tribunale civile di torino - Partito Democratico – Circolo di Chieri e Riva

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BREVI NOTE SUL “COLLEGATO LAVORO” LEGGE 04/11/2010 N. 183
Dal 24 novembre 2010 sono in vigore le nuove norme previste dal cosiddetto
collegato lavoro alla finanziaria 2009.
Il provvedimento, come è noto, ha avuto un travagliato iter parlamentare
culminato con il rinvio alle Camere da parte del presidente della Repubblica e
contiene anche alcune deleghe al Governo, tra le quali quelle sui lavori usuranti e
sugli ammortizzatori sociali.
Rispetto al testo originario, che aveva destato più di una preoccupazione in
ambito sindacale - soprattutto da parte della CGIL - la modifica più rilevante e
certamente depotenziante dell’impatto della norma sui rapporti di lavoro riguarda
l’arbitrato, che seppur privilegiato rispetto al ricorso al giudice, diventa
volontario e viene escluso per i casi di licenziamento.
Passiamo ad esaminare sinteticamente le principali novità introdotte.
ARBITRATO E CONCILIAZIONE
In primo luogo, la procedura di conciliazione preventiva di cui all’art 410
c.p.c. tra lavoratori e datori di lavoro avanti le Commissioni provinciali di
conciliazione attivate presso le Direzioni Provinciali del Lavoro, perde l’efficacia di
“condizione di procedibilità” delle controversie aventi ad oggetto i rapporti di
lavoro; in sostanza, da obbligatoria, nel senso che il mancato esperimento
rendeva improcedibile ogni causa, diventa facoltativa e può essere promossa
da chi vi abbia interesse, anche per il tramite dell’associazione sindacale cui
aderisce.
Inoltre, in qualunque fase del tentativo di conciliazione facoltativo, o al suo
termine in caso di mancata riuscita, le parti possono indicare la soluzione anche
parziale sulla quale concordano, affidando alla Commissione di conciliazione
provinciale il mandato di risolvere in via arbitrale la controversia. Il lodo (la
decisione del Collegio arbitrale) deve essere pronunciato entro sessanta giorni e
può essere impugnato avanti il Tribunale del lavoro che deciderà in qualità di
giudice unico.
1
Non è però questa la parte della riforma che nelle intenzioni originarie del
legislatore doveva maggiormente incidere sulle controversie di lavoro, quanto
quella avente ad oggetto il successivo art. 412 del codice di procedura civile.
L’articolo (titolo: altre modalità di conciliazione ed arbitrato) praticamente
negletto, è stato riscritto ed ampliato e prevede ora che ferma la facoltà di
rivolgersi all’autorità giudiziaria e di avvalersi delle procedura di arbitrato e
conciliazione di cui sopra, le controversie aventi ad oggetto i rapporti di lavoro
dipendente (ed assimilati, come il rapporto di agenzia) possano essere proposte
innanzi ad un collegio di conciliazione ed arbitrato irrituale, cui si può anche
chiedere di decidere secondo equità e no secondo diritto, composto da un
rappresentante di ciascuna delle parti ed un presidente scelto di comune accordo
dagli arbitri tra professori universitari di diritto ed avvocati cassazionisti.
Il collegio deve tentare la conciliazione e se non riesce, acquisire le prove e
decidere sulla controversia, mediante lodo, entro tre mesi dalla nomina concorde
degli arbitri. Anche in questo caso, il lodo è impugnabile avanti il Tribunale del
lavoro.
Le cd. clausole compromissorie, che prevedono ab origine la deroga alla
competenza della magistratura in favore degli arbitri, possono essere inserite nei
contratti di lavoro solo ove previste da accordi interconfederali o contratti
collettivi e devono essere, a pena di nullità, certificate dagli organi di
certificazione, già previsti dalla legge e potenziati dallo stesso Collegato, su cui
torneremo in seguito.
