i proemi nelle monografie sallustiane

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Scrivere storia e fare storia:
i proemi nelle monografie
sallustiane
Anche in tempi recenti parte della critica si è posta il problema se i proemi delle due monografie di Sallustio si colleghino in modo organico al contesto dell’opera o ne restino staccati, come
semplici tributi pagati al genere storiografico secondo il modello greco. Tale dubbio era già presente nei lettori antichi, come ad esempio in Quintiliano.
Nei primi due brani del percorso di lettura ci proponiamo di far emergere dai proemi gli elementi che illuminano la visione della storia di Sallustio e la sua stessa scelta di scrivere storia:
questo dimostra l’importanza dei proemi, che rappresentano la premessa “teorica” all’opera di
Sallustio.
Il terzo brano (che riporta il cap. 5 del Bellum Iugurthinum) chiarisce invece i motivi per cui Sallustio ha scelto di trattare in una monografia proprio una guerra apparentemente marginale e
poco gloriosa come quella contro il principe di Numidia. Il fatto che si sia trattato di una guerra
«grandiosa, accanita e di esito incerto» (bellum magnum et atrox variaque victoria) si lega strettamente alle dinamiche sociali e alle lotte di potere che questo episodio ha fatto emergere ed ha
accentuato in Roma: la corruzione dilagante; l’apparire di un homo novus (Mario) in grado di
opporsi allo strapotere dei nobili; il nuovo legame che si crea tra eserciti e comandanti; infine,
l’origine stessa della guerra civile tra Mario e Silla.
ITA
TESTO 1 De Catilinae coniuratione 1-4
LAT/ITA TESTO 2 Bellum Iugurthinum 4
LAT
TESTO 3 Bellum Iugurthinum 5
TESTO 1
Il proemio
del De Catilinae coniuratione
De Catilinae coniuratione 1-4
A una prima lettura la riflessione che Sallustio pone in apertura della monografia sembra aderire e
uniformarsi a schemi letterari precedenti, sia greci sia latini. Tuttavia, a ben vedere, il contenuto di
questi primi capitoli del testo non si adegua banalmente a modelli prefissati, ma anzi ha più di un
motivo di originalità. Innanzitutto serve a motivare la condizione personale di Sallustio che, pur essendo ancora relativamente giovane, si era dovuto ritirare dalla vita pubblica, cosa in sé non ritenuta
degna per un cittadino romano. Sull’esempio di Platone che nella settima Lettera aveva rivisitato la
sua vita e a seguito di alcune delusioni di carattere politico aveva deciso di dedicarsi unicamente alla
filosofia, Sallustio spiega la sua scelta di lasciare la corruzione della vita pubblica e di dedicarsi alla
scrittura della storia, in modo da poter incidere positivamente sulla vita politica attiva, servendosi
della storiografia come strumento pedagogico. Anche altri uomini politici romani del passato avevano
scritto di storia, ad esempio Catone, ricoprendo ancora incarichi pubblici; a differenza loro, Sallustio
inaugura un otium letterario che non ha contropartita nel negotium e anzi cerca nell’attività letteraria
un motivo di impegno.
Oltre alla riflessione sul dato personale, il proemio del De Catilinae coniuratione pone alcune queA. DIOTTI, S. DOSSI, F. SIGNORACCI, Res et fabula © SEI 2012
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stioni di base circa la visione della storia di Sallustio: anzitutto i concetti di virtus e ingenium, gli
strumenti che permettono all’uomo di conquistare la gloria: non è più l’appartenenza al ceto nobiliare
che pone un individuo al di sopra degli altri, ma la sua capacità di agire sulla realtà e operare per ottenere il proprio scopo a vantaggio di tutti (da qui la polemica antinobiliare). Inoltre fa intravedere
quella che per lui è la causa della crisi della repubblica, originata proprio dall’incapacità e dalla corruzione di una classe dirigente che si era chiusa nella difesa del proprio interesse, trascurando
quello dello stato.
Sallustio infatti, nel primo paragrafo, mette subito in evidenza il desiderio della gloria futura, come
motore delle imprese più alte e di una vita ben distinta da quella degli altri esseri animati: la fama
può essere raggiunta tanto con la forza quanto con l’ingegno e ciò vale ancor più per i governanti, che
spesso non sanno applicare all’amministrazione in tempo di pace quelle stesse energie che impiegano nel vincere le guerre.
