CAPITOLO 2
INTERAZIONI NON COVALENTI
Introduzione
Le interazioni deboli hanno una grande importanza in quanto definiscono e
stabilizzano la struttura tridimensionale di una proteina e la sua interazione
con altri partner molecolari. Le interazioni non covalenti (Fig. 1) sono
estremamente deboli, e contribuiscono alla stabilizzazione della molecola per
poche kcal/mol ed, in alcuni casi, anche per qualche decimo di kcal/mol. In
una macromolecola le interazioni deboli sono numerose così che il loro
contributo è determinante per la definizione della struttura. Esse sono:
interazioni di Van der Waals, interazioni elettrostatiche, legami idrogeno,
interazioni idrofobiche. Queste ultime, più che legami veri e propri,
rappresentano la tendenza dei polipeptidi ad essere esclusi dall’interazione con
le molecole d’acqua, fenomeno detto “effetto idrofobico”.
Figura 1. Tipologie di interazioni deboli.
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Interazioni di Van der Waals
Ogni coppia di atomi ha una distanza ottimale. Quando gli atomi sono troppo
vicini, gli orbitali degli elettroni più esterni tendono a sovrapporsi e
respingersi reciprocamente e la repulsione cresce al diminuire della loro
distanza; al di sotto di una certa distanza limite, c’è una vera e propria barriera:
questa distanza definisce il raggio di Van der Waals di uno specifico atomo
(Fig. 2). Ogni atomo ha un suo spazio inviolabile, ne deriva che i raggi di Van
der Waals dei vari atomi fissano il limite di quanto la struttura possa essere
compatta.
Figura 2. La molecola di acqua con i suoi raggi di Van der Waals.
Interazioni elettrostatiche
Le interazioni elettrostatiche possono essere:
interazioni di monopolo (di singola carica); oppure interazioni di dipolo
1
1
Dipolo: sistema costituito da 2 cariche elettriche puntiformi, uguali e di segno opposto, poste ad una
distanza d. Il prodotto del valore assoluto di una delle cariche del dipolo per la distanza - indicato in Debye è pari al momento dipolare.
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e quindi dovute a cariche opposte separate da una certa distanza.
I legami idrogeno avvengono tra un donore ed un accettore di atomi di
idrogeno, nel caso in cui l’interazione avvenga tra gruppi carichi spesso viene
denominata ponte salino ed ha un carattere sia elettrostatico che di legame
idrogeno.
I legami deboli fra atomi con cariche opposte sono molto importanti perché in
una proteina ci sono molti aminoacidi carichi: alcuni carichi positivamente ed
altri negativamente. Il ruolo primario delle cariche è di rendere solubile la
proteina in un solvente acquoso, inoltre svolgono una funzione fondamentale
nella stabilità della macromolecola e nel riconoscimento di altri partner
molecolari, come il riconoscimento enzima-substrato oppure proteina-proteina
tramite la formazione di specifici ponti salini.
Il potenziale intorno ad una proteina può essere misurato attraverso la legge di
Coulomb. Dalla distribuzione delle cariche sulla proteina e dalla loro relativa
distanza è possibile calcolare il potenziale di interazione elettrostatica con la
formula rappresentata in figura 3, dove ε è la costante dielettrica; q1 e q2 il
valore delle cariche elettriche; R la distanza; ∆E il potenziale che agisce tra le
2 cariche. Al potenziale danno un contributo anche i dipoli elettrici, costituiti
da due cariche opposte separate da una certa distanza d.
Figura 3. La legge di Coulomb ed il
momento di dipolo.
