dalla parte interessata presso il tribunale competente, il quale ne verifica la regolarita` formale e lo rende esecutivo con decreto), per quello irrituale l’art. 412-quater richiede che il lodo venga notificato a iniziativa della parte interessata, con possibilita` di impugnazione entro trenta giorni; decorso tale termine, oppure quando il tribunale abbia respinto l’impugnazione, il lodo deve essere depositato presso la cancelleria del tribunale, ai fini dell’emanazione del decreto che lo rende esecutivo, previa verifica della sua regolarita` formale. Emesso il decreto, il lodo irrituale e` inoppugnabile. 568. I limiti attuali dell’arbitrato-transazione. — Ricondotto il procedimento (e il provvedimento) cui la legge fa riferimento come «arbitrato (e lodo) irrituale» alla funzione giurisdizionale e a una disciplina in larga parte sostanzialmente omogenea rispetto a quella dell’arbitrato (e del lodo) rituale, resta senza una disciplina specifica quella figura che tradizionalmente era indicata con la stessa espressione, «arbitrato irrituale», ma oggi non puo` piu` essere chiamata in questo modo: cioe` la soluzione della controversia fondata su di un accordo tra le parti del rapporto individuale di lavoro che le impegna a rispettare, come se fosse pattuito direttamente tra loro, il regolamento transattivo dettato da uno o piu` terzi, incaricati di tale compito dalle parti stesse. Io non vedo motivi giuridici che possano indurre a negare la sussunzione di questo negozio privatistico a formazione progressiva nel tipo legale della transazione. Donde la conclusione — che non mi risulta contraddetta da nessuno, ma non ha neppure il conforto di alcuna voce dottrinale, ne´ di alcuna pronuncia giudiziale, in riferimento alla disciplina legislativa della materia oggi vigente (131) — secondo cui il negozio stesso e` valido o invalido nei modi e nei limiti stabiliti dall’art. 2113 c.c. per le transazioni in materia di lavoro (§§ 558-563); piu` precisamente: — l’arbitrato-transazione, quando di questo si tratti e non dell’arbitrato con funzione giurisdizionale disciplinato dalla legge, e` pienamente valido quando esso abbia per oggetto diritti del lavoratore non nascenti da norme inderogabili di legge o di contratto collettivo (132) (cosi`, ad esempio, quando esso abbia per oggetto un elemento retributivo pattuito soltanto individualmente fra datore e prestatore di lavoro in aggiunta allo standard minimo collettivo); — l’arbitrato-transazione e` invece annullabile, mediante impugnazione entro sei mesi dall’emanazione del lodo o dalla cessazione del rapporto se successiva, quando esso abbia per oggetto diritti gia` maturati in capo al lavoratore, nascenti da norme inderogabili di legge o di contratto collettivo (§ 558); — l’arbitrato-transazione e` nullo quando abbia per oggetto diritti non ancora maturati in capo al lavoratore, nascenti da norme inderogabili di legge o di contratto collettivo, cioe` quando abbia la pretesa di sostituire per il futuro la disciplina inderogabile del rapporto (ancora § 558). 569. Applicabilita` della disciplina delle rinunce, transazioni, conciliazioni e arbitrato anche al lavoro parasubordinato. — In virtu` dell’art. 2113 c.c., c. 1o, e dell’art. 409 n. 3 c.p.c., le norme contenute negli articoli 410 e seguenti dello stesso codice di procedura, in materia di conciliazione e arbitrato, si applicano anche ai rapporti di collaborazione autonoma, coordinata e continuativa e alle relative controversie, a differenza della disciplina della decorrenza della prescrizione (v. § 571 e ivi nota 153). Sezione III Prescrizione e decadenza Sommario: 570. La prescrizione estintiva e i diritti del lavoratore che vi sono soggetti. Prescrizione breve dei diritti di natura retributiva e prescrizione ordinaria degli altri. — 571. Decorrenza e non decorrenza del termine in costanza di rapporto di lavoro. I casi di sospensione previsti dal codice civile. — 572. L’interruzione della prescrizione. — 573. La prescrizione presuntiva e il suo ridottissimo campo di applicazione nei rapporti di lavoro. — 574. Le clausole di decadenza. 570. La prescrizione estintiva e i diritti del lavoratore che vi sono soggetti. Prescrizione breve dei diritti di natura retributiva e prescrizione ordinaria degli altri. — Al fine di promuovere la certezza dei rapporti giuridici, il primo comma dell’art. 2934 del codice civile — risolvendo, ma solo in parte, la questione che aveva affaticato la dottrina, in riferimento al codice precedente, sul punto se la prescrizione estinguesse il diritto o la relativa azione — stabilisce che «Ogni diritto si estingue per prescrizione, quando il titolare non lo esercita per il tempo determinato dalla legge» (133). Il secondo comma dello stesso articolo stabilisce che «Non sono soggetti alla prescrizione i diritti indisponibili». Tra questi devono pacificamente essere annoverati i diritti della personalita`: in primis il diritto al nome, all’immagine, alla salute e integrita` fisica, alla liberta` di pensiero; ma — come abbiamo visto a suo luogo: § 557 — non i crediti retributivi del prestatore nei confronti del datore di lavoro, neppure quando essi nascano da disposizione inderogabile di legge o di contratto collettivo, dal momento che, una volta maturati, essi possono, a determinate condizioni, essere oggetto di rinuncia valida o suscettibile di convalida per mancata impugnazione entro il termine di decadenza (134). Ne e` conferma il successivo art. 2948 c.c., che indica tra i diritti suscettibili di estinzione per inerzia del titolare anche il diritto al trattamento di fine rapporto (che pure è previsto dalla legge: § 261) e a tutte le altre «indennita` spettanti per la cessazione del rapporto di lavoro» (n. 5), assoggettandolo alla prescrizione breve quinquennale (135). A prescrizione breve quinquennale è assoggettata anche la retribuzione corrente, in quanto «deve pagarsi periodicamente ad anno o in termini piu` brevi» (art. 2948, n. 4). Rientra nella retribuzione assoggettata a prescrizione breve anche il compenso per la giornata festiva coincidente con la domenica, trattandosi di una maggiorazione retributiva ricorrente ogni anno, ancorche´ con cadenza variabile a seconda delle particolarita` del calendario (136). Piu` discutibile e` il regime prescrizionale applicabile al risarcimento del danno per il mancato godimento del riposo settimanale o annuale, prevalendo in proposito l’orientamento favorevole alla prescrizione ordinaria, ma non mancando argomenti convincenti a sostegno della prescrizione quinquennale (137). Paiono invece doversi considerare senz’altro assoggettati alla prescrizione ordinaria l’indennita` sostitutiva delle ferie non godute e i premi con periodicita` ultraannuale, qual e` ad esempio un premio per il raggiungimento di una certa anzianita` di servizio. Soggetto a prescrizione ordinaria decennale ex art. 2946 c.c., in quanto non riconducibile ad alcuno dei diritti a cui si applica la prescrizione breve a norma dell’art. 2948, e` anche il diritto nascente per il lavoratore da una promessa di promozione a categoria o mansioni superiori, del quale si e` trattato a suo luogo (§§ 186-187). Lo stesso e` affermato dalla giurisprudenza prevalente a proposito del diritto all’inquadramento superiore nascente dall’avere svolto mansioni di contenuto professionale corrispondente per un periodo superiore a quello stabilito dall’art. 2103 c.c. (§ 292) (138). La prescrizione decennale e` stata ritenuta inoltre opponibile all’azione volta al riconoscimento del diritto a una determinata anzianita` di servizio, reale o convenzionale, dalla giurisprudenza favorevole alla configurabilita` dell’anzianita` come oggetto di un diritto soggettivo (139): cio` che e` peraltro negato dalla giurisprudenza prevalente e dalla dottrina a mio avviso piu` condivisibile sul punto (140). Si ritiene, infine, soggetto a prescrizione ordinaria anche il diritto all’equo premio per l’invenzione del lavoratore (§ 268). A norma dell’art. 1442 c.c., si prescrive in cinque anni il diritto del lavoratore all’annullamento del licenziamento e alla conseguente reintegrazione nel posto di lavoro, nell’area della cosiddetta tutela reale (§ 523), a condizione che egli non ne sia decaduto per difetto di impugnazione entro il termine di decadenza di sessanta giorni di cui all’art. 6 della legge 15 luglio 1966 n. 604 (§ 521). Si discute se in cinque anni si prescriva, a norma dell’art. 2948, n. 5, anche il risarcimento del danno derivante da licenziamento illegittimo, in regime di tutela reale od obbligatoria, oppure se ad esso si applichi il regime prescrizionale ordinario, trattandosi di risarcimento di danno da inadempimento contrattuale. Si e` ritenuta applicabile la prescrizione quinquennale al risarcimento del danno (aquiliano) dovuto dallo Stato al lavoratore per tardiva attuazione di una direttiva comunitaria (141). Sulla questione irrisolta della prescrizione dell’impugnazione del provvedimento disciplinare v. § 490 (e ivi nota 131). La prescrizione ordinaria decennale si applica sicuramente al risarcimento del danno pensionistico conseguente a omissione contributiva (qui il termine decorre dal momento in cui il danno si verifica, coincidente con quello del pensionamento), nonche´ al risarcimento del danno da demansionamento (§ 297), in quanto sicuramente oggetto di obbligazione nascente da inadempimento contrattuale, rispettivamente ex artt. 2115 e 2103 c.c. Lo stesso discorso vale per il risarcimento del danno alla salute o integrita` fisica subi`to dal lavoratore a causa di un difetto di sicurezza dell’ambiente di lavoro: egli infatti, come si e` visto a suo luogo (§ 227), puo` sempre far valere in questo campo una responsabilita` contrattuale del datore di lavoro ex art. 2087 c.c. 571. Decorrenza e non decorrenza del termine in costanza di rapporto di lavoro. I casi di sospensione previsti dal codice civile. — Secondo la regola generale dettata dall’art. 2935 c.c., «La prescrizione comincia a decorrere dal giorno in cui il diritto puo` essere fatto valere»: nel caso del credito retributivo, dunque, in linea generale, dal giorno in cui lo stipendio o salario avrebbe dovuto essere pagato. Si e` sostenuto in dottrina — sulla base di diversi e convergenti argomenti sistematici fondati soprattutto sulla disciplina delle rinunce e transazioni (§§ 558-562) — che, quando il credito retributivo nasca da un rapporto di lavoro subordinato, il termine prescrizionale non potrebbe decorrere in costanza di rapporto di lavoro: donde una imprescrittibilita` del credito stesso limitata nel tempo, legata a principi e regole generali dell’ordinamento giuslavoristico, da non confondersi con l’istituto della sospensione del decorso del termine disciplinata dal diritto comune (artt. 2941-2942 c.c.) (142). Questa tesi non ha, pero`, avuto seguito apprezzabile in giurisprudenza, avendo i giudici del lavoro aderito alla sistemazione della materia dettata dalla Corte costituzionale tra la seconda meta` degli anni ’60 e la prima degli anni ’70. La Corte costituzionale e` intervenuta su questa materia in un primo tempo nel 1966: precedendo gli interventi legislativi dello stesso anno e del 1970 a tutela della stabilita` del posto di lavoro (§ 513), la Corte ha dichiarato illegittimo, in riferimento all’art. 36 Cost., l’art. 2948, n. 4, c.c., «limitatamente alla parte in cui esso consente che la prescrizione del diritto alla retribuzione decorra durante il rapporto di lavoro». Nella motivazione della sentenza si legge che «durante il rapporto di lavoro ... non vi sono ostacoli giuridici che impediscono di farvi valere il diritto al salario. Vi sono tuttavia ostacoli materiali, cioe` la situazione psicologica del lavoratore, che puo` essere indotto a non esercitare il proprio diritto per lo stesso motivo per cui molte volte e` portato a rinunciarvi, cioe` per timore del licenziamento: cosicche´ la prescrizione, decorrendo durante il rapporto di lavoro, produce proprio quell’effetto che l’art. 36 ha inteso precludere vietando qualunque tipo di rinuncia, anche quella che, in particolari situazioni, puo` essere implicita nel mancato esercizio del proprio diritto» (143). Per effetto di questa sentenza, dunque, il termine prescrizionale relativo al diritto di credito retributivo resta sospeso per tutta la durata del rapporto di lavoro subordinato e riprende a decorrere dalla data della sua cessazione. Meno di due mesi dopo l’emanazione di quella sentenza, pero`, entrava in vigore la legge 15 luglio 1966 n. 604 e quattro anni dopo l’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, che nel loro combinato disposto garantivano una tutela assai efficace della stabilita` del posto di lavoro. Nuovamente investita della questione della decorrenza della prescrizione, la Corte costituzionale ha precisato la portata della propria sentenza del 1966, in un primo tempo con una pronuncia del 1969 (144), con la quale ha ribadito quanto gia` poteva desumersi dalla motivazione della precedente, cioe` che il beneficio della sospensione della decorrenza del termine doveva essere riconosciuto soltanto al lavoratore titolare di un rapporto di diritto privato «non dotato di quella resistenza, che caratterizza il rapporto d’impiego pubblico»; in un secondo tempo con una sentenza del 1972, nella cui motivazione la Corte ha affermato esplicitamente l’esclusione da quel beneficio anche del lavoratore titolare di rapporto di lavoro di diritto privato rientrante nel campo di applicazione della tutela reale contro il licenziamento ex art. 18 St. lav. (145). Nonostante che la precisazione fosse contenuta soltanto nella motivazione e non nel dispositivo della sentenza del 1972, e fosse riferita a una norma gia` parzialmente abrogata nel 1966, la giurisprudenza ordinaria successiva — disattendendo alcune voci dottrinali contrarie (146) — si e` adeguata a quest’ultimo orientamento della giurisprudenza costituzionale senza attendere l’intervento legislativo adeguatore, consolidandosi cosi` la regola, non scritta in alcuna norma di legge, ne´ in alcun dispositivo di sentenza costituzionale, per cui il termine prescrizionale decorre durante il rapporto di lavoro, anche di diritto privato, in tutti i casi in cui esso e` assistito da stabilita` in regime di tutela reale, sia questa di fonte legislativa o contrattuale (147). La Corte costituzionale e` poi tornata sulla questione con una serie di sentenze del 1979 (148), nelle quali ha affermato che spetta al giudice ordinario la valutazione, caso per caso, circa l’idoneita` del regime di stabilita` applicabile al rapporto di lavoro a escludere il metus del lavoratore nei confronti del datore e quindi a determinare il decorrere del termine prescrizionale anche in costanza di rapporto. Questo orientamento della Consulta puo` aver favorito l’affermarsi, nella giurisprudenza ordinaria, dell’orientamento nel senso della non decorrenza del termine nelle situazioni di instabilita` putativa, di cui si dira` tra breve; ma, se si escludono questi casi particolari, la giurisprudenza ordinaria e` andata sempre piu` consolidandosi nel senso di riconnettere automaticamente, senza valutazioni ulteriori circa le caratteristiche del caso concreto, all’applicabilita` del regime di tutela reale di cui all’art. 18 St. lav. la decorrenza del termine in costanza di rapporto, e viceversa (149). Si e` discusso dell’onere della prova circa l’applicabilita` dell’uno o dell’altro regime circa la decorrenza del termine. Oggi prevale nettamente in proposito l’orientamento nel senso della collocazione