Oltre alle considerazioni di carattere generale di cui abbiamo detto, Sallustio pone anche una questione di carattere metodologico, affermando di voler affrontare la trattazione della storia romana
carptim, cioè per episodi, attraverso monografie dedicate a eventi particolarmente degni di memoria
o, come in questo caso, di grave pericolo per la vita stessa della res publica.
Così Sallustio dichiara il suo discostarsi dalla linea storico-narrativa tradizionale nella cultura romana,
che era rappresentata dal racconto continuo dell’annalistica.
(1) Tutti gli uomini che si studiano di superare ogni altro vivente, con somma energia conviene si adoprino per non trascorrere la vita nel silenzio, come le bestie che la natura fece chine in terra e solo ubbidienti agli impulsi del ventre. Ora, tutta la nostra forza risiede nell’animo e nel corpo; dell’animo
usiamo il potere, del corpo l’ubbidienza; quello abbiamo in comune con gli dèi, questo con gli animali. Perciò mi sembra più giusto cercare la gloria con la forza dell’ingegno che con quella delle membra e, poiché la vita di cui fruiamo è breve, rendere durevole quanto più possibile la memoria di noi. Infatti la gloria della ricchezza e della beltà è fragile e fugace, la virtù dura splendida e eterna.
Ma a lungo tra i mortali vi fu aspra contesa se la gloria militare provenisse dalla forza del corpo o dal valore dell’animo. Infatti prima d’intraprendere bisogna decidere, e quando tu abbia deciso, si deve rapidamente operare. Così entrambe le cose, di per sé difettose, necessitano ciascuna dell’aiuto dell’altra.
(2) Dunque all’inizio i re – ché sulla terra questa fu la prima denominazione del potere – secondo inclinazioni diverse esercitavano alcuni l’ingegno, altri la forza fisica; allora la vita degli uomini trascorreva senza cupidigia; a ciascuno bastava il suo. Ma poi, quando in Asia Ciro, 1 in Grecia gli Spartani e gli
Ateniesi, presero a sottomettere città e nazioni, a reputare che la gloria più grande risiedesse nel potere
più grande, allora infine alla prova dei fatti si riconobbe che in guerra la supremazia spetta all’ingegno.
Che se la forza d’animo di re e comandanti valesse così in pace come in guerra, le umane vicende si
conterrebbero con maggior equilibrio e costanza, non vedresti tutte le cose mutare e rimescolarsi. Poiché il potere facilmente si conserva con le doti dell’animo che all’inizio lo generarono. Ma quando
l’inerzia si diffonde in luogo dell’efficienza, la sfrenatezza e l’orgoglio in luogo dell’equità e della continenza, allora la fortuna cambia insieme con i costumi. Così il potere si trasferisce sempre dal meno capace al migliore.
L’agricoltura, la navigazione, l’arte edilizia obbediscono all’ingegno. Ma molti mortali, schiavi del ventre e del sonno, trascorrono ignoranti e incolti la vita, simili a viandanti. A essi senza dubbio contro natura il corpo è piacere, l’animo un peso. Vita e morte di costoro io ritengo alla pari, poiché dell’una e
dell’altra si tace. Mentre certamente, infine, mi sembra vivere e godere della vita quello che, intento a
qualche attività, cerca la gloria di un’illustre impresa e di una nobile occupazione.
(3) Ma in così grande quantità di opere, la natura mostra a ognuno un diverso cammino. È bello giovare allo stato; anche non è disdicevole il bene esprimersi; è lecito acquistare fama in pace o in guerra;
molti hanno ottenuto gloria operando, molti narrando le imprese altrui. Quanto a me, sebbene non
pari gloria segua chi scrive e chi compie le imprese, tuttavia mi sembra oltremodo arduo scrivere storie:
primo perché bisogna equiparare le parole ai fatti, secondo perché, nel riprovare i delitti, i più riterranno le tue parole dettate da malvolenza, e nel narrare il grande valore e la gloria dei buoni, ognuno
accoglierà di buon animo ciò che crede di poter agevolmente operare, ma ciò che è al di sopra crederà
falso come parto di fantasia.
1.
Il fondatore dell’impero persiano (VI secolo a.C.).
