Karl Marx (1818 – 1883)
1. Una sociologia della deprivazione e le forme dell’alienazione
2. Le forme e la logica di produzione dell’economia industriale capitalistica
3. La natura, il destino e il progetto della politica
«Agitatore, rivoluzionario, profeta inflessibile della lotta di classe. Così è rimasto nella memoria del
mondo. Invece no: fu soprattutto teorico e scienziato, politologo e pensatore critico sempre curioso,
attentissimo persino alle scienze naturali e alle nuove tecnologie. Credeva nella democrazia e nella
libertà di parola molto più di quanto non si pensi, le riteneva irrinunciabili. E la crisi odierna del
capitalismo attuale lui l'aveva a suo modo prevista, molto più di come ce lo tramandarono le
dittature totalitarie realsocialiste. Riemerge dal passato come un moderno newlabourista, un
progressista tedesco o un liberal americano dai suoi scritti di migliaia di pagine ingiallite ma
spolverate con cura in un bel palazzo neoclassico qui a Berlino, al numero 22/ 23 della
Jaegerstrasse.» (Tarquini Andrea, Karl Marx: “Tutto quello che so è che non sono marxista”, la
Repubblica 08.01.2012) (La frase “Tutto quello che so è che non sono marxista” è riportata da
Engels (lettera a Conrad Schmidt, 5 agosto 1890) che cita le parole di Marx di cui era
personalmente testimone) Quest’ultima è l’immagine che Marx dà di sé dalla lettura delle opere ed
è ciò che sempre più viene confermato dal lavoro che cura la catalogazione e la pubblicazione
completa delle opere di Marx (114 tomi, previsti per 2020).
Le opere di Marx forniscono infatti un insieme (non necessariamente organico) di strumenti per
l’indagine storica e sociale e per la costruzione di progetti a destinazione politica. Nessuna teoria
politica specifica e articolata prende forma nelle opere di Marx se non nei modi della prospettiva
generale (e generica), delle indicazioni di metodo, degli strumenti per avvertire incoerenze o
contraddizioni distruttive (e autodistruttive) che possono ricorrere nelle eventuali teorie
economiche, filosofiche e politiche che in passato sono state prodotte o in futuro lo possono essere;
se compaiono tratti di teoria ad essi Marx attribuisce una validità meramente storica e quindi
contingente e non i tratti di un modello trascendente come accade ad una ideologia. Ad impedire il
prender forma, in Marx, di un modello di società futura, quale viene poi teorizzato dalla tradizione
che si dichiara “marxista”, sono gli strumenti stessi presentati e la coerenza con la logica che essi
impongono. Alla radice di queste strumentazioni vi è infatti una costante: l’attenzione all’uomo
nella concretezza della materialità economica e culturale del suo vivere storico (posta da Feuerbach
al centro della “filosofia dell’avvenire”) e la consapevolezza che ogni ideologia, come accade nel
sistema e nella filosofia di Hegel e degli hegeliani, comporta la riduzione dell’uomo a strumento e
quindi la sua alienazione che Marx denuncia con diagnosi analitica e critica.
Il punto della situazione in un recente bilancio storico e storiografico (e il ricorso al senso ampio del
termine “liberale”): Manacorda Mario Alighiero 2012 Quel vecchio liberale del comunista Karl
Marx, Aliberti editore, Roma. «Liberal-comunismo sembra una contradictio in adiecto, sostantivo e
aggettivo fanno a pugni tra loro: ma solo perché si è praticata e si pratica ancora la consueta
identificazione tra le idee affermate prima e le azioni venute dopo: Marx, marxismo, socialismo,
comunismo, Unione Sovietica, stalinismo, un post hoc, ergo propter hoc, dal quale Marx deve
essere liberato per essere letto per se stesso.» (p. 8) «… per dire che Marx rappresenta un momento
della coscienza critica del grande svolgimento del pensiero scientifico e liberale moderno, cresciuto
nell’ultimo mezzo millennio e oltre» (p. 6) «…ora è di nuovo ricomparso in studi recenti di seri
studiosi italiani e stranieri, come parte della storia, e lo si può finalmente considerare con mente
scevra da pregiudizi e da intenzioni politiche immediate.» (p. 10)
1. Una sociologia della deprivazione e le forme dell’alienazione
1
Il tema è: quando il doppio segnala e sorregge una alienazione, una opposizione che produce
estraneazione. Un soggetto che nel suo agire e porsi, nel suo oggettivarsi allo scopo di realizzare se
stesso nella concretezza storica, crea una realtà e un processo in cui si attua la sua stessa progressiva
negazione, perché l’oggetto prodotto vive di vita propria e diventa soggetto di una nuova storia che
procede autonomamente e domina. Si apre un nuovo capitolo nella storia umana di subordinazione
e di autosubordinazione. Il tema della alienazione domina come area e strumento di indagine
l’intera riflessione di Marx sulla società sulla economia e sulla storia dell’età contemporanea, dai
primi interessi giovanili, tra filosofia e cronaca (pubblicati su periodici tedeschi), alla costruzione di
una teoria che ha come oggetto il mondo economico della produzione capitalistica e la struttura
delle relazioni sociali e della storia che quel mondo avvia, cioè la logica dell’età contemporanea
(del sistema economico capitalistico di fine ‘800). Alienazione è uno strumento di analisi e
costruzione fornito da Hegel e dalla logica dialettica della sua visione della logica, della realtà e
della storia. Il farsi altro da sé per compiersi nella concretezza di un processo senza fine ma
razionale, sistematico e totale; l’autonegazione per acquisire determinatezza, finitudine e limite, ed
entrare così in concreta relazione con l’altro, con quel negativo che costituisce la propria
trascendente alterità. Si tratta, per Marx, di togliere quello strumento, l’alienazione, dalla sua sede
ideale (la costruzione logica di un sistema assoluto della filosofia) e vederlo agire, per
consapevolezza e azione, nel campo del vivere reale della storia degli uomini.
1.1. dal legnatico ai furti di legna: come le norma crea la proprietà privata dei beni comuni
escludendone l’uso.
Karl Marx, Dibattiti sulla legge contro i furti di legna, articoli pubblicati sulla Gazzetta Renana dal
25 ottobre 1842, n. 298 suppl., al 3 novembre 1843 n. 307 suppl.; in Marx Karl, Scritti politici
giovanili, Einaudi, Torino 1950.
«Il popolo vede la punizione, ma non scorge il delitto, e poiché vede la punizione dove non esiste il
delitto, ben presto finirà per non vedere più delitto dove è punizione. Con l’applicare la qualifica di
furto dove non va applicata, siete riusciti a invalidarla anche nei casi in cui andrebbe applicata. E
non si nega da sé questo brutale punto di vista, che in azioni diverse tiene conto soltanto di una
caratteristica comune e astrae dalle differenze? Se qualunque offesa alla proprietà, senza
distinzione, senza specificazioni, è furto, non sarebbe da dirsi furto ogni proprietà privata? Colla
mia privata proprietà non escludo io tutti gli altri da questa proprietà? Non ledo in tal modo il loro
diritto di proprietà?» (25 ottobre 1842, Marx, Scritti politici giovanili,182)
«Del pari nel feudalesimo, una razza divora l’altra, fino a quella che, simile ad un polipo,
abbarbicata alla gleba, possiede solo le molte braccia per produrre i frutti della terra alle razze
superiori, mentre per sé campa di polvere; poiché, mentre nel regno naturale i fuchi vengono uccisi
dalle api operaie, nel regno dello spirito sono le api operaie a essere uccisa dai fuchi e proprio
tramite il lavoro. Quando i privilegiati del diritto scritto si appellano al proprio diritto
consuetudinario, essi vogliono imporre, in luogo del contenuto umano, la configurazione bestiale
del diritto, che ormai è diventata in realtà una mera maschera animalesca. […] Ma mentre questi
diritti consuetudinari della nobiltà sono consuetudini contro il concetto del diritto razionale, i diritti
consuetudinari della plebe sono diritti contro la consuetudine del diritto positivo. Il loro contenuto
non si oppone alla forma della legge, ma piuttosto alla sua mancanza di forma.» (27 ottobre 1842,
Marx, Scritti politici giovanili,186)
«L’unilateralità di queste legislazioni era inevitabile, in quanto tutti i diritti consuetudinari della
povera gente si basavano sul fatto che una certa proprietà possedeva un carattere equivoco, che non
la definiva propriamente per proprietà privata e nemmeno come proprietà comune, una mistione di
diritto privato e pubblico… E l’intelletto legislatore credette tanto più di essere giustificato nel
sopprimere le obbligazioni di questa equivoca proprietà nei riguardi della classe più povera, in
quanto sopprimeva altresì i propri privilegi statali. … astraendo poi dal fatto che nessuna
legislazione ha mai abolito i privilegi del diritto pubblico sulla proprietà, ma li ha solo spogliati del
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loro carattere capricciosamente vario per sostituirvi una uniformità borghese.» (27 ottobre 1842,
Marx , Scritti politici giovanili,189)
«Quando lo Stato, anche in un sol punto, si abbassa a tanto da agire, anziché nel modo che gli è
proprio, nel modo della proprietà privata, ne segue immediatamente che deve adattare la forma dei
propri mezzi ai limiti della proprietà privata. L’interesse privato è abbastanza furbo per tirarne
questa conseguenza: di porsi nella sua forma più ristretta e meschina a limite e regola dell’azione
statale.» (30 ottobre 1842, Marx , Scritti politici giovanili,198)
«La legna possiede la meravigliosa qualità, non appena viene rubata, di procacciare al suo
proprietario la qualità di Stato, ch’egli prima non possedeva… Se gli viene dato in cambio lo Stato,
il che avviene effettivamente quando egli ottiene contro il ladro oltre il diritto privato anche il diritto
pubblico, bisogna che sia stato derubato dello Stato, bisogna che lo Stato fosse una sua proprietà
privata. Il ladro di legna portava dunque, novello Cristoforo, lo Stato stesso sulle proprie spalle,
dentro i ceppi rubati.» (1 novembre 1842, Marx , Scritti politici giovanili, 213).
1.1.1. Il lavoro a cui l’uomo si affida per la propria sopravvivenza è il processo della sua uccisione;
così accade nel regno dell’uomo: «nel regno dello spirito sono le api operaie a essere uccise dai
fuchi e proprio tramite il lavoro». Il risultato del lavoro e l’appropriazione di un bene comune (la
legna) destinato alla sopravvivenza, quando viene definito dalla legge come furto, crea il principio
di una proprietà privata preliminare o presupposta (nel caso la proprietà feudale, consuetudinaria,
di “protezione demaniale”) del bene comune e attua una espropriazione: quell’appropriazione è
espropriazione; l’appropriazione consuetudinaria, fisica e destinata all’uso attuata dal contadino
crea un’espropriazione giuridica e di fatto quando è definita furto dal diritto dello Stato, e crea
un’appropriazione a vantaggio dei feudatari; ma qui si verifica una ulteriore trasformazione: la
generica proprietà di condivisione comune rivendicata dai feudatari per (presunti) compiti di
protezione e su legami di vassallaggio e condivisa nell’usufrutto dai contadini viene trasformata nel
diritto di proprietà privata coniato dalla borghesia, in età moderna, nello stile delle privatizzazioni
(come nelle enclosures dell’Inghilterra a partire dal XVI sec., destinate a rivelarsi un aspetto
importante della “accumulazione originaria” che contribuisce all’avvio delle rivoluzione
industriale) di stampo e forma giuridica borghese.
E ancora, nel processo di privatizzazione dei beni comuni nella forma della proprietà privata
accadono contestualmente due altri processi: lo Stato sorge contestualmente alla privatizzazione e
mercificazione dei beni comuni, la proprietà privata viene definita un diritto naturale. Qui il
processo è giuridicamente anomalo: è lo Stato che fa sorgere la proprietà come un diritto naturale,
riconoscendola come tale, ma contemporaneamente la dichiara sottratta, come diritto naturale, alla
sfera di propria competenza positiva; con il riconoscimento della proprietà privata come diritto
naturale riconosce il proprio vincolo alla sua salvaguardia.
Un’avvertenza utile: « Tendiamo così a dimenticare che buona parte di ciò a cui oggi accediamo a
pagamento, fino a ieri era un bene culturale fruibile gratuitamente.» (Rifkin Jeremy 2000 L’era
dell’accesso. La rivoluzione della new economy, A. Mondadori 2000, 320)
1.1.2. Sulle spalle del contadini quella legna è destinata ad acquistare pesantezza con un incremento
insopportabile e mortale. Il contadino porta sulle proprie spalle “dentro i ceppi rubati” (dentro i
ceppi che la legge trasforma in ceppi “rubati”) un processo storico rivoluzionario e una nuova era.
Quei ceppi da realtà fisica, legna da ardere o altro, diventano una realtà giuridica, non solo come
corpo del reato, ma come vero e proprio atto di nascita del diritto alla proprietà privata, alla
proprietà privata di tipo feudale ora in stile borghese, e come atto di nascita dell’arrendersi
subordinato dello Stato al principio della proprietà privata feudale, cioè determinano la nascita
giuridica di una società feudale. In quei ceppi dunque, dichiarati furto, si realizzano una nascita e
una doppia morte: la nascita della consuetudine nobiliare alla proprietà privata feudale (borghese),
la morte del contadino, ora ladro ed espropriato, la morte dello Stato, ora servo e feudale.
1.1.3. Lo Stato nasce sulle spalle dei contadini (torna la dialettica “servo – padrone” esposta da
Hegel nella Fenomenologia dello Spirito) «Attraverso l’emancipazione della proprietà privata dalla
comunità, lo Stato è pervenuto a un’esistenza particolare, accanto e al di fuori della società civile;
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ma esso non è altro che la forma di organizzazione che i borghesi si danno per necessità, tanto verso
l’esterno che verso l’interno, al fine di garantire reciprocamente la loro proprietà e i loro interessi.»
(Marx Karl 1845-46 L’Ideologia tedesca, Editori riuniti, Roma 1971, 67)
1.1.3.1. Sul tema degli effetti politici e giuridici che derivano dai furti di legna e coinvolgono il
mondo feudale all’incontro con il mondo borghese, sembra utile l’osservazione (più generale) di
Jürgen Habermas: «La separazione del potere esecutivo dal potere legislativo diede alla borghesia il
diritto di farsi da sé le leggi destinate a inquadrare anche il proprietario fondiario nell’ordinamento
della proprietà e nello status delle libertà borghesi. La separazione del potere giudiziario dal potere
esecutivo rende in definitiva il giudice indipendente dagli ordini di ufficio e garantisce una
condizione su cui la società borghese ripone tutte le sue speranze: la efficacia e inviolabilità di un
sistema di norme giuridiche generali scelte secondo la volontà della borghesia stessa.» (Habermas
Jürgen 1973 Cultura e società, Riflessioni sul concetto di partecipazione politica, Einaudi, Torino
1980, 10)
1.1.4. In bilancio storico il definirsi, nell’età moderna, di tre forme di proprietà. Non esiste dunque
un unico concetto (né giuridico, né sociale, né etico culturale) di proprietà privata, il concetto è
plurimo e spesso le diverse accezioni non si separano nettamente. Una ipotesi di distinzione.
In un’ipotetica storia della proprietà si riscontrano tre categorie di beni: 1. la proprietà privata creata
dall’età moderna, la proprietà borghese, « prima caratteristica dell’età moderna è il diritto di
escludere gli altri.» Di riscontro e per opposizione si definisce un altro tipo di proprietà: 2. La
proprietà pubblica «… il diritto di non essere escluso dall’uso e dal godimento di qualcosa.» La
questione affrontata da Marx intorno ai furti di legna impone di ripristinare (almeno nel ricordo
storico) un terzo tipo di proprietà che è andata completamente persa nell’età moderna: 3. la
proprietà collettiva… «il diritto individuale di non essere escluso dall’uso e dal godimento delle
risorse produttive accumulate dalla società nel suo complesso (Crawford MacPherson)»; una forma
di «proprietà in vigore prima dell’avvento del capitalismo industriale».
1.1.4.1. Quest’ultima è una forma di proprietà che va ripristinata per comprendere gli equilibri
economici e sociali in atto oggi ed è nei fatti (e nel diritto) già operante oggi, nell’era che Rifkin
chiama dell’accesso; può valere come esempio il World Wide Web , la rete conserva i diritti di
proprietà, non determina l’esclusione ma l’inclusione, è oggi ritenuto il luogo della massima libertà.
(Le citazioni sono tratte da Rifkin Jeremy 2000 L’era dell’accesso. La rivoluzione della new
economy, A. Mondadori 2000, in ordine dalle pp. 315, 316)
1.2. la religione: alienazione celeste e alienazione mondana
Il doppio religioso (celeste) e il doppio mondano. Karl Marx 1945 Tesi su Feuerbach.
«IV. Feuerbach prende le mosse dal fatto che la religione rende l’uomo estraneo a se stesso e
sdoppia il mondo in un mondo religioso immaginario, e in un mondo reale. Il suo lavoro consiste
nel dissolvere il mondo religioso nella sua base mondana. Egli non si accorge che, compiuto questo
lavoro, la cosa principale rimane ancora da fare. Il fatto stesso che la base mondana si distacca da se
stessa e si stabilisce nelle nuvole come regno indipendente non si può spiegare se non colla
dissociazione interna e colla contraddizione di questa base mondana con se stessa. Questa deve
pertanto essere compresa prima di tutto nella sua contraddizione e poi, attraverso la rimozione della
contraddizione, rivoluzionata praticamente. Così, per esempio, dopo che si è scoperto che la
famiglia terrena è il segreto della sacra famiglia, è la prima che deve essere criticata teoricamente e
sovvertita nella pratica.
VI. Feuerbach risolve l’essere religioso nell'essere umano. Ma l’essere umano non è una astrazione
immanente all’individuo singolo. Nella sua realtà, esso è l’insieme dei rapporti sociali. Feuerbach,
che non s’addentra nella critica di questo essere reale, è perciò costretto: a fare astrazione dal corso
della storia, a fissare il sentimento religioso per sé e a presupporre un individuo umano astratto,
isolato; per lui perciò l’essere umano può essere concepito solo come “specie”, come generalità
interna, muta, che unisce in modo puramente naturale la molteplicità degli individui.
