Del sé e della teoria della personalità

ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2002
Del sé e della teoria della personalità
Maura Anfossi
Prendo spunto dalla recente traduzione italiana, nell’ultimo numero della
rivista, dell’articolo di Fernald per proporre alcune riflessioni circa la teoria
della personalità di Rogers e continuare il dibattito teorico sull’argomento
avviato da tempo in Istituto approfondito in occasione di Congressi e Staff
Meeting. Penso infatti che il confronto sui principi fondamentali della teoria
della personalità formulata da Rogers nei due testi teorici fondanti la
psicoterapia centrata sul cliente (e precisamente l’ottavo capitolo di Terapia
centrata sul cliente del 1951 e i capitoli 8, 10 e 13 di Psicoterapia e relazioni
umane del 1962) già anticipati nell’articolo del 1947 sia la base per la
comprensione e l’eventuale chiarimento tra posizioni diverse riguardo alle
scelte terapeutiche e alla teoria della terapia.
Sappiamo infatti quanto la visione della natura umana in generale, e la
teoria della personalità nello specifico, siano la base per l’impostazione della
terapia, la scelta degli obiettivi del cambiamento e il confronto su risorse e
limiti di un approccio terapeutico.
Pur consapevole di operare una eccessiva semplificazione del fermento
teorico suscitato da allievi e collaboratori di Rogers, mi sembra di poter
individuare, in estrema sintesi, all’interno del panorama rogersiano
dell’ultimo ventennio (decisamente più vivace a livello di dibattito teorico che
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di pubblicazioni scientifiche) due grandi filoni di pensiero, che pur
rispettando la bipartizione della personalità in due strutture, concetto di sé
ed esperienza, si focalizzano entrambe rispettivamente su una, ponendo
l’altra sullo sfondo.
La prima linea di pensiero, i cui esponenti principali ricordiamo Laura Rice,
Leslie Greenberg, Desmond Cartwright e Mary Graham, rifacendosi in
particolare all’articolo di Rogers del 1947 e a Client Centered Theraphy,
propone una lettura della terapia rogersiana alla luce della “perceptual
cognitive theory” (Rice, 1984). È la percezione soggettiva del mondo che
determina i vissuti, il comportamento ed assume quindi un notevole
significato in terapia. Da ciò consegue, come scrive Rice, che: «Il sistema
percettivo-concettuale è stato individuato (da Rogers) come il target specifico
della terapia e il concetto di sé viene ritenuto il cuore del sistema psichico»
(op. cit., p. 189).1 E Cartwright e Graham, proponendo una interpretazione
secondo la teoria cognitiva del concetto di sé, lo definiscono come un
insieme di concetti, categorie e classi di attributi, che si riferiscono all’Io o
me, ovvero una struttura di categorie autodescrittive (1984, p. 110).
Il risvolto terapeutico del lavoro di questi autori è la rilettura del
cambiamento che avviene in terapia, che strutturalmente e operativamente
non presenta variazioni rispetto alle tre condizioni e all’impostazione
originaria di Rogers, come riprocessazione di informazioni di natura
cognitiva e affettiva. Il contributo di tale filone di pensiero è stato quindi la
valorizzazione, peraltro molto cara a Rogers, del lavoro sulla modificazione,
in terapia, dei costrutti disfunzionali.
Seppur la decodifica, secondo parametri cognitivi, di una terapia
umanistica, che tanto valorizza l’incontro io-tu di due soggettività in
relazione fra loro, possa apparire arida, le ipotesi e riflessioni di Rice,
Greenberg e Cartwright risultano, a nostro avviso, aderenti ai testi rogersiani
e non paiono trascurare l’altra parte determinante della personalità,
l’esperienza.
La seconda corrente di pensiero, che approfondisce lo studio del processo
di experiencing e del significato e valore del contatto con i vissuti
organismici, viscerali ed anche corporei, presenta al suo interno uno spettro
variegato di posizioni. Accanto alla terapia esperienziale di Gendlin, che pur
con delle varianti non si discosta sostanzialmente dall’equilibrio del pensiero
rogersiano, vi sono contributi che, attingendo al contributo psicoanalitico e a
quello gestaltico, paiono andare ben al di là dell’equilibrata dialettica tra le
due parti della personalità, come pensata da Rogers.