di quell’onere a carico del datore di lavoro che eccepisce la prescrizione: e` questi a dover dimostrare che il rapporto di lavoro si e` svolto in regime di tutela reale, con conseguente decorrenza del termine in costanza del rapporto stesso (150). Quando il rapporto si svolga per un certo periodo in regime di tutela reale, per un altro periodo in regime di tutela obbligatoria, deve ritenersi che il termine prescrizionale resti sospeso soltanto per la durata di quest’ultimo periodo (151). Come si è detto poc’anzi, la giurisprudenza e` venuta orientandosi nell’ultimo decennio, in modo molto netto, nel senso di equiparare, ai fini della prescrizione, al rapporto di lavoro non assoggettato a tutela reale il rapporto che debba considerarsi assoggettato a tale regime ma che non sia stato considerato tale dalle parti, per essere stato da esse qualificato erroneamente e/o simulatamente come rapporto di collaborazione autonoma, oppure per essere stata simulata la natura autonoma di alcune collaborazioni svolte in favore dell’azienda, il cui numero sia tale da far superare la soglia dimensionale necessaria per l’applicazione del regime di tutela reale: in tal caso, infatti, la simulazione avrebbe l’effetto di mantenere il lavoratore in quella condizione psicologica di soggezione nei confronti del datore di lavoro, alla quale l’ordinamento ricollega la sospensione della decorrenza del termine di prescrizione (c.d. situazione di instabilita` putativa del rapporto) (152). Ad altrettanto rigore non si e` ispirata, pero`, la giurisprudenza che ha negato la sospensione del termine in costanza del rapporto di collaborazione autonoma coordinata e continuativa (§§ 89 e 96) (153). Al rapporto di lavoro nautico si applica una disciplina speciale della materia, in virtu` della quale il termine prescrizionale, biennale, decorre «dal giorno dello sbarco nel porto di arruolamento successivamente alla cessazione o alla risoluzione del contratto» (art. 373 cod. nav.), oppure, nel caso del personale di volo, «dal giorno dello sbarco nel luogo di assunzione, successivamente alla cessazione o alla risoluzione del contratto» (art. 937 cod. nav.): esso non decorre dunque mai in costanza di rapporto (154). Sul piano del diritto civile comune, il termine prescrizionale resta sospeso in tutti i casi previsti dagli artt. 2941 e 2942 c.c., che non presentano un interesse rilevante nella nostra materia, nonche´ durante il procedimento giudiziale tra le parti avente per oggetto il diritto rivendicato da una di esse, fino a quando sia passata in giudicato la sentenza che definisce il giudizio (art. 2945, 2o c.). Quando oggetto della prescrizione estintiva sono diritti derivanti dall’annullamento o nullita` del licenziamento o dalla nullita` del termine apposto al contratto di lavoro, il termine prescrizionale decorre dal passaggio in giudicato della sentenza di annullamento o dichiarativa della nullita`, anche se i diritti in questione non hanno fatto parte del petitum nel giudizio che con la sentenza stessa si conclude (155). 572. L’interruzione della prescrizione. — La prescrizione, a norma dell’art. 2943 c.c., e` interrotta «dalla notificazione dell’atto con il quale si inizia un giudizio, sia questo di cognizione ovvero conservativo o esecutivo», ivi compreso «l’atto notificato con il quale una parte, in presenza di compromesso o clausola compromissoria, dichiara la propria intenzione di promuovere il procedimento arbitrale» (§ 564), oppure «dalla domanda proposta nel corso di un giudizio», nonche´, quando si tratti di un diritto di credito, «da ogni altro atto che valga a costituire in mora il debitore», atto che deve pertanto essere compiuto in forma scritta, a norma dell’art. 1219, 1o c.; a tale atto la giurisprudenza prevalente ha equiparato la domanda di ammissione al passivo del fallimento, la quale interrompe la prescrizione anche nei confronti del Fondo di Garanzia (§ 276) (156). La prescrizione e` interrotta anche «dal riconoscimento del diritto da parte di colui contro il quale il diritto stesso puo` essere fatto valere» (art. 2944), riconoscimento che produce tale effetto anche se compiuto in forma orale (157). Per effetto dell’interruzione, il termine prescrizionale incomincia a decorrere ex novo (art. 2945, 1o c.). Si e` discusso se valga a interrompere la prescrizione anche la rivendicazione del diritto presentata non dal singolo lavoratore interessato, ma dall’associazione sindacale. Sembra prevalere l’orientamento favorevole a una risposta positiva su questo punto, a condizione che sia ben determinato il novero dei lavoratori a nome dei quali l’associazione sindacale avanza la rivendicazione, avendone avuto mandato (158). 573. La prescrizione presuntiva e il suo ridottissimo campo di applicazione nei rapporti di lavoro. — Istituto nettamente diverso da quello della prescrizione estintiva e` quello della prescrizione presuntiva, la quale — operando soltanto in riferimento ai diritti di credito — non produce l’effetto dell’estinzione del diritto, bensi` quello di una mera presunzione di avvenuto adempimento dell’obbligazione. In materia di lavoro subordinato (e, a mio avviso, anche parasubordinato) (159), in virtu` dell’art. 2955, n. 2, c.c., la prescrizione presuntiva opera al compimento di un anno dalla maturazione del diritto per le tutte le retribuzioni pagabili con periodicita` non superiore al mese: dunque per gli stipendi e i salari che hanno cadenza mensile, bisettimanale, settimanale o giornaliera, ivi compresi i compensi per lavoro straordinario, festivo e notturno (anch’essi pagabili con cadenza mensile, ancorche´ non necessariamente ricorrenti ogni mese). È dubbio che si possano comprendere nel novero delle retribuzioni a cadenza mensile, ai fini dell’art. 2955, n. 2, anche la tredicesima e la quattordicesima mensilita` (§ 259). La prescrizione presuntiva produce invece il proprio effetto alla scadenza del triennio dalla maturazione, a norma dell’art. 2956, n. 1, per tutti gli elementi della retribuzione pagabili con periodicita` superiore al mese: cosi`, ad esempio, per le diarie di trasferta a carattere occasionale, per i premi di produzione annui e per il trattamento di fine rapporto. Anche al termine di prescrizione presuntiva si applica, pero`, la regola della sospensione della decorrenza per tutta la durata del rapporto di lavoro la cui stabilita` non sia protetta da tutela reale (160). Regola, questa, che una parte della dottrina ha considerato logicamente incompatibile con la ratio sottostante all’istituto della prescrizione presuntiva: donde la tesi dell’inapplicabilita` di tale istituto nella nosta materia (161). Senonche´ l’obbligo di pagamento delle retribuzioni a mezzo di prospetti-paga analitici, con corrispondente annotazione nel libro-paga aziendale (§ 272), e la diffusione del pagamento stesso a mezzo di assegni o mediante accredito in conto corrente bancario hanno privato la prescrizione presuntiva di ogni apprezzabile rilevanza pratica nella nostra materia, salvo che per il settore del lavoro domestico (§ 110), dove la retribuzione puo` essere ancora — ed e` comunemente — pagata senza prospetto analitico e senza annotazione alcuna: la documentazione aziendale e bancaria dei pagamenti effettuati consente infatti al lavoratore e al datore, normalmente (e salvi i casi eccezionali di perdita della documentazione per incendio, furto o smarrimento), di dimostrare con precisione quanto e` stato pagato di volta in volta, rendendo inutile, se non addirittura logicamente inapplicabile, qualsiasi presunzione di avvenuto pagamento per decorso del termine annuale (162). L’inversione dell’onere della prova circa l’avvenuto pagamento delle retribuzioni, decorso un anno dalla loro maturazione, opera dunque oggi, di fatto e salvi i casi eccezionali testé menzionati, soltanto nel settore del lavoro domestico, a beneficio del datore di lavoro poco accorto, che non abbia curato di raccogliere mese per mese le ricevute delle retribuzioni pagate. Ma anche qui essa opera in misura limitatissima. In primo luogo, infatti, e` assai raro che il lavoratore domestico goda di un regime di tutela reale della stabilita` del rapporto: nella quasi totalita` dei casi, pertanto, la prescrizione presuntiva puo` essere eccepita solo dopo il decorso di un anno dalla cessazione del rapporto stesso. A scoraggiare un uso disinvolto di questa eccezione, anche nel campo del lavoro domestico, sta poi l’art. 2960 c.c., a norma del quale il soggetto a cui l’eccezione venga opposta (nel nostro caso, il lavoratore) puo` deferire all’altra parte (il datore) il giuramento decisorio, esponendo cosi` il debitore mendace al rischio di incorrere nelle sanzioni di cui all’art. 371 c.p. (§ 272) (163). La prescrizione presuntiva non opera affatto per i crediti del lavoratore di natura risarcitoria, nascenti da disfunzioni del rapporto: qui infatti, stante il carattere non ordinario del credito, la presunzione di avvenuto pagamento entro l’anno o il triennio perde il proprio fondamento logico. Nonostante la precisazione — che ben puo` considerarsi pleonastica — contenuta nell’art. 2959 c.c. e l’avvertenza rivolta alle matricole di giurisprudenza da tutti i manuali di istituzioni di diritto privato, per cui la prescrizione presuntiva non puo` costituire oggetto di un’eccezione subordinata, nell’ambito di una linea difensiva fondata in via principale sulla negazione del debito (poiche´ in questo caso la tesi sostenuta in via principale offre alla controparte la prova idonea a vincere la presunzione di avvenuto pagamento del debito stesso), pare che qualche avvocato sprovveduto cada ancora in questo errore (164). 574. Le clausole di decadenza. — Accade sovente che un contratto collettivo stabilisca un termine entro il quale il datore o il prestatore di lavoro puo` esercitare una facolta` o un diritto, a pena di decadenza. Mentre nessuna questione si pone circa la validita` ed efficacia delle clausole di questo genere quando a esserne onerato sia il datore di lavoro (si pensi al termine di decadenza previsto da alcuni contratti collettivi per l’irrogazione della sanzione, al termine del procedimento disciplinare: § 484), la questione si pone invece nel caso inverso, per il pregiudizio che puo` derivarne per diritti del lavoratore costituzionalmente garantiti, qual e` soprattutto quello alla retribuzione (165). Dopo un lungo periodo durante il quale la giurisprudenza era stata ferma nel ritenere valide le clausole suddette, salva la loro nullita` comminata dall’art. 2965 c.c. per il caso in cui il termine troppo ridotto renda «eccessivamente difficile per una delle parti l’esercizio del diritto», nei primi anni ’60 la Corte di Cassazione si e` orientata nel senso dell’inammissibilita` della decadenza del lavoratore dall’esercizio del diritto, in considerazione della condizione di soggezione di quest’ultimo nei confronti del datore (166). Entrato in vigore lo Statuto del 1970 ci si sarebbe potuti attendere una nuova svolta giurisprudenziale, di contenuto analogo a quella verificatasi in materia di decorrenza della prescrizione (§ 571), in riferimento ai rapporti di lavoro assistiti da tutela reale. Questa svolta, invece, non si e` verificata: ha continuato a prevalere nettamente l’orientamento contrario all’ammissibilita` della decadenza del lavoratore in costanza di rapporto, registrandosi soltanto qualche dissenso sul punto se questo comporti drasticamente la nullita` delle clausole collettive in esame, oppure soltanto il differimento del decorso del termine in esse previsto alla cessazione del rapporto (167), in analogia a quanto disposto dall’art. 2113 c.c. in materia di impugnazione della rinuncia o transazione (§ 558). Alla giurisprudenza testé citata va certamente riconosciuto il merito di aver «fatto pulizia» di numerose clausole di decadenza rimaste nei contratti collettivi come eredita` di un lontano passato, nelle quali si esprimeva una concezione dell’equilibrio degli interessi del prestatore e del datore di lavoro assai poco permeata dei valori costituzionali. Quell’orientamento non deve tuttavia, a mio avviso, essere interpretato nel senso di una preclusione assoluta dell’istituzione in sede collettiva di termini di decadenza per l’esercizio da parte del lavoratore di facolta` attribuitegli dallo stesso contratto, quando essa risponda a esigenze organizzative ragionevoli e non vi sia ragione di temere che il lavoratore sia dissuaso dall’esercitare entro il termine la facolta` attribuitagli dalla minaccia di rappresaglie. Cosi`, ad esempio, nessuno contesta la piena legittimita` della clausola di decadenza prevista da un accordo aziendale per l’adesione dei lavoratori a un fondo di previdenza integrativa. Ne´ mi risulta che sia stata mai contestata la legittimita` delle clausole dei principali contratti collettivi nazionali per il settore dirigenziale, che impongono il termine di un mese per l’impugnazione del licenziamento ingiustificato e la rivendicazione dell’indennizzo previsto dai contratti stessi: qui infatti non sembra esservi ragione di ritenere che il lavoratore possa indugiare nell’esercizio del proprio diritto per ignoranza dello stesso, ne´ per timore di rappresaglie che ormai non avrebbero piu` modo di essergli rivolte. (1) V. sul punto ultimamente Cass. 2 marzo 2002 n. 3045, NGL, 2002, p. 387. (2) V. sul punto C. Giust. 7 febbraio 1985, nella causa n. 135/83 (Abels c. Bedrijfsvereniging ecc.), Racc, 1985, p. I-484. (3) Sulla disciplina vigente negli anni ’90, prima della riforma del diritto comunitario del 1998-2001 e della conseguente riforma del nostro diritto interno del 2001, v. soprattutto P. Lambertucci, Profili ricostruttivi della nuova disciplina in materia di trasferimento d’azienda, RIDL, 1992, I, pp. 152-207; R. Romei, Il rapporto di lavoro nel trasferimento dell’azienda, Comm Sch, 1993; Id., Il trasferimento di azienda, in AA.VV., La disciplina dei crediti del lavoratore subordinato, Torino, 1994, pp. 139-240; inoltre l’ampia rassegna di dottrina e giurisprudenza di A. Pasqualetto, Le modificazioni soggettive. Il trasferimento d’azienda, in Diritto del lavoro. Commentario, dir. da F. Carinci, vol. II a cura di C. Cester, Torino, 1998, pp. 1059-1090. Inoltre gli scritti di M. Aimo, Le garanzie individuali dei lavoratori, D. Izzi, La dimensione collettiva della tutela, P. Pelissero, Il trasferimento d’azienda fra diritto comunitario e diritto interno. L’individuazione della fattispecie, tutti in RGL, 1999, I, risp. pp. 839-868, 869-903 e 797-837. (4) Alla quale e` specificamente dedicato lo studio di A. Pizzoferrato, I riflessi della direttiva 98/50/CE sull’ordinamento italiano, DLRI, 1999, pp. 463-483. (5) Fra i primi commenti del decreto v. A. Maresca, Le «novita`» del legislatore nazionale in materia di trasferimento di azienda, ADL, 2001, pp. 587-597; M. Marazza, Impresa e organizzazione nella nuova nozione di azienda trasferita, ivi, pp. 599-617; F. Scarpelli, Nuova disciplina del trasferimento d’azienda, DPL, 2001, pp. 779-785; M.V. Ballestrero, Il trattamento economico e normativo dei lavoratori nella nuova disciplina del trasferimento d’azienda, LD, 2002, pp. 201-218. (6) V. in proposito R. Romei, Il rapporto di lavoro nel trasferimento dell’azienda, cit. nella nota 3, pp. 3-20. Sulla vicenda dottrinale v. ampiamente M.L. Vallauri, Studio sull’oggetto del trasferimento ai fini dell’applicazione del nuovo art. 2112 c.c., LD, 2002, partic. pp. 585-604. (7) Puo` considerarsi come atto iniziale di questo orientamento della Corte di Giustizia la sentenza 18 marzo 1986, nella causa n. 28/1985, Spijkers c. Gebroeders, Racc, 1986, p. 1119. (8) V. ultimamente in proposito M. Marinelli, Decentramento produttivo e tutela dei lavoratori, Torino, 2002, cap. IV e partic. pp. 235-236. (9) C. Giust. 