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VII. Perciò Feuerbach non vede che il “sentimento religioso” è anch’esso un prodotto sociale e che
l’individuo astratto, che egli realizza, in realtà appartiene a una determinata forma sociale.»
1.2.01. Stese a Bruxelles nella primavera del 1845, le undici Tesi su Feuerbach indicano, con
chiarezza essenziale, il progetto complessivo dell’impegno filosofico di Marx e il metodo analitico
da cui sono sorretti i suoi scritti. Esse si concentrano attorno a tre temi:
a. la corretta definizione del metodo materialistico;
b. l'individuazione delle radici storiche materiali dell’alienazione sociale;
c. la trasformazione della filosofia da analisi interpretativa in prassi rivoluzionaria.
1.2.1. Le forme religiose dell’alienazione o la religione come alienazione dell’uomo dalla propria
essenza. Le ricerche sull’essenza del cristianesimo e della religione hanno portato Feuerbach a
scoprire nella religione la presenza di un processo di alienazione dell’uomo dalla propria specifica
essenza; nella religione l'essenza dell’uomo viene definita nella sua forma perfetta ed eterna, e viene
perciò collocata nel cielo: in tal modo si rende «l’uomo estraneo a se stesso» e si sdoppia la realtà
«in un mondo religioso immaginario e in un mondo reale».
1.2.2. Dalle forme religiose alle radici storiche materiali dell’alienazione. Richiamando, nella quarta
tesi, l’analisi svolta da Feuerbach sull’alienazione religiosa, Marx osserva tuttavia che l’alienazione
religiosa è solo l'immagine celeste (ideale) di una alienazione (storica) ben più concreta, profonda e
radicale collocata nell’agire pratico dell’uomo e nei rapporti sociali in cui egli è inserito.
1.2.3. La sede produttiva della alienazione. La successiva riflessione di Marx metterà in luce come
l’alienazione si attui nei processi stessi con cui l’uomo esplica materialmente la propria attività
lavorativa e culturale. Prima che nella divinità, l’uomo si aliena nella realtà concreta del sistema
produttivo in cui opera, nell'ambito del suo stesso lavoro; è anzi in quanto si aliena nel prodotto
della sua attività lavorativa che l’uomo finisce con l’alienarsi in altri ambiti, come quello religioso.
Di conseguenza, ricorda Marx nella sesta tesi, non è possibile risolvere l’alienazione religiosa
semplicemente negando l’esistenza di Dio o svelando la natura antropologica della teologia; è
invece necessario individuare, denunciare e ricomporre l’alienazione dell’uomo nelle attività
concrete della storia.
Per ricondurre l’alienazione religiosa alle condizioni materiali dell’agire umano, la filosofia deve
abbandonare definitivamente ogni residuo idealistico e assumere come metodo il materialismo (cioè
la ricerca dei processi di alienazione dell’uomo da se stesso nella concretezza dell’azione storica
dell’uomo); deve spostarsi dal piano culturale (sovrastrutturale) a quello economico (strutturale);
non può più limitarsi a semplice teoria, ma deve diventare prassi storica.
«XI. I filosofi hanno solo interpretato il mondo in modi diversi; si tratta però di mutarlo.» (Tesi su
Feuerbach)
1.3. le forme dell’alienazione mondana in un crescendo: la quadruplice alienazione
Karl Marx, Manoscritti economico-filosofici del ’44
«Noi partiamo da un fatto economico, attuale. L'operaio diventa tanto più povero quanto più
produce ricchezza, quanto più la sua produzione cresce in potenza e estensione. L’operaio diventa
una merce tanto più a buon mercato quanto più crea delle merci.» (Marx Karl 1844 Manoscritti
economico-filosofici del 1844, Editori Riuniti, Roma 1971, 194)
I processi di alienazione
[1. del prodotto dal produttore]
«Con la messa in valore del mondo delle cose cresce in rapporto diretto la svalutazione del mondo
degli uomini. Il lavoro non produce soltanto merci; esso produce se stesso e il lavoratore come una
merce, precisamente nella proporzione in cui esso produce merci in genere. Questo fatto non
esprime nient’altro che questo: che l’oggetto, prodotto dal lavoro, prodotto suo, sorge di fronte al
lavoro come un ente estraneo, come una potenza indipendente dal producente. Il prodotto del lavoro
è il lavoro che si è fissato in un oggetto, che si è fatto oggettivo: è l’oggettivazione del lavoro. La
realizzazione del lavoro è la sua oggettivazione. Questa realizzazione del lavoro appare, nella
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condizione descritta dall’economia politica, come privazione dell’operaio, e l’oggettivazione appare
come perdita e schiavitù dell’oggetto, e l’appropriazione come alienazione, come espropriazione.»
[2. del lavoro dal lavoratore]
«Abbiamo finora considerato l’alienazione, l’espropriazione dell’operaio solo secondo un lato:
quello del suo rapporto coi prodotti del suo lavoro. Ma l’alienazione non si mostra solo nel
risultato, bensì anche nell’atto della produzione, dentro la stessa attività producente. Come
potrebbe l’operaio confrontarsi come un estraneo col prodotto della sua attività, se egli non si è
estraniato da se stesso nell’atto della produzione stessa? Il prodotto non è che il résumé dell’attività,
della produzione. Se, dunque, il prodotto del lavoro è la espropriazione, la stessa produzione
dev’essere espropriazione in atto, o espropriazione dell’attività, o attività di espropriazione.
Nell’alienazione dell’oggetto del lavoro si riassume soltanto l’alienazione, l’espropriazione,
dell’attività stessa del lavoro.
In che consiste ora l’espropriazione del lavoro?
Primieramente in questo: che il lavoro resta esterno all’operaio, cioè non appartiene al suo essere, e
che l’operaio quindi non si afferma nel suo lavoro, bensì si nega, non si sente appagato ma infelice,
non svolge alcuna libera energia fisica e spirituale, bensì mortifica il suo corpo e rovina il suo
spirito. L’operaio si sente quindi con se stesso soltanto fuori del lavoro, e fuori di sé nel lavoro.
Come a casa sua è solo quando non lavora e quando lavora non lo è.
Abbiamo considerato da due lati l’atto di alienazione dell’attività pratica umana, del lavoro. 1) Il
rapporto dell’operaio col prodotto del lavoro come oggetto estraneo e avente un dominio su di lui.
Rapporto ch’è contemporaneamente rapporto col mondo sensibile, cogli oggetti naturali, come
mondo che gli sta di fronte estraneo, nemico. 2) Il rapporto dell’operaio con l’atto di produzione nel
lavoro. Rapporto ch’è il rapporto dell’operaio con la sua propria attività come estranea, non sua,
l’attività come passività, la forza ch’è debolezza, la generazione ch’è impotenza, l’energia fisica e
spirituale propria dell’operaio, la sua vita personale — che cos’è la vita se non attività — come
un’attività rivolta contro lui stesso, e da lui indipendente, a lui non appartenente. L’autoalienazione;
come vedemmo sopra l’alienazione della cosa.»
[3. del lavoratore dalla propria essenza, dal proprio genere umano]
«Abbiamo ancora da trarre dalle precedenti una terza caratteristica del lavoro alienato.
L’uomo è un ente generico non solo in quanto egli praticamente e teoricamente fa suo oggetto il
genere, sia il proprio che quello degli altri enti, ma anche — e questo è solo un altro modo di
esprimere la stessa cosa — in quanto egli si comporta con se stesso come col genere presente e
vivente; in quanto si comporta con se stesso come con un ente universale e però libero.
La vita del genere, tanto dell’uomo che delle bestie, consiste sotto l’aspetto fisico anzitutto in
questo: che l’uomo (come la bestia) vive della natura inorganica, e quanto più universalmente ne
vive l’uomo della bestia, tanto più universale è l’ambito della natura inorganica di cui egli vive. […]
Il lavoro alienato fa dunque:
3) della specifica essenza dell’uomo, tanto della natura che dello spirituale potere di genere,
un’essenza a lui estranea, il mezzo della sua individuale esistenza; estrania all’uomo il suo proprio
corpo, come la natura di fuori, come il suo spirituale essere, la sua umana essenza;»
[4. dell’uomo dall’altro uomo, un’alienazione nel sociale]
«4) che un’immediata conseguenza, del fatto che l’uomo è estraniato dal prodotto del suo lavoro,
dalla sua attività vitale, dalla sua specifica essenza, è lo straniarsi dell’uomo dall’uomo. Quando
l’uomo sta di fronte a se stesso, gli sta di fronte l’altro uomo.
Ciò che vale del rapporto dell’uomo al suo lavoro, al prodotto del suo lavoro e a se stesso, ciò vale
del rapporto dell’uomo all’altro uomo, e al lavoro e all’oggetto del lavoro dell’altro uomo. In
generale, il dire che la sua essenza specifica è estraniata dall’uomo significa che un uomo è
estraniato dall’altro, come ognuno di essi dall’essenza umana.
L’alienazione dell’uomo, e in genere ogni rapporto in cui l’uomo si trovi con se stesso, si realizza
soltanto e si esprime nel rapporto nel quale l’uomo sta con gli altri uomini.
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Dunque, nel rapporto del lavoro alienato ogni uomo considera gli altri secondo la misura e il
rapporto in cui si trova egli stesso come lavoratore.»
(Marx Karl 1844 Manoscritti economico-filosofici del 1844, Editori Riuniti, Roma 1971 pp. 194200, passim)
1.3.1. La ripresa e il capovolgimento critico delle tesi del pensiero politico moderno. Il testo di
Marx, nell’articolare le forme dell’alienazione, sembra riprendere, e portare ad altra destinazione, le
tesi espresse da John Locke per sostenere il diritto naturale alla proprietà privata, il suo fondamento
e la sua ampiezza. «Sebbene la terra e tutte le creature inferiori siano comuni a tutti gli a uomini,
pure ognuno ha la proprietà della propria persona, alla quale ha diritto nessun altro che lui. Il lavoro
del suo corpo e l’opera delle sue mani possiamo dire che sono propriamente suoi. A tutte quelle
cose dunque che egli trae dallo stato in cui la natura le ha prodotte e lasciate, egli ha congiunto il
proprio lavoro, e cioè unito qualcosa che gli è proprio, e con ciò le rende proprietà sua. Poiché son
rimosse da lui dallo stato comune in cui la natura le ha poste, esse, mediante il suo lavoro, hanno
connesso con sé, qualcosa che esclude il diritto comune di altri. Infatti, poiché questo lavoro è
proprietà incontestabile del lavoratore, nessun altro che lui può avere diritto a ciò ch’è stato
aggiunto mediante esso, almeno quando siano lasciate in comune per gli altri cose sufficienti e
altrettanto buone. (Locke John 1690 Due trattati sul governo, UTET, Torino 1968, 260-261)
Occorre riprendere lo stretto legame tra libertà e proprietà in Locke e Hegel. In Locke la proprietà è
alla base della libertà o ne è la definizione prima; infatti inizia dicendo che ognuno è proprietario di
sé stesso e di conseguenza, del lavoro delle proprie mani, del risultato del lavoro o di ciò cui ha
apposto qualcosa di proprio traendolo dallo Stato in cui la natura lo aveva lasciato. La tendenza a
stabilire un nesso essenziale tra proprietà e libertà culmina nella filosofia del diritto di Hegel, al cui
centro sta l’idea di libertà: la proprietà è la forma reale concreta della libertà. È in questo contesto
che emerge il concetto, qui positivo, di alienazione: se la libertà è concretamente posta nella
proprietà, allora la realizzazione della libertà è farsi altro, porsi in altro è alienazione. Quindi Marx:
se tale alterità, nata come la realtà della libertà, diventa un ente estraneo, non appartiene a chi la
produce, allora questa alienazione (farsi altro da sé nella proprietà) è estraneazione; quindi questa
realizzazione che è alienazione e poi estraneazione diventa processo di negazione, autonegazione e
negazione storica.
1.3.2. Dopo aver riconosciuto a Feuerbach il merito di aver individuato l’origine dell'alienazione
religiosa, Marx ritiene necessario smascherare le forme più radicali, politiche ed economiche, in cui
l’alienazione si manifesta. La conoscenza delle condizioni sociali del proletariato urbano, acquisita
dal filosofo durante un soggiorno a Parigi e approfondita con personali letture, conduce Marx a
individuare nei rapporti economici della società industrializzata la base materiale e concreta delle
varie forme (religiosa, sociale, politica) in cui si manifesta la separazione dell’uomo dai risultati
oggettivi del proprio lavoro e quindi da se stesso. Una serie di specifici studi sul lavoro e
sull'alienazione nella società capitalistica che saranno raccolti e pubblicati quasi un secolo dopo, nel
1932, con il titolo Manoscritti economico filosofici del 1844.
1.3.3. La riflessione critica che Marx conduce sul pensiero economico del secondo Settecento (di
cui A. Smith, F. Quesnay, T. Malthus, D. Ricardo, I.-B. Say furono i più significativi esponenti)
inaugura un nuovo modello di indagine sia in economia politica (per gli strumenti e per i processi
logici mobilitati per definire temi e formulare leggi), sia in filosofia (che Marx riconduce alla base
concreta e materiale da cui provengono le sue elaborazioni teoretiche). Sin dal 1844, la riflessione
di Marx si costituisce infatti nell'intreccio, vario ma indistricabile, di economia e filosofia. I concetti
classici dell’economia politica (capitale, concorrenza, profitto, rendita, proprietà, denaro, salario,
lavoro) non sono per Marx i fondamenti naturali e indiscutibili di leggi ineluttabili dell’economia,
ma descrivono solo un particolare modo di produzione storicamente determinato; di esso occorre
spiegare l’origine e l’evoluzione al fine di mostrarne la storicità e la possibile radicale
trasformazione. Per interpretare ed esprimere questi aspetti della realtà Marx si serve di categorie e
di termini come oggettivazione, estraniazione, alienazione, che trasferisce dalla dialettica dello
spirito di Hegel alla dialettica dell’economia e della storia.
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1.3.4. Le forme dell’alienazione: «L'economia politica occulta l’alienazione che è nell’essenza del
lavoro». L’alienazione è il concetto centrale attorno a cui Marx costruisce l'intera critica filosofica
all’economia politica.
1.3.4.1. Originariamente il termine aveva il significato giuridico di cessione, volontaria o meno, di
un bene; successivamente viene a indicare il patto associativo in cui ognuno rinuncia a tutti i propri
diritti per riceverli dalla sola comunità (come afferma Rousseau); nella dialettica di Hegel designa
invece il processo con cui lo spirito, determinandosi nell’oggetto come altro da sé, si realizza
secondo uno sviluppo dialettico logico e oggettivo. Ripresi da questa tradizione i termini
oggettivazione, estraniazione, alienazione, vengono assunti da Feuerbach come strumenti di analisi
della religione e si trasformano in termini di denuncia della separazione dell’uomo dalla propria
essenza, attuata dalla cultura religiosa.
1.3.4.2. Marx, fin dai primi scritti su temi giuridico-politici, si avvale degli stessi termini per
denunciare la separazione tra le forme concrete della società e gli astratti concetti di stato e libertà
giuridica, e per individuare, nell'analisi economica, i tratti di quell'economia che separa dal
produttore l’oggetto cui mette capo il lavoro umano, alienandolo nel risultato stesso della sua libertà
produttiva. In tal modo, i termini oggettivazione e alienazione si scindono e si contrappongono; in
Marx, come e più radicalmente che in Feuerbach, l’alienazione (l’estraniazione, l’espropriazione)
perde l’originaria connotazione positiva e a essa si lega un nuovo progetto filosofico: la filosofia
diventa ora la forma di cultura che ha come compito di svelare teoricamente e contrastare
praticamente le forme dell'alienazione, le attività cui l’uomo affida la propria oggettivazione e che
si trasformano in processi di annullamento dell’uomo stesso.
1.3.5. Nella riflessione di Marx il lavoro, nelle forme che assume nella produzione capitalistica, è il
luogo originario del processo di alienazione storica dell’uomo; l'alienazione religiosa e l’alienazione
politica derivano infatti da un’alienazione prima e originaria: l’alienazione economica. A partire
dall’alienazione economica, che concretamente si manifesta nella forma della proprietà privata, la
riflessione di Marx mette in luce quattro livelli, sempre più profondi ed estesi, di alienazione.
Marx, impostando lo studio dei fatti economici secondo le forme della dialettica hegeliana,
individua infatti nei processi di cui vive e si alimenta l'economia dominata dal capitale una forma di
negazione dell'uomo. Termini chiave della dialettica hegeliana, come oggettivazione, realizzazione,
privazione, alienazione, espropriazione, vengono ripresi per aprire la riflessione filosofica sulle
forme storiche ed economiche della società e metterne in luce le contraddizioni e i limiti. Il lavoro e
la proprietà, indicati dalla filosofia del diritto di Hegel come oggettivazione concreta della libertà e
dell’iniziativa umane, si presentano, nel sistema capitalistico, come realtà indipendenti dal soggetto,
come principi autonomi dell’intera economia; essi divengono perciò fonte dell’alienazione e della
schiavitù dell’uomo. Indicando il mutamento di significato dei concetti dialettici di oggettivazione,
estraniazione, Marx segnala gli stravolgimenti paradossali cui ha condotto la logica del capitale.
1.3.6. L’autonomia dell’economia e l’alienazione dell’uomo: processi in parallelo. Osserva e
riassume Jürgen Habermas: «…come critico dell'economia politica, Marx vede nell’anatomia della
società borghese nient’altro che strutture attraverso cui il processo di autovalorizzazione
capitalistica si afferma «sopra le teste» d’individui autoestraniati, producendo forme sempre più
drastiche d'ineguaglianza sociale. Così, da un insieme di condizioni autorizzanti che rendevano
possibile la libertà — condizioni per cui gli individui si associavano con volontà e coscienza,
sottomettendo il processo sociale al proprio controllo collettivo — la società borghese si capovolge
in un sistema dominante in maniera anonima. Questo sistema, automatizzandosi contro le
intenzioni d’individui socializzati senza consapevolezza, obbedisce soltanto più alla propria logica
interna e assoggetta l’intera società agli imperativi economicamente decodificati della propria
autostabilizzazione.» (Habermas Jürgen, 1992 Fatti e norme. Contributi a una teoria discorsiva del
diritto e della democrazia, Guerini e associati, Milano 1996, 58)
2. Le forme e la logica di produzione dell’economia industriale capitalistica
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2.1. Gli strumenti concettuali definiti e predisposti allo scopo di costruire una teoria
economica della produzione industriale capitalistica contemporanea.