È in tale contesto che si inserisce il pensiero di Fernald che, con il
riferimento ad autori come Reich e Lowen, integra alla parola l’utilizzo del
corpo come veicolo terapeutico, arrivando ad una proposta di terapia bioenergetica, secondo un’impostazione rogersiana. A nostro avviso però, pur
facendosi interprete di una proposta terapeutica affascinante e di un
pensiero vivace, propone una lettura teorica che si discosta decisamente dal
pensiero espresso nell’opera rogersiana. Proviamo ad approfondire tale
Il testo originale in lingua inglese per ora non è disponibile in italiano, pertanto le
pagine delle citazioni si riferiscono al testo originale. La traduzione è nostra.
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ipotesi attraverso un confronto tra le riflessione di Fernald e i vari passaggi
dei testi di Rogers in cui viene delineata la teoria della personalità.
Nell’articolo citato Fernald afferma che: «il concetto di sé del bambino
include tutta l’esperienza organismica» (2001, p. 23) e che, nella persona
guidata dalla tendenza attualizzante: «il sé e l’esperienza organismica
diventano una sola identica cosa» (idem, p. 24). Tali affermazioni però
paiono trascurare l’influenza sulla teoria rogersiana della filosofia
pragmatista, del relativismo e del pensiero olistico, che si traducono in una
teoria della personalità e della terapia che valorizza ugualmente l’aspetto
emotivo e quello di costruzione di significato.
Per essere più precisi seguiamo, attraverso le parole di Rogers, la sua
opzione teorica e la sua definizione del sé e di esperienza. In Client Centered
Therapy Rogers fa notare che: «anche se alcuni autori usano il termine sé
come sinonimo di organismo noi lo usiamo con il significato più specifico di
consapevolezza di esistere e di funzionare» (1951, tr. it., p. 326).
E ancora: «la maggior parte delle nostre esperienze sensoriali vengono
ignorate, non vengono mai elaborate a livello simbolizzazione conscia ed
esistono solo sotto forma di sensazioni organismiche senza alcuna relazione
con il concetto di sé»2 (1951, tr. it., p. 332).
E più avanti, nello stesso testo, sempre parlando di esperienze attinenti
l’organismo, definisce alcune attività fisiologiche come manifestazione di
cui: «il sé non ha controllo, e il comportamento non è considerato parte del
sé» (ibidem, p. 337), evidenziando chiaramente come la sua teoria della
personalità presupponga la presenza di esperienze dell’organismo, parti
della personalità che non coincidono e mai coincideranno, anche nei
momenti di massima integrazione e congruenza, con il sé.
Seppur, come ben evidenziato nell’articolo di Gargiulo (1994), le
definizioni di esperienza e campo esperienziale formulate da Rogers nei vari
testi presentino delle imprecisioni e ambiguità, risulta comunque univoca e
onnipresente nell’intera opera la distinzione tra “esperienza” e “concetto di
sé” e la presenza di un filtro, più o meno rigido e ‘severo’ che veicola il
passaggio dell’esperienza non simbolizzata in esperienza simbolizzata e
quindi integrata nel sé.
In Psicoterapia e relazioni umane propone poi una distinzione tra
l’esperienza globale, definita appunto come esperienza, e una sua parte
specifica, l’esperienza del sé, precisando che: «la nozione attuale di
esperienza sostituisce la nozione di esperienze sensoriali e viscerali o di
esperienze organismiche per suggerire il carattere globale o totale di ciò che
si intende con questa nozione» (1962, tr. it., p. 146). Mentre l’esperienza
comprende l’intero campo esperienziale, ovvero ciò che riguarda gli altri e
l’ambiente (ovvero la rappresentazione del mondo) i fatti, i comportamenti e
le sensazioni che si riferiscono strettamente all’Io, alla persona, vengono
definiti con un termine specifico, ovvero l’esperienza di sé.
Dalle sopra elencate citazioni si evince come, nell’intento di Rogers, il sé
presupponga una consapevolezza cosciente e non possa essere assimilato
all’esperienza e come vi sia una parte di esperienza che, seppur simbolizzata,
non andrà mai ad appartenere al sé, perché riguarda tutto ciò che è il non sé.