L’ interazione dipolo-dipolo dipende dall’orientazione di un dipolo rispetto
all’altro (parallelo, lineare, opposto) ed è massima quando i due dipoli sono
lineari o opposti. L’analisi di una molecola come l’HCl (Fig. 4) permette di
capire che cos’è un momento di dipolo. La distanza tra l’H e il Cl è 1.3 Å; se
le cariche fossero poste a questa distanza, il momento di dipolo varrebbe 6
Debye, essendo il valore del momento di dipolo dato dalla carica moltiplicata
per la distanza. Il momento di dipolo dell’HCl misurato sperimentalmente vale
circa 1 Debye e questo significa che la delocalizzazione di carica è il 17%
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della carica totale. Due elettroni sono in comune nella molecola di HCl, ma
l’atomo di cloro esercita un’attrattiva maggiore sugli elettroni di legame, per
cui avverrà uno spostamento di carica che rende il cloro più negativo con
conseguente formazione di un dipolo. La carica è quindi parzialmente
delocalizzata e tanto maggiore è la delocalizzazione, tanto maggiore sarà il
dipolo elettrico.
Figura 4. Momento di dipolo della
molecola HCl.
Nelle macromolecole proteiche un momento di dipolo è associato ad ogni
legame peptidico, quindi il numero di momenti di dipolo presenti è elevato. Il
momento di dipolo di un legame peptidico vale circa 3.5 Debye. Il contributo
totale dipende dall’orientazione dei singoli dipoli.
In un’α-elica i momenti di dipolo dei vari legami peptidici hanno la stessa
orientazione l’uno rispetto all’altro (Fig. 5).
Figura 5. Schema del momento di dipolo del legame peptidico in un’α elica.
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Ne deriva un rafforzamento dei vari momenti e del contributo finale. Il
processo porta ad una forte delocalizzazione di carica positiva all’N-terminale
e negativa al C-terminale, ovvero alla presenza di un grosso momento di
dipolo. Molto spesso, in prossimità dell’N terminale delle α-eliche si trovano
gruppi carichi negativi che stabilizzano tramite interazione elettrostatica l’αelica stessa. Gruppi carichi negativi possono essere aminoacidi, come
glutammico e aspartico, o gruppi esterni come ad es. un gruppo fosfato. La
preferenza di un’α-elica ad avere un gruppo carico negativo in prossimità dell
N-terminale è stata verificata sperimentalmente misurando l’incremento di
stabilità ottenuto in seguito all’introduzione di un gruppo con carica negativa
tramite mutagenesi sito diretta.
In tabella I sono riportate alcune caratteristiche degli aminoacidi: in questo
contesto la proprietà più interessante è rappresentata dal pK dei vari gruppi, in
quanto determina lo stato di protonazione e deprotonazione e l’eventuale
valore di carica del gruppo per diversi valori di pH. A pH neutro gli aspartici e
i glutammici sono normalmente carichi negativamente, mentre le lisine e le
arginine sono cariche positivamente; per quanto concerne l’istidina sarà
determinante il suo microambiente perché il suo pK è prossimo alla neutralità.
Il pK di uno stesso aminoacido presente in zone diverse della proteina, non è
sempre uguale: una carica, ad esempio, è in grado di perturbare il pK di altri
gruppi. L’interazione elettrostatica dipende dalla distanza, diminuendo
all’aumentare della distanza.
Tabella I. Caratteristiche chimico-fisiche degli aminoacidi
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Il fenomeno è descritto chiaramente nell’esempio in figura 6, dove viene
rappresentata un’alanina in forma singola oppure sotto forma di dipeptide (2
alanine), tripeptide (3 alanine) o tetrapeptide (4 alanine). Per ognuna di queste
situazioni è possibile misurare sperimentalmente, in soluzione, il pK di
protonazione/deprotonazione del C- ed N- terminale.
Figura 6: pK dei gruppi N e C-terminale di un’alanina in forma singola, di dipeptide, di
tripeptide e tetrapeptide.