2.1.1. La distinzione ideologia e teoria. Capovolgere le ideologie.
«Ribelliamoci contro questa dominazione dei pensieri» «Finora gli uomini si sono sempre fatti
idee false intorno a se stessi, intorno a ciò che essi sono o devono essere. In base alle loro idee di
Dio, dell’uomo normale ecc. essi hanno regolato i loro rapporti. I parti della loro testa sono
diventati più forti di loro. Essi, i creatori, si sono inchinati di fronte alle loro creature. Liberiamoli
dalle chimere, dalle idee, dai dogmi, dagli esseri prodotti dall’immaginazione, sotto il cui giogo essi
languiscono. Ribelliamoci contro questa dominazione dei pensieri. Insegniamo loro a sostituire
queste immaginazioni con pensieri che corrispondano all’essenza dell’uomo, dice uno; a
comportarsi criticamente verso di esse, dice un altro, a togliersele dalla testa, dice un terzo, e la
realtà ora esistente andrà in pezzi.» (Marx Karl, Engels Friedrich 1845-1846 L’ideologia tedesca,
Editori Riuniti, Roma 1971, 3) Con queste parole si apre il testo di Marx L’Ideologia tedesca,
scritto in collaborazione con Friedrich Engels. Marx stesso descrive, nel 1859, il clima in cui è nata
l’opera: «Quando nella primavera del 1845 [Engels] si stabilì egli pure a Bruxelles, decidemmo di
mettere in chiaro, con un lavoro comune, il contrasto tra il nostro modo di vedere e la concezione
ideologica della filosofia tedesca, di fare i conti, in realtà, con la nostra anteriore coscienza
filosofica. Il disegno venne realizzato nella forma di una critica della filosofia posteriore a Hegel. Il
manoscritto, due grossi fascicoli in ottavo, era da tempo arrivato nel luogo dove doveva pubblicarsi,
in Vestfalia, quando ricevemmo la notizia che un mutamento di circostanze non ne permetteva la
stampa. Abbandonammo tanto più volentieri il manoscritto alla rodente critica dei topi, in quanto
avevamo già raggiunto il nostro scopo principale, che era di veder chiaro in noi stessi.» Scritta tra il
1845 e il 1846, questa opera fu pubblicata nella sua completezza solo nel 1932 con l'articolato
titolo: L'ideologia tedesca. Critica della più recente filosofia tedesca nei suoi rappresentanti
Feuerbach, B. Bauer e Stirner; e del socialismo tedesco nei suoi vari profeti.
2.1.1.1. la distinzione, la diversa funzione e la contrapposizione tra ideologia e teoria.
Il significato negativo che accompagna il termine «ideologia» nella letteratura filosofica trova un
autorevole fondamento nell'Ideologia tedesca di Marx ed Engels. Il termine, in precedenza ambiguo
(indicava infatti, alla fine del Settecento, sia la teoria scientifica che spiega il formarsi delle idee
sulla base dell’esperienza, sia, dispregiativamente, il carattere astratto e artificioso delle teorie
staccate dall’esperienza), segnala nell’opera di Marx una particolare forma della cultura e del
pensiero. Ideologia indica infatti un sistema di rappresentazioni (concetti di carattere filosofico,
giuridico, etico, religioso, politico ecc.) composti in modo da formare un insieme autonomo e
autogiustificato, un sistema totalmente definito che considera del tutto irrilevante, per la propria
identità, il riferimento alle condizioni storiche nelle quali è sorto e che si presenta come immagine
unica e universale della realtà. Produzione culturale di un periodo e quindi espressione concettuale
di una esperienza storica, la cultura diventa ideologia quando, assumendo la forma del sistema
scientifico organico e completo (cosa che di per sé non è un male) tende a presentare se stessa come
lo specchio della realtà e l’unica sua vera presentazione alla conoscenza.
2.1.1.2. Questo atto di autonomia e separazione del pensiero nasce, secondo Marx, da un
rovesciamento: l'idea diventa realtà e la realtà manifestazione dell’idea. Tipica espressione di questo
ribaltamento è sia il sistema speculativo di Hegel tesi a presentarsi come il sistema scientifico della
filosofia o dello Spirito Assoluto, sia quanto sopravvive di esso nelle pur frammentarie elaborazioni
dei «giovani hegeliani», come Feuerbach, Bauer, Stirner, che annunciano rivoluzioni, ma sono
incapaci di trascendere il puro ambito ideale.
2.1.1.3. Il difetto maggiore delle ideologie non sta forse nell’incapacità di trasformazione in cui
cadono nonostante i paludati proclami di volerla attuare, ma nel fatto di nascondere, con inganno
spesso consapevole, la propria origine e il servizio che rendono al proprio atto di nascita.
Esprimono con correttezza il tempo loro presente, ma ne assolutizzano l’immagine trasformando la
realtà che esprimono nell’unica realtà possibile e perseguibile. La cultura è comunque una
produzione sociale ed esprime la consapevolezza che un periodo storico ha di sé visti i rapporti
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sociali e produttivi storicamente determinati. Questa percezione diventa ideologia nel momento in
cui si proclama indipendente, autonoma, neutrale (super partes) unica e definitiva; quando la
cultura cede alla tentazione dell’ideologia trasforma l’impegno della comprensione in un
asservimento del pensiero a conservare il presente. L’ideologia si pone dunque al servizio della
realtà presente e di chi la domina e determina maggiormente. L’ideologia dominante è l’ideologia
delle classi dominanti. La grave colpa delle ideologie consiste nel nascondere la propria natura
servile e di cooperare organicamente per il successo di un sistema di dominio che esclude l’uomo da
se stesso, dalla propria essenza attiva e che dunque crea alienazione.
2.1.1.4. Alla ideologia si oppone la teoria che non vive di astrazioni generali o astoriche, proclamate
come universali, ma di astrazioni che Marx chiama determinate o specifiche.
2.1.2. Le astrazioni specifiche o determinate e la teoria. Il principio di metodo della
specificazione storica o della astrazione determinata (della universalità concreta) si colloca alla base
di ogni teoria che intende rispettare la concretezza o forma la regola di metodo dello studio
dell’economia, base materiale del sociale; teoria che diventa il tema dell’opera principale di Marx,
Il capitale. Critica dell’economia politica: «le categorie più astratte, nonostante siano valide –
proprio a causa della loro astrazione – per tutte le epoche, sono tuttavia, in ciò che vi è di
determinato in questa astrazione, il prodotto di condizioni storiche e posseggono la loro piena
validità solo per e entro queste condizioni.» (Marx, Lineamenti fondamentali di critica
dell’economia politica, Einaudi, Torino 1977, 25) Occorre evitare i due estremi: da una parte
evitare il ricorso ad astrazioni universali proclamate valide in sé, dall’altra evitare, in nome di un
eccesso di empiria, di rifiutare i concetti; in quest’ultimo caso la registrazione del mero fatto (che in
realtà non è mai priva di concetti, di fatto surrettizi, inconsapevoli e incontrollati) è incapacità a
comprendere la densità della concretezza ed è consegnare il pensiero all’ideologia: «È accaduto
quindi che il lato attivo è stato sviluppato dall'idealismo in contrasto col materialismo, ma solo in
modo astratto, poiché naturalmente l’idealismo ignora come tale l’attività reale, sensibile.» (Marx,
Tesi su Feuerbach I). Marx al metodo che porta le teorie a pensare di aver risolto il processo di
conoscenza in quanto «finiscono sempre col trovare per via d’analisi, alcune relazioni generali
astratte determinanti, come la divisione del lavoro, il denaro, il valore», dimenticando di essere di
fronte a risultati o prodotti storici complessi che devono essere spiegati e non a principi universali
dell’economia, oppone il metodo della specificazione storica.
«Questo ultimo è, chiaramente, il metodo scientificamente corretto. Il concreto è concreto perché è
sintesi di molte determinazioni ed unità, quindi, del molteplice. Per questo, esso appare nel pensiero
come processo di sintesi, come risultato e non come punto di partenza, benché sia l’effettivo punto
di partenza e perciò anche il punto di partenza dell’intuizione e della rappresentazione. Per la prima
via, la rappresentazione piena viene volatilizzata ad astratta determinazione; per la seconda, le
determinazioni astratte conducono alla riproduzione del concreto nel cammino del pensiero. E per
questo che Hegel cadde nell'illusione di concepire il reale come il risultato del pensiero
automoventesi, del pensiero che abbraccia e approfondisce sé in se stesso, mentre il metodo di salire
dall’astratto al concreto è solo il modo in cui il pensiero si appropria del concreto, lo riproduce
come un che di spiritualmente concreto. Ma mai e poi mai il processo di formazione del concreto
stesso.» (Marx Karl 1859 Per la critica dell’economia politica, Editori Riuniti, Roma 1979, 189)
2.1.2.1. il movimento: «salire dall’astratto al concreto» (“salire” al concreto, in espressione
fortemente antihegeliana); il movimento nella sua completezza è segnato da due passaggi: concreto
– astratto – concreto; dalla complessità del concreto occorre ricavare astrazioni specifiche che
terminano, di ritorno, nella comprensione del concreto e diventano teoria nella forma (quasi
ossimorica) di astrazione concreta o determinata: «il pensiero si appropria del concreto, lo riproduce
come un che di spiritualmente concreto»; cioè un concreto pensato.
2.1.2.2. Marx richiama l’economia al compito dì spiegare le forme storiche della produzione e i
conseguenti rapporti sociali, abbandonando astrazioni astoriche per servirsi invece di categorie
determinate e di concetti specifici. Alcuni di questi termini richiamano in realtà la logica di Hegel:
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la categoria hegeliana di «concetto», inteso come universale concreto, quella di «determinato», in
quanto inserito in rapporti e di relazioni, quella di «sistema», come prodotto complesso di uno
sviluppo, ma vengono reinterpretate da Marx in quanto inserite nello studio delle forme storiche dei
rapporti economici e sociali. L'economia che, come ogni teoria, si serve di concetti e di astrazioni, è
assolutamente incapace di spiegare la natura particolare che la produzione materiale e l'intera
società assumono nelle varie epoche se non indica come i concetti generali e astratti dell’economia
(denaro, scambio, lavoro, proprietà, popolazione) prendono significati e forme storicamente diversi.
Alla filosofia compete allora di indicare, attraverso adeguate categorie logiche e concettuali, le linee
di metodo necessarie per descrivere le forme storiche concrete dei concetti e delle leggi
dell’economia.
2.1.3. Semplice e complesso; un cammino a ritroso: il complesso spiega il semplice e non al
contrario (contro la fallacia delle origini)
«La società borghese è la più complessa e sviluppata organizzazione storica della produzione. Le
categorie che esprimono i suoi apporti e che fanno comprendere la sua struttura, permettono quindi
di capire al tempo stesso la struttura e i rapporti di produzione di tutte le forme di società passate,
sulle cui rovine e con i cui elementi essa si è costruita, e di cui sopravvivono in essa ancora residui
parzialmente non superati, mentre ciò che in quelle era appena accennato si è svolto in tutto il suo
significato, ecc. L’anatomia dell’uomo è una chiave per l’anatomia della scimmia. Invece, ciò che
nelle specie animali inferiori accenna a qualcosa di superiore può essere compreso solo se la forma
superiore è già conosciuta. L’economia borghese fornisce così la chiave per l’economia antica ecc.
Ma non certamente al modo degli economisti, che cancellano tutte le differenze storiche e in tutte le
forme di società vedono la società borghese.
Si possono comprendere tributi, decime ecc., quando si conosce la rendita fondiaria. Ma non
bisogna identificare questa con quella. Poiché inoltre la stessa società borghese non è altro che una
forma antagonistica dello sviluppo, certi rapporti delle forme sociali anteriori si possono rinvenire
spesso in essa solo del tutto atrofizzati o travestiti, come per esempio la proprietà della comunità. Se
è quindi vero che le categorie dell’economia borghese sono valide anche per le altre forme di
società, ciò va preso cum grano salis. Esse possono contenere quelle forme in modo sviluppato,
atrofizzato, caricato ecc. e sempre con una differenza essenziale. La cosiddetta evoluzione storica si
fonda in generale sul fatto che l’ultima forma considera le precedenti come semplici gradini che
portano a essa, e poiché è raramente e solo in certe determinate condizioni capace di criticare se
stessa — non si fa qui parola naturalmente di quei tali periodi storici che appaiono a se stessi come
epoche di decadenza — le concepisce sempre unilateralmente. La religione cristiana è divenuta
capace di contribuire alla comprensione obiettiva delle passate mitologie solo quando la sua
autocritica fu pronta in un certo grado e, per così dire, dunàmei (in potenza). Così l’economia
borghese è giunta a intendere quella feudale, antica ed orientale, quando è cominciata l’autocritica
della società borghese. Per quel tanto che l’economia borghese non si identifica semplicemente in
modo mitologico con il passato, la sua critica delle [società] precedenti, specialmente di quella
feudale, con cui essa ha avuto ancora a lottare direttamente, è simile alla critica del cristianesimo al
mondo pagano, oppure alla critica esercitata dal protestantesimo nei confronti del cattolicesimo.»
(Marx Karl 1859, 1953, Per la critica dell’economia politica, editori riuniti, Roma 1979, p. 194)
2.1.3.1. Il cammino di spiegazione e di comprensione procede a ritroso nei confronti del presunto
cammino materiale e culturale della storia. Non è ciò che è semplice e che precede a spiegare e
determinare la realtà più complessa che segue e che l’esperienza attuale presenta, ma quest’ultima a
garantire l’esistenza materiale di ciò che analiticamente appare più semplice e indicarne la
particolare funzione. [Come le parole di un vocabolario non vengono prima di un discorso, che si
ridurrebbe ad essere una semplice combinazione di quegli elementi preesistenti, ma acquistano il
proprio significato nelle relazioni complesse del discorso; il vocabolario ne indica le potenzialità
per astrazione]. Se ciò che è semplice ha una propria autonomia questa consiste nella potenzialità:
staccato dalle relazioni attuali in cui esiste (attraverso un processo di astrazione), il materiale o
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principio semplice può entrare in altri contesti di operatività e acquisire altre capacità significative o
una ridefinizione. Immaginare e ricostruire una società originaria considerata ideale e semplice è
una strada per non capire né la particolare logica “complessa” della società in cui si vive, né la
potenzialità di significazione propria dei cosiddetti elementi semplici, isolati, se colti in diversi
sistemi complessi.
2.1.3.2. Le società complesse o le società reali. Le società diventano progressivamente complesse in
quanto il loro sviluppo consiste nel riferire a sé e rifinalizzare alla propria logica economie e
politiche precedenti, parallelo o alternative. Ogni società è complessa: considerata nel suo esistere
presente è complessa. Ogni società tuttavia, per differenza da sé, definisce semplici quelle società
precedenti cui attribuisce relazioni ora incluse in altri procedimenti e diventati ora una propria
componente. La sopravvivenza di elementi o relazioni semplici (tipici di società considerate che al
presente vengono definite semplici o meno sviluppate) in società complesse sta a fondamento della
possibilità delle società più evolute di spiegare e utilizzare in forma nuova (e considerata talora
incautamente unica) la natura di quelle componenti arcaiche, ma è anche il contesto per cogliere
storicamente (pur modellandole con effetti globalmente distruttivi) le potenzialità delle società
considerate primitive.
2.1.3.3. Il rapporto tra semplice e complesso non può giustificare filosofie della storia (alla Hegel,
ma anche di schietto stampo cristiano borghese) costruite secondo un corso lineare (pur nella sua
difficile comprensione), uniforme e indistinto, in base al quale tutto precipita nel presente e qui
trova il proprio vero ed autentico significato. Una simile operazione fa coincidere il modo analitico
di procedere della mente, che deve indicare elementi semplici come componenti materiali e ideali di
ciò che è complesso, con il processo della realtà, come se questa passasse dal semplice al
complesso. Così facendo non si coglie la funzione reale e scientifica della complessità. [Del resto
non esistono muscoli, ossa, organi… prima del corpo umano e questo non si forma per
aggregazione di quegli elementi “semplici” preesistenti].
2.1.3.4. Marx segnala così uno sviluppo parallelo di teoria (metodo) e storia materiale (reale): la
società complessa riassume e ordina in rapporti nuovi metodi produttivi più elementari, così come i
concetti specifici, propri di un periodo storico dato, ridefiniscono e contengono le idee generali. La
società borghese, in quanto complessa e organizzata, diventa, per Marx, osservatorio storico delle
società passate, ma anche base materiale da cui sorge la tentazione ideologica di ridurre l’intera
storia, nella varietà delle sue forme produttive e politiche, a momenti e tappe di uno sviluppo
progressivo che trova sbocco definitivo proprio nella società borghese; quest’ultima crea in tal
modo le condizioni per definire se stessa come progresso, sviluppo, modello unico e inesorabile
prospettiva per ogni società e civiltà e per bloccare così ideologicamente il cammino della storia.
2.1.4. Il materialismo storico dialettico o il metodo per una teoria scientifica economica, e le
coordinate concettuali fin qui richiamate, vengono riassunte in tre termini.
2.1.4.1. materialismo come metodo o la distinzione tra materialismo “volgare” e materialismo
scientifico.
«I. Il difetto principale di ogni materialismo fino ad oggi, compreso quello di Feuerbach, è che
l’oggetto, il reale, il sensibile è concepito solo sotto la forma di oggetto o di intuizione; ma non
come attività sensibile umana, come attività pratica, non soggettivamente. È accaduto quindi che il
lato attivo è stato sviluppato dall'idealismo in contrasto col materialismo, ma solo in modo astratto,
poiché naturalmente l’idealismo ignora come tale l’attività reale, sensibile. Feuerbach vuole oggetti
sensibili realmente distinti dagli oggetti del pensiero; ma egli non concepisce l’attività umana stessa
come attività oggettiva. Perciò nell’Essenza del cristianesimo egli considera come schiettamente
umano solo il modo di procedere teoretico, mentre la pratica è concepita e fissata da lui soltanto
nella sua raffigurazione sordidamente giudaica. Pertanto egli non concepisce l’importanza
dell’attività "rivoluzionaria", dell’attività pratico-critica.