14 aprile 1994 nella causa n. 392/92, Christel Schmidt c. Spar und Leihkasse, RIDL, 1995, II, p. 608, con nota di P. Lambertucci, Sulla nozione di trasferimento d’azienda nel diritto comunitario; C. Giust. 11 marzo 1997, nella causa n. 13/1995, Süzen c. Zehnacker (dalla quale e` tratta la citazione riportata nel testo), FI, 1998, IV, c. 437, con nota di R. Cosio, RIDL, 1998, II, p. 651, con nota di C. Faleri, I giudici comunitari rivedono la nozione di trasferimento di azienda, e MGL, 1997, p. 241; orientamento solo marginalmente corretto da C. Giust. 10 dicembre 1998, nelle cause Sanchez e Zieman, n. 173/96 e 247/96, MGL, 1999, p. 98 (in riferimento a un trasferimento di appalto di servizio di assistenza domiciliare a persone disabili e di un appalto di servizio di sorveglianza: qui la Corte indica come oggetto del trasferimento rilevante « un complesso organizzato di persone ed elementi »); C. Giust. 10 dicembre 1998, nelle cause Herna`ndez Vidal n. 127/96, Santner n. 229/96 e Go`mez Montaña n. 74/97, anche questa in MGL, 1999, p. 98 (in riferimento a trasferimenti di appalti di pulizie). V. inoltre C. Giust. 19 maggio 1992, nella causa n. 29/91, Redmond Stichting c. Hendrikus, Racc, 1992, p. I-3189 (in riferimento a un caso in cui la cessazione di sovvenzioni pubbliche in favore di un’impresa e la concessione delle stesse a un’altra aveva determinato la successione di quest’ultima all’altra nello svolgimento dell’attivita`); C. Giust. 7 marzo 1996, nelle cause n. 171 e n. 172/94, Merckx e Neuhuys c. Ford, LG, 1996, p. 717, con nota di L. Corazza, Il trasferimento di attivita` costituisce trasferimento d’impresa ai sensi della direttiva 77/187 (in riferimento a un caso in cui la successione tra le due imprese aveva avuto per oggetto un’attivita` di vendita in concessione). In senso contrario, su questo punto specifico, nella nostra giurisprudenza interna precedente, v. tra le altre Cass. 24 febbraio 1992 n. 2285, RIDL, 1993, II, p. 202, con nota di L. Nogler, Continuita` della prestazione lavorativa e trasferimento d’azienda; Cass. 17 dicembre 1994 n. 10828, RIDL, 1995, II, p. 886, con nota di M. Mariani, Trasferimento di azienda e fattispecie contermini; Cass. 18 marzo 1996 n. 2254 (MGL, 1996, p. 568, con nota di R. Sasso, Nozione di trasferimento d’azienda e successione di impresa appaltatrice; RIDL, 1997, II, p. 395, con nota di R. Romei, Trasferimento di azienda e successione in un rapporto di appalto), dove sorprendentemente si negava che la questione fosse incerta al punto da giustificare il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia. Ma in senso conforme alla giurisprudenza comunitaria citata v. Cass. 8 febbraio 1993 n. 1518, RIDL, 1993, II, p. 834, con nota di G.L. Pinto, Subingresso in appalto di servizio di pulizia e trasferimento d’azienda: una svolta giurisprudenziale? Per ulteriori riferimenti giurisprudenziali e dottrinali precedenti alla riforma del 2001, sul punto specifico dell’estinzione di concessione amministrativa nei confronti di un soggetto e rilascio della concessione per lo svolgimento dello stesso servizio ad altro soggetto, v. A. Pasqualetto, Le modificazioni soggettive ecc., cit. nella nota 3, pp. 1066-1069. (10) V. pero` ultimamente, nel senso che non basta il puro e semplice trasferimento del portafoglio perche´ si configuri il trasferimento di impresa o di azienda, Cass. 6 luglio 2002 n. 9852, per quel che mi consta ancora inedita. Su questa fattispecie particolare, per i riferimenti dottrinali e giurisprudenziali precedenti alla riforma del 2001, v. A. Pasqualetto, Le modificazioni soggettive ecc., cit. nella nota 3, p. 1066. In riferimento al regime previgente si era discusso della configurabilita` del trasferimento d’azienda ex art. 2112 c.c. nella sostituzione, operata da una compagnia di assicurazioni, di un nuovo agente a uno precedente come titolare di agenzia, affermandosi in proposito la soluzione affermativa: v. Cass. 7 ottobre 1997 n. 9728, RIDL, 1998, II, p. 382, con nota di A. Pizzoferrato, Una definitiva conferma dell’inclusione, nella nozione di trasferimento di azienda, del subingresso nella titolarita` di un’agenzia assicurativa; v. ora in proposito R. Foglia, L’attuazione giurisprudenziale del diritto comunitario del lavoro, Padova, 2002, pp. 246-249, e giurisprudenza ivi citata. (11) V. ultimamente in proposito l’ampia trattazione di R. Foglia, L’attuazione giurisprudenziale del diritto comunitario del lavoro, cit. nella nota prec., pp. 198-263. (12) L’ampliamento della fattispecie, anche in riferimento al nostro ordinamento interno, era stato anticipato dalla giurisprudenza: v. ad esempio Cass. 4 gennaio 2000 n. 23, FI, 2001, I, c. 1260; nel commento a questa sentenza (La nuova disciplina del trasferimento d’impresa: l’ambito di applicazione) R. Cosio osserva che il legislatore del 2001 «si allontana dalla nozione di azienda (art. 2555 c.c.) preferendo fare riferimento alla nozione d’impresa (art. 2082 c.c.)», ritenendo «che il legislatore abbia considerato come dato qualificante, al fine dell’identificazione della fattispecie, l’identita` funzionale dell’impresa concepita come ‘‘entita` economica’’ ... prescindendo dal dato (prima caratterizzante il diritto interno) dell’essenzialita` del trasferimento di beni aziendali» (cc. 1262-1263). La giurisprudenza precedente alla riforma riteneva peraltro necessario, perche´ potesse configurarsi la fattispecie di cui all’art. 2112 c.c., che l’attivita` dell’azienda fosse esercitata a fini di lucro: requisito che, come si è visto, è ora soppresso; v. in quel senso fra le altre Cass. 17 giugno 1997 n. 5426, RIDL, 1998, II, p. 158, con nota di M. Caro, Requisiti soggettivi e oggettivi del trasferimento d’azienda. Esplicitamente nel senso della minor estensione della nozione di t.d.a. nel nostro ordinamento interno precedente al d.lgs. n. 18/2001 rispetto all’ordinamento comunitario, v. Cass. 23 ottobre 2002 n. 14961, GLav, 2002, n. 47, p. 10, con nota di A. Stanchi, Trasferimento di ramo d’azienda tra disciplina previgente e novella. (13) V. tra le altre, ultimamente, T. Milano 6 marzo 2002, OGL, 2002, p. 78; Cass. 7 luglio 2002 n. 10348 e 12 luglio 2002 n. 10193 (per quel che mi consta entrambe ancora inedite): «il trasferimento di azienda si verifica ogni volta che venga ceduto un insieme di elementi costituenti un complesso organico e funzionalmente adeguati a conseguire lo scopo in vista del quale il loro coordinamento e` stato posto in essere; e` necessario e sufficiente, cioe`, che sia stata ceduta un’entita` economica ancora esistente, la cui gestione sia stata effettivamente proseguita o ripresa dal nuovo titolare con le stesse o analoghe attivita` economiche, sicche´ puo` configurarsi come trasferimento di azienda anche la cessione di singole unita` produttive della medesima azienda purche´ abbiano una propria autonomia organizzativa e funzionale, anche se una volta inserite nell’impresa cessionaria restino assorbite, integrate e riorganizzate nella piu` ampia struttura di quest’ultima, dovendo il giudice di merito accertare quale sia stato, secondo la volonta` dei contraenti, l’oggetto specifico del contratto, e cioe` se i beni ceduti siano stati considerati nella loro autonoma individualita` o non piuttosto nella loro funzione unitaria e strumentale» (dalla motivazione della sentenza n. 10193/2002). (14) Cfr. Cass. 7 luglio 2002 n. 10348, cit. nella nota prec.: «la nozione di trasferimento di azienda, di cui al novellato art. 2112 c.c., si identifica con qualsiasi operazione che comporti il mutamento anche parziale nella titolarita` di una attivita` economica organizzata, con o senza fini di lucro, al fine della produzione o dello scambio di beni o servizi, preesistente al trasferimento e che conserva nel trasferimento la propria identità, ivi compresi l’usufrutto e l’affitto dell’azienda» (dalla motivazione). (15) R. De Luca Tamajo parla in proposito di «lettura smaterializzata» della nozione di azienda o ramo d’azienda di cui all’art. 2112 c.c. (op. cit. nella nota 19, p. 14). (16) Cosi`, ad esempio, non veniva ravvisata la cessione di ramo d’azienda ex art. 2112 c.c. nella cessione della rete commerciale di un’impresa, con la maggior parte dei dipendenti che vi erano stati addetti, da T. Bologna 21 febbraio 1990, RIDL, 1990, II, p. 864, con nota di M. Mariani, In materia di trasferimento di ramo d’azienda. (17) V. in proposito ancora F. Scarpelli, «Esternalizzazioni» e diritto del lavoro: il lavoratore non e` una merce, DRI, 1999, pp. 351-368; nonche´ le osservazioni critiche di M.V. Ballestrero, Il trattamento economico e normativo dei lavoratori nella nuova disciplina del trasferimento d’azienda, cit. nella nota 5, pp. 206-209. V. inoltre l’interessante trattazione comparatistica di U. Runggaldier, Trasferimento d’azienda e consenso del lavoratore alla cessione del contratto, DLRI, 1999, pp. 523-540, in riferimento agli ordinamenti tedesco, austriaco e italiano e in particolare alla sentenza P. Milano 6-14 maggio 1999 (cit. nella nota 20). (18) Cass. 9 agosto 2000 n. 10500, RIDL, 2001, II, p. 607, con nota di F.M. Putaturo Donati, Fusione per incorporazione e dimissioni del dirigente: note sull’interpretazione del contratto collettivo di diritto comune. (19) V. in proposito, ad esempio, il caso a cui si riferiscono, giungendo a una qualificazione divergente della fattispecie, P. Milano 16 settembre 1998 e P. Genova 22 ottobre 1998, entrambe in RIDL, 1999, II, p. 416, con nota di L. Corazza, Esternalizzazione di un’attivita` dell’impresa e trasferimento di ramo di azienda: il caso Ansaldo: e` interessante osservare come in questo caso il giudice genovese abbia fondato la propria decisione contraria all’applicazione dell’art. 2112 c.c. sull’accertamento di un difetto di autonomia organizzativa del segmento d’azienda ceduto (su questa vicenda v. poi l’esito finale nelle sentenze di Cassazione 25 ottobre 2002 n. 15105, 4 dicembre 2002 n. 17207 e 14 dicembre 2002 n. 17919 — le prime due in corso di pubblicazione in RIDL, 2003 —, dalle quali è risultato confermato l’orientamento genovese). Per un caso inverso, di «internalizzazione» o riaccentramento di attivita` precedentemente data in appalto, nel quale tuttavia non si e` ritenuto che si configurasse un trasferimento di azienda ex art. 2112 c.c., v. recentemente T. Taranto 20 aprile 2001, RIDL, 2002, II, p. 396, con nota di P. Albi, Trasferimento d’azienda e «internalizzazione». In dottrina, sull’utilizzazione del trasferimento di ramo d’azienda in funzione di operazioni di decentramento produttivo, v. R. Romei, Cessione di ramo di azienda e appalto, relazione al convegno dell’Aidlass di Trento del giugno 1999, DLRI, 1999, pp. 325383, nonche´ in Diritto del lavoro e nuove forme di decentramento produttivo, Milano, 2000, pp. 139-205; F. Scarpelli, «Esternalizzazioni» e diritto del lavoro: il lavoratore non e` una merce, cit. nella nota 17, dove viene messa in discussione l’applicabilita` della regola della cedibilita`, in questo caso, del rapporto di lavoro senza il consenso del lavoratore interessato; inoltre R. De Luca Tamajo, La nuova disciplina del trasferimento d’azienda nel quadro dei processi di esternalizzazione produttiva, in Forme e regole del decentramento produttivo (atti del seminario dell’Agens svoltosi a Roma il 9 luglio 2001), Roma, 2001. (20) Sulla irrilevanza del consenso del lavoratore per il trasferimento del rapporto, conseguenza automatica del trasferimento dell’azienda o del ramo, v. ultimamente in dottrina R. Foglia, L’attuazione giurisprudenziale del diritto comunitario del lavoro, cit. nella nota 10, pp. 258-261; M. Marinelli, Decentramento produttivo e tutela dei lavoratori, cit. nella nota 8, partic. cap. II; e M.L. Vallauri, Studio sull’oggetto del trasferimento ecc., cit. nella nota 6, pp. 639-642, con argomentazione particolarmente convincente. In giurisprudenza v. ultimamente, nello stesso senso su questo punto, T. Milano 6 marzo 2002, cit. nella nota 13; Cass. 22 luglio 2002 n. 10701, per quel che mi consta inedita, e 23 luglio 2002 n. 10761, MGL, 2002, p. 770, con nota di A. Rondo, Nel trasferimento d’azienda la continuazione del r.d.l. con il cessionario non richiede il consenso del lavoratore; LG, 2003, p. 19, con commento di E. Barraco (la sentenza è anche in corso di pubblicazione in RIDL, 2003, II, fasc. 1, con nota di F. Scarpelli. V. inoltre P. Milano 6 novembre 1995 e 23 dicembre 1995, D&L, 1996, p. 444, dove si e`, viceversa, ritenuto che, non configurandosi la fattispecie del trasferimento di (ramo di) azienda, il consenso del lavoratore fosse necessario per la cessione del contratto, a norma dell’art. 1406 c.c. Per una isolata voce giurisprudenziale contraria sul punto dell’irrilevanza del consenso del lavoratore, in caso di trasferimento di azienda o di ramo, per il contestuale trasferimento del rapporto di lavoro in capo al cessionario, v. P. Milano 14 maggio 1999, D&L, 1999, p. 561, cui si riferiscono le notazioni dissenzienti di U. Runggaldier, cit. nella nota 17. (21) V. in proposito R. Romei, Cessione di ramo di azienda e appalto, cit. nella nota 19; R. De Luca Tamajo, I processi di terziarizzazione intra moenia ovvero la fabbrica «multisocietaria», DML, 1999, pp. 49-79; M. Marinelli, Decentramento produttivo ecc., loc. cit. nella nota prec.; R. Foglia, L’attuazione giurisprudenziale ecc., loc. cit. nella nota prec. Sul trasferimento di azienda o ramo d’azienda come forma in cui e` stata diffusamente attuata la privatizzazione della gestione di servizi pubblici, v. M. Novella, Nuove discipline delle trasformazioni dei servizi pubblici locali. Profili giuslavoristici, LD, 2002, pp. 160-180; G. De Simone, Modificazioni soggettive dei gestori di servizi pubblici locali e disciplina del trasferimento d’azienda. Prime riflessioni sul rapporto tra norme speciali e norme generali dopo il d.lgs. n. 18/2001, LD, 2002, pp. 181-199. (22) Nel senso della liberta` del datore di lavoro cedente di trattenere alle proprie dipendenze, anche senza il loro consenso, alcuni dei lavoratori in precedenza addetti al ramo ceduto, v. in dottrina R. Romei, Cessione di ramo di azienda e appalto, cit. nella nota 19, p. 369 (DLRI). Nello stesso senso, in giurisprudenza, Cass. 24 gennaio 1991 n. 671, RIDL, 1991, II, p. 678, con nota di P. Lambertucci, Trasferimento di un «ramo» dell’azienda e mantenimento dei lavoratori posti in Cig presso il datore di lavoro cedente; T. Milano 30 maggio 1998, ADL, 1998, p. 1021, cui si riferisce il commento adesivo di M. Petrassi, Trasferimento di ramo di azienda e trasferimento parziale dei dipendenti ad esso addetti, ivi, pp. 917-928; Cass. 30 agosto 2000, RIDL, 2001, II, p. 519, con nota critica di M. Marinelli, Il trasferimento di ramo di azienda e i suoi effetti sui rapporti di lavoro, dove e` stato ritenuto legittimo l’accordo aziendale che aveva previsto il mantenimento alle dipendenze dell’imprenditore cedente di alcuni lavoratori precedentemente addetti ad attivita` svolte dal complesso aziendale ceduto. In senso contrario (necessita` del passaggio in capo al cessionario di tutti i rapporti di lavoro afferenti al ramo ceduto) v. in dottrina M. Marinelli, Decentramento produttivo e tutela dei lavoratori, cit. nella nota 8, pp. 78-90; in giurisprudenza P. Milano 23 luglio 1997, ADL, 