Si tratta del cuore della riforma, (la cui entrata in vigore è peraltro differita di
almeno 18 mesi, a meno che le associazioni sindacali e datoriali non si accordino
prima
sull’introduzione
delle
clausole
compromissorie)
che
però
risulta
depotenziata negli effetti a seguito dell’intervento della Presidenza della
Repubblica e delle conseguenti modifiche introdotte.
Infatti, rispetto al testo originario, il legislatore è stato “convinto” ad introdurre
alcune modifiche a tutela del lavoratore, sicchè ora:
-
Il ricorso all’arbitrato è escluso per i casi di licenziamento, rimanendo
nella competenza esclusiva inderogabile dei Tribunali;
2
-
la scelta del lavoratore di introdurre una clausola compromissoria nel
contratto potrà avvenire solo dopo il periodo di prova, ove previsto,
oppure trascorsi almeno 30 giorni dalla stipulazione del contratto di
lavoro.
Rimangono tuttavia nel “Collegato” altre norme che riducono le garanzie dei
lavoratori.
IMPUGNAZIONE DEI LICENZIAMENTI
Una evidente riduzione delle garanzie dei lavoratori dipendenti è costituita
dalla drastica riduzione dei termini per impugnare il licenziamento (ritenuto)
illegittimo. Si passa da un termine lungo di 5 anni ad un strettissimo: 60
giorni dalla comunicazione scritta o dalla comunicazione (sempre scritta) dei
motivi, ove non contestuale.
Inoltre, l’impugnazione perde efficacia qualora non sia seguita dal deposito,
entro 270 giorni del ricorso avanti il giudice del lavoro o dell’istanza di
conciliazione/arbitrato
di
cui
sopra.
In
tale
ultima
ipotesi,
qualora
conciliazione e/o arbitrato non abbiano esito, il ricorso al giudice deve essere
depositato a pena di decadenza entro ulteriori 60 giorni.
E’ chiaro che la riduzione dei termini va tutta a vantaggio dei datori di lavoro,
implicando una più facile decadenza del diritto del lavoratore ad impugnare il
licenziamento anche quando sussistano fondati motivi.
La norma si applica, tra l’altro, anche alle impugnazione dei provvedimenti di
trasferimento di sede di lavoro, ai licenziamenti che presuppongono la
risoluzione di questioni relative alla qualificazione del rapporto di lavoro o alla
legittimità del termine apposto al contratto, all’azione di nullità del termine
apposto al contratto di lavoro, alle cessioni e conversioni dei contratti a
termine (anche per contratti a termine già in corso) ed ai recessi dei
committenti dai contratti CO.CO.CO.
Mi
risulta che il
cd. decreto “mille proroghe” avesse accolto un
emendamento del PD che prevedeva la reintroduzione del termine lungo di 5
anni almeno per i lavoratori precari (nel senso di CO.CO.CO.). Ora però
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Napolitano ha “bloccato” il decreto, quindi bisognerà vedere che fine farà
l’emendamento.
CONVERSIONE DEL CONTRATTO A TEMPO DETERMINATO
In ipotesi in cui il lavoratore sia stato più volte assunto dal medesimo datore
di lavoro con più contratti a tempo determinato, succedutisi nel tempo senza
soluzione di continuità per più di 36 mesi con assegnazione alle medesime
mansioni, si presuppone che tali contratti siano stati diretti ad aggirare la
normativa che prevede la possibilità di apporre un termine al contratto di
lavoro solo in un numero tassativo di casi e per specifiche esigenze (tipico il
caso dei lavoratori stagionali). Il lavoratore ha pertanto il diritto di vedersi
riconosciuta la conversione del contratto a tempo determinato in contratto a
tempo indeterminato, con decorrenza dalla data di stipula del primo dei
contratti a tempo determinato susseguitisi.
A seguito della riforma il principio rimane, tuttavia:
1) il lavoratore vede ridotto il termine per chiedere la conversione da cinque
anni ai sessanta giorni di cui sopra;
2) il lavoratore, che prima aveva diritto a ricevere tutte le differenze
retributive e contributive non percepite nel periodo lavorato applicando il
contratto a tempo indeterminato con effetto retroattivo al primo giorno
lavorato, ora vede determinata l’indennità spettantegli ad una somma
omnicomprensiva tra 2,5 e 12 mensilità (in genere i giudici ne
liquidano 6) dell’ultima retribuzione globale di fatto.