II. La questione se al pensiero umano appartenga una verità oggettiva non è una questione teorica,
ma pratica. È nell'attività pratica che l'uomo deve dimostrare la verità, cioè la realtà e il potere, il
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carattere terreno del suo pensiero. La discussione sulla realtà o non-realtà di un pensiero che si isoli
dalla pratica è una questione puramente scolastica.
III. La dottrina materialistica che gli uomini sono prodotti dell’ambiente e dell’educazione, e che
pertanto uomini mutati sono prodotti di un altro ambiente e di una mutata educazione, dimentica
che sono proprio gli uomini che modificano l'ambiente e che l’educatore stesso deve essere educato.
Essa perciò giunge necessariamente a scindere la società in due parti, una delle quali sta al di sopra
della società (per esempio in Roberto Owen). La coincidenza del variare dell’ambiente e
dell’attività umana può solo essere concepita e compresa razionalmente come pratica rivoluzionaria.
V. Feuerbach, non contento del pensiero astratto, fa appello all'intuizione sensibile; ma egli non
concepisce il sensibile come attività pratica, come attività sensibile umana.
XI. I filosofi hanno solo interpretato il mondo in modi diversi; si tratta però di mutarlo.»
(Marx, Tesi su Feuerbach)
2.1.4.1.1. Il materialismo di tipo “metafisico”. Nella storia della filosofia il materialismo, prima di
presentarsi come una visione globale che riporta tutto ciò che è reale a una essenza materiale, si
propone come metodo critico che si oppone a ogni costruzione a priori, affermando che i dati
complessi e concreti della realtà trovano spiegazione solo quando vengono scomposti e ricondotti a
componenti elementari che si presentano come il materiale della loro costruzione e la base del loro
studio scientifico. Come metodo, il materialismo si rivela dunque capace di individuare falsi
concetti e mistificazioni, smantellare costruzioni puramente teoriche, ricondurre ogni dato sociale e
culturale alla propria autentica radice.
2.1.4.1.2. Il materialismo come metodo. Perché possa svolgere una funzione critica, il materialismo
non deve presentarsi come una semplice riduzione della realtà a materia e trasformarsi a sua volta in
un sistema ideologico del mondo. In questo errore, osserva Marx nella prima tesi del testo, cade il
materialismo proposto dalla filosofia di Feuerbach: le radici delle attività e delle relazioni tra gli
uomini vengono da lui individuate nell’intuizione sensibile, nella concretezza delle sensazioni e del
corpo; secondo Feuerbach è materiale solo la sostanza corporea sensibile e non l’azione concreta
del soggetto, la sua attività pratica. Non considerando di propria pertinenza l'agire concreto
dell'uomo, il materialismo, per spiegare l’attività dell’uomo (dato che peraltro trascura), lascia così
campo alla filosofia idealistica che, inesorabilmente, fornisce una lettura astratta e puramente
teorica dell’uomo, lo sradica dalle concrete condizioni storiche in cui si colloca la sua attività.
2.1.4.1.3. Dall’idealismo alla prassi. Per uscire dall’opposizione tra materialismo e idealismo, che
da sempre tormenta la cultura filosofica e produce l’effetto di opporre l’uomo a se stesso, Marx
invita a considerare il materialismo come «attività pratica», a non riservare l’oggettività a sostanze
o oggetti inerti, come il corpo o la materia (questa è una forma di «materialismo volgare»), ma
all’attività dell’uomo. Solo a partire da questa nuova radice, osserva Marx nella seconda e terza
tesi, trovano spiegazione reale secolari questioni filosofiche: la verità del pensiero, la sua capacità di
intervenire sulla realtà modellandola, l'interazione sempre aperta che viene a crearsi tra l’uomo e
l’ambiente trovano infatti la propria radice e la propria spiegazione nell'agire storico dell’uomo;
verità, realtà e potere non sono questioni teoriche, ma pratiche.
2.1.4.2. storico (materialismo storico dialettico): è necessario cogliere il carattere storico del modo
di produzione capitalistico operante nell’attuale età industriale
2.1.4.2.1. La scienza economica classica definisce come leggi eterne e generali alcuni modi fattuali
di gestione e produzione economica e non coglie il carattere storico determinato di quei termini e
delle forme che compongono quelle regolarità, non spiega come si è arrivati all’attuale sistema
economico, presenta come bisogni naturali e principi o causa della produzione quei bisogni che
invece sono creati dalla produzione, non avverte come la produzione di merci è produzione di
bisogni e non la loro mera soddisfazione come se questi risultassero eterni, astorici e
immodificabili.
2.1.4.2.2. Al centro dunque dell’economia classica si pone la produzione di oggetti e l’economia
diventa lo studio di un rapporto tra cose. Non avverte l’aspetto sociale e politico dell’economia; non
avverte come essa, se vuole conoscere il proprio settore, debba diventare studio del rapporto tra
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uomini che producono e delle forme in cui quel produrre trova la propria storica e variabile
attuazione (la particolare divisione del lavoro, le condizioni di occupazione e di produzione, il
rapporto tra capitale e lavoro, tra profitto e soddisfazione e realizzazione delle persone).
2.1.4.2.3. Le linee di metodo richiamate da Marx gli consentono di presentate l'economia
capitalistica non come «l’economia» in assoluto, ma come una sua forma storica particolare. Qui
trova la propria sede l’analisi (giovanile) delle forme plurime di realizzazione e alienazione;
l’economia attuale è infatti è il risultato dei processi di separazione dell’uomo dal prodotto del suo
lavoro e dalla sua stessa attività lavorativa; è quindi fonte della negazione della persona e dei
rapporti sociali.
2.1.4.3. dialettico (materialismo storico dialettico): il termine centrale della logica hegeliana,
dialettica, e il ruolo del negativo in essa (il negativo è la potenza della determinazione) completa la
definizione del metodo per realizzare una teoria delle basi materiali dell’attuale società.
2.1.4.3.1. Per cogliere la determinatezza storica della produzione capitalistica occorre negare la sua
forma come un assoluto o non concepire l’economia come sede delle leggi naturali dell’economia.
2.1.4.3.2. Ma non si tratta di una negazione mentale o teorica. Come infatti la negazione in
economia non si presenta soltanto come un’urgenza di carattere teorico, per comprendere, ma trova
una sua sede reale nei processi di alienazione, è cioè un processo reale di negazione, divisione,
estraneazione (del prodotto, del lavoro, della persona, delle relazioni sociali), altrettanto la
consapevolezza di quel procedere negativo costituente l’economia capitalistica deve avere
traduzione e sede reale nelle scelte di negazione della negazione. Perciò come è concreta e reale la
teoria nella dialettica negativa che caratterizza storicamente l’attuale produzione industriale,
altrettanto è concreta e reale la teoria nel farsi azione politica di liberazione dall’alienazione e di
rivoluzione nei confronti delle cause che la determinano. Del resto una critica di carattere solo
teorico e quindi astratta diventa accettazione e conservazione di quel sistema che produce
alienazione. Cogliere l’alienazione nel fatto pratico del produrre è coglierla nella prospettiva della
sua negazione e del suo abbattimento. L’alienazione presente nei processi produttivi è la base
storica concreta e materiale perché storicamente si avverta e gestisca, attraverso una rivoluzione
politica, il conflitto di classe volto a negare quell’alienazione; è la base per un socialismo scientifico
in differenza da un socialismo etico di carattere utopistico.
2.2. La teoria dell’economia capitalistica. Karl Marx 1867, 1885, 1894, Il capitale. Critica
dell’economia politica
Lo studio del mondo capitalistico. A partire dagli anni Cinquanta Marx si dedica alla costruzione di
una teoria che assume a proprio oggetto l’analisi del modo di produzione capitalistico e dei rapporti
sociali che ne derivano. È uno studio che affianca l’azione politica (come la partecipazione
all’Associazione internazionale dei lavoratori, riunita per la prima volta a Londra nel 1864)
all’osservazione diretta delle condizioni di lavoro degli operai in fabbrica e all’organizzazione di
formazioni operaie nelle quali i lavoratori prendano coscienza della propria identità di classe e del
proprio ruolo storico e rivoluzionario. Nel 1867, a risultato di quegli impegni, Marx pubblica il
primo dei tre libri della sua opera più nota: Il capitale (gli altri due libri verranno pubblicati
postumi, a cura di Engels, nel 1885 e nel 1894).
Il progetto: la natura particolare e specifica della produzione economica nella forma industriale e a
conduzione capitalistica, cioè quella caratterizzata dalla proprietà privata del capitale e dalla
separazione conseguente tra lavoro e mezzi di produzione. Marx vi spiega come l’economia dell’età
moderna non si limiti a essere il mezzo con cui l’uomo si impossessa delle risorse naturali per la
propria sopravvivenza, utilizzando, come soggetto che decide e opera, mezzi propri per la
produzione, ma si presenti come un processo nuovo in cui l’economia e il capitale diventano i
soggetti attivi, dotati di una propria autonomia e di leggi proprie di movimento e sviluppo. In esso,
la ricchezza, in forma di capitale, nasconde la propria natura di risultato del lavoro e diviene
protagonista di un processo di produzione che mira a riprodurre se stesso in termini di valore e a
generare plusvalore. In tale contesto cambiano natura tutti gli elementi dell’economia: prodotto,
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lavoro, danaro, scambio, uso… Questi termini, che sono concetti dell’economia considerati finora
generali e neutri (quindi concetti astratti), subiscono invece, nella nuova forma di produzione
(quindi nella loro concreta esistenza e operatività storica), una profonda trasformazione. Solo la loro
definizione specifica permette di cogliere la natura nuova dell’economia moderna, presentarne la
teoria e porre le condizioni per una prassi (economica, sociale e politica) consapevole e mirata.
Diventano astrazioni specifiche. Definire le parole dell’economia in forma specifica significa
individuare processi.
Il lavoro preliminare che Marx svolge nel Capitale non è una operazione di vocabolario riguardante
i termini dell’economia che la dottrina economica “classica” aveva già evidenziato per presentare
elementi, fatti e leggi naturali dell’economia, ma è un mettere in evidenza la logica produttiva, i
rapporti di produzione e i conseguenti rapporti sociali che essi riescono a cogliere e segnalare come
tratti essenziali della attuale economia ricavandoli dalle cose in cui quei processi si sono
cristallizzati e fisicizzati fino a presentarsi come oggetti neutri e naturali e a far dimenticare il
processo storico particolare che li ha prodotti. Si tratta di operare, su quel concreto, un’astrazione
specifica.
«Ciò a cui lavora il filosofo non intende ad altro che a portare all’espressione ciò che è all’opera
nella cosa stessa, ciò che come lavoro sociale ha assunto figura oggettiva di fronte agli uomini; e
pure è il lavoro degli uomini.» (Adorno Wiesengrund Theodor 1963, Tre studi su Hegel, il Mulino,
Bologna 1976, 52)
2.2.1. la merce o la logica della mercificazione: dal valore d’uso al valore di scambio. Il prodotto
del lavoro diventa merce quando il suo valore non è un valore d’uso, finalizzato al soddisfacimento
di un bisogno, ma un valore di scambio; cioè quando il risultato del lavoro, il prodotto, non si
presenta come un bene di consumo (considerato per il suo valore d’uso), ma come un bene di
scambio, quindi come una merce (considerata per il suo valore di scambio). Prodotto per essere
scambiato non ha nell’uso la sua destinazione; l’uso, il consumo, diventano solo il mezzo per
evidenziare e realizzare il valore di scambio. Merci e prodotti quindi non coincidono; la logica
dell’economia capitalistica cerca di trasformare ogni tipo di prodotto, di materia o di pensiero, in
merce.
2.2.1.1. È in atto un ribaltamento tra mezzi e fini. L’uso diventa il mezzo, lo scambio il fine. Allora
il fine della merce e della intera produzione non è l’uso ma ciò che risulta dallo scambio, cioè il
profitto. La merce non è dunque la veste naturale, eterna e astorica, del prodotto ma è quella veste
che individua una produzione finalizzata allo scambio e al massimo profitto (un’economia di
profitto).
2.2.1.2. La merce è il luogo reale e materiale in cui appare il rapporto sociale che domina e
definisce l’economia capitalistica: la distinzione tra capitale e lavoro, tra capitalisti e salariati.
2.2.1.3. La merce è il prodotto che perde la sua destinazione all’uomo (se non come un passaggio e
come un mezzo necessario), guadagna nei suoi confronti una autonomia, diventa un soggetto, si
comporta come persona. Si tratta di ciò che Marx chiama il “feticismo delle merci”: l’attribuzione
di caratteristiche personali a beni materiali. E la merce, che diventa le definizione e la veste
economica e sociale del prodotto, segnala come l’intera economia, nel modello capitalistico, tende
ad essere autoreferenziale sia in sé sia nelle teorie classiche che ne parlano: «Una delle ragioni della
potenza e della complessità dell’economia di Marx sta nel fatto che, di tutti gli economisti, egli è
stato certamente il più cosciente della circolarità e dell’aspetto tautologico della quasi totalità delle
spiegazioni economiche correnti» (Caillé Alain 1993 Il tramonto del politico. Crisi, rinuncia e
riscatto delle scienze sociali, edizioni Dedalo Bari 1995, 83) Si tratta della tendenza dell’economia
a staccarsi dalla società e a seguire una logica propria; anzi a collocarsi a guida del sociale
comportandosi come persona (il feticismo delle merci).
«La merce è feticizzata quando nello scambio è andato perduto il lavoro dell’uomo che ha lavorato
per produrla, e quindi quando è misconosciuto, o nascosto, il fatto che il valore deriva dal lavoro dei
soggetti umani. […] Marx dice che in una società alienata le cose appaiono e agiscono come
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uomini, e gli uomini come mezzi.» (Paci Enzo, in Husserl Edmund, La crisi delle scienze europee e
la filosofia trascendentale, il Saggiatore, Milano 1968, 15)
«Donde proviene dunque il carattere enigmatico del prodotto di lavoro quando assume forma di
merce? È evidente che da questa forma stessa. L’uguaglianza dei lavori umani prende la forma
reale dell'uguale oggettività di valore dei prodotti del lavoro, la misura del dispendio di forza
lavorativa umana prende tramite la sua durata nel tempo la forma della grandezza di valore dei
prodotti del lavoro, infine i rapporti tra i produttori, nei quali si affermano quelle determinazioni
sociali dei loro lavori, prendono la forma d’un rapporto sociale dei prodotti di lavoro. Il segreto
della forma di una merce sta dunque solo nel fatto che tale forma ridà agli uomini come uno
specchio l'immagine delle caratteristiche sociali del loro proprio lavoro, come proprietà sociali
naturali di quelle cose, e perciò ridà anche l’immagine del rapporto sociale tra produttori e lavoro
complessivo, facendolo sembrare come un rapporto sociale tra oggetti che esista al di fuori di loro. I
prodotti del lavoro, tramite questo 'quid pro quo', divengono merci, cose sensibilmente
soprasensibili, ossia cose sociali. Proprio come l'impressione luminosa di una cosa sul nervo ottico
non è impulso soggettivo dello stesso nervo ottico, ma forma oggettiva di una cosa esterna
all’occhio. Ma nel vedere avviene veramente la proiezione della luce di una cosa dall'oggetto
esterno su un’altra cosa, 1'occhio; è un rapporto fisico tra cose fisiche. Al contrario la forma di
merce e il rapporto di valore dei prodotti di lavoro in cui essa è rappresentata non ha proprio niente
a che fare con la loro natura fisica e con le relazioni tra le cose che ne seguono. Quello che qui
prende per gli uomini la forma fantasmagorica di un rapporto tra cose è solamente il determinato
rapporto sociale che esiste tra gli stessi uomini. Quindi, per trovare un’analogia, dobbiamo e
immetterci nelle nebulose regioni del mondo religioso. Qui i prodotti della testa umana sembrano
essere dotati di una propria vita, figure indipendenti che sono in rapporto tra di loro e con gli
uomini. Così accade per i prodotti della mano umana nel mondo delle merci. Questo è quel che io
chiamo feticismo, che si attacca ai prodotti del lavoro quando vengano prodotti come merci, e che
perciò è indisgiungibile dalla produzione delle merci.» (Marx Karl 1967, Il capitale, Newton
Compton italiana, 1970, 78)
2.2.1.4. Finalizzata allo scambio e non immediatamente non al consumo, la merce deve influenzare
e creare il consumo adeguato e necessario affinché lo scambio si realizzi e emerga il profitto del
capitale che passa attraverso il processo produttivo. «La produzione è immediatamente anche
consumo. […] Ma non è soltanto l’oggetto che la produzione crea al consumo. Essa dà anche al
consumo la sua determinatezza, il suo carattere, il suo fìnish. Allo stesso modo che il consumo dava
al prodotto il suo finish come prodotto, la produzione dà il suo finish al consumo. Innanzitutto,
l’oggetto non è un oggetto in generale, ma un oggetto determinato, che deve essere consumato in un
modo determinato, in un modo ancora una volta mediato dalla produzione stessa. La fame è la
fame, ma la fame che si soddisfa con carne cotta, mangiata con coltello e forchetta, è una fame
diversa da quella che divora carne cruda, aiutandosi con mani, unghie e denti. La produzione non
produce perciò solo l’oggetto del consumo ma anche il modo di consumo, essa produce non solo
oggettivamente ma anche soggettivamente. La produzione crea quindi il consumatore. […] La
produzione produce perciò non soltanto un oggetto per il soggetto, ma anche un soggetto per
l’oggetto. La produzione produce quindi il consumo 1) creandogli il materiale; 2) determinando il
modo di consumo; 3) producendo come bisogno nel consumatore i prodotti che essa ha
originariamente posto come oggetti. Essa produce perciò l’oggetto del consumo, il modo di
consumo e l’impulso al consumo. Allo, stesso modo, il consumo produce la disposizione del
produttore, sollecitandolo in veste di bisogno che determina lo scopo della produzione.» (Marx Karl
1859 Per la critica dell’economia politica, Editori Riuniti, Roma 1979, 178-180 passim)
2.2.1.4.1. Il feticismo si traduce nell’incremento di consumo in quanto determina uno status sociale:
la “personificazione” della merce va intesa anche come capacità della merce di materializzare in se
stessa come segno la dimensione, il volto, la percezione (autopercezione) sociale del soggetto.