2 Sottolineatura nostra.
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Pertanto non è immaginabile, nella teoria della personalità rogersiana, una
coincidenza totale tra sé ed esperienza, ma è possibile ed auspicabile per il
buon funzionamento della persona una ampia intersezione tra la sfera
dell’esperienza di sé ed il concetto di sé.
Determinante e chiarificatrice in proposito la netta distinzione presente
nell’opera di Rogers, e discussa a fondo nell’editoriale di Vaccari del numero
precedente della Rivista, tra sé e concetto di sé. Rogers dice ripetutamente
che non intende affatto occuparsi di un’entità, poco verificabile e definibile,
qual è il sé, ma che farà riferimento al concetto di sé, descritto come l’idea,
l’immagine, necessariamente consapevole, che il soggetto ha di sé, dell’Io, di
tutto ciò che riguarda lui come persona.
D’altra parte sappiamo invece che l’esperienza può essere muta,
simbolizzata correttamente o distorta, pertanto le esperienze mute e le
esperienze relative al non sé non apparteranno mai al concetto di sé.
Altra annotazione è la differenza tra modello mono e bifocale della
personalità. L’interpretazione della teoria della personalità rogersiana,
proposta da Fernald, risulterebbe in parte eventualmente compatibile con un
modello monofocale della personalità, simile a quello proposto da Snygg e
Combs, superato e criticato da Rogers. Il modello monofocale infatti descrive
la personalità attraverso cerchi concentrici, in cui il maggiore, più esterno è
l’esperienza ed il minore, più interno è il sé. In questa descrizione della
personalità il bambino e la persona libera da minacce e capace di totale
simbolizzazione dell’esperienza si troverebbero nella condizione di effettiva
sovrapposizione dei due cerchi e quindi di coincidenza del sé e
dell’esperienza.
Nel momento in cui mette a punto la sua teoria della personalità in modo
più completo e sistematizzato, Rogers prende le distanze da questo modello
e, come ben spiegato nei capitoli sopra citati, descrive lo psichismo umano
con un modello bifocale, in cui il sé e l’esperienza intersecano con aree più o
meno ampie, ma mai totalmente, non foss’altro perché ci sarà sempre una
parte di esperienza muta in quanto ritenuta priva di valore e il cui valore
sottosoglia la renderà insignificante per l’attualizzazione dell’individuo.
In tal senso il funzionamento ottimale della personalità (1962, tr. it., p.
194, proposizione F) viene descritto non come coincidenza tra sé ed
esperienza, come sostiene Fernald, bensì come accordo tra esperienza di sé e
concetto di sé. E la distinzione, seppur apparentemente sottile, è
fondamentale perché valorizza la simbolizzazione e l’importanza in
psicoterapia di sostenere ed implementare le strutture cognitive ed il lavoro
sulla ristrutturazione dei costrutti.
Rogers infatti, accanto alla riscoperta del potere e del significato del
mondo emozionale per l’autorealizzazione, valorizza altrettanto, nel
funzionamento psichico, l’importanza dello schema di riferimento interno,
dei costrutti e di funzioni come la simbolizzazione e la valutazione cognitiva
dell’esperienza. È utile non dimenticare che la vera novità ed efficacia
dell’approccio terapeutico rogersiano è la sua doppia matrice: esperienziale e
costruttivista. Non è irrilevante che una delle sette variabili attraverso le
quali viene descritto il processo terapeutico è proprio la modificazione dei
costrutti, in direzione di una maggior flessibilità (e non di una loro
scomparsa) nell’attribuzione di significato all’esperienza emozionale.
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Nell’intento rogersiano il messaggio terapeutico è che la riscoperta
dell’esperienza ha valore di cambiamento e crescita esclusivamente se tale
contatto con la parte viscerale ed organismica è completato dall’integrazione
cognitiva: altrimenti non di sentimento si tratta, ma di anarchico e caotico
accumulo di sensazioni. L’impostazione dei quadrienni di specializzazione,
che prevede che molte ore siano impiegate per l’integrazione cognitiva di
gruppi di incontro e laboratori esperienziali, risponde proprio all’importanza
che viene attribuita alla costruzione di significato delle esperienze formative
fatte dai corsisti.