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Ora, fin da giovane, come i più, fui tratto da ambizione alla vita pubblica, e ivi incontrai molte avversità,
poiché invece della modestia, della parsimonia, del valore, regnavano sfrontatezza, prodigalità, avidità.
Sebbene il mio animo disprezzasse tutto ciò, inesperto tuttavia fra tanti vizi, la mia fragile età, sedotta
dall’ambizione, veniva mantenuta in un clima di corruzione; e sebbene dissentissi dai pravi costumi
degli altri, tuttavia la medesima cupidigia di gloria mi tormentava esponendomi come gli altri alla maldicenza e all’invidia.
(4) Dunque, allorché l’animo trovò posa fra tante tribolazioni e pericoli, e decisi di trascorrere il resto
della mia vita lontano dalle cure pubbliche, non pensai di consumare un tempo prezioso nell’inerzia e
nella pigrizia, né spenderlo dedicandomi all’agricoltura o alla caccia, attività da schiavi; ma tornato alla
mia passione d’un tempo da cui mi aveva distolto la mala ambizione, decisi di narrare le gesta del popolo romano per episodi, così come mi risultavano degne di memoria, tanto più che avevo l’animo scevro da speranze, timori, passioni politiche.
Dunque narrerò in breve, con quanta più verità potrò, la congiura di Catilina; poiché tale fatto stimo
sopra tutti memorabile per l’eccezionalità del delitto e del rischio. Ma prima di cominciare il racconto,
mi corre l’obbligo di esporre qualcosa sull’indole di costui.
(trad. di L. Canali)
approfondimento
Una chiave di lettura dei proemi sallustiani
Nella sua introduzione al De Catilinae coniuratione, G. Pontiggia propone un’originale interpretazione
della fortuna critica dei proemi sallustiani. Infatti i dubbi e le perplessità sulla pertinenza dei proemi
di taglio filosofico con le trattazioni storiche che seguono sono di vecchia data, se è vero che già
Quintiliano (Institutio oratoria X, 1) sosteneva che Sallustius in bello Iugurthino et Catilinae nihil ad historiam pertinentibus principiis orsus est («Sallustio nella guerra giugurtina e nel Catilina partì con esordi
che non riguardavano per nulla il genere storico»). Per contro, proprio il taglio moralistico dei
proemi assicurò la loro fama nel Medioevo, che li lesse «come una sorta di trattati morali». Qual è,
dunque, il vero scopo di questi proemi, che sconcertano il lettore moderno? Si tratta di una semplice
autogiustificazione di Sallustio, che si ritira (per le note vicende) dalla vita pubblica e si dedica all’opera meritoria di studiare grandi eventi storici? Oppure hanno un legame profondo, intrinseco,
con la parte più propriamente storica delle due monografie?
Se esaminiamo in particolare il proemio al De Catilinae coniuratione, notiamo come Sallustio presenti
una visione dualistica della natura umana, di chiara eredità platonica: anima e corpo sono i due poli
che attirano l’uomo ora verso l’alto, verso imprese nobili e gloriose, ora verso il basso, schiacciandolo
a terra in una vita simile a quella degli animali. Tale visione dualistica si ripercuote sulla descrizione
dei personaggi, ma si lega anche profondamente al tema centrale delle due opere: la crisi della repubblica nasce da una situazione abnorme, nella quale sono stati persi i punti di riferimento tradizionali e con essi la distinzione tra ciò che è giusto e ciò che è ingiusto, tra ciò che è bene per lo stato
e ciò che è interesse personale. Perciò può apparire sulla scena un uomo come Catilina, straordinario nei pregi come nei difetti, la cui intelligenza e le cui doti sono però scisse da ogni principio morale e di bene comune; allo stesso modo un altro uomo, uno straniero abile e spregiudicato come
Giugurta, può tenere in scacco gli eserciti dell’impero più potente del mondo semplicemente corrompendo e gettando nella confusione il suo cuore, cioè Roma, grazie alla collaborazione di una
classe patrizia che oramai confonde il proprio tornaconto con il bene dello stato.
Ecco allora il senso dei proemi (e del lavoro dello storico): «Uno storico ha il dovere di non limitarsi
ai fatti: deve richiamarsi a dei valori, tracciare dei fondamenti: poiché il disastro dei tempi è etico
prima che politico, e il fascino di Catilina è il risultato di una confusione intellettuale, di uno smarrimento morale. Il platonismo di Sallustio si veste di sentimenti catoniani e italici: tra Atene e i monti
dell’Abruzzo, lo storico reclama una verità elementare dello spirito prima di ripercorrere i sentieri di
un non lontano passato».