«Nel corso della sua esistenza, Marx fu continuamente attaccato perché riteneva che il consumo di
beni dipendesse dal fatto che erano in grado di simboleggiare uno status o di esprimere la
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personalità dell'acquirente. Oggi queste idee sono così assodate che ci riesce difficile metterci
nell’ottica dei critici utilitaristici di Marx, per i quali ogni individuo cercava in modo razionale di
perseguire un interesse economico, comprando solo ciò che era necessario o utile. Questo fu il
grande dualismo del pensiero ottocentesco: in astratto, l’insistenza sull'utilità e la concretezza; in
pratica, la percezione di un mondo psicomorfico. Mentre Marx era pienamente cosciente che le
merci erano divenute «un’apparenza che esprime la personalità del compratore», altri pensatori
interpretavano, seppur con minore sicurezza, fugaci apparenze come segni di un carattere intimo e
permanente.» (Sennett Richard 1974 1976 Il declino dell’uomo pubblico, Bruno Mondadori, Milano
1982, 180)
2.2.1.5. Tutto può entrare a far parte del processo di scambio e garantire l’incremento di profitto,
tutto allora può diventare merce. Uno dei tratti che caratterizzano l’economia capitalistica è infatti,
secondo Marx, la sua onnipresenza: non vi è nulla, per i moderni processi di valorizzazione
economica, che non possa venire considerato come merce e inserito perciò nella logica produttiva
del sistema. Nella logica dell’economia di scambio e di profitto non è possibile porre alcun limite al
processo di mercificazione dei beni, degli atti, delle persone, dell’intera società. A sostenere il
processo di mercificazione nella sua diffusione e universalizzazione interviene una logica di
traslazione presente nell’evoluzione della merce, cioè nell’evoluzione della forma cui assegna il
proprio valore di scambio: dal prodotto alla marca. Staccata dal consumo immediato la merce
genera un uso riferito alla sua valenza sociale simbolica: la merce come simbolo e tramite delle
relazioni e dei posizionamenti della persona nella società e nei suoi sistemi di gerarchizzazione.
2.2.1.6. La merce e l’oblio: il silenzio delle cose. «Strumento privilegiato di questo nuovo
orientamento all’oblio della società moderna è una delle sue più potenti creazioni: la merce.
La merce può essere considerata come un operatore dell’oblio nella società moderna, che informa
l’esperienza soggettiva attraverso l’interiorizzazione dei suoi valori costitutivi: la sostituibilità
perfetta e programmata, l’indifferenza verso i contenuti qualitativi (l’equivalenza). Le merci sono
oggetti di consumo che rompono con la tradizione del rapporto con le cose, che prima dell’avvento
della produzione e del mercato moderno era improntato alla conservazione e alla trasmissione
intergenerazionale . Le merci sono fatte per essere sostituite, quindi dimenticate. Attraverso le merci
e la moda, in quanto strumenti del cambiamento incessante che muove la modernità, è evidente
come la memoria operi soprattutto attraverso l’oblio, un oblio automatico e incessante, che
garantisce l’apertura al nuovo che è costitutiva della mentalità e delle forme di esperienza moderne.
In questo senso possiamo considerare le merci come esemplari “oggetti per dimenticare” (Bartoletti,
2007), che consentono di fare esperienza quotidiana dell’apertura al nuovo e della “flessibilità di
spirito” dell’individuo borghese, che corrisponde a un’assenza di radici sul piano sociale e
all’assenza di vincoli in forma di affezione alle cose e ai modi di vita, e quindi al significato. Il
primato all’oblio concretizzato nella merce è parallelo al primato del valore di scambio sul valore
d’uso, costitutivo della trasformazione dei beni in merce (Marx). La merce funziona come oggetto
per dimenticare quindi dal lato della sua esistenza sociale, del primato del valore di scambio sul
valore d’uso di cui la merce continua comunque a essere contenitore, seppur questo valore d’uso si
manifesti solo una volta che essa ritorna nelle mani private del consumatore, ossia quando cessa la
sua esistenza sociale. In altre parole la merce è oggetto per dimenticare in quanto forma sociale e
forma denaro, per questo resterà sempre una forma imperfetta e incompiuta di operatore dell’oblio,
non potendosi liberare fino in fondo del suo rapporto con la materia, con il valore d’uso e con il
corpo del consumatore; in ultima analisi, con il significato. È quindi più precisamente il denaro il
modello perfetto di oggetto per dimenticare, in quanto è esso a consentire al meglio l’apertura alla
novità: nessuna identità, nessuna appartenenza, nessun legame, nessuna memoria.» (Žižek Slavoj
2007 La violenza invisibile, Rizzoli, Milano 2007,114)
Note che fanno il parallelo su quanto sostiene Žižek sulla incapacità del sistema capitalistico di
creare comunità o significati… globalizzazione ma senza identità: « Il capitalismo è il primo
ordinamento socioeconomico che toglie totalità al signficato: non è globale al livello di significato
(non esiste una «visione del mondo capitalista» globale, né una «civiltà capitalista» propriamente
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detta: la lezione fondamentale della globalizzazione è proprio che il capitalismo si può adattare a
qualsiasi civiltà, da quella cristiana a quella induista o buddista, da quella occidentale a quella
orientale); la sua dimensione globale può essere formulata solo al livello di una verità senza
significato, come il «Reale» dei meccanismi del mercato globale.» (Žižek Slavoj 2007 La violenza
invisibile, Rizzoli, Milano 2007 p.83-84)
2.2.2. il lavoro: nel lavoro si attua la logica dell’astrazione, che è contemporaneamente astrazione
nei concetti e astrazione nella realtà; dunque non è un’astrazione generica ma specifica e
determinata. Quasi paradossalmente: il lavoro concreto diventa sempre più astratto (quantitativo) e
il lavoro astratto diventa concreto: diventa la forma più diffusa e la più adeguata a garantire il
massimo profitto (è un altro modo di vedere in atto la relazione concreto – astratto – concreto).
2.2.2.1. La vera natura della merce, come valore di scambio, è di essere lavoro oggettivato, tempo
lavoro e quindi quantità di lavoro o lavoro reso quantitativo, necessariamente astratto dalle qualità
poiché diventa un misuratore generale di valore. «La sua forma corporea è ritenuta come
l'incarnazione visibile, la crisalide sociale generale di ogni lavoro umano. […] Le svariate equazioni
di cui si compone la forma generale del valore identificano a turno il lavoro realizzato nella tela con
ogni altro lavoro racchiuso in altre merci, e con questo rendono la tessitura forma generale in cui si
manifesta il lavoro umano in genere; in tale maniera il lavoro oggettivato nel valore delle merci
non è identificato solo negativamente, come lavoro in cui si astragga da ogni forma concreta e da
ogni qualità utile dei reali lavori. Qui è esplicita ed evidente la sua natura positiva: è la riduzione di
tutti il reali lavori al carattere di lavoro umano comune a loro, a dispendio di forza lavorativa
umana. La forma generale di valore, che riporta i prodotti di lavoro come pura gelatina di lavoro
umano indifferenziato, mostra di essere l’espressione sociale del mondo delle merci tramite la sua
propria struttura.» (Marx Karl 1967, Il capitale, Newton Compton italiana, 1970,74)
2.2.2.2. Il passaggio dalla qualità alla quantità non si realizza solo nella quantificazione del lavoro
che permette la misurazione del valore e del plusvalore, ma accade nella produzione reale. Per due
processi. Il primo: il valore del lavoro (nella forma più estesa) e della merce è dato dal tempolavoro, il lavoro diventa merce ed è a sua volta definita dal tempo lavoro (il tempo di lavoro
necessario per garantire la sopravvivenza e il costo della vita). Il secondo: come indicava Smith, la
parcellizzazione del processo produttivo e la sua meccanizzazione tendono a ridurre i differenti
generi di lavoro in lavoro semplice (astratto dalle qualità; la sua qualità è la quantità, la durata).
2.2.2.2.1. Nei processi produttivi contemporanei acquista realtà particolare la formula di metodo
“concreto – astratto – concreto” applicata al lavoro: il lavoro concreto diventa astratto quando viene
considerato dal punto di vista della quantità, quel lavoro astratto, generico diventa poi concreto e
reale nella meccanizzazione dei processi produttivi. Nella produzione a catena, massima forma di
lavoro subordinato (dell’uomo all’uomo, dell’uomo alla macchina) diventa concreto il lavoro
astratto (misuratore del valore delle merci); astratto da ogni determinazione specifica e personale,
tende ad assumere la forma della semplice erogazione di energia fisica con il minimo di abilità
operative se non quelle ripetitive, tendenzialmente meccaniche, prossime alla sostituzione con la
macchine, valutate in termini di tempo lavoro.
2.2.2.3. La logica del sistema capitalistico tende per natura propria a includere nel proprio modello
tutti i processi produttivi; il successo di questa universalizzazione e la sua estensione globale
avviene soprattutto attraverso la quantificazione del lavoro. Si tratta di un modello che impone una
razionalizzazione delle capacità lavorative, scardina rapporti e distinzioni sociali, modelli politici e
sistemi culturali non coerenti con la nuova logica di produzione capitalistica. Marx cioè coglie da
subito non solo la logica del capitale… ma la logica attraverso la quale il sistema produttivo
capitalistico, in regime industriale, è in grado di diventare un modello progressivamente e
inesorabilmente universale di produzione economica; in grado di sbaragliare, conquistare
assorbendoli in sé e ponendoli a margine di un sistema che ha nella logica del capitale la sua
possibilità storica di esistenza e sopravvivenza, i diversi sistemi storici di produzione economica,
quelli domestici, precapitalistici e preindustriali, quelli socialisti/comunisti, quelli cooperativistici
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ecc. Si tratta della logica dell’astrazione: sottoporre gli elementi costitutivi dell’economia
all’astrazione nei confronti della propria materialità. Astrazione del lavoro, o nascita del lavoro
astratto, che è contemporaneamente, dal punto di vista economico/antropologico, un processo di
alienazione (la quadruplice alienazione) e, dal punto di vista del valore, un misuratore del valore
delle merci e un meccanismo che spiega la nascita del plusvalore (per Marx). Astrazione della
ricchezza dalla sua materialità, in varie forme: la proprietà che diventa accumulazione originaria; il
prodotto che diventa merce e da bene d’uso ha valore in quanto bene di scambio; il danaro che da
mezzo di scambio diventa equivalente generale della ricchezza e dotato di una logica propria di
movimento, circolazione e valorizzazione, e il capitale finanziario non è riducibile al capitale nella
sua materialità economico-produttiva. L’astrazione, nel suo complesso generale, è quel processo
che permette all’economia capitalistica un’autofinalizzazione; è finalizzata al profitto, alla propria
autovalorizzazione. Secondo tale autofinalismo l’economia si stacca dal sociale, dall’uomo, si
comporta come soggetto storico, diventa base strutturale del sociale capace di ridurre a propri
fenomeni, a propria sovrastruttura, gli altri aspetti, insopprimibili ma non autonomi, del sociale.
2.2.2.4. Dunque il lavoro non è espressione e realizzazione delle capacità e dei progetti dell’uomo,
ma strumento per garantire la valorizzazione del capitale (alienazione del lavoro dal lavoratore);
l’operaio non viene considerato come persona, ma come forza-lavoro il cui valore è stimato, come
ogni altra merce, sulla base dei suoi costi di produzione (in questo caso in base ai costi di
sussistenza); a contatto con i mezzi di produzione la forza-lavoro genera lavoro che produce
plusvalore (un lavoro comandato, prestato, effettuato, superiore al lavoro contenuto nella forzalavoro, nell’operaio come costo della persona fisica); ciò che appare dunque è non una forza-lavoro
che genera lavoro, ma un capitale che investito in mezzi di produzione, permette il lavoro, genera
plusvalore, rivendica il profitto. Di nuovo il capovolgimento: le cose appaiono come persone (il
capitale e le merci sono soggetti, veri e propri feticci, che avviano la produzione e lo scambio), le
persone invece si presentano come cose (il lavoratore è una merce particolare, acquistata come
forza-lavoro e «usata» produce lavoro allo scopo di generare plusvalore).
2.2.3. la logica della crisi: le contraddizioni storico sociali e le difficili composizioni del
capitalismo; la forma specifica della crisi dell’economia capitalistica. «Qui appare di nuovo il limite
specifico in cui si imbatte la produzione capitalistica, vedendosi chiaramente non solo come essa
costituisca la forma assoluta per lo sviluppo delle forze produttive e delle riproduzione della
ricchezza, ma anche come a un dato momento sia giocoforza che entri in conflitto con tale
sviluppo.» (Marx Karl 1967, Il capitale, Newton Compton italiana, 1970, 1095)
La crisi non è un incidente nell’economia capitalistica, né un disturbo di percorso proveniente da
cause esterne. Le stesse teorie classiche (Smith, Quesnay, Ricardo, Say…) nelle loro analisi e
quindi fin dall’inizio dell’economia politica diagnosticano la crisi, pur in varie forme,
individuandola a partire dallo studio degli elementi che definiscono la stessa economia e dal modo
con cui entrano tra loro in rapporto: investimenti e profitto, produzione e consumo, prezzo e valore,
capitale e lavoro, rendita, profitti e salari, economia e società, economia e politica… aspetti
indispensabili ma di non facile composizione in un sistema produttivo e sempre in crescita.
Il tema della crisi è tema ricorrente nelle opere di Marx, è sviluppato in particolare nel terzo libro
del Capitale, e viene ricondotto a due logiche, in particolare. [Un’ampia discussione su questi temi
in Sweezy M. Paul e vari, La teoria dello sviluppo capitalistico, Boringhieri, Torino 1970]
2.2.3.1. La caduta tendenziale del saggio di profitto. La diagnosi è ripresa da Smith e segnala come
all’incremento degli investimenti corrisponde un tendenziale decremento dei livelli di profitto.
Constatazione drammatica se si considera che: «Il saggio del profitto rappresenta la molla della
produzione capitalistica; viene prodotto unicamente ciò che può essere prodotto con profitto e nella
misura in cui si può giungere a tale profitto.» (Marx Karl 1967, Il capitale, Newton Compton
italiana, 1970, 1092)
Marx attribuisce la «progressiva diminuzione del saggio generale del profitto» alla «utilizzazione
sempre più estesa di macchine e di capitale fisso in genere, una più grande quantità di materie prime
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ausiliarie vengono convertite in prodotti da un identico numero di operai in un periodo identico,
ovvero con un lavoro minore» (Marx Karl 1967, Il capitale, Newton Compton italiana, 1970,1061);
aumenta cioè il capitale costante, macchine e materie prime (costante in quanto nel processo
produttivo non crea valore, non lo incrementa, ma trasmette il valore in sé incorporato) e diminuisce
progressivamente e in proporzione il capitale variabile, il lavoro (variabile in quanto l’operaio
genera con il lavoro un valore superiore di quanto corrisposto come salario, poiché il salario è
definito in base ai costi della vita socialmente media, ai costi di produzione dell’operaio. Ne
consegue che: «La tendenza progressiva alla diminuzione del saggio generale del profitto non è
quindi che un’espressione tipica del modo di produzione capitalistico per lo sviluppo progressivo
della produttività sociale del lavoro. Ciò non significa che il saggio del profitto non possa calare
allo stesso tempo anche per altri motivi, solo sta a mostrare che, in virtù della stessa natura della
produzione capitalistica e quasi fosse una logica necessità del suo sviluppo, il saggio generale
medio del plusvalore deve trovare espressione in un calo del saggio generale del profitto.» (Marx
Karl 1967, Il capitale, Newton Compton italiana, 1970,1061)
2.2.3.2. La crisi di realizzo. Viene meno l’ipotesi della perfetta attuazione del valore (le merci
vendute al loro valore) per eccessiva produzione (sovrapproduzione che segue le capacità produttive
del sistema industriale) a fronte di incapacità di consumo (sottoconsumo, debolezza della domanda
creata anche dalla necessità di bassi salari per ottenere minori costi di produzione e maggiori
profitti). L’analisi richiama le strategie attivate per risolvere o tamponare le crisi che si rivelano
cicliche: razionalizzazione dell’utilizzo della forza lavoro, bassi salari anche attraverso il ricorso
all’“esercito di riserva”, incremento mirato dei consumi, intervento compensativo dello Stato,
allargamento dell’area controllata dall’economia capitalistica per reperimento di materie prime a
basso costo, ammodernamento tecnologico… fino a un rifugio in scelte di carattere speculativo («si
ha una ripresa della speculazione e un generale incoraggiamento della speculazione, volta a tentativi
di nuovi metodi di produzione, a nuovi investimenti di capitale, a nuove avventure, perché ci si
garantisca comunque un profitto extra, indipendente dal profitto medio generale e di esso più
elevato.» Marx Karl 1967, Il capitale, Newton Compton italiana, 1970, 1092) Correttivi capitalistici
che spostano la crisi, distolgono l’attenzione dalla natura e dalle contraddizioni del sistema
capitalistico, dalla percezione che esso ha nella autoreferenzialità, nell’essere fine a sé, le ragioni
della propria crisi.
2.2.3.3. Per le teorie liberali “classiche” dell’economia la crisi non evidenzia la contraddizione del
capitalismo ma ne costituisce una fase endemica; con effetti anche gravi di perdita nell’immediato,
ma che, sulla distanza, si rivela necessaria per il rilancio, anche in forma correttiva, del sistema, e
rafforza i tratti di un’economia mirata al massimo profitto del capitale. Anche Marx, pur
esprimendone una diversa valutazione, condivide questa diagnosi: «Marx sosteneva, infatti, che il
capitale è sempre molto interessato alle crisi economiche, in cui vede una leva per ristrutturare il
proprio potere. Di fronte al sistema nel suo complesso, l’atteggiamento dei singoli capitalisti è
generalmente conservatore. Essi sono infatti soprattutto preoccupati di massimizzare i loro profitti
nel breve periodo anche se, nel lungo periodo, questa scelta comporta effetti rovinosi per il capitale
correttivo. Le crisi economiche possono disgregare le loro resistenze con la distruzione dei settori
improduttivi, la riconfigurazione dell’organizzazione produttiva e il rinnovamento della tecnologia.