1998, p. 1019. (23) V. fra le altre Cass. 17 marzo 1993 n. 3148, RIDL, 1994, II, p. 413, con nota di S. Liebman. Nel senso che l’identita` aziendale e l’autonomia funzionale dell’insieme di beni strumentali vengono naturalmente meno quando la loro cessione interviene a notevole distanza di tempo dalla cessazione di ogni attivita` produttiva v. Cass. 30 dicembre 1999 n. 14755, RIDL, 2000, II, p. 474, con nota di S. Nappi, Liquidazione coatta amministrativa di banche, cessione dell’organizzazione di impresa e trasferimento di azienda. (24) V. in proposito P. Benevento 29 aprile 1999, RIDL, 2000, II, p. 337, con nota di P. Lambertucci, Sulle conseguenze della violazione dell’art. 47, L. n. 428/1990 nel trasferimento di ramo di azienda, su di un caso di affitto di ramo d’azienda. V. inoltre Cass. 7 luglio 1992 n. 8252, RIDL, 1993, II, p. 589, con nota di L. Angelini, Sostituzione dell’affittuario di beni aziendali: il concedente e` sempre responsabile ex art. 2112 c.c., dove si afferma che, nel caso di restituzione dell’azienda da parte dell’affittuario al proprietario, la disciplina speciale di cui all’art. 2112 si applica (soltanto) a condizione che o il proprietario stesso o un altro conduttore subentri nella posizione di gestore effettivo della stessa azienda; conforme, in riferimento alla medesima fattispecie, Cass. 21 maggio 2002 n. 7458, OGL, 2002, p. 297, NGL, 2002, p. 674. Nello stesso senso, in riferimento a un caso di prosecuzione dell’attivita` da parte di un nuovo gestore dell’azienda in affitto, Cass. 6 marzo 1998 n. 2521, RIDL, 1999, II, p. 410, con nota di V. Matto, Prosecuzione automatica del rapporto di lavoro e nullita` del licenziamento non fondato su motivi diversi dal trasferimento di azienda. (25) Cfr. Cass. 29 novembre 1996 n. 10688, RIDL, 1997, II, p. 572, con nota di P. Lambertucci, La nozione di trasferimento di azienda tra diritto comunitario e diritto interno (26) Sul punto che il conferimento in societa` costituisce trasferimento d’azienda (anche) ai fini lavoristici, v. M. Grandi, Le modificazioni del rapporto di lavoro I. Le modificazioni soggettive, Milano, 1972, p. 348-349. (27) V. in questo senso M. Grandi, Le modificazioni del rapporto di lavoro, cit. nella nota prec., p. 348; P. Magno, Le vicende modificative del rapporto di lavoro subordinato, Padova, 1976, p. 101; S. Magrini, La sostituzione soggettiva nel rapporto di lavoro, Milano, 1980, p. 104; e, con ampia argomentazione, R. Romei, Il rapporto di lavoro nel trasferimento dell’azienda, cit. nella nota 3, pp. 60-68. La giurisprudenza si e` invece prevalentemente orientata in senso favorevole alla sussunzione della fusione societaria nella nozione lavoristica di trasferimento d’azienda anche prima della direttiva del 1998: v. tra le altre Cass. 23 gennaio 1986 n. 2855, GC, 1986, I, 2855; Cass. 8 luglio 1992 n. 8315, cit. nella nota 50; Cass. 29 maggio 1996 n. 4951, GC, 1996, I, p. 2916, e RIDL, 1997, II, p. 200, con nota di P. Lambertucci, Brevi considerazioni su trasferimento di azienda e fusione societaria. In dottrina, prima della direttiva del 1998, questa interpretazione estensiva era condivisa da R. Flammia, Trasferimenti di aziende e rapporti di lavoro, ne Le trasformazioni aziendali in vista del Mercato europeo: legge e contratto collettivo, suppl. NGL, 1992, p. 25, e M. Pedrazzoli, Istituti a ratio comunitaria e attivita` dell’interprete: l’esempio del trasferimento d’azienda, ivi, p. 228. È invece da sempre pacifico che non si configura trasferimento d’azienda nella mera trasformazione di societa`: v. in proposito Cass. 4 ottobre 1985 n. 4813, NGL, 1985, p. 743; e in dottrina A. Caiafa, L’azienda: suoi mutamenti soggettivi nella crisi d’impresa, Padova, 1990, p. 90. (28) V. per tutte Cass. 15 ottobre 1991 n. 10829, DL, 1992, II, p. 260, con nota di P. Assorgia, Trasferimento di azienda e cessione del pacchetto azionario; Cass. 27 ottobre 1992 n. 11645, GI, 1993, I, 1, c. 950; T. Milano 15 dicembre 2001, OGL, 2002, p. 82. In senso contrario si registra la voce dottrinale isolata di S. Nappi, Negozi traslativi dell’impresa e rapporti di lavoro, Napoli, 1999, partic. pp. 195-234. (29) Per un caso di questo genere — consistente nell’assunzione provvisoria della gestione del Casino` municipale di Campione d’Italia da parte del Comune, in seguito alla perdita della relativa concessione da parte del precedente gestore — nel quale, applicandosi ancora l’art. 2112 c.c. nella sua formulazione precedente, si e` ritenuto che non si configurasse un trasferimento d’azienda, si sono pronunciate Cass. 22 maggio 1991 n. 5745, RIDL, 1992, II, p. 437, con nota di V.A. Poso. Analogamente, in due casi di successione nella gestione di azienda di trasporto nautico per intervento della pubblica autorita`, v. Cass. 5 marzo 1993 n. 2705, RIDL, 1994, II, p. 499, con nota di V. Pomares, Intervento della pubblica autorita` e trasferimento di azienda, e Cass. 25 maggio 1995 n. 5754, RIDL, 1996, II, p. 186, con nota di P. Lambertucci, Successione nella gestione dell’azienda di trasporto per disposizione autoritativa e disciplina del trasferimento di azienda. (30) V. in questo senso Cass. 4 febbraio 1998 n. 1152, RIDL, 1998, II, p. 780, con nota di P. Lambertucci, Trasferimento di azienda e requisizione: ivi ulteriori riferimenti giurisprudenziali e dottrinali. Per un’altra rassegna di giurisprudenza e dottrina sul punto v. A. Pasqualetto, Le modificazioni soggettive ecc., cit. nella nota 3, p. 1069. (31) Nel senso della non configurabilita` del trasferimento di azienda ex art. 2112 c.c. nella successione di due diversi gestori di un’azienda a seguito di sequestro della stessa, v. P. Catania 24 novembre 1995, MGL, 1996, p. 304, con nota di A. Caiafa, Contratto di affitto di azienda concluso dal custode giudiziario e condotta antisindacale; Cass. 16 ottobre 1996 n. 9025, RIDL, 1997, II, p. 572, con nota di P. Lambertucci, cit. nella nota 25. In senso contrario v. pero` in precedenza Cass. 26 febbraio 1985 n. 1653, mass. (32) Cass. 25 gennaio 1999 n. 672, RIDL, 1999, II, p. 785, con nota di P. Lambertucci, Sulla successione nella gestione dell’azienda conseguente a provvedimento autoritativo. (33) Su questa fattispecie e sulla sua disciplina particolare v. Cass. 7 marzo 1998 n. 2575, RIDL, 1998, II, p. 784, con nota di P. Campanella, Successione nella concessione di servizio pubblico e conservazione del trattamento economico del personale, dove la Corte, discutibilmente, non si limita all’applicazione della disciplina speciale, ma si spinge a escludere che nella fattispecie si configuri un trasferimento di azienda; Cass. 22 ottobre 1999 n. 11900, RIDL, 2000, II, p. 467, con nota di A. Occhino, dove pero` viene affrontata soltanto una questione applicativa dell’art. 122 del decreto del 1988, in materia retributiva; la tesi della non applicabilita` dell’art. 2112 c.c. nel caso della successione nella gestione di servizio di esattoria ricompare in Cass. 19 gennaio 2002 n. 572, RIDL, 2002, II, p. 855: qui la nota di P. Albi, Trasferimento d’azienda e concessioni amministrative, sottolinea il contrasto, su questo punto, tra la nostra giurisprudenza interna e la giurisprudenza comunitaria; nello stesso senso ultimamente, ma ancora in riferimento a un caso assoggettato alla norma del 1988, Cass. 16 luglio 2002 n. 10262, in corso di pubblicazione in RIDL, 2003, II, fasc. 2, con nota di L. Panaiotti. (34) V. in proposito T. Milano 26 maggio 1988 e Cass. 31 luglio 1998 n. 7544, entrambe citt. nella nota 10 al § 493. (35) V. in questo senso G. Suppiej, Il rapporto di lavoro, Padova, 1982, pp. 298-302. In senso contrario v. pero` Cass. 2 agosto 1969 n. 2920, FI, 1969, I, c. 2404, con nota di G. Pera. (36) V. tra le altre P. Lodi 28 luglio 1995, RIDL, 1996, II, p. 615, con nota di S. Gariboldi, Violazione degli obblighi procedurali e rimozione degli effetti ex art. 28 St. lav. nel trasferimento di azienda. (37) Cfr. ultimamente Cass. 4 gennaio 2000 n. 23, cit. nella nota 12. In precedenza P. Udine 9 agosto 1995, LG, 1996, p. 291, con nota di E. Brida, Trasferimento di azienda: la sanzione per omessa informazione-consultazione. In dottrina, nello stesso senso, P. Tosi, Il dovere di informazione e consultazione sindacale nel trasferimento d’azienda, ne Le trasformazioni aziendali ecc., cit. nella nota 27, p. 285; R. Foglia, Trasferimenti di azienda ed effetti sui rapporti di lavoro, MGL, 1991, p. 335. (38) V. tra le altre in questo senso P. Lodi 28 luglio 1995, cit. nella nota 36. In dottrina, nello stesso senso, E. Balletti, La legittimazione passiva nel procedimento di repressione della condotta antisindacale, DL, 1991, I, p. 430; A. Perulli, I rinvii all’autonomia collettiva: mercato del lavoro e trasferimento d’azienda, DLRI, 1992, p. 547. (39) Perche´ il lavoratore possa considerarsi «ceduto» occorre che il suo rapporto, afferente all’azienda ceduta, fosse gia` in atto alla data della cessione, non essendo sufficiente che esso fosse in atto da data successiva ma precedente alla materiale consegna dell’azienda da parte del cedente al cessionario: v. in questo senso Cass. 2 marzo 1995 n. 2417, RIDL, 1996, II, p. 420, con nota di P. Tullini, Trasferimento di azienda e rapporti di lavoro instaurati dal cedente dopo la cessione. (40) V. in proposito C. Giust. 12 marzo 1998, Dethier c. Dassy e Sovam, cit. nella nota 57. (41) V. sul punto P. Lambertucci, Profili ricostruttivi della nuova disciplina in materia di trasferimento d’azienda, cit. nella nota 3, pp. 204-207. (42) V. in proposito Cass. 19 gennaio 1988 n. 369, RIDL, 1988, II, p. 729: ivi, nella nota redazionale, alcuni riferimenti giurisprudenziali ulteriori sulla vecchia norma. (43) In precedenza, invece, la non conoscibilita` del debito da parte del cessionario al momento della cessione era considerata sufficiente a escludere la di lui corresponsabilita` solidale con il cedente per lo stesso debito: v. in questo senso, fra le altre, Cass. 23 marzo 1991 n. 3115, RIDL, 1991, II, p. 852; Cass. 27 novembre 1992 n. 12665, RIDL, 1993, II, p. 838, con nota di S. Liebman, Trasferimento d’azienda e responsabilita` dell’acquirente nel passaggio dalla vecchia alla nuova normativa. La direttiva ammette, peraltro, che limitazioni di questo genere siano introdotte negli ordinamenti interni degli Stati membri (art. 3, c. 2o). (44) Per una rassegna di giurisprudenza sui crediti di lavoro per i quali opera la coobbligazione solidale di cedente e cessionario v. A. Pasqualetto, Le modificazioni soggettive ecc., cit. nella nota 3, pp. 1075-1077. (45) Per l’orientamento dottrinale prevalente, nel senso dell’estensione della coobbligazione solidale anche ai crediti inerenti a rapporto di lavoro validamente cessato prima del trasferimento v. G. Santoro Passarelli, Il trasferimento d’azienda rivisitato, MGL, 1991, p. 473, secondo il quale la nuova formulazione della norma avrebbe «dissipato ogni dubbio» in proposito; R. Scognamiglio, Relazione di sintesi, ne Le trasformazioni aziendali in vista del Mercato europeo: legge e contratto collettivo, cit. nella nota 27, p. 143; M. Grandi, Diritti e aspettative nel trasferimento d’azienda, ivi, pp. 90-91; R. Romei, Il rapporto di lavoro nel trasferimento dell’azienda, cit. nella nota 3, pp. 182-183; in giurisprudenza, nello stesso senso, Cass. 27 novembre 1992 n. 12665, cit. nella nota 43; T. Firenze 8 ottobre 1997 (RIDL, 1998, II, p. 764, con nota adesiva di R. Romei, La responsabilita` solidale per i crediti di lavoro in caso di trasferimento di azienda al vaglio della giurisprudenza), che pero` subordina la corresponsabilita` solidale del cessionario alla conoscenza da parte sua, al momento del trasferimento, del credito inerente al rapporto di lavoro cessato. Per l’orientamento nel senso opposto v. invece S. Liebman, Trasferimento d’azienda, continuita` del rapporto di lavoro e trattamento applicabile ai lavoratori, DRI, 1992, p. 32 (dove questa opzione interpretativa sfavorevole all’ex-dipendente del vecchio datore e` indicata come una «clamorosa conseguenza» della novella legislativa); Id., Trasferimento d’azienda e responsabilita` dell’acquirente nel passaggio dalla vecchia alla nuova normativa, nota dissenziente a Cass. n. 12665/1992, cit., p. 842. Quest’ultimo orientamento, minoritario in dottrina, in senso contrario alla corresponsabilita` del cessionario per i crediti inerenti a rapporti di lavoro validamente cessati prima del trasferimento d’azienda, sembra invece prevalere oggi in giurisprudenza: T. Torino 21 ottobre 1996, RIDL, 1997, II, p. 402, con nota di G. Canavesi, Crediti del lavoratore e responsabilita` solidale del cessionario con il cedente nei trasferimenti di azienda, ai sensi del nuovo art. 2112, secondo comma, c.c.; Cass. 19 dicembre 1997 n. 12899 e P. Firenze 18 marzo 1997, entrambe in RIDL, 1998, II, p. 764, con nota di R. Romei sopra cit. (46) In senso contrario alla coobbligazione solidale per la quota di t.f.r. maturata prima del trasferimento v. Cass. 27 agosto 1991 n. 9189, RIDL, 1992, II, p. 220. (47) Cass. 16 giugno 2001 n. 8179, NGL, 2001, p. 805; RIDL, 2002, II, p. 119, con nota di P. Albi, I debiti contributivi nel trasferimento d’azienda. (48) V. in questo senso Cass. 18 agosto 2000 n. 10963, cit. nella nota 90. (49) Cfr. Cass. 16 marzo 1994 n. 2491, RIDL, 1995, p. 186, con nota di C. Corsinovi, Brevi note in tema di trasferimento di azienda e anzianita` di servizio; Cass. 2 settembre 1996 n. 8024, RIDL, 1997, II, p. 509 (che conferma T. Bologna 17 luglio 1993, ivi, 1997, II, p. 517, con nota di P. Lambertucci, Cassa integrazione straordinaria e requisito dell’anzianita` di servizio). (50) In riferimento alla normativa previgente, si riteneva invece che la disciplina collettiva applicabile ai dipendenti del cessionario sostituisse immediatamente quella applicata ai lavoratori ceduti prima del trasferimento: v. in tal senso Cass. 8 settembre 1999 n. 9545, FI, 2001, I, c. 1261. In proposito, ancora in riferimento alla normativa previgente, v. pero` anche Cass. 8 luglio 1992 n. 8315, GI, 1993, I, 1, c. 1520, con nota di A. Pizzoferrato, Trasferimento d’azienda e contratto collettivo applicabile: e` cambiato qualcosa? (51) Per l’opzione in quest’ultimo senso, in un caso di sostituzione ante tempus di contratto aziendale nell’azienda ceduta, v. P. Milano 30 marzo 1995 (OGL, 1995, p. 541, con nota — dissenziente, ma per altro aspetto della decisione — di S. Liebman, Ambito di efficacia soggettiva del «contratto collettivo di ingresso» e condotta antisindacale): «Nel trasferimento d’azienda ... l’accordo stipulato dal nuovo imprenditore con uno soltanto degli organismi rappresentativi dei dipendenti occupati nell’azienda incorporata, allo scopo di armonizzare i precedenti trattamenti con il nuovo contesto organizzativo, ha efficacia esclusivamente nei confronti degli iscritti al sindacato stipulante e la sua applicazione anche ai dipendenti iscritti a una organizzazione dissenziente costituisce condotta antisindacale»; P. Bergamo 11 agosto 1995, D&L, 1995, p. 990. In dottrina sul punto v. A. Maresca, Tutela collettiva e garanzie individuali del lavoratore nel trasferimento di azienda, ne Le trasformazioni aziendali in vista del Mercato europeo ecc., cit. nella nota 27, p. 215; P. Lambertucci, Profili ricostruttivi della nuova disciplina in materia di trasferimento d’azienda, cit. nella nota 3, pp. 191-196; G. Santoro Passarelli, Ancora sul trasferimento d’azienda, DL, 1994, I, p. 160. (52) V. in questo senso Cass. 16 marzo 1994 n. 2491, cit. nella nota 49; Cass. 5 giugno 1998 n. 5581, RIDL, 1999, II, p. 231, con nota di P. Lambertucci, Trasferimento di azienda e diritti collegati all’anzianita` di servizio. (53) V. in proposito P. Ferrara 12 febbraio 1992, RIDL, 1993, II, p. 581, con nota di L. Isenburg, Trasferimento di azienda in crisi e nuovo art. 2112 del codice civile; Cass. 18 febbraio 1997 n. 1462, RIDL, 1998, II, p. 150, con nota di A. Topo, Accordo in materia di trasferimento di azienda in crisi nel «diritto dell’emergenza» e continuita` dei rapporti di lavoro, sentenza che si segnala anche perche´ la Corte ha ivi ritenuto che non fosse necessaria la previsione esplicita, nell’accordo sindacale, della deroga alla regola della continuita` dei rapporti di lavoro, ai fini dell’interruzione dei rapporti stessi. (54) Cass. 13 novembre 2001 n. 14098, NGL, 2002, p. 113. (55) G. Pera, Le rinunce e le transazioni del lavoratore, Comm Sch, 1990, p. 119, dove l’A. sostiene che la disposizione contenuta nel terzo comma dell’art. 2112 non va intesa «soltanto in chiave di assistenza ... per il singolo lavoratore indifeso», bensi` «anche ... in chiave di tutela e di preminenza dell’interesse collettivo». (56) Sui limiti di questa deroga, in riferimento alla direttiva del 1977, v. C. Giust. 