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TESTO 2
Dal Bellum Iugurthinum:
la scelta di scrivere storia
Bellum Iugurthinum 4
Uno degli argomenti affrontati da Sallustio nel proemio del Bellum Iugurthinum è l’importanza dell’attività storiografica per la vita stessa dello stato, poiché il ricordo delle imprese passate può riaccendere nell’animo dei cittadini quella virtus che spinge a compiere grandi imprese. L’utilità della storiografia è rivendicata anche nei confronti di chi considera assai meno importante “scrivere la storia”
che “fare la storia”; tuttavia sono state la corruzione dei tempi e la decadenza dell’azione politica a
portare Sallustio ad allontanarsi dalla partecipazione attiva alla vita della res pubblica.
Ceterum ex aliis negotiis quae ingenio exercentur, in primis magno usui est memoria
rerum gestarum. Cuius de virtute quia multi dixere, praetereundum puto, simul ne per insolentiam quis existumet memet studium meum laudando extollere. Atque ego credo fore
qui, quia decrevi procul a re publica aetatem agere, tanto tamque utili labori meo nomen
inertiae inponant, certe quibus maxuma industria videtur salutare plebem et conviviis gratiam quaerere. Qui si reputaverint et quibus ego temporibus magistratus adeptus sum [et]
quales viri idem adsequi nequiverint, et postea quae genera hominum in senatum pervenerint, profecto existumabunt me magis merito quam ignavia iudicium animi mei mutavisse, maiusque commodum ex otio meo quam ex aliorum negotiis rei publicae venturum.
Nam saepe ego audivi Q. Maxumum, P. Scipionem, praeterea civitatis nostrae praeclaros
viros solitos ita dicere, cum maiorum imagines intuerentur, vehementissume sibi animum
ad virtutem accendi. Scilicet non ceram illam neque figuram tantam vim in sese habere,
approfondimento
Scrivere storia e fare storia nella crisi della repubblica
Il proemio del Bellum Iugurthinum (cap. 4) sottopone all’attenzione del lettore un tema che era molto sentito all’epoca, tanto che anche Cicerone lo riprende più volte nelle sue opere: il contrasto tra attività intellettuale e attività
politica, tra la sfera dell’otium e quella del negotium. La discettazione non è puramente accademica, ma diviene
testimonianza della grave crisi politica del tempo: Sallustio infatti è convinto che la pratica politica sia superiore per
importanza all’attività di studio, ma quando la politica si corrompe, si degrada e degenera in lotta per il potere e l’interesse personale, allora si può servire meglio lo stato occupandosi dello studio della storia.
Ecco come Italo Lana approfondisce questa chiave di lettura dell’opera sallustiana:
«Nell’ultimo secolo della repubblica il cittadino romano a poco a poco si rende conto che non gli è
possibile, in ossequio alla tradizione antichissima di Roma, realizzare compiutamente se stesso nella
dedizione allo stato. La repubblica non è più in grado di promuovere l’attuazione di quell’ideale universalistico verso cui in ogni tempo il Romano è sempre stato portato. La sempre maggiore importanza
riconosciuta alla vita individuale, il pregio in cui viene ora tenuto l’individuo in quanto individuo e parallelamente il decadere del senso genuino della concezione romana dello stato, le incertezze della ragione in un’età che vede l’affiorare e l’affermarsi di tendenze irrazionalistiche nella valutazione dell’uomo e della sua presenza nel mondo, sono cause che portano alla morte della repubblica nella
coscienza dei singoli cittadini. Tale processo giunge a compimento nel tredicennio che intercorre fra la
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sed memoria rerum gestarum eam flammam egregiis viris in pectore crescere neque prius
sedari quam virtus eorum famam atque gloriam adaequaverit. At contra, quis est omnium
his moribus quin divitiis et sumptibus, non probitate neque industria cum maioribus suis
contendat? Etiam homines novi, qui antea per virtutem soliti erant nobilitatem antevenire,
furtim et per latrocinia potius quam bonis artibus ad imperia et honores nituntur: proinde
quasi praetura et consulatus atque alia omnia huiuscemodi per se ipsa clara et magnifica
sint, ac non perinde habeantur ut eorum qui ea sustinent virtus est. Verum ego liberius altiusque processi, dum me civitatis morum piget taedetque; nunc ad inceptum redeo.