In altri termini, le crisi economiche possono sollecitare trasformazioni che ristabiliscano un alto
saggio di profitto medio e, in tal modo, siano in grado di reagire efficacemente sullo stesso terreno
definito dell’attacco operaio. La svalutazione complessiva del capitale e gli sforzi per distruggere le
organizzazioni operaie hanno il compito di trasformare la sostanza della crisi – ossia gli squilibri
della circolazione e la sovrapproduzione – nella riorganizzazione di un sistema di comando in grado
di riarticolare le relazioni tra sviluppo e sfruttamento.» (Hardt M., Negri A. 2002, Impero, Rizzoli,
Milano, 250-251)
2.2.3.4. Per Marx, la crisi, in quanto deriva da aspetti strutturali del sistema produttivo che entrano
tra loro in contraddizione, esprime la natura storica determinata e non assoluta del sistema, la sua
intrinseca contraddizione e il suo blocco di sviluppo. «Del resto, dato che il saggio di valorizzazione
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del capitale totale, il saggio del profitto, è la molla della produzione capitalistica (come la
valorizzazione del capitale ne è l'intrinseco fine) la sua caduta rallenta la costituzione di nuovi
capitali indipendenti e si presenta come un ostacolo per lo sviluppo del processo di produzione
capitalistico. Difatti favorisce la sovrapproduzione, la speculazione, le crisi, un eccesso di capitale
insieme a un eccesso di popolazione. Gli economisti i quali, al pari di Ricardo, considerano come
assoluto il modo di produzione capitalistico, si accorgono adesso che tale modo di produzione
genera esso stesso dei limiti e attribuiscono questi ultimi non alla produzione, bensì alla natura
(nella teoria della rendita). L'horror che essi sentono dinanzi alla tendenza alla diminuzione del
saggio del profitto, è provocato soprattutto dal fatto che il modo di produzione capitalistico si
imbatte, nello sviluppo delle forze produttive, in un limite che ha ben poco a che vedere con la
produzione della ricchezza in quanto tale; e questo specifico limite testimonia del carattere ristretto,
meramente storico, transitorio, del modo di produzione capitalistico; attesta che esso non costituisce
affatto l'unico modo di produzione in grado di generare ricchezza, ma, al contrario, arrivato a un
certo punto entra in conflitto con il suo stesso ulteriore sviluppo.» (Marx Karl 1967, Il capitale,
Newton Compton italiana, 1970, 1080-1081)
2.2.3.5. Le ragioni intrinseche delle crisi ricorrenti dell’economia capitalistica risalgono alla
tendenza dell’economia all’autoreferenzialità, a considerarsi autonoma dal sociale. «L’economia
politica si è ritenuta in grado di proporre una teoria del valore dei beni. Ma non è mai stato
evidenziato, almeno a nostra conoscenza, ciò che implica una tale pretesa: niente meno che la
possibilità di pensare il valore dei beni indipendentemente da quello delle persone. […]
S’incomincia qui a comprendere l’inversione logica da cui nasce l’economia politica: essa crede di
poter spiegare il valore delle cose unicamente attraverso il valore delle cose. […] La stagnazione
dell’economia politica viene dal fatto che essa ha creduto di potersi edificare sull’ipotesi della
separabilità del sistema economico dal sistema sociale, e sull’oblio del fatto che le grandezze
economiche non sono altro che espressione dei rapporti sociali.» (Caillé Alain 1993 Il tramonto del
politico. Crisi, rinuncia e riscatto delle scienze sociali, edizioni Dedalo Bari 1995, 84-85)
2.2.4. Un Manifesto per l’azione rivoluzionaria. Le contraddizioni di cui vive il sistema
capitalistico e le crisi ricorrenti che le esprimono, pagate dalla componente più debole del sociale,
espulsa dal processo produttivo, non determinano il tramonto del sistema; esso non accade in modo
meccanico ma attraverso un’azione storica politica di coloro che proprio mentre generano
plusvalore risultano progressivamente emarginati fino ad essere esclusi dal partecipare in termini di
giustizia distributiva e di iniziativa propria ai frutti del sistema; è una presa di coscienza del proprio
ruolo e del proprio destino di classe la base per generare una unitaria e convinta azione politica
nella componente operaia.
Nel sistema capitalistico compare una doppia negazione (e contraddizione): all’uomo viene tolta la
possibilità di disporre di sé (le quattro forme dell’alienazione); all’economia viene negata la
possibilità di esaltare le capacità produttive avviate dalla rivoluzione industriale: l’essere
autoreferenziale (fine a sé) e la scarsa attenzione al sociale porta infatti l’economia capitalistica a
cadere ciclicamente nelle contraddizioni della sovrapproduzione e del sottoconsumo con
conseguenti perdite di mezzi finanziari. Solo restituendo all’uomo la disponibilità dei mezzi di
produzione e la gestione della propria energia lavorativa Marx ritiene che si possano porre le basi
per la piena realizzazione dell’individuo nella ricostruita armonia dei rapporti sociali.
2.2.4.1. I rapporti capitalistici di produzione cessano di favorire lo sviluppo delle forze produttive e
si trasformano in ostacoli all’ulteriore espansione di quelle stesse forze. Nella produzione
economica stessa, la forma storica dell’economia capitalistica frena, minaccia o nega le sue capacità
produttive per le forti esclusioni (alienazioni) che crea. È la classe operaia ad essere portatrice di
questa contraddizione in quanto la vive nelle forme dell’alienazione. La classe operaia indica il
carattere e la destinazione sociale della produzione; la borghesia, attraverso la proprietà privata dei
mezzi di produzione e la destinazione dell’economia produttiva al profitto del capitale nega quella
socialità e con ciò nega la possibilità di espansione del capitale. Non si tratta dunque tanto di
21
evidenziare una ingiustizia di carattere etico, ma di denunciare un blocco allo sviluppo economico
avviato e presente nella rivoluzione industriale contemporanea. Attuare dunque una negazione della
negazione.
2.2.4.2. L’obiettivo “economico” (e politico) dell’analisi e della teoria di Marx è quello di sostenere
e promuovere al massimo le capacità produttive create dalla rivoluzione industriale eliminando gli
ostacoli che la frenano; il primo e principale di questi ostacoli, fonte ricorrenti crisi economiche e di
scontri sociali, è la separazione tra capitale e lavoro. Eliminare la proprietà privata dei mezzi di
produzione è umanizzare i rapporti di produzione e i rapporti sociali; è eliminare le forme di
alienazione (la quadruplice alienazione dell’uomo dal prodotto, dal lavoro, dal genere, dal sociale)
dell’età presente. Quell’obiettivo economico diventa l’obiettivo politico della classe operaia in
quanto prende consapevolezza della propria funzione nell’economia e agisce come soggetto politico
organizzato.
2.2.4.3. Nessun modello di società futura viene delineato da Marx come prospettiva da raggiungere
né in forma di società, né, tantomeno, in forma di Stato organizzato in istituzioni e leggi. Come
affermano Paul Sweezy e György Lukačs: «l’ortodossia nelle questioni del marxismo, riguarda
esclusivamente il metodo» e non c’è spazio per una ortodossia di carattere ideologico dottrinale.
(Sweezy M. Paul e vari, La teoria dello sviluppo capitalistico, Boringhieri, Torino 1970, 13)
Sarebbe palese la contraddizione tra un simile progetto e le indicazioni di metodo cui Marx dedica
l’intera sua opera, fondate sulla critica all’ideologia (per la teoria), al materialismo volgare (per il
materialismo di metodo), alle astrazioni generiche (per le astrazioni determinate, storiche, concrete
e specifiche).
3. La natura, il destino e il progetto della politica
3.1. la questione ebraica (dall’emancipazione religiosa, all’emancipazione politica,
all’emancipazione umana) e la fragilità di una liberazione solo politica.
«L’elevazione politica dell’uomo al di sopra della religione partecipa di tutti i difetti e i pregi
dell’elevazione politica in generale. Lo Stato in quanto Stato annulla, ad es., la proprietà privata,
l'uomo dichiara politicamente la proprietà privata non appena esso abolisce il censo per
l’eleggibilità attiva e passiva, come è avvenuto in molti Stati nordamericani. Hamilton interpreta
assai giustamente questo fatto dal punto di vista politico: «La grande massa ha trionfato sopra i
proprietari e la ricchezza monetaria». Non è forse idealmente soppressa la proprietà privata dacchè
il nullatenente diviene legislatore del proprietario? Il censo è l’ultima forma politica di
riconoscimento della proprietà privata.
Tuttavia, con l’annullamento politico della proprietà privata non solo non viene soppressa la
proprietà privata, ma essa viene addirittura presupposta. Lo Stato sopprime nel suo modo le
differenze di nascita, di condizione, di educazione, di occupazione, dichiarando che nascita,
condizione, educazione, occupazione non sono differenze politiche, proclamando ciascun membro
del popolo partecipe in egual misura della sovranità popolare, senza riguardo a tali differenze,
trattando tutti gli elementi della vita reale del popolo dal punto di vista dello Stato. Nondimeno lo
Stato lascia che la proprietà privata, l’educazione, l’occupazione operino nel loro modo, cioè come
proprietà privata, come educazione, come occupazione e facciano valere la loro particolare essenza.
Ben lungi dal sopprimere queste differenze di fatto, lo Stato esiste piuttosto soltanto in quanto le
presuppone, sente se stesso come Stato politico, e fa valere la propria universalità solo in
opposizione con questi suoi elementi.» (Marx Karl, 1843 La questione ebraica e altri scritti
giovanili, Editori Riuniti, Roma 1971, 57-58)
3.1.1. Marx, fin dalla riflessione sulla “questione ebraica” (scritta nel 1843 e pubblicata nel febbraio
1844 sulla rivista Annali franco-tedeschi, [di cui uscì un solo numero]), individua la contraddizione
politica che, secondo lui, è consustanziale all’atto di nascita dello Stato e lo caratterizza con una
insopprimibile fragilità se non addirittura intrinseca ingiustizia. Le impostazioni utopistiche e, in un
22
certo senso, anarchiche di Marx nel prendere posizione sulla natura, sulla sorte e sulla fine dello
Stato sono già scritte in queste “opere giovanili”.
3.1.1.1. Lo Stato, per determinare “l’elevazione politica in generale” dell’uomo, annulla la proprietà
privata così come dichiara indifferenti, ai fini dell’esercizio del potere politico (diritto di voto) le
condizioni di «nascita, condizione, educazione, occupazione» e fa nascere la «sovranità popolare».
3.1.1.2. Posso annullare solo ciò di cui presuppongo l’esistenza. È, allora, quell’annullamento che
rivela la presenza nel sociale di ciò che si dichiara di annullare (proprietà privata, differenze di
nascita, condizione, educazione, occupazione). Anzi quella presenza viene indicata come
preesistente allo Stato, quindi come fatto sia sociale che naturale. Ma, come più tardi Marx segnala
per le teorie degli economisti classici, e in particolare a Smith, aver collocato la proprietà privata in
natura, presentandola come diritto naturale, non ha affrontato né spiegato il problema della sua
origine ma ha solo spostato la questione in una sede diversa: dallo Stato-società alla Natura-società.
3.1.1.3. Quell’annullamento viene compiuto dal punto di vista politico; è considerato nullo agli
effetti della partecipazione politica, non viene annullato o messo sotto esame nella sua concretezza
sociale; è un annullamento “astratto”, cioè non se ne tiene conto dal punto di vista della
partecipazione politica peraltro limitata al diritto di voto, ma «lo Stato lascia che la proprietà
privata, l’educazione, l’occupazione operino nel loro modo, cioè come proprietà privata, come
educazione, come occupazione e facciano valere la loro particolare essenza. Ben lungi dal
sopprimere queste differenze di fatto, lo Stato esiste piuttosto soltanto in quanto le presuppone…».
3.1.1.4. Quindi, se quell’annullamento si può attuare solo presentando l’esistenza di ciò che si vuole
annullare (proprietà privata, differenze di nascita, condizione, educazione, occupazione) e se
quell’annullamento è attuato solo nell’ambito della politica e di quella particolare partecipazione
politica espressa nel voto (è un annullamento nella forma dell’astrazione e dell’“a prescindere”),
allora l’effetto principale di quell’annullamento è la proclamazione e il riconoscimento in forma di
scoperta ma in realtà di proclamazione della realtà sociale di quelle differenze di cui dunque si
ratifica l’esistenza, si sostiene la validità, si incoraggia giuridicamente la prosecuzione in un
modello politico che poggia su di esse come dati naturali e presupposti. Siamo nella situazione
creata dalla Legge contri i furti di legna.
3.1.1.5. La fallacia delle origini. C’è un peccato originale nelle teorie politiche moderne sullo Stato:
il peccato originale è l’origine, immaginare che lo Stato abbia un suo proprio atto di origine
autonomo (e pensare di conoscerlo fino al punto di descriverlo in forme dettagliate) e che possa
dunque contare su di un evento che lo colloca al di fuori, al di sopra, prima della storia (nella forma
del contratto di società, nella forma di diritti naturali presociali, nella forma di Stato Assoluto
espressione prima delle Spirito nella sua realizzazione etica…). Errore perseguito con efficacia
quando gli autori si soffermano a descrivere questo stato delle origini, come fosse un dato
d’esperienza a disposizione (un modo di procedere che fa coppia con quelle posizioni filosofiche
che identificano il concetto di ciò che esiste con il concetto di ciò che ha un inizio).
«Evitiamo di trasferirci come l’economista politico, quando vuole spiegarsi, in un inventato stato
originario. Un tale stato originario non spiega niente. Sposta semplicemente la questione in una
grigia nebulosa lontananza. L’economista presuppone così nella forma di un fatto, di un
accadimento, quel che deve dedurre, cioè il rapporto necessario tra due cose, per esempio, fra
divisione del lavoro e scambio. Così la teologia spiega l’origine del male con la caduta del primo
uomo: cioè anche l’economista presuppone come un fatto, nella forma della storia, ciò che deve
spiegare.» (Marx Karl 1844 Manoscritti economico-filosofici del 1844, Editori Riuniti, Roma 1971,
194)
Lo Stato (e così i concetti di cui ha bisogno per definirsi: il contratto, i diritti naturali…) ha
esistenza e validità solo in medias res, nelle relazioni sociali storiche del suo costituirsi e del suo
prendere forma. La sua nascita è in realtà un fatto continuo e non originario.
3.2. il materialismo storico dialettico è un’attività pratica concreta: un metodo di prassi
politica.
23
«XI. I filosofi hanno solo interpretato il mondo in modi diversi; si tratta però di mutarlo.» (Marx,
Tesi su Feuerbach)
3.2.1. Dalla teoria all’azione. L’undicesima tesi esprime, come in un motto programmatico, il grido
di battaglia della filosofia di Marx: «I filosofi hanno solo interpretato il mondo in modi diversi; si
tratta però di mutarlo». La filosofia non può più né limitarsi a interpretare l’esistente (come si
proponeva Hegel), né ridursi a una critica alle interpretazioni dell’esistente (come avviene per lo più
negli scritti dei giovani hegeliani). Nel lavoro, finora solo teorico, della filosofia irrompe la
dimensione attiva, pratica.
3.2.2. Il legame teoria e prassi. L’impegno nell'azione e nella prassi non è un momento successivo o
esterno alla teoria, ma ne costituisce l'essenza e l’imprescindibile radice. Se l’alienazione non è un
semplice movimento dialettico dello spirito (come avrebbe voluto Hegel) e non ha la sua forma
storica originaria nella religione (come sembrava dire Feuerbach), ma ha le proprie radici nella
concretezza dei rapporti sociali produttivi, la filosofia adempie al compito di togliere l'alienazione
(negare la negazione, negare l’opposizione tra pensiero e realtà) solo collocandosi sul piano
materiale delle attività dell'uomo, conducendo su di esso uno studio critico capace di avviare un
processo di cambiamento rivoluzionario. Al sistema del pensiero astratto, costruito dall’idealismo
tedesco, alla riduzione della storia a statica e inerte materia, proclamata dal materialismo volgare,
Marx contrappone dunque lo studio critico dell'attività pratica dell'uomo inteso concretamente come
«prodotto sociale»; il materialismo storico riconosce e smonta ogni tipo di astrazione e si trasforma
così in progetto di mutamento.
3.2.3. Un materialismo storico dialettico rivoluzionario; è questa posizione di metodo che va
richiamata anche per individuare le linee dell’azione politica presenti nel pensiero di Marx. Il
vecchio materialismo (osserva Marx nella decima tesi) in quanto concepisce l’individuo nella forma
astratta di soggetto storico, esprime e legittima la società borghese; il nuovo materialismo, in quanto
colloca l’uomo nella concretezza dei rapporti sociali e lo coglie quindi come prodotto storico
complesso e dinamico, e ancora, in quanto attribuisce natura storica (non unica e non eterna) al
modello di società attuale, tende alla costruzione di relazioni sociali in cui l’individuo possa
collocare la piena realizzazione sociale della propria essenza. Infatti, la partecipazione politica,
soprattutto se si configura come battaglia per la propria liberazione, ha il compito di cogliere e
trasformare le contraddizioni reali del produrre economico, delle relazioni produttive e sociali,
attraverso la coscienza storica di classe (la consapevolezza del ruolo economico e storico delle
componenti sociali), in processo rivoluzionario, di ribaltamento e di cambiamento. Resta priva di
incisività quella rivoluzione che viene impostata a partire da principi e valori ideali, completamente
estranei alla concretezza del vivere sociale.
3.3. la relazione tra struttura e sovrastruttura. Una questione e un dibattito ricorrente (logorante
e forse logoro); in battuta semplice: l’economia è struttura, la politica è sovrastruttura.
3.3.1. la struttura. Il termine indica la concezione secondo cui, nell’età contemporanea (a differenza
di epoche precedenti) la produzione economica ha acquisito un ruolo portante e fondamentale nel
definire le relazioni e gli assetti sociali; nell’età industriale la produzione economica diventa la
struttura che determina il corso storico generale. Per struttura o per economia Marx intende
l’insieme dei mezzi di produzione e i rapporti di produzione che ne consentono e affiancano
l’attività produttiva.