7 febbraio 1985, nella causa Abels c. Bedrijfsvereniging voor de Metaalindustrie n. 135/83, FI, 1986, IV, c. 111, con nota di M. De Luca, Licenziamenti collettivi, trasferimenti d’azienda, crisi dell’impresa, procedure concorsuali e «tutele» dei lavoratori nel diritto comunitario: brevissime note sullo stato di «conformazione» dell’ordinamento italiano; C. Giust. 25 luglio 1991, nella causa D’Urso c. Marelli, n. 362/89 (GC, 1992, I, p. 1121, con nota di G. Contaldi, Sulla tutela dei lavoratori in diritto comunitario in caso di trasferimento di imprese soggette ad amministrazione straordinaria; DL, 1991, II, p. 329, con nota di R. Foglia, Trasferimenti di aziende, procedure concorsuali «conservative» e diritto comunitario), dove si precisa che l’art. 1 della direttiva non si applica nel caso della liquidazione coatta amministrativa, ma si applica nel caso della procedura di amministrazione straordinaria, fino a quando l’attivita` dell’impresa che vi e` soggetta prosegue. In riferimento alla nuova direttiva v. A. Pizzoferrato, I riflessi della direttiva 98/50/CE sull’ordinamento italiano, cit. nella nota 4, pp. 471-476. (57) Sulla deroga alla disciplina speciale per questa procedura concorsuale, nel diritto comunitario, v. C. Giust. 12 marzo 1998, nella causa Dethier c. Dassy e Sovam n. 319/94, FI, 1998, IV, c. 437, con nota di R. Cosio. Sulla disciplina lavoristica speciale della liquidazione coatta amministrativa delle compagnie di assicurazione v. A. Minervini, Imprese cooperative e trasferimento d’azienda, Milano, 1994, pp. 63-71; S. Nappi, Negozi traslativi dell’impresa ecc., cit. nella nota 28, pp. 379-390. (58) Per una rassegna della dottrina e della giurisprudenza sui problemi di applicazione di questa disposizione v. A. Pasqualetto, Le modificazioni soggettive ecc., cit. nella nota 3, pp. 1085-1087. (59) In proposito v. soprattutto P. Lambertucci, Profili ricostruttivi della nuova disciplina in materia di trasferimento d’azienda, cit. nella nota 3, pp. 199-204; R. Romei, Il rapporto di lavoro nel trasferimento dell’azienda, cit. nella stessa nota, pp. 209-236. (60) V. pero`, in riferimento alla disciplina previgente (l. 26 maggio 1978 n. 215, art. 1), Cass. S. U. 8 agosto 1991 n. 8640 (RIDL, 1992, II, p. 420, con nota di A. Vallebona, Il trasferimento dell’azienda in crisi rivisitato dalle Sezioni Unite), secondo la quale la dichiarazione amministrativa della situazione di crisi aziendale doveva considerarsi sufficiente a escludere la continuazione del rapporto di lavoro alle dipendenze del cessionario, senza necessita` di un atto di licenziamento da parte del cedente. (61) Per un caso di questo genere v. Cass. 23 giugno 2001 n. 8621, NGL, 2001, p. 105, e RGL, 2001, II, p. 15 (qui pero`, a mio avviso, la massima redazionale e` fuorviante), con nota di M.L. Serrano, Trasferimento coattivo d’azienda e tutela dei lavoratori. (62) Il quinto comma dell’art. 47 fa ancora riferimento, a questo proposito, all’accertamento dello stato di crisi aziendale da parte del Cipi, organo che e` stato soppresso dall’art. 1, 21o comma, della legge 24 dicembre 1993 n. 537, con trasferimento delle sue competenze al ministero del lavoro (art. 1, 2o c., della legge 19 luglio 1994 n. 451). (63) Nel senso che l’accordo sindacale in questione puo` intervenire prima o dopo la data della dichiarazione di crisi aziendale, senza che questo incida sull’applicazione della norma, v. Cass. 21 marzo 2001 n. 4073, cit. nella nota 65. (64) C. Giust. 7 dicembre 1995, nella causa Spano c. Fiat, n. 472/93, FI, 1996, IV, c. 205, con nota di R. Cosio, La sentenza della Corte di Giustizia del 7 dicembre 1995, causa 472/93: effetti sull’ordinamento italiano; MGL, 1996, p. 225, con nota di R. Romei, Brevi osservazioni sulla recente sentenza della Corte di Giustizia in materia di trasferimento di un’azienda in crisi; LG, 1996, p. 455, con nota di A. Boscati, Il trasferimento di aziende in crisi al vaglio della Corte di Giustizia; RIDL, 1996, II, p. 261, con nota di P. Lambertucci, La disciplina del trasferimento dell’azienda in crisi al vaglio della Corte di Giustizia; D&L, 1996, p. 437, con nota di R. Scorcelli, Il trasferimento d’azienda delle grandi imprese in crisi e la direttiva Cee sul mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimento di impresa. Nei commenti citati sono prospettate diverse soluzioni della questione dell’incidenza diretta della norma comunitaria sulle posizioni soggettive dei singoli lavoratori coinvolti. (65) In senso contrario all’efficacia diretta della direttiva comunitaria nel nostro ordinamento interno, in riferimento al punto specifico qui in esame, v. Cass. 21 marzo 2001 n. 4073, RIDL, 2002, II, p. 114, con nota di P. Lambertucci, Il trasferimento di azienda in crisi fra diritto interno e diritto comunitario. (66) Cfr. sul punto G. Santoro Passarelli, Il trasferimento dell’azienda, in Trattato di diritto privato dir. da P. Rescigno, cit. nella nota 73, p. 602; R. Romei, Brevi osservazioni ecc., cit. nella nota 64, pp. 228-229. (67) C. Giust. 11 luglio 1985, nella causa n. 105/84 (FI, 1989, IV, c. 15) si limita a ribadire il dettato della direttiva. Questa sentenza è letta nel senso dell’esclusione dei parasubordinati dal campo di applicazione della direttiva da V. Nuzzo, Trasferimento di azienda e rapporto di lavoro, Padova, 2002, p. 57. (68) Sulla disciplina della materia precedente al codice civile v. L. Angelini, Le rinunzie e le transazioni del lavoratore, in AA.VV., La disciplina dei crediti del lavoratore subordinato, cit. nella nota 3, pp. 342-345. (69) Cfr. in proposito la giurisprudenza costituzionale in materia di prescrizione di cui si dira` nel § 571. (70) V. in proposito, anche per i riferimenti dottrinali e giurisprudenziali, l’esposizione di L.A. Cosattini, Rinunzie e transazioni, in Diritto del lavoro. Commentario, dir. da F. Carinci, vol. III, a cura di M. Miscione, Torino, 1998, pp. 613-616. (71) G. Pera, Le rinunce e le transazioni del lavoratore, cit. nella nota 55: «i diritti del lavoratore non sono ne´ assolutamente indisponibili ne´ del tutto disponibili: sono, in piena fedelta` alla lettera e allo spirito della norma, limitatamente disponibili nel senso precisato» (p. 43). Sulla «indisponibilita` relativa» dei crediti di lavoro v. anche R. Romei, La prescrizione e la decadenza, in AA.VV., La disciplina dei crediti del lavoratore subordinato, cit. nella nota 3, pp. 21-23; L. Angelini, Le rinunzie e le transazioni del lavoratore, ivi, pp. 361-373. (72) La questione di costituzionalita` del termine di decadenza, sollevata dal Pretore di Cirie` nel 1974, non e` stata esaminata dalla Consulta per ritenuto difetto di rilevanza nel caso specifico: C. cost. 30 marzo 1977 n. 51, MGL, 1977, p. 154. (73) Nel senso dell’annullabilita` — e non nullita` — dell’atto dismissivo invalido ex art. 2113 c.c. v. soprattutto R. De Luca Tamajo, La norma inderogabile ecc., cit. nella nota 76, p. 238; C. Cester, Rinunzie e transazioni (diritto del lavoro), Enc dir, XL, 1989, p. 987; G. Pera, Le rinunce e le transazioni del lavoratore, cit. nella nota 55, p. 67. Per la tesi secondo cui si tratterebbe di una «annullabilita` speciale», non riconducibile a quella di diritto comune, disciplinata dagli artt. 1425-1446 c.c., v. A. Aranguren, La tutela dei diritti dei lavoratori, Padova, 1981, p. 44; M. Buoncristiano, Le rinunzie e le transazioni del lavoratore, in Trattato di diritto privato dir. da P. Rescigno, vol. 15, I, Torino, 1986, pp. 589-590), cui aderisce L.A. Cosattini, Rinunzie e transazioni, cit. nella nota 70, pp. 616-617, dove peraltro si riconosce che la questione se si tratti di annullabilita` «speciale» o di diritto comune e` pressoche´ totalmente priva di rilievo pratico, essendo qui gli effetti dell’impugnazione dell’atto invalido compiutamente definiti dalla legge. In giurisprudenza, nel senso dell’annullabilita` dell’atto dismissivo ex art. 2113, v. tra le altre Cass. 8 luglio 1988 n. 4525, GI, 1989, I, 1, c. 1032; Cass. 5 novembre 1990 n. 10575, NGL, 1991, p. 533. Per la tesi, del tutto minoritaria, secondo la quale la sanzione comminata dall’art. 2113 sarebbe costituita dalla nullita` dell’atto dismissivo, v. invece P. Fabris, op. e loc. cit. nella nota 77. (74) Delle rinunce valide, in quanto aventi per oggetto diritti di cui il lavoratore puo` liberamente disporre, si dira` nel § 559. (75) È orientamento giurisprudenziale costante quello secondo cui il confronto, ai fini dell’individuazione del carattere peggiorativo della pattuizione, deve essere operato in riferimento a ciascun istituto contrattuale, considerato nel suo complesso, ma isolatamente dagli altri; v. per tutte in tal senso, Cass. 9 ottobre 2000 n. 13443, mass., e ultimamente Cass. 8 luglio 2002 n. 9871, per quel che mi consta inedita: «il carattere piu` o meno favorevole dell’una o dell’altra disciplina deve essere accertato con riferimento non alle singole clausole, ma alla regolamentazione complessiva di ciascun istituto, intendendosi per tale l’assetto complessivo di interessi omogenei». (76) Questa ricostruzione si deve principalmente a G. Pera, Le rinunce e le transazioni del lavoratore, cit. nella nota 55: ivi, pp. 42-43, la critica della costruzione precedentemente proposta da R. De Luca Tamajo, La norma inderogabile nel diritto del lavoro, Napoli, 1976, secondo il quale il regime della nullita` ex art. 1418 c.c. si applicherebbe agli atti dismissivi aventi per oggetto i «diritti primari», cioe` quelli derivanti direttamente dalla norma inderogabile, caratterizzati pertanto da indisponibilita` assoluta, mentre il regime dell’annullabilita` ex art. 2113 si applicherebbe agli atti dismissivi aventi per oggetto i «diritti secondari», ovvero quelli di natura risarcitoria, nascenti dalla violazione dei primi. Da altri e` stato condivisibilmente osservato, a questo proposito (F. Mazziotti, La prescrizione e la decadenza dei diritti dei lavoratori nella giurisprudenza costituzionale, in AA.VV., Il lavoro nella giurisprudenza costituzionale, Milano, 1978, p. 262) come il diritto alla retribuzione non muti la propria natura per il fatto che il pagamento avvenga in ritardo; eppure, mentre una pattuizione riduttiva della retribuzione futura deve considerarsi nulla ex art. 1418, una pattuizione riduttiva della retribuzione gia` maturata ma non ancora pagata al lavoratore e` soltanto annullabile ex art. 2113. Tra gli scritti dottrinali nei quali si manifesta adesione alla costruzione proposta da G. Pera v. soprattutto G. Ferraro, Rinunzie e transazioni del lavoratore, EGT, XXVII, 1991, § 1.3; L. Angelini, Le rinunzie e le transazioni del lavoratore, cit. nella nota 68, pp. 381-382. In giurisprudenza, nello stesso senso, v. tra le numerose altre Cass. 13 marzo 1992 n. 3093, MGL, 1992, p. 176; Cass. 9 giugno 1995 n. 6507, mass.; Cass. 13 luglio 1998 n. 6857, RIDL, 1999, II, p. 439, con nota di L. Marra, Sulla nullita` della rinuncia a credito di lavoro non ancora maturato. (77) G. Ferraro, Rinunzie e transazioni del lavoratore, cit. nella nota prec., § 1.5. Diversa e` la tesi, sostenuta da P. Fabris (L’indisponibilita` dei diritti dei lavoratori, Milano, 1978, partic. pp. 39-40) ma rimasta isolata, secondo la quale gli atti dismissivi stipulati in costanza di rapporto sarebbero radicalmente nulli, mentre sarebbero soltanto annullabili quelli stipulati dopo la sua cessazione. (78) Sul punto v. soprattutto G. Pera, Le rinunce e le transazioni del lavoratore, cit. nella nota 55, pp. 17-22; nello stesso senso v. L.A. Cosattini, Rinunzie e transazioni, cit. nella nota 70, p. 626. (79) Cfr. ancora G. Pera, Le rinunce e le transazioni ecc., cit. nella nota 55, pp. 24-25. In giurisprudenza, nello stesso senso, v. Cass. 22 ottobre 1991 n. 11167, RIDL, 1992, II, p. 1034; Cass. 28 novembre 1992 n. 12745, MGL, 1993, p. 74; P. Milano 11 gennaio 1996, OGL, p. 147; Cass. 20 gennaio 1999 n. 509, DL, 2000, II, p. 52. Assai discutibile, invece, e` l’affermazione contenuta in P. Milano 31 marzo 1995 (RIDL, 1996, II, p. 180, con nota dissenziente di I. Milianti) secondo cui sarebbe valida anche la rinuncia del lavoratore alla precedenza nella riassunzione presso la stessa azienda, in seguito a licenziamento collettivo. (80) Nel senso dell’annullabilita` della rinuncia all’impugnazione del licenziamento intimato alla lavoratrice madre durante il periodo di interdizione v. Cass. 14 dicembre 1996 n. 11181, RIDL, 1997, II, p. 589, con nota di L. Calafa`, Sul licenziamento della lavoratrice in gravidanza e sull’annullabilita` dell’atto transattivo. (81) V. in proposito § 561 e ivi nota 89. (82) Ma in tal caso la volonta` negoziale effettiva manifestata dal lavoratore deve essere accertata dal giudice con particolare rigore, tenendosi conto anche della posizione di soggezione del lavoratore stesso, che puo` spiegare la sua inerzia nel rivendicare l’adempimento da parte del datore: per alcuni riferimenti giurisprudenziali in proposito v. L.A. Cosattini, Rinunzie e transazioni, cit. nella nota 70, p. 622. (83) Nel senso della nullita`, per difetto di causa, di una transazione avente per oggetto una materia controversa (nel caso specifico: licenziamento) gia` compiutamente definita da sentenza passata in giudicato, v. T. Messina 19 febbraio 2001, RIDL, 2002, II, p. 639. (84) È stata pero` ritenuta irrilevante, per la sua genericita`, l’aggiunta da parte del lavoratore alla propria sottoscrizione della locuzione «con riserva»: Cass. 13 novembre 1997 n. 11248, RIDL, 1998, II, p. 392, con nota di E. Gragnoli, Transazioni individuali, sottoscrizione «con riserva» e assistenza sindacale. (85) V. tra le numerosissime altre Cass. 15 dicembre 1994 n. 10762, mass., dove una siffatta «quietanza» e` qualificata come «una semplice manifestazione del convincimento soggettivo dell’interessato di essere stato soddisfatto di tutti i suoi diritti e pertanto una dichiarazione di scienza priva di alcuna efficacia negoziale, che non preclude al dichiarante di agire in giudizio (nel termine di prescrizione) per il riconoscimento dei suoi diritti non ancora soddisfatti». Nello stesso senso Cass. 27 maggio 1996 n. 4872, LG, 1996, p. 951. (86) V. in questo senso P. Roma 8 giugno 1991, RIDL, 1992, II, p. 493, con nota di M. Bartesaghi, Sulla configurabilita` di una rinuncia ex art. 2113 c.c. in una «quietanza a saldo»; Cass. 