Inoltre, l’interpretazione della teoria della personalità di Rogers, che
Fernald propone, presenta a nostro avviso anche una confusione
epistemologica, laddove afferma che: «In questi momenti esistenziali, non si
fa esperienza. Nel fidarsi del proprio organismo, si è l’esperienza. E, di
conseguenza, il sé è soggetto, non oggetto» (2001, p. 27). Scrivendo che si è
l’esperienza, Fernald trascura o sottovaluta che per Rogers il sé è
quell’istanza autoriflettente, che inevitabilmente presuppone una chiara
distinzione soggetto-oggetto e permette alla persona di riflettere, integrare
cognitivamente e dare significato all’esperienza.
Mi sembra difficilmente condivisibile, alla luce dei testi rogersiani,
l’affermazione di Fernald per cui i momenti di buon funzionamento
psicologico
siano
caratterizzati
dall’assenza
di
filtro
cognitivo
dell’esperienza: «Con poca o nessuna censura di autofiltro concettuale, la
persona diventa il completo potenziale dell’organismo umano, includendo
l’assoluta consapevolezza di reazioni basilari sensoriali e viscerali» (idem, p.
24).
Come già anticipato, tanto maggiori sono la completezza e la flessibilità
del concetto di sé, quanto più l’esperienza è simbolizzabile correttamente,
senza negazioni o distorsioni, ma questo presuppone appunto la presenza
continua, anche nei momenti di massima integrità psichica e di perfetto
accordo sé-esperienza, di un filtro cognitivo, seppur egosintonico, qual è la
simbolizzazione. Tale filtro cognitivo permette l’intercettazione e lo scarto
dei messaggi irrilevanti all’autorealizzazione (le subcezioni sottosoglia),
l’attribuzione di significato ai propri vissuti e la valutazione circa l’utilità o
meno di agire le proprie emozioni. L’assenza di un filtro cosciente
all’esperienza porterebbe la persona ad essere in balia delle proprie
sensazioni con il rischio di agirle impulsivamente: solo l’integrazione
cognitiva permette di poterle accogliere e dilazionare la messa in atto dei
propri impulsi, che seppur provenienti dal nostro organismo e quindi sempre
degni di rispetto e valorizzazione, devono confrontarsi con le regole sociali e
l’interazione con gli altri.
In Un modo di essere (1980) è lo stesso Rogers ad affermare che la
coscienza assume un notevole valore evoluzionistico, in sintonia con la
tendenza attualizzante, in quanto favorisce la libertà di scelta della persona.
Se vi è una maggior consapevolezza diventa possibile una scelta più informata, una scelta
più libera dalle introiezioni, una scelta conscia che è anche più in armonia con il flusso
evoluzionistico. Una simile persona è potenzialmente più consapevole non solo degli stimoli
esterni, ma delle idee e dei sogni, nonché del flusso continuo di sentimenti, emozioni e
reazioni fisiologiche che essa prova internamente. Quanto maggiore è la consapevolezza,
tanto più sicuramente la persona fluttuerà in una direzione consonante col flusso
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evoluzionistico orientato. […] La coscienza partecipa a questa più vasta tendenza creativa e
formativa» (1980, tr. it., p. 111).
Non riconoscendo valore a tale filtro cognitivo, la concezione del sé
veicolata da Fernald, e che arbitrariamente attribuisce anche a Rogers,
sembra rifarsi piuttosto al Sé psicoanalitico, nell’accezione del pensiero
junghiano: ottica in cui il Sé coincide con l’insieme delle istanze psichiche
(Es, Io, Super-Io), consce o inconsce che siano. La massima maturità ed il
massimo equilibrio rappresentano in tale concezione lo stato in cui la
persona è priva di difese rigide e spazia liberamente tra cosciente ed
inconscio con fluidità, sfumandone i confini. In tal senso le considerazioni di
Fernald riecheggiano una lettura classica del sé, come quella di Jung (che
peraltro Fernald non cita) e non solo si discostano nettamente dalla
posizione rogersiana, ma addirittura paiono trascurare la letteratura più
moderna della psicoanalisi del sé e le stesse riflessioni bioenergetiche
sull’importanza, per un cambiamento duraturo, della riorganizzazione del
pensiero, accanto al lavoro somatico (Lowen, 1977).