3.3.2. la sovrastruttura. Il termine indica l’insieme delle relazioni e produzioni sociali che si legano
ai processi produttivi: produzioni culturali che si definiscono nella propria forma storica in rapporto
a quelle e rispondono al compito di definirne e valorizzarne il ruolo fondamentale per la costruzione
di un sistema sociale politico e culturale intero completo e organico. Nella sovrastruttura si
collocano le relazioni sociali, la cultura, la politica, le scienze , l’arte, la religione, i linguaggi, le
consuetudini… (tutto ciò che non è strettamente mezzi e rapporti di produzione).
3.3.4. un problema storico e politico nasce dalla definizione del tipo di relazione che si vuole
sostenere tra struttura e sovrastruttura. Così Marx esprime la relazione, in un passaggio
24
dell’Ideologia tedesca: «La produzione delle idee, delle rappresentazioni, della coscienza, è in
primo luogo direttamente intrecciata all'attività materiale e alle relazioni materiali degli uomini,
linguaggio della vita reale. Le rappresentazioni e i pensieri, lo scambio spirituale degli uomini
appaiono qui ancora come emanazione diretta del loro comportamento materiale. Ciò vale allo
stesso modo per la produzione spirituale, quale essa si manifesta nel linguaggio della politica, delle
leggi, della morale, della religione, della metafisica ecc. di un popolo. Sono gli uomini i produttori
delle loro rappresentazioni, idee ecc., ma gli uomini reali, operanti, così come sono condizionati da
un determinato sviluppo delle loro forze produttive e dalle relazioni che vi corrispondono fino alle
loro formazioni più estese. La coscienza non può mai essere qualche cosa di diverso dall’essere
cosciente, e l’essere degli uomini è il processo reale della loro vita. Se nell’intera ideologia gli
uomini e i loro rapporti appaiono capovolti come in una camera oscura, questo fenomeno deriva dal
processo storico della loro vita, proprio come il capovolgimento degli oggetti sulla retina deriva dal
loro immediato processo fisico.» (Marx Karl 1845-46 L’Ideologia tedesca, Editori riuniti, Roma
1971, 13) Nel testo di Marx è esplicita e evidente la polemica, sua e di tutta la sinistra hegeliana
che lo precede, nel confronti di Hegel e dell’idealismo tedesco che fa dipendere la realtà dal
pensiero, la storia, in tutte le sue forme, dallo Spirito; il motto ricorrente infatti è “capovolgere
Hegel”. Radicare la sovrastruttura nella struttura fino e negare a quella una autonomia di
formazione e di sviluppo diventa il terreno per l’accusa rivolta a Marx di aver attuato un
riduzionismo di tipo materialistico fino a negare un autonomo valore culturale a tutto ciò che è
sovrastruttura. La questione è discussa (a lungo) e dà il via a due interpretazioni e due indirizzi
(culturali generali e anche di movimento politico).
3.3.4.1. Interpretazione riduzionista (o “dogmatica”): i settori della sovrastruttura si riducono alla
struttura (all’economia e, ridotta in extremis, alla materia), ne sono una semplice manifestazione,
non conoscono aspetti e sviluppi comprensibili se non quelli che li riportano ai modi di essere e di
evolvere dell’economia. Il materialismo qui attribuito a Marx si configura in termini di
“materialismo volgare”, che fa riferimento a materia fisica e non all’agire pratico concreto; ma è
proprio quel materialismo che Marx rifiutava e ha posto in esplicita critica, come nella prima delle
Tesi su Feuerbach.
3.3.4.2. Interpretazione metodologica (o “scientifica”): la struttura è una chiave fondamentale di
comprensione degli elementi sovrastrutturali di una realtà sociale; ne spiega l’origine, le forme,
l’evoluzione; nessuna forma della sovrastruttura, dotata di una propria storia, può prescindere dalla
struttura per essere compresa. Lo sviluppo delle forze produttive non è solo uno sviluppo
economico e tecnico ma accade anche, in forme diverse e proprie, all’interno dei rapporti sociali; tra
i due ambiti non vi è una meccanica traslazione o subordinazione, ma intreccio e interazione. Così
come Marx sa bene che non basta l’esistenza degli operai (struttura) perché esista la casse operaria
(sovrastruttura), e non basta l’esistenza della classe operaria (struttura) perché si attua una
trasformazione e, tanto più, una rivoluzione politica e di mentalità (sovrastruttura).
3.3.4.3. La coppia struttura/sovrastruttura costituisce un indicatore di metodo e si tratta di un
metodo costante. La scelta contenuta in tale metodo è quella di riportare le questioni, allo scopo di
risolverle, alla loro radice strutturale originaria; in ogni questione si dovrà distinguere tra il dato o il
livello strutturale e il livello sovrastrutturale, da intendere non come situazioni di livello assolute ma
relative, all’interno della questione affrontata; il livello sovrastrutturale di una questione può essere
strutturale per definire una questione successiva che rappresenta la sua specifica sovrastruttura (i
mezzi di produzione si presentano come struttura nei confronti dei rapporti di produzione, loro
specifica sovrastruttura; ma i rapporti di produzione sono struttura in riferimento alle classi sociali,
loro sovrastruttura, e queste sono struttura in rapporto al mondo della etichetta e della
rappresentazione delle classi nei quadri culturali delle gerarchie sociali).
3.3.4.4. Del resto, l’economia che Marx studia è sempre “economia politica”, un fatto sociale e
complesso non la mera produttività materiale, che presa per sé si presenterebbe come una mera
fattualità materiale senza alcuna interpretazione né comprensione possibile; l’espressione
“economia politica” è dominante peraltro negli economisti classici, e soprattutto nelle opere di
25
Smith; in Marx compare fin dal titolo delle opere: Per la critica dell’economia politica, Il capitale.
Critica dell’economia politica. «Il punto da cui bisogna partire è l’accertamento del significato che
ha per Marx la “critica dell’economia politica”. Proprio nel Capitolo VI, a proposito degli
economisti borghesi, si dice che essi «impigliati come sono nelle rappresentazioni capitalistiche,
vedono come si produce entro il rapporto capitalistico, ma non come questo rapporto è prodotto.»
La critica dell’economia consiste dunque per Marx nel considerare il rapporto capitalistico, il
capitale, non come un dato ma come un problema. Questa impostazione si trova in Marx già nei
Manoscritti economico-filosofici del 1844». (Napoleoni Claudio 1972 Lezioni sul capitolo sesto
inedito di Marx, Boringhieri, Torino, 14)
In sintesi globale: «L’antropologia di Marx è una teoria particolare del capitalismo industriale che
considera l’epoca moderna un punto di svolta della storia mondiale, non un caso di studio della
società occidentale. Piuttosto, il capitalismo industriale ha messo in movimento una serie di eventi
che avrebbe dovuto portare il resto del mondo sotto la sua logica contraddittoria. Da tale prospettiva
non è etnocentrico negare alle società non occidentali un’evoluzione autonoma; la storia l’ha fatto.
Per Marx, dunque, l’antropologia economica è un insieme di concetti analitici delle modalità
capitalistiche di produzione, influenzati dalla consapevolezza dell’esistenza di un mondo
precapitalista e di uno che si pone al di fuori del capitalismo.» (Hann Chris, Hart Keith 2011
Antropologia economica. Storia, etnografia, critica, Einaudi, Torino 2011, 36)
3.3.4.4.1. Senza la stretta relazione e il continuo rimando tra struttura e sovrastruttura, la cultura si
affiderebbe all’astratto percorso delle idee, ignara della concretezza del vivere quotidiano e
l’economia meriterebbe (o merita) a buon ragione la definizione di Gustave Flaubert: «Economia
politica. Scienza senza pietà» (Flaubert Gustave 1881 Dizionario delle idee comuni, in Appendice a
Bouvard e Pécuchet, Einaudi, Torino 1996, 284) e quella attribuita a Thomas Carlyle (1849):
«scienza triste» (il tema economico: «un argomento monotono, squallido e, a dire il vero, alquanto
penoso; che potremmo chiamare la scienza triste per eccellenza») . In Smith, suo “padre putativo”
l’economia è anche antropologia economica e non si può comprendere separata dal suo contesto, la
Teoria dei sentimenti morali; insomma, l’economia classica ha sempre presentato l’economia in
termini di antropologia economica e mai solo di economia pura. (Su questa tesi lo studio di Hann
Chris, Hardt Keith, 2011 Antropologia economica. Storia, etnografia, critica, Einaudi, Torino.)
«Con ferreo realismo il vasto orizzonte dell’analisi marxiana si eleva al di sopra di una mera teoria
positiva dell’ambito economico assurgendo al grado di teoria critica della società.» (Sloterdijk Peter
1983 Critica della ragion cinica, Garzanti, Milano 1992, 279)
3.4. la versione sociale e politica (sovrastrutturale) del feticismo delle merci e il progetto per
una società in cui la politica (come funzione, alla Rousseau, e non potere) è il togliersi
dell’alienazione.
Il motivo del feticismo delle merci, oltre a definire la natura economica specifica della produzione a
capitalismo privato, separato dal lavoro, trova la sua più ampia accezione nel contesto sociale, nella
costruzione di nuove forme di unità sociale (e qui trova stretta fusione il passaggio dalla struttura
alla sovrastruttura: una struttura, i rapporti di produzione, che si fa sovrastruttura, diventa forma
sociale, cultura, politica, etica e religione).
3.4.1. Il riferimento va al tema delle comunità nella società. «Comunità, e non società: le forme
semplici ma forti perché chiuse della comunità, non quelle complesse ma libere della società. Una
comunità (e non una società) basata su legami e vincoli di natura materiale e di mercato (di
apparato), legami di integrazione fortissimi anche se fondati sul denaro, sulle merci, sullo scambio.
La comunità dei produttori, dei consumatori. Comunità chiuse, erette sulla logica chiusa della
comunità stessa, una logica autoreferenziale, basata soprattutto sull’inclusione degli uguali perché
produttori/consumatori e sull’esclusione dei diversi perché non produttori! consumatori, o non
connessi. Comunità erette sulla logica chiusa del feticismo delle merci, della reificazione: per cui
ogni uomo diventa soggetto incluso nella comunità solo grazie al genere della propria attività,
un’attività che ha come scopo solo quello della produzione e del consumo delle merci e dei valori
26
(oggi non solo di scambio: ancora emozioni e divertimento) che queste merci incorporano. Un
feticismo di apparato (anche questo è oggi la rete) perché «Marx ci dice che il feticismo non è la
sacralizzazione di questo o quell’oggetto, di questo o quel valore, ma del sistema in quanto tale che,
generalizzando il valore di scambio, neutralizza la natura degli oggetti per diffonderne il valore
(economico). Più il sistema si fa sistematico, più il fascino del feticismo si rafforza, per
l’impossibilità di accedere all’oggetto senza passare per il suo valore, che è artificiale [...], perché
nel feticismo a parlare non sono le cose, ma il codice che tutte le esprime perché in tutte si
esprime.» U. Galimberti, Psiche e techne. L’uomo nell’età della tecnica, Feltrinelli, Milano 1999, p.
396. da: Demichelis Lelio 2010 Società o comunità. L’individuo, la libertà, il conflitto, l’empatia,
la rete, Carocci editore, Roma, 86)
3.4.2. Accade qui la quarta e più alta forma di alienazione illustrata da Marx: «un’immediata
conseguenza, del fatto che l’uomo è estraniato dal prodotto del suo lavoro, dalla sua attività vitale,
dalla sua specifica essenza, è lo straniarsi dell’uomo dall’uomo. Quando l’uomo sta di fronte a se
stesso, gli sta di fronte l’altro uomo.» (Marx Karl 1844 Manoscritti economico-filosofici del 1844,
Editori Riuniti, Roma 1971, 200).
3.4.3. Diventa il vivere da privati, separati, estraniati l’un l’altro, nella società e nello Stato, o
meglio nella parvenza della società e dello Stato. Situazione che vale per ogni separatezza:
individuale, di comunità o di classe, quando questa situazione di presa di coscienza e partecipazione
politica diventa strumento di cui lo Stato o la società stessa si serve per gerarchizzare ed escludere.
«La costituzione di stati, quando non è una tradizione medievale, è il tentativo di rigettare, in parte,
l’uomo, dentro la stessa sfera politica, nella limitatezza della sua sfera privata, di fare della sua
particolarità la sua coscienza sostanziale, e per il fatto che la distinzione di classe esiste
politicamente farne di nuovo una distinzione sociale. L’uomo reale è l’uomo privato dell’attuale
costituzione dello Stato. La classe ha soprattutto il significato: che la differenza, la separazione,
sono l’esistenza del singolo. Il modo di vivere, l’attività etc., di questi invece di farne un membro,
una funzione della società ne fa un'eccezione della società, è il suo privilegio. Che tale differenza
non sia solo una differenza individuale, ma si stabilisca come comunità, stato, corporazione, ciò non
soltanto non sopprime la sua natura esclusiva, bensì ne è piuttosto soltanto l’espressione: invece di
essere, la singola funzione, funzione della società, è costituita, piuttosto in una società per sé. Non
solo la classe si basa sulla separazione della società come legge generale; essa separa l’uomo dal
suo essere generale, ne fa un animale che coincide immediatamente con la sua determinatezza.»
(Marx Karl 1841-1843, Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico, in Marx Karl, Opere
filosofiche giovanili, Editori riuniti, Roma 1971, 95)
3.4.4. A smantellare la condanna presente che spinge l’uomo nelle condizioni di «un animale che
coincide immediatamente con la sua determinatezza», Marx non sogna e non propone un uomo
nuovo, ma un uomo socialmente e politicamente libero quale emerge dal togliersi consapevole e
attivo, individuale e sociale delle forme di alienazione, reso capace di edificare nel sociale secondo
le proprie capacità.
3.4.4.1. «L’idea del futuro dell’umanità e della creazione di «un uomo nuovo» sono fantasie che
hanno nutrito molte ideologie. Inoltre, l’idea che una categoria di persone anticipi il futuro
dell’uomo e dell’umanità, siano essi «gli operai», «i burocrati» o «gli studenti», è anche un’idea
condivisa da diverse ideologie radicali. A essa si accompagna l’idea che l’umanità di oggi sia, in
termini biblici, una «generazione del deserto» che morirà lungo il viaggio verso la Terra Promessa.
Ritengo che lo stalinismo sia un caso estremo di questa pericolosa fantasia di indifferenza verso le
persone reali che vivono oggi, perseguita in nome di un’umanità futura astratta.» (Margalit Avishai
2010 Sporchi compromessi, il Mulino, Bologna 2011, 206) (Non è a caso che il comunismo
sovietico, in tutta la sua durata, si sia fortemente opposto alla pubblicazione del corpo delle opere di
Marx, preferendo ad esse le citazioni e gli estratti utilizzati dagli strateghi della rivoluzione
sovietica, per lo più in forma di slogan politici, trasformati in ortodossia nell’Urss, in ideologia); per
assurdo, a rendere possibile il progetto della pubblicazione di tutte le opere di Marx [Mega: MarxEngels GedsamtAusgabe], ancora in corso, sono il contributo e la situazione creata dal cancelliere
27
tedesco [certo non socialista né comunista] Helmuth Kohl, a seguito della riunificazione della
Germania del 1989).
3.4.4.2. «In effetti, un argomento per andare oltre l’analisi di classe fu efficacemente presentato da
Marx [1875] stesso nel suo attacco al Partito tedesco dei lavoratori per aver accettato acriticamente
l’idea che l’eguaglianza nelle ricompense per il lavoro non dovesse andare in confitto con
l’eguaglianza nella soddisfazione dei bisogni.
«Ma un uomo è superiore a un altro fisicamente o intellettualmente e perciò fornisce più lavoro
nello stesso arco di tempo, o può lavorare più a lungo; e il lavoro, per essere utilizzato come unità di
misura, deve essere definito in termini di durata o intensità, altrimenti cessa di essere uno standard
di riferimento. Questo diritto eguale è in effetti un diritto diseguale a un lavoro diseguale.» [Marx
1875, Critica del programma di Gotha, Editori riuniti, Roma 1974,9].
Marx concepiva l’insistenza sull’eguale ricompensa per il lavoro — indipendentemente dai bisogni
— come una estensione del «diritto borghese», in base al quale gli esseri umani erano considerati
solamente dei produttori [Marx 1875, 9]. La differenziazione all’interno della categoria della classe
dei lavoratori suggeriva a Marx di insistere sull’esigenza di ricorrere ad altre classificazioni. In
realtà, le differenze di produttività rappresentano solamente uno degli interessi di Marx. Egli
focalizzò l’attenzione anche sulla necessità di affrontare le nostre multiformi diversità, fra cui le
differenze nei bisogni, il che lo condusse al famoso motto: «da ciascuno secondo la sua abilità, a
ciascuno secondo i suoi bisogni». Marx ha espresso più di una preoccupazione nei confronti
dell’errore di concepire gli essere umani «solamente secondo una ben definita prospettiva», in
particolare quella che vede le persone «solamente come lavoratori, e niente più, ignorando tutto il
resto» [Marx 1875, 9]. […] L'eguaglianza di reddito o — più in generale — di beni primari o
risorse, può non riuscire a produrre eguaglianza nella soddisfazione dei bisogni, quando questi
ultimi variano da persona a persona, allo stesso modo in cui varia la trasformazione di risorse in
appagamento dei bisogni. Al fine di perseguire l’eguaglianza nello spazio dello star bene o
appagamento dei bisogni, dobbiamo andare oltre le categorie basate sui reddito e anche oltre le
cosiddette classi marxiane (come per la verità lo stesso Marx aveva sostenuto).» (Sen K. Amartya
1992 La diseguaglianza. Un riesame critico, il Mulino, Bologna 2002, 169, 170)
3.4.4.3. Quando la richiesta del diritto al lavoro si trasforma in richiesta per la propria alienazione.
Una lunga tradizione (Locke, Hegel, Saint Simon, il “socialismo utopista”) vede nel lavoro un
mezzo di liberazione e di realizzazione individuale e sociale, e la rivoluzione del febbraio del 1848
in Francia lo trasforma nel principio del diritto al lavoro. Nel saggio Le lotte di classe in Francia
dal 1848 al 1850 (pubblicato nella rivista “Neue Rheinische Zeitung”, nel 1850), ragionando sugli
eventi francesi e sul fallimento di quella rivoluzione, Marx preferisce prendere in considerazione
non tanto il successo della grande concentrazione politica e sociale antirivoluzionaria che porrà fine
agli esperimenti repubblicani, quanto le debolezze interne al soggetto rivoluzionario e alla classe
operaia nelle rivendicazioni avanzate. Uno dei temi presi in esame è la proclamazione del diritto al
lavoro. Se il lavoro, nella società concreta (e non in utopia) in cui si vive, è un diritto che produce
alienazione, chiedere semplicemente un diritto al lavoro è chiedere il diritto ad essere alienati; nella
sua astrattezza e astoricità, una simile rivendicazione diventa incautamente la richiesta di un diritto
borghese e si traduce in sostegno alla economia borghese che, finalizzata al profitto, offre lavoro
subordinato nelle forme della alienazione. Insomma il diritto al lavoro è diritto all’alienazione se il
lavoro è alienato. Se la rivendicazione di quel diritto non entra nel merito e non si interroga sul tipo
di lavoro che di fatto viene raggiunto; se il lavoro offerto, l’unico lavoro esistente crea alienazione,
subordinazione… la richiesta del diritto al lavoro è richiesta del diritto alla propria alienazione,
subordinazione; il lavoro come oggettivazione, realizzazione della persona è estraneazione,
alienazione, negazione. È l’oppressore che promette liberazione dichiarando di agire nell’interesse e
in nome dell’oppresso.