2 novembre 1993 n. 10793, RIDL, 1994, II, p. 707, con nota di A. Morone; inoltre ultimamente Cass. 11 luglio 2001 n. 9407, inedita per questa parte della motivazione: «le quietanze a saldo sottoscritte dal lavoratore possono, ai sensi ed agli effetti dell’art. 2113 c.c., assumere il valore di rinuncia o di transazione, alla condizione che risulti accertato, sulla base dell’interpretazione del documento o per il concorso di altre specifiche circostanze desumibili aliunde, che esse siano state rilasciate con la consapevolezza di diritti determinati od obiettivamente determinabili e con il cosciente intento di abdicarvi o di transigere sui medesimi ... (in questi termini, di recente, Cass. n. 7306/1998; cfr. anche Cass. n. 7019/1982 e Cass. n. 2627/1985)». (87) Cass. 4 gennaio 1995 n. 77, RIDL, 1995, II, p. 436, con nota di L. Marra, Sulle modalita` dell’impugnazione della rinuncia ex art. 2113. (88) V. pero` Cass. 4 gennaio 1995 n. 77, cit. nella nota prec., dove per la validita` dell’impugnazione si richiede uno specifico mandato conferito dal lavoratore all’associazione sindacale. (89) V. in questo senso soprattutto G. Pera, Le rinunce e le transazioni ecc., cit. nella nota 55, pp. 73-75, e i riferimenti giurisprudenziali ivi citati. (90) V. in questo senso ancora G. Pera, op. cit. nella nota 55, pp. 34-35. V. pero` anche qualche incertezza giurisprudenziale su questo punto, segnalata da L.A. Cosattini, Rinunzie e transazioni, cit. nella nota 70, p. 634. Nel senso della validita` della rinuncia del lavoratore, stipulata nella forma della conciliazione in sede sindacale, alla prosecuzione del rapporto con il nuovo imprenditore cessionario dell’azienda, «dato che il diritto oggetto della rinuncia in questione deve ritenersi determinato ed attuale», v. Cass. 18 agosto 2000 n. 10963, FI, 2001, I, c. 1259, NGL, 2001, p. 113, e RIDL, 2001, II, p. 743, con nota di M. Caro, Attualita` e rinunciabilita` del diritto individuale alla conservazione del posto in caso di trasferimento dell’azienda; su questa sentenza v. pero` anche le osservazioni critiche di M.V. Ballestrero, Il trattamento economico e normativo dei lavoratori nella nuova disciplina del trasferimento d’azienda, cit. nella nota 5, pp. 206-207. (91) V. in proposito Cass. 22 ottobre 1991 n. 11167, RIDL, 1992, II, p. 1034, con nota di P. Tullini, Conciliazione stragiudiziale ed effettivita` dell’assistenza sindacale; Cass. 13 novembre 1997 n. 11248, cit. nella nota 84, dove si precisa che «non e` sufficiente la mera presenza del rappresentante sindacale, ma occorre una sua attiva partecipazione, con una effettiva opera di assistenza a favore del lavoratore»; ma vedasi anche Cass. 3 aprile 2002 n. 4730, NGL, 2002, p. 714, che ha ritenuto valida una conciliazione nella quale il sindacalista era intervenuto soltanto al termine della negoziazione. È stato, discutibilmente, affermato che per l’inoppugnabilita` della transazione sia necessaria soltanto la partecipazione alla negoziazione del sindacalista abilitato, ma non la sottoscrizione dell’atto da parte sua: T. Vicenza 31 maggio 1996, OGL, 1996, p. 405, con nota redazionale adesiva, e RIDL, 1997, II, p. 411, con nota dissenziente di G. Pera, Sulla conciliazione sindacale; la sentenza vicentina e` stata peraltro cassata da Cass. 11 dicembre 1999 n. 13910, RIDL, 2000, II, p. 575, con nota di P. Tullini, Ancora sui requisiti della conciliazione sindacale (a proposito della mancata sottoscrizione del rappresentante di fiducia del lavoratore). Sulla conciliazione in sede sindacale v. anche la trattazione di L. Renna, La composizione stragiudiziale delle controversie di lavoro, in AA.VV., La disciplina dei crediti del lavoratore subordinato, cit. nella nota 3, pp. 441-448. (92) V. in proposito la rassegna proposta da F. Stolfa, Conciliazione e arbitrato, in Diritto del lavoro. Commentario, vol. III, cit. nella nota 70, pp. 698-699. (93) Nel senso dell’interpretazione meno restrittiva sembrava essersi peraltro orientata anche la dottrina prevalente in riferimento al quadro normativo precedente alla legge n. 108/1990: v. M. Grandi, Sulla inoppugnabilita` della conciliazione in sede sindacale, MGL, 1975, pp. 327-328; C. Cester, Rinunzie e transazioni (diritto del lavoro), Enc dir, XL, 1989, p. 1003. (94) V. in questo senso M. Grandi, Sulla inoppugnabilita` della conciliazione in sede sindacale, cit. nella nota prec., p. 328; C. Cester, loc. cit. nella nota prec.; M. Magnani, Disposizione dei diritti, Digesto IV, Disc. priv., Sez. comm., V, 1990, p. 64. In senso contrario, in riferimento al quadro normativo della fine degli anni ’70, v. invece C. Assanti, Conciliazione in materia di lavoro, AppNDI, II, 1981, p. 275; P. Petino, La conciliazione stragiudiziale delle controversie individuali di lavoro, Napoli, 1979, p. 192. (95) Sulla conciliazione in sede amministrativa v. la trattazione di L. Renna, La composizione stragiudiziale delle controversie di lavoro, cit. nella nota 91, pp. 436-441 (96) M. Grandi, Sulla inoppugnabilita` della conciliazione in sede sindacale, cit. nella nota 93, pp. 329-330; M. Magnani, Disposizione dei diritti, cit. nella nota 94, p. 64. In giurisprudenza P. Lovere 29 novembre 1974, MGL, 1975, p. 325, con nota adesiva di M. Grandi teste` cit. È stata affermata la risoluzione di diritto della conciliazione inimpugnabile, in conseguenza dell’inadempimento dell’obbligazione con essa assunta dal datore di lavoro entro il termine indicato dalle parti come essenziale: Cass. 2 dicembre 1996 n. 10751, RIDL, 1997, II, p. 864, con nota di M. Palla, Risoluzione di diritto dell’accordo conciliativo stipulato in sede sindacale per mancata osservanza del termine essenziale. (97) In questo senso, in dottrina, v. soprattutto G. Giugni, La conciliazione collettiva dei conflitti giuridici di lavoro, DE, 1959, pp. 832 ss.; T. Treu, Potere dei sindacati e diritti acquisiti degli associati nella contrattazione collettiva, RDC, 1965, pp. 333-368; nonche´, piu` recentemente, M. Magnani, Disposizione dei diritti, cit. nella nota 94, p. 65; V. Leccese, Transazioni collettive e disposizione dei diritti del lavoratore, DLRI, 1991, p. 309. In giurisprudenza, nel senso della necessita` del mandato o adesione individuale affinche´ la transazione collettiva sia efficace nei confronti del singolo lavoratore, v. Cass. 25 giugno 1988 n. 4323, RGL, 1990, II, p. 309; Cass. 13 novembre 2001 n. 14098, cit. nella nota 54. (98) G. Pera, Le rinunce e le transazioni del lavoratore, cit. nella nota 55, pp. 118-120: «almeno quando non interferiscano disposti inderogabili di legge, quando tutto sia in termini d’interpretazione e di applicazione di disposti contrattuali collettivi, non vedo quale ostacolo vi sia alla transazione collettiva. Essa, appunto come transazione, e` l’equivalente sostanziale della sentenza. In luogo di una pronuncia del giudice, si ha un patto che evita il ricorso al magistrato da parte dei sindacati e che tronca il contenzioso individuale plurimo». Nello stesso senso, G. Pera, Bilancio e prospettive del contenzioso del lavoro, RIDL, 1994, I, pp. 197-199. In precedenza, nello stesso senso, v. G. Ferraro, Ordinamento ruolo del sindacato, dinamica contrattuale di tutela, Padova, 1981, partic. pp. 259-269. Cfr. anche quanto sostenne in riferimento alla controversia giudiziale collettiva T. Carnacini nel suo intervento al congresso dell’Aidlass di Pescara e Teramo del 1967, atti ne Il contratto collettivo di lavoro, Milano, 1968, pp. 86-90: «Quando ..., in contaddittorio ... fra le associazioni stipulanti, sia interpretata dal giudice con sentenza ... una disposizione collettiva avente efficacia normativa ... sui rapporti individuali di lavoro, per cui questi ultimi vi trovano in tutto o in parte la loro regolamentazione o lo strumento per porla in essere ad es. attraverso un arbitrato, allora l’accertamento fara` stato non soltanto fra le parti del processo, ma anche per gli iscritti interessati a tali rapporti. E cio` non perche´ qui il giudicato abbia una portata sua propria diversa da quella consueta, ma perche´ e` l’oggetto dell’accertamento che si trova in una posizione del tutto particolare in quanto duplice. Infatti esso, da un lato, partecipa al carattere generale ed astratto di ogni norma e quindi ha efficacia su tutto quanto abbia a ricadervi; dall’altro, a differenza della norma legislativa, e` frutto della contrattazione ancorche´ collettiva e percio` e` passibile d’interpretazione giudiziale tra le stesse parti stipulanti, per esse e per chi ad esse si e` affidato mediante l’iscrizione» (p. 89 - c.m.). Certo, la tesi di T. Carnacini non ha prevalso ne´ in dottrina, ne´ in giurisprudenza; ma i tempi sono maturi, a mio avviso, perche´ essa venga rivalutata; e quanto T. Carnacini affermava in riferimento alla sentenza sull’interpretazione corretta del contratto collettivo ben puo` estendersi all’accordo tra le parti sindacali in proposito. (99) Per una breve rassegna di dottrina e giurisprudenza in tema di transazioni collettive v. L. Angelini, Le rinunzie e le transazioni del lavoratore, cit. nella nota 68, pp. 425-428. (100) Sulla ratio della disciplina restrittiva v. tra gli altri P. Alleva, Riflessioni sulle misure di «deflazione» del contenzioso del lavoro pubblico e privato, RGL, 1998, I, pp. 127-128. (101) Sul contrasto fra volonta` dichiarata di favorire la diffusione dell’arbitrato nel nostro campo e cautele legislative che soffocano questa forma di soluzione delle controversie di lavoro, v. R. De Luca Tamajo, L’arbitrato nelle controversie di lavoro: tendenze e resistenze, in AA.VV., Conciliazione e arbitrato nelle controversie di lavoro, QDLRI, 1993, n. 13, pp. 9-19. (102) In questa prospettiva era parso collocarsi l’accordo interconfederale tripartito 22 gennaio 1983, comunemente indicato come «protocollo Scotti» (§ 54 e nota 361 al § 320): «al fine di contribuire a una rimozione delle cause di microconflittualita`, le categorie possono prevedere procedure aziendali di definizione di vertenze sull’applicazione dei contratti ed eventualmente di arbitrati collegati anche a pause di raffreddamento». (103) È ben vero che, come osserva T. Treu (Conciliazione e arbitrato in Italia: modelli culturali e riforme legislative, ne La nuova disciplina della conciliazione e dell’arbitrato, a cura di G. Loy, Padova, 2000, p. 169), «nel nostro sistema, caratterizzato da intersecazioni tra diritti di natura contrattuale e diritti di natura legislativa, e` sempre possibile trovare chi dice che una determinata questione (che sarebbe possibile affidare a un arbitro) non riguarda solo la materia contrattuale ... tra le centinaia di migliaia di norme vigenti, se ne trovera` sempre qualcuna attinente, che finisce per determinare l’impugnabilita` del lodo arbitrale»; ma e` anche vero che — come si e` visto a suo luogo: §§ 176 e 235 — nelle materie della retribuzione e dell’inquadramento professionale la giurisprudenza e` ferma nell’affermare la «sovranita`» piena della contrattazione collettiva. (104) Mi sia consentito fare rinvio in proposito al settimo capitolo del mio Il lavoro e il mercato, Milano, 1996. Per uno studio comparatistico sulla soluzione arbitrale delle controversie di lavoro v. G. Casale, L’arbitrato nelle controversie di diritto del lavoro: una prospettiva comparata, ne La nuova disciplina della conciliazione e dell’arbitrato, cit. nella nota prec., pp. 131-164; per la normativa in materia di arbitrato in vigore negli ordinamenti spagnolo, francese, tedesco, britannico e statunitense, v. rispettivamente gli scritti di J.C. Villalon, A. Jeammaud, M. Weiss, J. Clark e R. Lewis, J.J. Loewenberg, in AA.VV., Conciliazione e arbitrato nelle controversie di lavoro, cit. nella nota 101, pp. 167-253; per uno studio comparatistico riferito particolarmente agli ordinamenti britannico, francese, belga e olandese, v. A. de Roo, R. Jagtenberg, Settling Labour Disputes in Europe, Deventer-Boston, Kluwer, 1994. Per l’osservazione di una tendenza «a ridurre piuttosto che ad ampliare gli spazi concessi all’istituto» dell’arbitrato nell’ordinamento francese v. D. Borghesi, Il tentativo di conciliazione e l’arbitrato nei licenziamenti, ne La disciplina dei licenziamenti dopo le leggi 108/1990 e 223/1990, a cura di F. Carinci, Napoli, 1991, p. 276. (105) Su quella vicenda, che diede luogo a una pioggia di procedimenti giudiziali individuali, con esiti divergenti v. P.G. Alleva, Il «giallo dei decimali» nell’accordo del 22 gennaio 1983, RGL, 1983, I, pp. 477-495. (106) Cfr. in proposito M. Grandi, L’arbitrato nelle controversie collettive di lavoro, relazione svolta al seminario fiorentino del 1968 su Problemi in tema di arbitrato nelle controversie di lavoro, i cui atti sono raccolti nel volume con lo stesso titolo, Milano, 1969: «l’arbitro ... emettera` una dichiarazione dispositiva, che e` idonea a mutare il contenuto di quella norma [collettiva] e che, in caso di conflitto con essa, sara` destinata a prevalere, in quanto ha idoneita` a sostituirsi alla situazione preesistente» (p. 195). (107) Cosi`, ad esempio, nel «protocollo Iri» del 16 luglio 1986 e nell’accordo interconfederale per il settore dell’industria 25 gennaio 1990 su costo del lavoro e relazioni industriali: v. in proposito F. Corso, Conciliazione, arbitrato e ordinamento intersindacale, in AA.VV., Conciliazione e arbitrato nelle controversie di lavoro, cit. nella nota 101, pp. 21-43; G. Petraglia, Conciliazione e arbitrato nell’esperienza del protocollo Iri, ivi, pp. 131-164 (con ricca appendice bibliografica in proposito); L. Renna, La composizione stragiudiziale delle controversie di lavoro, cit. nella nota 91, pp. 447-448. (108) V. in proposito B. Caruso, Conciliazione e arbitrato nelle controversie di amministrazione e interpretazione del contratto collettivo, in AA.VV., Conciliazione e arbitrato nelle controversie di lavoro, cit. nella nota 101, pp. 45-60. (109) Cass. Torino 27 dicembre 1904 (RDComm, 1905, II, p. 45, con nota adesiva di P. Bonfante, Dei compromessi e lodi stabiliti fra industriali come vincolativi dei loro rapporti ma non esecutivi nel senso e nella forma dei giudizi): «quando le parti scelgono la via del componimento amichevole, ancorche´ per mezzo di terze persone di comune fiducia, le norme di procedura piu` non sono applicabili, perche´ non si fa luogo ad un vero e proprio giudizio contenzioso e il responso dei probiviri non e` una sentenza e non puo` avere altro valore che quello di una risoluzione contrattuale, contro cui sarebbero sempre proponibili dinanzi all’autorita` giudiziaria, come ogni altra specie di convenzione, tutte le eccezioni che potessero sorgere dalla mancanza dei requisiti necessari alla validita` di un contratto». (110) V. in questo senso ultimamente M. Bove, Il patto compromissorio rituale, RDC, 2002, partic. pp. 414-415. (111) V. in questo senso, per la dottrina processualistica del primo trentennio successivo all’emanazione del codice di procedura, L. Biamonti, Arbitrato. Diritto processuale civile, Enc dir, II, 1958, partic. pp. 935-942; T. Carnacini, L’istituto dell’arbitrato nelle controversie di lavoro, in Problemi in tema di arbitrato nelle controversie di lavoro, cit. nella nota 106, partic. pp. 12-17. In riferimento alla materia lavoristica, oltre agli scritti citati nella nota 112, v. per l’impostazione tradizionale M. Grandi, L’arbitrato irrituale nel diritto del lavoro, Milano, 1963: «il potere dell’arbitro irrituale di superare la situazione litigiosa, di comporre la lite altrui, si spiega soltanto se si riconosce ad esso l’investitura a porre in essere atti giuridici ...