Ritornando alla posizione umanistica di Rogers, ricordiamo come egli, con
lo scopo di evitare confusioni, intende occuparsi solo della parte cosciente
del sé, definito concetto di sé o struttura dell’Io, istanza psichica
caratterizzata da consapevolezza e bisogno di coerenza. Tale posizione è in
completo accordo, non solo con l’ottica pragmatista di teorici del sé come W.
James e G. Mead, ma soprattutto trova un riscontro empirico nelle scoperte
della psicologia evolutiva (Stern, 1985) e delle neuroscienze (Trevarthen,
1997), che sottolineano appunto come il sé sia la funzione autoriflettente e
quindi presupponga necessariamente la consapevolezza.
La diversa concezione del sé, tra la psicologia umanistica e una certa
lettura della psicoanalisi, ben corrisponde ad una diversa Weltanschaung e dà
ragione di approcci terapeutici impostati con modalità e priorità differenti.
Se infatti il sé è anche inconscio, dovere del terapeuta è aiutare, anche con
l’interpretazione, la persona a prendere consapevolezza di quanto manca alla
sua completezza. Laddove invece si ragiona su un sé inteso come funzione
autoriflettente,
quindi
inevitabilmente
consapevole,
la
necessità
interpretativa cade, mentre è da valorizzare l’implementazione delle abilità
metacognitive, il lavoro sulla flessibilità dei valori (costrutti) che limitano la
libertà esperienziale e la tutela della coerenza interna.
L’importanza della coerenza interna, come bisogno psichico primario e
fondamentale, risulta di particolare attualità per la comprensione e la terapia
dei disturbi di personalità e della patologia psichiatrica grave. Tali disturbi
psichici evidenziano infatti come la coerenza dell’immagine di sé, per quanto
irrealistica, venga mantenuta a prezzo anche della perdita dell’esame di
realtà. L’estrema minaccia psichica appare infatti l’incoerenza tra esperienza
e concetto di sé, che si associa alla paura della frantumazione del sé.
Altrettanto importante la valorizzazione rogersiana del filtro cognitivo
dell’esperienza: se inseriamo queste riflessioni nell’odierno panorama
psicopatologico, segnato da notevole diffusione di disturbi da disregolazione
emotiva, qual è il disturbo borderline di personalità, risulta di notevole
attualità il suggerimento terapeutico di Rogers circa la necessità per un
cambiamento reale e duraturo di integrare il vissuto, l’emozione, l’esperienza
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con il suo significato e di poterne così valutare l’opportunità della messa in
atto o dell’astensione dall’agito. Come discusso a fondo nell’articolo
presentato in questo stesso numero della Rivista da Maria Luisa Verlato sulla
terapia di questi disturbi, la carenza di riconoscimento e contenimento delle
emozioni e la paralisi della funzione di attribuzione di significato alle proprie
esperienze è causa, per questi clienti, di notevole sofferenza e di frequenti
quanto drammatici acting out.
In sintesi, quindi, la teoria della personalità rogersiana, se letta alla luce di
tale valorizzazione degli aspetti cognitivi, oltre che di quelli emozionali ed
esperienziali, porta un significativo contributo sul dibattito circa la priorità
della relazione e della soddisfazione dei bisogni di accettazione per
l’implementazione in terapia di un funzionamento cognitivo sano ed
adeguato.
Seppur dalla comunità psicologica non gliene venga riconosciuto il merito,
Rogers è stato tra i primi clinici ad evidenziare la correlazione esistente tra
soddisfazione dei bisogni affettivi e livello di funzionamento cognitivo
durante lo sviluppo ed in psicoterapia. Con le sue intuizioni sul ruolo della
simbolizzazione e sull’impatto dell’accettazione condizionata nella
distorsione della consapevolezza, Rogers si è posto tra gli antesignani degli
studi su metacognizione, importanza dell’autoriflessione e distorsioni
cognitive nella patologia.
Riferimenti bibliografici
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Trevarthen C. (1997), trad. it. Empatia e biologia, Milano, Cortina 1998.
Vaccari V. (2001), Editoriale, «Da Persona a Persona».
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