Del resto, fra le altre attività intellettuali, di particolare utilità è da considerarsi la rievocazione degli avvenimenti del passato. Penso, peraltro, di non dovermi soffermare sulla sua importanza, dato che già
molti ne hanno parlato; non voglio, poi, che si pensi che proprio io mi metta a esaltare, per vanità, i meriti della mia fatica. Eppure non mancheranno, credo, coloro che chiameranno ozio un’occupazione
nobile e importante come questa, dal momento che ho deciso di vivere lontano dalla politica: e saranno
senza dubbio quei tali che ritengono attività estremamente importanti rivolgere saluti alla plebe e ingraziarsela con banchetti. Ma se si considereranno in quali tempi mi toccarono le cariche, a quali uomini
furono negate e che razza di gente mise poi piede in Senato, 1 certamente riconosceranno che ho cambiato il mio modo di pensare a ragion veduta più che per viltà e che questo mio ozio gioverà alla repubblica più dell’affaccendarsi di altri. Quinto Massimo, Publio Scipione 2 e altri eminenti personaggi della
1. Qui si riferisce, in senso elogiativo, alla sconfitta di
Catone il Giovane alle elezioni consolari del 52 a.C,
quindi, in senso dispregiativo, a quelle figure equivoche (o
di umili origini) che Cesare, poi Antonio, introdussero nei
ranghi del senato (politica che Sallustio, un cesariano moderato, non gradiva).
2. Probabilmente si riferisce ai due figli di Lucio Paolo Emilio, Quinto Fabio Massimo Emiliano e Publio Cornelio Scipione Emiliano (adottati rispettivamente dai Fabi e dagli Scipioni), perché più vicini cronologicamente all’autore rispetto
agli antichi Quinto Fabio Massimo il Temporeggiatore e Publio Cornelio Scipione l’Africano (i due nemici di Annibale).
morte di Cesare (44 a.C.) e la battaglia di Azio (31), che dà inizio definitivamente al dominio di uno
solo. In questa profonda, radicale trasformazione Sallustio ebbe una parte di grande rilievo: egli fu il
primo, e il solo, che, in conseguenza di tali nuovi atteggiamenti dei Romani, apertamente e programmaticamente staccò lo scrivere la storia dal fare la storia. Se si pensa al suo grande capo, Giulio Cesare,
che aveva fatto la storia con la spada e lo stilo, e con le campagne militari che guidava e con i libri che
scriveva, si avverte in tutta la sua portata innovatrice la svolta segnata da Sallustio.
Che siamo giunti al termine di un processo storico irreversibile ci è indicato dal fatto che la storiografia in Roma fu l’unico genere letterario che, da quando nacque in poi, la classe dirigente riservò sempre a se stessa (e infatti tutti gli storici romani anteriori a Sallustio, fatta eccezione di Celio Antìpatro,
sono anche uomini politici, da Fabio Pittore a Sisenna e a Licinio Macro): ora invece Sallustio si dedica
alla storiografia dopo che ha posto termine alla sua carriera politica e proprio perché ha posto termine
a essa, e intendendo l’attività storiografica come sostitutiva della partecipazione alla politica attiva.
È per questo che le sue opere storiche sono così passionalmente impegnate, così cariche di amarezza,
così dominate dalla pateticità. È per questo che la sua visione si fa sempre più pessimistica man mano
che dalle monografie passa alle Historiae. Più scava dentro e a fondo nel passato di Roma, più l’uso
della violenza e della sopraffazione gli appaiono caratteristiche della vita romana, da quando, almeno,
lo stato romano è divenuto una potenza mondiale, da quando è caduta Cartagine».