[i quali] non possono essere, appunto per la loro funzione dispositiva, che atti negoziali» (p. 137); in questa attivita`, l’arbitro irrituale esercita una discrezionalita` che «non e` qualcosa di molto diverso dal libero apprezzamento di cui gode il soggetto negoziale nella valutazione dei propri o degli altrui interessi, quando a cio` sia autorizzato» (p. 141); sulla stessa linea F. Stolfa, B. Veneziani, Arbitrato nel diritto del lavoro, Digesto IV, sez. comm., I, 1987, pp. 219-221: «con il compromesso [le parti] non attribuiscono all’arbitro un potere giurisdizionale bensi` il loro medesimo potere negoziale ... il lodo libero — salvo diversa disposizione del compromesso — non e` ... invalido ove si ponga in contrasto con norme di legge derogabili»; esso dunque «ha natura negoziale e non giurisdizionale». A questa impostazione tradizionale si ispirava il manuale pratico per i dirigenti della Cgil redatto da M. Vais, L’arbitrato nelle controversie di lavoro, Roma, 1973, passim e partic. p. 11 («quando sara` necessario chiarire punti di diritto, escludendo soluzioni equitative, transattive, sara` preferibile l’arbitrato rituale ... Quando invece si presenteranno elementi atti a far presumere che non si dovranno superare serie difficolta` per una soluzione transattiva, soddisfacente per le due parti, si potra` senz’altro optare per l’arbitrato irrituale»). In giurisprudenza la concezione tradizionale dell’arbitrato irrituale compare ancora in epoca relativamente recente, nella sentenza Cass. 16 maggio 1997 n. 4347, FI, 1997, I, c. 1742: «il collegio non ritiene (malgrado prese di posizione, anche recenti, di segno opposto ...) che esistano ragioni sufficienti per ripudiare il tradizionale criterio di distinzione tra arbitrato rituale e irritale, comunemente (e condivisibilmente) individuato nella dicotomia giudizio-contratto che, rispettivamente, li qualifica». (112) V. soprattutto V. Andrioli, Arbitrato irrituale, ne Le controversie in materia di lavoro. Legge 11 agosto 1973 n. 533, Bologna-Roma, 1974, partic. pp. 538-542, dove l’A. rileva l’impossibilita` «di distinguere gli arbitrati ...[rituale e irrituale in materia di lavoro] sul piano strutturale», con la conseguenza che la sola distinzione rilevante emerge sul piano della disciplina dell’impugnazione. Sostanzialmente nello stesso senso, in seguito, fra gli altri, S. Hernandez, Il problema dell’arbitrato e la disciplina in materia di lavoro, Padova, 1990, partic. pp. 89-96; C. Cecchella, L’arbitrato sui licenziamenti dopo la riforma, RIDL, 1991, I, partic. p. 209, dove l’A. parla senz’altro di «unitaria natura giudiziale e processuale» dei due tipi di arbitrato; F. Galgano, Giudizio e contratto nella giurisprudenza sull’arbitrato irrituale, in Contratto e impresa, 1997, pp. 885-889: ivi i riferimenti alla oscillante giurisprudenza in proposito. (113) Cosi` Cass. 4 ottobre 1994 n. 8046, FI, 1995, I, c. 1520, che ha segnato la svolta giurisprudenziale su questa materia. V. pero` in senso opposto, ancora tre anni dopo, Cass. n. 4347/1997, cit. nella nota 111. (114) È dello stesso anno anche il disegno di legge del Cnel 21 gennaio 1998 su questa materia, che puo` leggersi, con la sua relazione introduttiva, in LI, 1998, n. 5, pp. 72-80. Per alcune osservazioni sul relativo progetto, nella fase della sua elaborazione, v. M. Grandi, L’impugnabilita` e inoppugnabilita` degli arbitrati in materia di lavoro, DRI, 1992, p. 32; L. de Angelis, Giustizia del lavoro, Padova, 1992, pp. 136-138, dove l’A. manifesta il proprio scetticismo sulla possibilita` di effetti deflattivi di un «rilancio» delle procedure arbitrali in materia di lavoro sul contenzioso giudiziale. (115) G. Pera parla in proposito di un «rebus irrisolvibile»: Bilancio e prospettive del contenzioso del lavoro, cit. nella nota 98, p. 201. (116) Cfr. R. Flammia, Arbitrato. III. Arbitrato e conciliazione in materia di lavoro, EGT, aggiorn. VIII, 2000: «l’arbitrato irrituale e` voluto dal legislatore ... come una prosecuzione, ancorche´ facoltativa, della fase conciliativa: prosecuzione che risulti prevista dai contratti collettivi nazionali e che consista nell’affidare al giudizio di un terzo imparziale, in contraddittorio tra le parti, la materia gia` filtrata dalle medesime parti individuali in sede conciliativa». (117) V. ultimamente Cass. 4 aprile 2002 n. 4841, NGL, 2002, p. 570; Cass. 10 luglio 2002 n. 10035 e Cass. 24 luglio 2002 n. 10859, entrambe in corso di pubblicazione in RIDL, 2003, II, fasc. n. 1, con nota di C. Ceccarelli (nella seconda viene invece qualificato come rituale l’arbitrato previsto dall’art. 59 del d.lgs. 3 febbraio 1993 n. 29 — ora art. 55, c. 7o, del d.lgs. 30 marzo 2001 n. 165 —, in materia di provvedimenti disciplinari nei confronti di dipendenti di enti pubblici). In dottrina, nello stesso senso, F. Santoro Passarelli, Nozioni di diritto del lavoro, Napoli, 198132, p. 270; L. Riva Sanseverino, Diritto del lavoro, Padova, 198214, p. 501; G. Pera, L’arbitrato irrituale previsto dall’art. 7 della legge 15 luglio 1966, n. 604, in Problemi in tema di arbitrato nelle controversie di lavoro, cit. nella nota 106, pp. 118-134, dove peraltro l’A. ribadisce la tesi, gia` sostenuta in precedenza, della esperibilita` in materia di licenziamento anche dell’arbitrato rituale; S. Hernandez, Il problema dell’arbitrato e la disciplina in materia di lavoro, cit. nella nota 112, p. 24; D. Borghesi, Il tentativo di conciliazione e l’arbitrato nei licenziamenti, cit. nella nota 104, pp. 268-271. Sull’opzione esplicita delle parti firmatarie del contratto collettivo per i dirigenti del settore commerciale nel senso della qualificazione dell’arbitrato ivi previsto in materia di licenziamento come arbitrato irrituale, v. P. Tosi, La conciliazione e l’arbitrato nel licenziamento del dirigente, in AA.VV., Conciliazione e arbitrato nelle controversie di lavoro, cit. nella nota 101, p. 108. (118) V. in questo senso G. Pera, Le controversie in tema di sanzioni disciplinari e di licenziamento secondo lo Statuto dei lavoratori, RTDPC, 1971, p. 1284; L. Mengoni, Le modificazioni del rapporto di lavoro alla luce dello Statuto dei lavoratori, ne L’applicazione dello Statuto dei lavoratori. Tendenze e prospettive, Milano, 1973, p. 25. (119) Cfr. M. D’Antona, La Commissione di Garanzia come arbitro (sciopero e contrattazione collettiva nei servizi pubblici essenziali), in AA.VV., Conciliazione e arbitrato nelle controversie di lavoro, cit. nella nota 101: «il ‘‘lodo’’ previsto dall’art. 13 ... non puo` essere ricondotto alle figure previste dal diritto comune, poiche´ non si esaurisce nell’esercizio da parte del terzo di una facolta` ricompresa nell’autonomia negoziale delle parti. Esattamente al contrario, il ‘‘lodo’’ non si distingue contenutisticamente dalla ‘‘proposta’’ della Commissione — che e` espressione della cura di un interesse pubblico — avendo, rispetto ad essa, soltanto un diverso grado di definitivita`; le parti, richiedendolo, si spogliano preventivamente della facolta` di aderire o non aderire» (p. 67). (120) In proposito v. anche C. Rucci, Conciliazione e arbitrato in materia di classificazioni e qualifiche, in AA.VV., Conciliazione e arbitrato nelle controversie di lavoro, cit. nella nota 101, pp. 117-130. (121) Sulla costituzionalita` di questa disposizione una parte della dottrina ha sollevato dubbi di incostituzionalita`: v. S. Hernandez, Il problema dell’arbitrato e la disciplina in materia di lavoro, cit. nella nota 112, p. 217. (122) Sul punto che, tuttavia, come e` pacifico, electa una via non datur recursus ad alteram, v. P. Torino 5 dicembre 1989 e P. Modena 13 ottobre 1989, RIDL, 1990, II, p. 523, con nota di C. Cecchella, La cessazione degli effetti del patto compromissorio irrituale; T. Padova 23 agosto 1990, RIDL, 1991, II, p. 697; Cass. 13 gennaio 1995 n. 339, RIDL, 1995, II, p. 928, con nota di M.T. Carinci, Arbitrato ex art. 7, sesto comma, l. n. 300/1970 e (im)proponibilita` dell’azione in giudizio. Viceversa, l’azione giudiziaria preventivamente esperita preclude l’arbitrato: P. Torino 9 ottobre 1990, RIDL, 1991, II, p. 697, con nota di C. Cecchella, Arbitrato del lavoro e riunione per connessione impropria tra cause. (123) V. in proposito Cass. 3 gennaio 2001 n. 58, NGCC, 2002, I, p. 6: «applicandosi all’arbitrato irrituale la disciplina dell’art. 1722, n. 1, c.c., il mandato conferito agli arbitri deve considerarsi estinto alla scadenza del termine prefissato dalle parti, salvo che esse non abbiano inteso conferire in modo univoco a detto termine un valore meramente orientativo». (124) Sull’arbitrato previsto dall’art. 5 della legge n. 108/1990 v. F. Bianchi d’Urso, Conciliazione e arbitrato in materia di licenziamento individuale, in AA.VV., Conciliazione e arbitrato nelle controversie di lavoro, cit. nella nota 101, pp. 95-100. (125) Cass. 24 luglio 2002 n. 10859, cit. nella nota 117. (126) G. Pera, La nuova disciplina dell’arbitrato nelle controversie di lavoro, RIDL, 1999, I: «al massimo c’e` solo un’opinione del legislatore il quale mostra di credere ancora alla distinzione [fra arbitrato rituale e irrituale], ritenendo che ve ne sia un tipo, per cosi` dire, meno ‘‘degno’’ dell’altro» (p. 366). (127) V. pero`, per la tesi secondo la quale sarebbe ancora sufficiente l’atto stragiudiziale per l’impugnazione del lodo irrituale, O. Dessi`, L’impugnativa del lodo arbitrale, ne La nuova disciplina della conciliazione e dell’arbitrato, a cura di G. Loy, cit. nella nota 103, pp. 106-107. (128) V. pero` ultimamente Cass. 10 luglio 2002 n. 10035, cit. nella nota 117, secondo la quale «l’arbitrato irrituale si conclude con un lodo che non acquista l’efficacia della sentenza, ma quella dei contratti ed e` soggetto solo alle impugnative, per nullita` o annullamento, stabilite per i negozi»; pertanto «non sono esperibili nei confronti degli arbitrati irrituali i mezzi di impugnazione previsti dagli articoli 827 e seguenti del codice di procedura civile» e «in caso di arbitrato irrituale [e`] legittimamente esperibile solo l’azione per eventuali vizi del negozio». (129) Per la tesi contraria all’impugnabilita` del lodo arbitrale irrituale per omesso o errato accertamento dei fatti di causa v. R. Vaccarella, Appunti sul contenzioso del lavoro dopo la privatizzazione del pubblico impiego e sull’arbitrato in materia di lavoro, ADL, 1998, pp. 754-755. In senso opposto G. Pera, La nuova disciplina dell’arbitrato ecc., cit. nella nota 126, pp. 369-370. (130) Ritiene che, per effetto della nuova norma, il giudizio dell’arbitro irrituale sia «svincolato da regole eteronome» e possa quindi essere reso anche secondo equita` R. Flammia, Arbitrato. III) Arbitrato e conciliazione in materia di lavoro, cit. nella nota 116 (2000), § 5; v. inoltre i passi della motivazione di Cass. 10 luglio 2002 n. 10035 riportati nella nota 128. In senso contrario, oltre allo scritto di G. Pera cit. nella nota prec., v. G. Loy, La conciliazione e l’arbitrato: spunti introduttivi, ne La nuova disciplina della conciliazione e dell’arbitrato, cit. nella nota 103, pp. 7-9; O. Dessi`, L’impugnativa del lodo arbitrale, cit. nella nota 127, pp. 95-101. In senso contrario all’abitrato (anche irrituale) secondo equita`, e quindi nel senso dell’impugnabilita` (anche del lodo irrituale) per violazione di norma inderogabile di legge o di contratto collettivo, si e` registrato l’orientamento delle confederazioni sindacali maggiori nel dibattito recente sulla riforma della materia; v. in proposito G. Arrigo, La disciplina contrattuale della conciliazione e dell’arbitrato, ancora ne La nuova disciplina della conciliazione e dell’arbitrato, a cura di G. Loy, cit. nella nota 103, pp. 86-87, dove l’A. manifesta esplicitamente la contrarieta` del sindacato nei confronti dell’arbitrato-transazione: «È opinione delle Organizzazioni dei lavoratori che da una discrezionalita` assoluta degli arbitri i lavoratori abbiano molto da perdere e poco da guadagnare, anche se, in teoria, l’inosservanza delle leggi puo` tornare anche in danno del datore di lavoro; l’impugnabilita` del lodo irrituale per i soli vizi della volonta` ... non tutela affatto le parti contro decisioni contenutisticamente abnormi, perche´ se la volonta` dell’arbitro e` stata immune da errore, violenza o dolo, quanto e` stato voluto resta poi libero e discrezionale se disancorato dal rispetto delle leggi, cosi` come libero e discrezionale sarebbe il contenuto di una transazione». (131) In parte diversa da quella esposta sopra e` la posizione espressa da L. Sgarbi, Gli arbitrati in materia di lavoro dopo il d.lgs. 31 marzo 1998 n. 80, LG, 1998, pp. 457-461, secondo il quale, a norma dell’art. 5 della legge n. 533/1973, «nella formulazione residua dopo l’abrogazione dei commi 2 e 3», ...«i soggetti fra i quali sia nata una controversia in materia di lavoro possono preferire al giudizio di fronte al giudice ordinario ... o l’arbitrato rituale di cui agli artt. 806 e ss. c.p.c., o l’arbitrato ‘‘sindacale’’ di cui agli artt. 412-ter e 412-quater c.p.c. — ... previo esperimento del tentativo di conciliazione obbligatorio — oppure l’arbitrato irrituale ‘‘puro’’, purche´ il contratto collettivo [lo] autorizzi ... In quest’ultima ipotesi ... il giudizio puo` oggi consistere, se cosi` stabiliscono nel compromesso i litiganti, anche in una composizione equitativa della controversia, in deroga sia alle norme di legge che di contratto. ... Il lodo ... ha natura di atto negoziale tra privati ... ed e` impugnabile da entrambe le parti ... con i rimedi che il codice civile appresta per tutelare i contraenti in caso di negozi nulli o annullabili». L’A., pero`, non ritiene applicabile in questo caso l’art. 2113 c.c., negando egli che «il lodo pronunziato in seguito ad arbitrato ‘‘puro’’ ... sia equiparabile alla transazione», poiche´ «arbitrato libero e transazione sono istituti diversi, aventi una propria dignita` e autonomia, affermata, quanto all’arbitrato irrituale, proprio dall’art. 5 della L. n. 533/1973» (pp. 459460). (132) In questo senso, in riferimento all’«arbitrato irrituale» inteso secondo l’accezione tradizionale del termine, R. Flammia, Arbitrato, cit. nella nota 116, § 4. (133) Sulla distinzione dell’inerzia del titolare del diritto dalle figure affini della rinuncia tacita, della tolleranza e dell’acquiescienza, v. R. Romei, La prescrizione e la decadenza, cit. nella nota 71, pp. 11-13. (134) V. sul punto A. Maresca, La prescrizione dei crediti di lavoro, Milano, 1983, pp. 44-48; ma v. nel § 571 (e ivi nota 142) la tesi di questo A. circa la non prescrittibilita` dei crediti retributivi in costanza di rapporto. (135) È stata pero` recentemente ritenuta applicabile la prescrizione ordinaria decennale al credito del lavoratore nascente dalla pattuizione della cessazione del rapporto con «incentivazione all’esodo»: Cass. 11 agosto 2000 n. 10657, RIDL, 2001, II, p. 814, con nota di A. Topo, Transazione in materia di lavoro e prescrizione del diritto da essa sorto. (136) In questo senso e` orientata la giurisprudenza nettamente prevalente: v. Cass. 25 gennaio 2001 n. 1018, NGL, 2001, p. 351: «Rientrano nel concetto di retribuzione e restano soggetti al regime della prescrizione dei crediti di lavoro non solo gli emolumenti corrisposti in funzione dell’esercizio dell’attivita` lavorativa, ma anche tutti gli importi che, pur senza trovare riscontro in una precisa prestazione lavorativa, costituiscono adempimento di obbligazioni pecuniarie imposte al datore di lavoro