Diciamo che così, ad occhio, nel passare dal ricevere l’adeguamento
retributivo e contributivo di 36 mensilità alla corresponsione a forfait delle
ultime 6 mensilità, il lavoratore - in media - dovrebbe rimetterci.
COMMISSIONI DI CERTIFICAZIONE PREVENTIVA
In conclusione, due parole sulle commissioni di certificazione, che potrebbero
essere la bomba a scoppio ritardato del “Collegato”.
La legge in oggetto rinforza ed incentiva il ruolo della certificazione
preventiva dei contratti, già presente nel nostro ordinamento ma sinora
scarsamente utilizzata.
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In pratica, le Commissioni di certificazione, credo di composizione paritetica
tra sindacati ed organizzazioni datoriali, dovrebbero esprimere un parere
motivato sulla qualificazione del rapporto di lavoro dedotto nel contratto, del
quale indicano la natura e le caratteristiche previa individuazione della
tipologia più pertinente, dal punto di vista giuridico, alla regolamentazione
adottata dalle parti ed eventualmente integrata a seguito dei rilievi e dei
suggerimenti delle Commissioni stesse.
La certificazione è vincolante non solo per le parti, ma anche per i terzi, quali
gli enti previdenziali, l’Agenzia delle Entrate e le Direzioni provinciali del
lavoro.
Venendo al “Collegato”, l’art. 30 comma 4, consente la certificazione
volontaria di tutti i contratti in cui sia dedotta direttamente o indirettamente
una prestazione di lavoro, con la finalità di ridurre il contenzioso in
materia di lavoro.
All’evidente scopo di ridurre oltre che il contenzioso, anche i poteri di
intervento del giudice, il comma secondo del citato art. 30 stabilisce che
ove sia avvenuta la certificazione del contratto di lavoro “il giudice non può
discostarsi dalle valutazioni delle parti espresse in sede di certificazione” per
quanto riguarda “la qualificazione del contratto di lavoro” e “l’interpretazione
delle relative clausole”.
I primi commenti sul punto individuano nella norma il rischio di una grave
limitazione del diritto di azione delle parti, conseguente alla sottrazione
al potere di accertamento del giudice non solo della qualificazione della
fattispecie negoziale (cioè, quale tipo di contratto sia stato realmente e
concretamente stipulato dalle parti al di là del titolo da loro indicato), ma
anche dell’intero contenuto contrattuale.
Ciò è maggiormente grave se si considera che l’accordo sulla certificazione
preventiva deve essere stipulato al momento della costituzione del
rapporto di lavoro, quando massima è la debolezza contrattuale della parte
che offre la prestazione lavorativa e che la commissione, prestando mera
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assistenza tecnica, ben difficilmente potrà operare per riequilibrare lo
squilibrio dei rapporti tra le parti contrattuali.
Nonostante la seconda parte del citato comma secondo del Collegato
prosegua ridimensionando la previsione, consentendo comunque l’intervento
del magistrato quando siano allegati l’erronea qualificazione del contratto e la
difformità tra il programma contrattuale e la sua successiva applicazione,
permangono molti dubbi sulla norma, anche dal punto di vista costituzionale.
Dubbi accresciuti dal fatto che la norma attribuisce alle commissioni poteri di
accertamento retroattivo anche con riferimento a contratti già in corso di
esecuzione.
Al di là delle questioni di costituzionalità e di un eventuale futuro intervento
della Corte, ritengo che, da un punto di vista politico, questo aspetto della
riforma andrebbe approfondito chiarito e spiegato, cercando anche di capire
quale
sia
l’orientamento
delle
organizzazione
sindacali
all’attivazione delle commissioni ed al loro funzionamento.
Fabrizio Olivero
6
in
merito
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