3.4.4.3.1. La logica denunciata da Marx è quella stessa che è propria della pubblicità: invece di dire
che nega ciò che crea, crea ciò che di fatto nega; afferma di sostenere e di creare, favorire, ciò che
sta annullando: invita ad affermare la propria assoluta singolarità consumando ciò che, in quanto
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propagandato, è di moda e quindi corrente, di tutti o che crea una uniformità e una omologazione
che annulla ogni singolarità possibile; ma nell’atto di promuovere la singolarità e con l’invito a
distinguersi, la pubblicità (in altra sede, il diritto al lavoro) riesce ad occultare il meccanismo di
distruzione di ciò che afferma di sostenere, in modo che tale processo distruttivo non trovi
immediato accesso alla conoscenza e alla prassi conseguente di trasformazione politica sociale.
3.4.4.4. La riflessione di Marx è volta alla ricerca delle condizioni di garanzia di un lavoro e del suo
riconoscimento come promozione della persona e delle differenze personali. È necessario allora
cercare le cause dell’alienazione sociale che è anche la causa del freno posto dalla società borghese,
fondata sull’appropriazione dei mezzi per produrre, allo sviluppo pieno della nuova economia
industriale. Affrontando il tema dello stretto rapporto, storico e politico, tra marxismo e
industrializzazione, Hans Jonas presenta il marxismo come «esecutore dell’ideale baconiano» in
quanto persegue il massimo progresso tecnico scientifico attraverso l’eliminazione degli scompensi
creati dall’alienazione economica e sociale. «Non è un caso che il socialismo faccia la sua comparsa
agli albori dell’età delle macchine e che il suo avvaloramento scientifico da parte di Marx sia
fondato sulle condizioni del capitalismo create da quella costellazione. Infatti, per dirla in termini di
grossolana semplificazione, soltanto quelle condizioni fecero apparire una socializzazione non solo
vantaggiosa ma, in base alla teoria della crisi del capitalismo e della pauperizzazione del
proletariato, anche necessaria e politicamente raggiungibile. Il primo punto di vista risulta meno
problematico degli altri due. Soltanto la tecnica moderna rende possibile un incremento tale del
prodotto sociale che la sua giusta (uniforme) distribuzione non sfocia nella generalizzazione della
povertà, con la quale si porrebbe rimedio soltanto al senso di ingiustizia e a null'altro.» (Jonas Hans
1979 Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica, Einaudi, Torino 1993, 184)
3.4.4.4.1. A margine e nella logica di Marx, l’occasione e forse le opportunità create dalla crisi
(tragica e ricorrente per Marx) per cercare e creare nuove condizioni e nuove forme di lavoro. In
questo passaggio torna, e magari non solo provocatoriamente, l’opera di Ivan Illich Il diritto alla
disoccupazione creativa: «Sono passati più di trent’anni da quando Ivan Illich scrisse un corrosivo
pamphlet, "Il diritto alla disoccupazione creativa", nel quale teorizzava che contrariamente alle
preoccupazioni sulla piena occupazione e al verbo di sinistra e di destra sul valore del lavoro c'era
un'altra via, quella di concepire la propria disoccupazione come un’occasione straordinaria per
uscire dalle logiche solite del salario e del mercato. Illich rivendicava uno spazio alla
disoccupazione creativa nel quale si mettevano in dubbio le logiche che avevano trasformato il
lavoro in qualcosa da fare per un salario e invece si riscattava la natura liberatoria di pratiche,
azioni, saper fare, attività individuali e collettive che lui chiamava vernacolari. Vernacolare era
secondo lui quello che nasceva dalla logica del fare qualcosa per sé o per gli altri, dall’orto all’asilo
gestito in comune, dal mutuo appoggio al fare artigiano, artistico o letterario. Il diritto alla
disoccupazione creativa leggeva nella schiavitù del lavoro salariato la peggiore delle maledizioni
che l’uomo moderno si era inventato e nel recupero del fare per sé e per gli altri una magnifica
strada per una società conviviale. Oggi le tesi di Ivan Illich sono riprese da Richard Sennett nel suo
bel libro "Insieme" che racconta come i luoghi che più hanno costituito comunità e democrazia dal
basso sono stati nella storia i "workshop", i laboratori artigiani proprio perché è nel fare con le
mani, con il corpo e con gli altri che si crea quel legame che consente alle comunità di resistere alla
stupidità suicida del capitalismo» (Franco La Cecla, È la disoccupazione creativa che ci difenderà
dal mercato, la Repubblica 13.04.2012)
3.5. che ne è della lotta di classe, così come della rivoluzione, del disordine, dell’odio di classe e
del terrore che semina, e qual è il destino dello Stato nel pensiero e nella teoria di Marx?
È ancora comprensibile l’esigenza di fare chiarezza intorno a questo tema: è inutile attenderci una
teoria politica organica e un modello di Stato in opere che non hanno intenzione di affrontare quei
temi come argomenti suscettibili di trattazione sistematica. Sono le scelte di metodo adottate e poste
in atto da Marx a rendere improbabile se non impossibile un simile obiettivo. L’opera di Marx è
un’analisi critica del sistema capitalistico storico esistente. In quanto “critica” rimanda certo a
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ipotesi alternative, ma il soggetto portatore di strade alternative è quello stesso che porta su di sé le
condizioni di esclusione e di alienazione create dal sistema, quindi il proletariato. Ad esso occorre
ridare la consapevolezza storica del proprio ruolo (la coscienza di classe), la parola, l’iniziativa e la
lotta per il cambiamento. Un modello già delineato e imposto come utopia è sovrastruttura che
deriva dal presente e difficilmente riesce, pur nella migliore delle volontà, a evitare la connivenza
con il sistema in atto; né si ipotizzano ruoli direttivi per intellettuali, maestri di pensiero, guide
illuminate… che inesorabilmente trattengono il monopolio del pensiero sostituendosi al popolo e
agli sfruttati. «Nonostante i tratti utopici del suo pensiero, Marx ha sempre criticato questa
progettistica piccolo-borghese e non si è mai attardato a disegnare modelli della società futura.»
(Manacorda Mario Alighiero 2012 Quel vecchio liberale del comunista Karl Marx, Aliberti editore,
Roma, 112)
[Uno dei meriti del ’68, in questo particolare campo storico filosofico, è quello di aver sottolineato
la rilevanza degli scritti giovanili di Marx per la comprensione delle sue analisi politiche ed
economiche; l’effetto è stato quello di sottrarre (secondo un processo ancora in corso, lungo da
rendere nuova vulgata, più rispettosa delle posizioni espresse da Marx) le sue opere e le sue
proposte, selezionate e programmate allo scopo, all’uso di sistemi politici, degli Stati e dei partiti,
politici che a Marx si ispirano o si ispiravano secondo una vulgata irrigidita e dogmatica.]
3.5.1. Che ne è della rivoluzione e della lotta di classe (tema che, nel corso dell’800, era tratto delle
rivoluzioni liberali). Afferma Mario Alighiero Manacorda: «Su questi temi ho svolto a suo tempo
un’amichevole discussione col caro Paolo Sylos Labini, al quale era sembrato che «l’idea marxiana
della lotta di classe comportasse l’odio di classe che approfondisce ulteriormente lo scontro tra le
due parti della società». E gli ho opposto che lo stesso Marx aveva dichiarato di non aver affatto
inventato la lotta di classe, già teorizzata da storici borghesi, e di aver solo dimostrato che «è legata
a determinate fasi storiche, e porta necessariamente alla dittatura del proletariato, la quale
costituisce la transizione (Übergang) a una società senza classi» (a Weydemeyer 5 marzo 1852).
Parlare di «transizione» non è casuale: vuol dire prospettare dopo il momento rivoluzionario almeno
la speranza di una società senza più né odio né lotta di classi: dunque, proprio il contrario di quanto
gli è stato obiettato. C’è forse bisogno di ripetere che il carattere utopico di questa prospettiva non
toglie nulla alla sua carica umana?
E così sul terrorismo, circa il quale, secondo Sylos Labini, Marx avrebbe insegnato che «tutto ciò
che porta acqua al mulino della rivoluzione va bene: anche gli assassini, le rapine, le persecuzioni»,
che sono cose forse proprie di alcuni aspetti non secondari di tanti moti rivoluzionari piccoloborghesi (mazziniani!) e del socialismo reale, ma assolutamente non di Marx, che ha sempre
sostenuto le rivoluzioni popolari, fino al Risorgimento italiano e alla Comune di Parigi, ma ha
sempre rifiutato ogni atto terroristico: «Speriamo che le révolutions improvisées siano ormai alla
fine [. . .] Le rivoluzioni non si fanno su ordinazione» («New York Daily Tribune», 8 marzo 1851).
Credo proprio che nessun rivoluzionario si sia mai espresso con tanta chiarezza contro tutto ciò che
oggi viene stigmatizzato come terrorismo…» (Manacorda 2012, 106)
3.6. Qual è il destino dello Stato. «La fine dello Stato. Dunque, Marx e il marxismo sono
sembrati a lungo i corifei del più autoritario statalismo. Abbiamo visto che non è così. Ciò che più
importa ribadire è che in Marx, accanto alla lotta per la conquista del potere politico, ricorre
costante l’idea che questo potere sia di per sé un potere di classe, e perciò da superare in vista della
meta ipotetica di una completa emancipazione umana.
Nella Critica del programma di Gotha del 1875, cioè ancora una volta in sede chiaramente politica,
e sempre sulle orme della sua prima critica della hegeliana scissione tra Stato, rappresentante della
comunità, e società civile, rappresentante del privato, le sue dichiarazioni sono anche più esplicite
nel propugnare la limitazione dei compiti dello Stato e, anzi, nell'auspicarne la fine: «La libertà
consiste nel mutare lo Stato da organo sovrapposto alla società in un organo assolutamente
subordinato a essa» (W.19, p. 27). […] Ora, in confronto al Manifesto [1848], la prospettiva
dichiarata e che si potrebbe dire anarchica, della provvisorietà della dittatura e della fine dello Stato,
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è ancora più netta: tra l’un testo e l’altro c’è di mezzo tutta la sua riflessione economica, che ha
messo in luce una prospettiva di transizione fondata, più che sulla soggettività dell’intervento
rivoluzionario, sullo sviluppo oggettivo delle forze produttive e dei relativi rapporti di produzione.
E sappiamo quanto i due motivi siano apparsi in contrasto tra loro. Certo, i due momenti sono
presenti in Marx, secondo che egli parli da politico o da economista: ma purtroppo, nella
«applicazione» delle sue teorie alla realtà, si è letto soprattutto il richiamo alla dittatura,
accantonando la prospettiva della transizione e della fine dello Stato. La sua, mi sembra, è una
posizione di carattere assolutamente liberale in senso alto, conforme a una sua convinzione
profonda, e che — va rilevato — egli dice valida non solo per lo Stato borghese, quale allora
esisteva in Germania, ma anche per un futuro Stato proletario… […] ...ma anche riaffermava la
sua convinzione che ogni potere statale, comunque configurato, sarebbe stato l’espressione del
dominio di una classe sulle altre: una convinzione, d’altronde, non solo sua, giacché la si trova
formulata durante tutte le rivoluzioni borghesi. Insomma, il suo discorso vale inequivocabilmente
anche per l’ipotesi di un futuro Stato socialista. Sul quale, d'altra parte, sebbene Marx non si attardi
a definirne utopisticamente il modello, resta tuttavia l’ombra di un non risolto utopismo. Pare
comunque chiaro che Marx tutto fu, meno che statalista, e che l’interpretazione corrente delle sue
idee, da parte tanto di certi suoi eredi quanto, in generale, dei suoi avversari, sia dovuta solo alla
cattiva abitudine di confondere Marx e marxismo, e di isolare singole espressioni da un contesto di
sue riflessioni, ben più consistente e di opposta intenzione.» (Manacorda 2012, 114-116)
Appendice:
ipotesi di chiarificazione e correttive di termini per una ripresa storiografica (almeno) della
parola e del progetto “comunismo” e per una più corretta comprensione, finale, del pensiero
di Marx e della sua teoria politica (non statale). E per una lettura della proposta di Marx e del
“comunismo” in termini di metodo, teoria critica e sensibilità politica (non come rifondazione di
movimenti o di partiti).
La proposta è tratta da Žižek Slavoj 2011 Benvenuti in tempi interessanti, Adriano Salani Editore,
Milano 2012 (e dalle opere di Alain Badiou cui Žižek fa riferimento).
«Questa modalità di riferimento kantiano ci permette in effetti di descrivere l’impiego di Badiou
dell’«ipotesi comunista» come una Kritik der reinen Kommunism. Come tale essa ci invita a
ripetere il passaggio da Kant a Hegel: a riconcepire l’Idea di comunismo come un’idea in senso
hegeliano, cioè come un’Idea nel processo della sua attualizzazione. L’Idea che «fa di sé ciò che è»
non è più quindi un concetto opposto alla realtà come sua ombra senza vita, ma un’idea che dà a se
stessa realtà ed esistenza. Pensiamo alla famigerata formula «idealista» di Hegel secondo cui lo
Spirito è il risultato di se stesso, il prodotto di se stesso. Queste affermazioni provocano di norma
commenti «materialisti» sarcastici («e cosi non sono persone reali a pensare e realizzare idee, ma è
lo Spirito stesso, che, come il Barone di Munchhausen, solleva se stesso per il codino. . .»). Ma
consideriamo ad esempio un’Idea religiosa che cattura lo spirito delle masse e diventa
un’importante forza storica: in un certo modo non è questa un’Idea che attualizza se stessa e diventa
un «prodotto di se stessa»? Non spinge forse, in una sorta di cerchio che si chiude, la gente a lottare
per essa e a realizzarla? Quello che il concetto di Idea come prodotto di se stessa rende visibile non
è dunque un processo di autogenerazione idealista, ma il fatto materialista che un’Idea esiste solo
nella — e per mezzo della — azione degli individui che si impegnano in essa e da essa sono
motivati. Quello che abbiamo qui non è assolutamente il tipo di posizione storicista/evoluzionista
che Badiou rifiuta, ma qualcosa di ben più radicale: l’intuizione di come la realtà storica stessa non
sia un ordine positivo, ma un «non tutto» che punta al proprio futuro. È questa inclusione del futuro
come divario nell’ordine presente che rende quest’ultimo un «non tutto», ontologicamente
incompleto, e quindi fa a pezzi l’autochiusura del processo storicista/evoluzionista. In breve, è
questo divario che ci permette di distinguere la storicità vera e propria dallo storicismo.
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Perché allora l’Idea di comunismo? Per tre ragioni, che riecheggiano la triade lacaniana di I-S-R: a
livello dell’Immaginario, perché è necessario mantenere una continuità con la lunga tradizione del
millenarismo radicale e delle rivolte egualitarie; a livello del Simbolico, perché abbiamo bisogno di
determinare le condizioni precise in cui, in ogni epoca storica, può essere aperto lo spazio per il
comunismo; infine, a livello del Reale, perché dobbiamo accettare la durezza di quelle che Badiou
chiama le eterne invarianti comuniste (giustizia egualitaria, volontarismo, terrore, «fede nel
popolo»). Una tale Idea di comunismo è chiaramente opposta al socialismo, che precisamente non è
un’Idea, ma un vago concetto comunitario applicabile a ogni tipo di legame sociale organico, dalle
idee spiritualizzate di solidarietà («facciamo tutti parte dello stesso corpo») fino al corporativismo
fascista. Gli Stati del socialismo reale erano proprio questo: Stati realmente esistenti, mentre il
comunismo è nel suo stesso concetto antistatista.» (Žižek 2011 Benvenuti in tempi interessanti, 118119)
In conclusione: «Comunismo oggi non è il nome di una soluzione, ma il nome di un problema: il
problema dei commons in tutte le sue dimensioni — i commons nella natura come sostanza della
nostra vita, il problema dei nostri commons biogenetici, il problema dei nostri commons culturali
(«la proprietà intellettuale») e, ultimo ma non meno importante, il problema dei commons quale
spazio universale di umanità da cui nessuno dovrebbe essere escluso. Qualunque sia la soluzione,
dovrà risolvere questo problema.» [in nota commons: termine inglese traducibile come “beni
comuni” o “risorse comuni”, indica quei beni o risorse di base dal cui accesso nessuno può (o
dovrebbe) essere escluso. Oggi il tema dei beni comuni ha trovato una nuova attualità nel dibattito
politico-filosofico, in cui si mantiene di norma – anche per la difficoltà di traduzione – il termine
inglese.] (Žižek 2011 Benvenuti in tempi interessanti, 128)
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