da leggi o da convenzioni nel corso del rapporto e hanno origine e titolo nel contratto di lavoro, mentre ne restano escluse le sole erogazioni originate da cause autonome ovvero da responsabilita` del datore di lavoro. Ne consegue che soggiacciono alla prescrizione quinquennale i crediti per le maggiorazioni dovute ai dipendenti, retribuiti a misura fissa, in caso di coincidenza delle festivita` ... con la domenica». Nello stesso senso, in riferimento specifico alla prescrizione del compenso aggiuntivo per coincidenza della festivita` infrasettimanale con la domenica, si registra una serie di sentenze di merito, tutte a quanto mi consta inedite, riferite a una controversia collettiva promossa da numerosi lavoratori contro Banca Intesa: T. Trento 15 aprile 2002, T. Treviso 20 settembre 2002, T. Roma 19 settembre 2002; T. Firenze 28 ottobre 2002; T. Vicenza 20 dicembre 2002; in senso contrario, fra queste, soltanto T. Torino 5 luglio 2002, anch’essa inedita, a quanto mi consta, che ha ritenuto applicabile in questo caso la prescrizione decennale. (137) V. soprattutto S. Centofanti, Prescrizione e lavoro subordinato, Napoli, 1987, pp. 141-142. (138) V. in proposito anche nota 286 al § 187; sull’applicabilita` qui della prescrizione decennale v. S. Centofanti, Prescrizione e lavoro subordinato, cit. nella nota prec., pp. 129-133. (139) Cass. 21 dicembre 1983 n. 7541, RGEnel, 1984, p. 694; Cass. 12 ottobre 1984 n. 5122, DL, 1985, II, p. 122; P. Livorno 19 febbraio 1987, RIDL, 1988, II, p. 439, con nota di V. Marino, Trasferimento d’azienda: riconoscimento dei diritti derivanti dall’anzianita` pregressa e prescrizione. (140) V. tra le altre Cass. 26 febbraio 1985 n. 1654 e 21 giugno 1985 n. 3743, FI, 1985, I, c. 2599; e ultimamente A. Torino 6 maggio 2002, GLav, 2002, n. 40, p. 28. In dottrina v. nello stesso senso A. Maresca, La prescrizione dei crediti di lavoro, cit. nella nota 134, pp. 322-324: «si deve spostare l’attenzione sulla prescrizione non dell’anzianita`, ma dei diritti ad essa connessi»; S. Centofanti, Prescrizione e lavoro subordinato, cit. nella nota 137, pp. 134-136: «l’anzianita` di servizio di per se´ non si prescrive, ma cio` non nel senso che non si possa esperire un’azione per il suo accertamento, bensi` in quello che ognuna delle pretese che ad essa sono ricollegate (ad es. determinati scatti di anzianita`, un diverso trattamento di fine rapporto) e` insensibile a quel mancato accertamento, potendo solo prescriversi in ragione del regime proprio (che per lo piu` sara` di prescrizione quinquennale)» (p. 135). (141) Cass. 2 aprile 2001 n. 5249 e 15 dicembre 2001 n. 15332, DL, 2002, II, p. 36, con nota di G. Verrecchia, Tardiva attuazione di una direttiva comunitaria e termine di prescrizione del diritto. (142) A. Maresca, La prescrizione dei crediti di lavoro, cit. nella nota 134, pp. 55-130. Per una esposizione sintetica e discussione della tesi di M. v. R. Romei, La prescrizione e la decadenza, cit. nella nota 71, pp. 25-28. (143) C. cost. 10 giugno 1966 n. 63, FI, 1966, I, c. 985, e RGL, 1966, II, p. 369, con nota di L. Bigliazzi Geri, Retribuzione e prescrizione. La dichiarazione di incostituzionalita` ha investito anche gli artt. 2955, n. 2, e 2956, n. 3, c.c., in materia di prescrizione presuntiva: v. in proposito § 573. (144) C. cost. 20 novembre 1969 n. 143, RGL, 1970, II, p. 711; v. in proposito S. Centofanti, Prescrizione e lavoro subordinato, cit. nella nota 137, dove l’A. osserva che questa sentenza «faceva presagire gli scricchiolii dell’evoluzione successiva, laddove, anche per valorizzare una pretesa continuita` di indirizzo, si sottolineava che la risposta negativa al quesito di costituzionalita` era insita nella stessa motivazione della sentenza n. 63, ‘‘alla stregua della quale va interpretato il dispositivo’’» (p. 71). (145) C. cost. 12 dicembre 1972 n. 174, RGL, 1973, II, p. 17, con nota vivacemente dissenziente di L. Ventura, Corte costituzionale e prescrizione dei crediti dei lavoratori: brevi considerazioni su di una norma di legge inesistente e su di una sentenza che l’ha dichiarata (parzialmente) costituzionale. La stessa critica di quella sentenza e` ripresa ultimamente da S. Ciliegi, Prescrizione e decadenza, in Diritto del lavoro. Commentario, dir. da F. Carinci, III, cit. nella nota 70, p. 646, dove si parla di «una funambolica operazione tecnico-giuridica orientata a ottenere la reviviscenza della norma in precedenza dichiarata incostituzionale». In realta` tutta la portata correttiva della sentenza del 1966 era contenuta soltanto nella motivazione della sentenza del 1972: non nel dispositivo, col quale veniva dichiarato incostituzionale un articolo (che istituiva un termine di decadenza per la rivendicazione della retribuzione maturata) di contratto collettivo recepito in decreto delegato a norma della legge n. 741/1959 (§ 67). (146) Oltre alla tesi di A. Maresca cit. all’inizio di questo paragrafo (nota 142) e ai commenti a Cass. S.U. n. 1268/1976 citt. nella nota seg., v. S. Centofanti, Prescrizione e lavoro subordinato, cit. nella nota 137: «al di la` dell’indirizzo interpretativo temporaneamente accolto dalla prevalente giurisprudenza ..., regula juris tuttora sussistente nel nostro ordinamento e` quella della decorrenza della prescrizione per tutti i rapporti di lavoro subordinato solo dalla cessazione del rapporto. A tale soluzione devesi pervenire ... per una ragione semplice quanto fondamentale, e che cioe` nessun atto avente valore di legge e` intervenuto dal 12 giugno 1966, da parte del Parlamento o da altro organo investito del relativo potere, a modificare la disciplina risultante dalla sentenza d’illegittimita` parziale n. 63 del 1966» (pp. 95-96). V. anche la rassegna della dottrina su questo punto proposta da R. Romei, La prescrizione e la decadenza, cit. nella nota 71, pp. 28-29. (147) Orientamento consolidatosi con Cass. S.U. 12 aprile 1976 n. 1268, MGL, 1976, p. 190, con nota di G. Tamburrino, Nuove osservazioni sulla prescrizione dei diritti dei lavoratori e sulla sua decorrenza nel corso del rapporto di lavoro; nonche´ RGL, 1976, II, p. 46, ivi commentata da U. Natoli, V. Andrioli, A. Di Majo, S. Cassese e M. D’Alberti, M. D’Antona, A. Maresca, alle pp. 265-332. (148) C. cost. 1o giugno 1979 nn. 40 e 41, e 18 giugno 1979 nn. 42, 43, 44 e 45, GCost, 1979, pp. 338 ss., con commento di G. Pera, e RGL, 1979, II, pp. 377 ss., con nota di A. Maresca, Decorre o non decorre la prescrizione in costanza del rapporto di lavoro subordinato? L’ultima parola al legislatore. (149) V. in questo senso Cass. S.U. 13 febbraio 1984 n. 1076, RIDL, 1984, II, p. 432. (150) Cass. 17 aprile 1986 n. 2736, FI, 1988, I, c. 1271, con nota di F. Baldari; Cass. 21 giugno 1989 n. 2968, mass.; Cass. 9 dicembre 1994 n. 10555, mass. In senso inverso v. però Cass. 11 novembre 1986 n. 6616, FI, 1988, I, c. 1271. (151) Sul punto v. A. Maresca, La prescrizione ecc., cit. nella nota 134, pp. 296-309, dove l’A. — per l’ipotesi in cui ci si ponga nell’ordine di idee, da lui criticato, della decorrenza del termine prescrizionale in costanza di rapporto di lavoro assistito da stabilita` reale — opta per la tesi della cumulabilita` dei periodi di prescrizione, anche non continuativi, corrispondenti ai periodi nei quali il lavoratore abbia goduto della tutela forte contro il licenziamento (partic. p. 303). (152) Cass. 24 marzo 1992 n. 3658, RIDL, 1993, II, p. 614, con nota di C. Fossati, Decorrenza della prescrizione: la tranquillita` effettiva del lavoratore conta piu` della qualificazione astratta del rapporto; Cass. 8 novembre 1995 n. 11615, RIDL, 1996, II, p. 429, con nota di C. Zoli, Eccezioni alla regola della decorrenza della prescrizione in costanza di rapporto di lavoro: i nodi vengono al pettine; Cass. 20 giugno 1997 n. 5494, RIDL, 1998, II, p. 165, con nota di L. Nannipieri, Prescrizione dei crediti retributivi, effettiva situazione psicologica di metus del lavoratore e certezza del diritto: l’ipotesi del lavoro in nero; Cass. 15 dicembre 1997 n. 12665, RIDL, 1998, II, p. 546, con nota di P. Albi; Cass. 23 aprile 2002 n. 5934, DPL, 2002, p. 2327. (153) V. ultimamente in questo senso Cass. 3 luglio 2001 n. 13323, RIDL, 2002, II, p. 266, con nota di A.V. D’Oronzo, Lavoro parasubordinato e decorrenza del termine di prescrizione dei crediti; Cass. 23 aprile 2002 n. 5934, NGL, 2002, p. 678; Cass. 20 maggio 2002 n. 7310, NGL, 2002, p. 635. In dottrina, nello stesso senso, A. Maresca, La prescrizione ecc., cit. nella nota 134, pp. 218-223; S. Centofanti, Prescrizione e lavoro subordinato, cit. nella nota 137, pp. pp. 161-164, il quale peraltro vede a questo proposito «incongruita` e indicazioni di principio contrapposte»: «netto e` in particolare il contrasto [della delimitazione della regola speciale attinente alla decorrenza della prescrizione] con l’ampio spettro dell’art. 2113», che si applica anche al lavoro parasubordinato. (154) V. in proposito L. Menghini, I contratti di lavoro nel diritto della navigazione, Milano, 1996, pp. 495-501. (155) Cass. 16 giugno 1987 n. 5303, RIDL, 1988, II, p. 287, con nota di R. Altavilla, Successione di contratti a termine e decorrenza della prescrizione dei crediti retributivi derivanti dall’esistenza di un unico ed unitario rapporto a tempo indeterminato. (156) Cass. 18 aprile 2001 n. 5658, RIDL, 2002, II, p. 643, con nota critica di S. Tozzoli, Crediti di lavoro diversi dal t.f.r., natura solidale dell’obbligazione del Fondo di Garanzia e interruzione della prescrizione: una pronuncia subito smentita? (157) V. in questo senso S. Ciliegi, Prescrizione e decadenza, cit. nella nota 145, p. 647, e giurisprudenza ivi citata. (158) V. in questo senso, tra le poche altre, Cass. 5 febbraio 1988 n. 1234, mass. In dottrina, S. Centofanti, Prescrizione e lavoro subordinato, cit. nella nota 137, pp. 193-194: «deve attribuirsi efficacia interruttiva all’atto posto in essere da un legale o da un’associazione sindacale in nome e per conto del lavoratore, sia in quanto la relativa procura puo` provarsi essere stata conferita preventivamente in forma orale, sia perche´ potrebbe intervenire una ratifica sempre nella stessa forma e anche dopo il maturarsi del termine di prescrizione o di decadenza». Per ulteriori riferimenti giurisprudenziali e dottrinali in proposito, anche di diverso segno, e per la discussione della questione circa la forma del mandato che dal lavoratore deve essere stato conferito all’associazione sindacale affinche´ l’effetto interruttivo possa prodursi, v. R. Romei, La prescrizione e la decadenza, cit. nella nota 71, pp. 97-98. (159) Nel senso della non applicabilità della norma al rapporto di lavoro autonomo v. però Cass. 24 ottobre 1961 n. 2353, mass. Nel senso dell’infondatezza della questione di costituzionalita` circa l’applicabilita` della prescrizione presuntiva in materia di lavoro si era pronunciata C. cost. 14 giugno 1962 n. 57, GI, 1962, I, 1, c. 1295, e GCost, 1962, I, p. 660, sulla quale v. R. Romei, La prescrizione e la decadenza, cit. nella nota 71, p. 31; nel senso dell’infondatezza manifesta della stessa questione v. poi recentemente Cass. 3 ottobre 1998 n. 9825, RIDL, 1999, II, p. 682, con nota di M.L. Vallauri, Sull’ambito di applicabilita` delle prescrizioni presuntive. Per il dibattito dottrinale sulla compatibilità della ratio dell’istituto della prescrizione presuntiva con i principi giuslavoristici e l’assetto del rapporto di lavoro, v. nota 161. (160) Abbiamo gia` visto, infatti (nella nota 143), come il dispositivo della sentenza della Corte costituzionale n. 63/1966 sia riferito anche alle norme sulla prescrizione presuntiva dei crediti di lavoro contenute negli artt. 2955 e 2956 c.c. (161) L. Bigliazzi Geri, Retribuzione e prescrizione, cit. nella nota 143, p. 377. Posizioni in parte diverse sono espresse da A. Maresca, La prescrizione ecc., cit. nella nota 134, pp. 195-203, il quale rileva una «vera e propria contraddizione» nel differimento al termine del rapporto dell’operativita` della presunzione di avvenuto pagamento (p. 202), ma delinea, de iure condendo, una prospettiva di possibile rivitalizzazione dell’istituto; e da S. Centofanti, Prescrizione e lavoro subordinato, cit. nella nota 137, pp. 173-183, il quale, pur dando atto dello «scadimento operativo dell’istituto» soprattutto a causa degli obblighi di documentazione gravanti sul datore, afferma che «se pur si puo` comprendere che in alcuni progetti legislativi sia stata prevista la scomparsa [dell’istituto stesso], non se ne puo` escludere una residua pratica utilita`, al pari di quella ancor oggi offerta per altri rapporti (ad esempio quello dei liberi professionisti), non meno soggetti a specifici obblighi di documentazione contabile» (p. 179). (162) Per la tesi della incompatibilita` logica dell’istituto della prescrizione presuntiva con la normativa che obbliga il datore di lavoro alla documentazione analitica dei pagamenti retributivi, v. P. Torino 28 settembre 1981, RGL, 1982, II, p. 193, con ampia nota di S. Iasi. V. pero`, nel senso della compatibilita` con l’eccezione di prescrizione presuntiva della consegna da parte del datore al prestatore di lavoro di un prospetto consuntivo a fini fiscali contenente l’indicazione di una retribuzione complessiva corrisposta in misura inferiore al dovuto, T. Lucca 16 maggio 1992, RIDL, 1993, II, p. 618. (163) V. in proposito G. Pera, Prescrizione nel diritto del lavoro, Digesto IV, sez. comm., XI, 1995, p. 217, gia` in GC, 1991, II, p. 314; R. Romei, La prescrizione e la decadenza, cit. nella nota 71, p. 29. (164) È accaduto nel caso deciso da P. Reggio Emilia 2 novembre 1995, RIDL, 1996, II, p. 726, con nota di F. Portera. Per un altro caso analogo v. Cass. 13 marzo 1989 n. 1266, cit. da B. Miranda, Le prescrizioni presuntive nel rapporto di lavoro subordinato, Padova, 2001, p. 86. (165) V. in proposito G. Borre`, Contributo allo studio della validita` delle c.d. clausole di decadenza contenute nei contratti collettivi di lavoro, RGL, 1963, I, pp. 1-34 (ivi una rassegna completa della giurisprudenza e della dottrina precedenti sulla materia); L. Galantino, Le clausole di decadenza dei contratti collettivi, Padova, 1974: ivi, alle pp. 105-122, una rassegna delle clausole collettive di decadenza piu` diffuse; R. Romei, La prescrizione e la decadenza, cit. nella nota 71, pp. 103-122. (166) Cass. 24 agosto 1963 n. 2358, FI, 1964, I, c. 102. (167) V. nei due sensi Cass. 28 maggio 1969 n. 1881 e Cass. 23 ottobre 1969 n. 3463, FI, 1969, I, c. 2773. Su questa vicenda giurisprudenziale, come su quella relativa all’invalidita` delle rinunce e transazioni, v. il saggio di G. Giugni, Le rinunzie e le transazioni del lavoratore: un riesame critico, DL, 1970, I, pp. 3-11, le cui osservazioni finali, a più di trent’anni di distanza, ben possono essere poste a conclusione di questa trattazione: «L’irrinunziabilita` e l’intransigibilita` sono decisamente uno dei cardini del sistema, ma esse non devono divenire ... una forma di limitazione della capacita` del lavoratore, che al limite sia veramente negazione di liberta`. ... In passato sono state abolite le forme di manomorta fondiaria; non creiamo ora una manomorta salariale; non limitiamo cioe` la disponibilita` del salario e degli altri crediti derivanti dal rapporto di lavoro secondo una scelta predeterminata dello Stato. Questo non sarebbe solo una costrizione di liberta`, ma contrasterebbe anche con le esigenze di una economia di sviluppo, nella quale occorre una larga e rapida circolazione di beni».