I. LANA, in Sallustiana, L’Aquila, Japatre, 1969, p. 77
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nostra città erano soliti affermare, come più di una volta ho udito narrare, che, osservando i ritratti degli
antenati 3 sentivano accendersi nel loro animo un vivissimo entusiasmo per la virtù. Certo né quella cera
né quelle fattezze celavano in sé tanta forza: era il ricordo delle antiche gesta che teneva desta tale
fiamma nel cuore di quegli egregi uomini e non permetteva che si spegnesse prima che il loro valore
avesse eguagliato la fama e la gloria dei loro antenati. Ma nell’attuale situazione di decadenza, chi c’è fra
tutti che gareggi con i suoi antenati non per ricchezza e lusso, ma per onestà e operosità? Anche gli “uomini nuovi”, 4 che prima erano soliti superare i nobili in virtù, ormai si aprono la strada alle cariche militari e civili più con intrighi e con aperte rapine che con mezzi onesti: quasi che la pretura, il consolato
e tutte le altre cariche di questo tipo siano nobili ed eccellenti di per sé e non vengano invece giudicate
secondo i meriti di coloro che le ricoprono. Ma l’amarezza e il fastidio per i costumi dei miei concittadini
mi hanno spinto a divagare troppo liberamente e troppo lontano; è tempo che ritorni al mio argomento.
(trad. di G. Garbugino)
3. Sono le maschere di cera e le statue esposte negli
atri delle case patrizie.
4. Coloro che, senza tradizione familiare alle spalle, rivestono per la prima volta una magistratura.
TESTO 2
Un esordio... dinastico!
Bellum Iugurthinum 5
Al termine del proemio di impostazione filosofica (che occupa i primi quattro capitoli della monografia), lo storico presenta l’argomento dell’opera. Accenna quindi rapidamente ai motivi di tale scelta,
che conferiscono un valore esemplare alla guerra contro Giugurta (vedi a tale proposito l’introduzione al percorso) e traccia per il lettore un rapido schema della dinastia regnante in Numidia, discendente da quel famoso Massinissa, che era stato prezioso alleato di Scipione nella campagna
d’Africa contro Cartagine. L’immagine con cui si chiude questo piccolo albero genealogico è quella di
Giugurta, nipote di Massinissa, educato come un principe, ma in realtà senza diritti dinastici, perché
nato da una concubina.
(1) Bellum scripturus sum, quod populus Romanus cum Iugurtha rege Numidarum gessit, primum
quia magnum et atrox variaque victoria fuit, dehinc quia tunc primum superbiae nobilitatis obviam
itum est; (2) quae contentio divina et humana cuncta permiscuit eoque vecordiae processit, ut studiis
civilibus bellum atque vastitas Italiae finem faceret. (3) Sed prius quam huiusce modi rei initium expedio, pauca supra repetam, quo ad cognoscundum omnia illustria magis magisque in aperto sint.
1. Bellum scripturus sum: «Mi accingo a scrivere» (perifrastica attiva); da notare il solenne inizio della narrazione, segnato dalla presenza di un esametro (Bellum
scripturus sum, quod populus Romanus). – variaque victoria: «di incerta vittoria», ablativo di qualità (variatio rispetto ai due aggettivi precedenti, che formano predicato
nominale). – dehinc quia...: se il primo motivo che giustifica la scelta dell’argomento sono la grandezza e la pericolosità della guerra (già Tucidide aveva giustificato così
la scelta di trattare le guerre del Peloponneso), il secondo
è di carattere politico e morale, tutto interno a Roma
(forse era questo lo scopo principale nelle intenzioni di
Sallustio): il sorgere di un’opposizione alla superbia nobiliare; emerge così anche la fede politica dell’autore. – obviam itum est: «ci si oppose» (lett. «si andò contro»), impersonale.
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2. quae contentio: «e questa lotta» tra classi sociali (quae
è nesso relativo). – divina ... permiscuit: il discorso tocca
toni epici (permiscuit...: «sconvolse»). – eoque vecordiae:
«a un punto tale di furore»; vecordia è composto dalla particella ve- (privativa) e da cor. – ut ... faceret: riferimento
alla lotta tra Mario e Silla; è una subordinata consecutiva
introdotta dal precedente eoque vecordiae; bellum atque vastitas è un’endiadi (lett. «una guerra e la devastazione»).
3. prius quam ... initium expedio: «prima di dare inizio...», subordinata temporale (il genitivo huiusce modi rei
specifica initium). – pauca supra repetam: «riprenderò la
narrazione un po’ indietro». – quo: introduce una subordinata finale. – ad cognoscundum: gerundio con valore finale (cognoscundum = cognoscendum). – omnia ... sint:
«tutti i fatti siano più chiari e più evidenti», dove il primo
magis forma un comparativo perifrastico con illustria.
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(4) Bello Punico secundo, quo dux Carthaginiensium Hannibal post magnitudinem nominis Romani
Italiae opes maxume adtriverat, Masinissa rex Numidarum in amicitiam receptus a P. Scipione, cui
postea Africano cognomen ex virtute fuit, multa et praeclara rei militaris facinora fecerat. Ob quae
victis Carthaginiensibus et capto Syphace cuius in Africa magnum atque late imperium valuit, populus Romanus quascumque urbis et agros manu ceperat, regi dono dedit. (5) Igitur amicitia Masinissae bona atque honesta nobis permansit. Sed imperi vitaeque eius finis idem fuit. (6) Dein Micipsa filius regnum solus obtinuit Mastanabale et Gulussa fatribus morbo absumptis. (7) Is Adherbalem et
Hiempsalem ex sese genuit Iugurthamque filium Mastanabalis fratris, quem Masinissa, quod ortus
ex concubina erat, privatum dereliquerat, eodem cultu quo liberos suos domi habuit.
4. quo: «durante la quale». – post magnitudinem nominis Romani: «dopo l’ascesa del nome romano», cioè
«dopo che Roma era diventata una grande potenza»,
espressione concisa tipica di Sallustio. – maxume adtriverat: «aveva indebolito moltissimo», da adtero, che letteralmente significa «sfregare», «consumare sfregando». –
Masinissa: re dei Numidi, aveva combattuto in Spagna a
fianco dei Cartaginesi; ma in seguito, dato che costoro
avevano preferito l’appoggio di Siface, sovrano di un altro
ceppo di tribù numide e avversario di Massinissa, egli divenne grande alleato di Scipione durante la campagna
d’Africa. Suo successore fu Micipsa, che ebbe due figli,
Aderbale e Iempsale, e allevò insieme a loro anche Giugurta, figlio di un fratello morto per malattia e di una concubina. Alla morte di Micipsa saranno proprio Giugurta,
Aderbale e Iempsale i protagonisti della contesa per il
regno, che darà origine alla guerra. – receptus: «accolto»;
è participio congiunto. – Africano: al dativo perché concordato con cui. – multa ... fecerat: «aveva compiuto
molte e splendide azioni di guerra»; facinora fecerat è
un’allitterazione. – Ob quae: «Per queste imprese», nesso
relativo. – magnum atque late imperium: «impero potente
e grande»; è un altro esempio di variatio (aggettivo-avverbio). – urbis: per urbes. – manu: «con le armi in pugno». –
regi dono dedit: costruzione del doppio dativo con il verbo
dono (dono dedit presenta un’allitterazione); così si formò
un grande regno africano fedele ai Romani, che non perse
la sua indipendenza neppure dopo la guerra contro Giugurta.
5. bona atque honesta: «utile e onorevole», ma se il
primo aggettivo è da riferire sicuramente ai Romani
(nobis), il secondo andrà riferito a Massinissa.
6. solus: ha valore predicativo. – Mastanabale: era il
padre di Giugurta.
7. ex sese genuit: «generò». – privatum dereliquerat:
«aveva lasciato nella situazione di privato cittadino»; Massinissa, cioè, non aveva riconosciuto diritti alla successione al nipote naturale. – eodem cultu: «con la stessa
cura»; Giugurta ebbe quindi educazione regale.
RIEPILOGO DEL PERCORSO
1 Quale particolarità presentano i primi capitoli delle due opere sallustiane dal punto di vista del conte2
3
4
5
6
nuto?
Il proemio del De Catilinae coniuratione lascia emergere un’interpretazione nuova di alcuni concetti basilari nella cultura latina, quali virtus, ingenium e gloria: illustra brevemente l’interpretazione che ne dà
Sallustio.
Nel proemio del Bellum Iugurthinum l’autore difende la propria scelta di rifugiarsi nell’otium e di scrivere
opere storiografiche: di quali argomentazioni si serve per sostenere la propria posizione?
Quale immagine di sé Sallustio mira a tratteggiare nei due proemi? Qual è lo scopo di tale operazione?
La finalità dei due proemi sallustiani è anche quella di impostare un criterio di giudizio preciso per valutare i fatti storici: di quale criterio si tratta?
Il cap. 5 del Bellum Iugurthinum introduce l’argomento dell’opera: per quali motivi la guerra contro Giugurta appare un episodio esemplare agli occhi di Sallustio, quindi degno di approfondimento?
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