Il pK del gruppo carbossilico nella singola alanina è 2.3 e quello dell’ammino
gruppo è 9.6, per il dipeptide il pK del carbossile diventa 3.1 e quello
dell’ammino gruppo diventa 8.3, per il tripeptide 3.4 e 8.0 mentre per il
tetrapeptide non c’è nessuna variazione, essendo ancora 3.4 e 8.0. Se ne
deduce che, procedendo da una situazione con tre alanine ad una con quattro
alanine, i valori di pK non cambiano, mentre c’è una variazione di più di
un’unità di pH passando dal sistema caratterizzato da una singola alanina a
quello con la tripla alanina. Diminuendo il numero di alanine anche il pH deve
decrescere per poter protonare il carbossile. In sintesi, è più difficoltoso
protonare il carbossile della singola alanina che quello di una tetralanina. Il
carbossile, infatti, preferisce restare in forma deprotonata, ovvero carico
negativamente, per poter realizzare un’interazione stabilizzante con la carica
positiva del gruppo N-terminale. Nel caso della singola alanina il carbossile e
l’ammino-terminale sono molto più vicini che non in una situazione di trialanina perchè la distanza tra il C- e l’N-terminale aumenta all’aumentare del
numero di alanine tra il carbossile e l’ammino-terminale. Il pK di una carica
viene fortemente influenzato dalla presenza di un’altra carica, di conseguenza
è necessario conoscere la distribuzione delle cariche presenti in una proteina
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per individuare il pK della carica di interesse. L’interazione elettrostatica
dipende dalla distanza tra le cariche e questo esempio dimostra come il valore
di pK sia influenzato dall’ambiente (che in questo caso corrisponde ad un’altra
carica); se l’altra carica è di segno opposto è più difficoltoso cambiare lo stato
di protonazione. Introdurre o eliminare nuove cariche per mutagenesi sito
diretta è una strategia utilizzabile per modulare un ambiente chimico e quindi
influenzare lo stato di protonazione dei gruppi circostanti.
Nell’esempio riportato, il sistema imperturbato è costituito dalla tetralanina
perchè il gruppo C-terminale non avverte la presenza del gruppo N-terminale,
mentre il sistema perturbato è costituito da una monoalanina perchè i due
gruppi N e C-terminale si influenzano l’uno con l’altro. E’ possibile misurare
il contributo energetico associato alla variazione del pK dovuto alla presenza
di una carica. Considerando il valore di pK del gruppo carbossilico nel sistema
imperturbato (3.4) e perturbato (2.3), si è in grado di calcolare la variazione di
energia libera accoppiata a questa variazione di pK, che risulterà essere pari a
2.5 kcal/mol (Fig. 7). Quindi le energie in gioco nelle interazioni
elettrostatiche, (e ciò sarà vero anche per tutte le altre interazioni deboli), sono
dell’ordine di qualche kcal/mol. Nel caso specifico del gruppo carbossilico,
nella situazione perturbata il gruppo tende a dissociare più facilmente e ad
essere protonato con più difficoltà.
Figura 7. Calcolo della variazione di energia libera associata alla variazione di pK.
Quando si parla di pK di un gruppo in una proteina, si intende il pK apparente
in quanto riferito al valore sperimentale. Si tratta dunque non del pK effettivo
del gruppo, ma di quello che il gruppo mostra in un determinato ambiente
chimico. In una macromolecola proteica ci sono numerose cariche, infatti il
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20/30% degli aminoacidi totali è costituito da aminoacidi carichi. Questi ultimi
si trovano sulla superficie della proteina perchè devono interagire con l’acqua
e rendere la molecola solubile. Approssimando un proteina globulare con una
sfera, la maggioranza delle cariche si distribuirà sulla superficie della sfera e
soltanto alcune all’interno di essa.
E’ possibile calcolare il valore del potenziale elettrostatico nei dintorni di una
macromolecola applicando la legge di Coulomb. Misure più accurate vengono
fatte risolvendo l’equazione di Poisson-Boltzmann e considerando la presenza
di due dielettrici, uno ad alto valore (80), costituito dall’acqua e l’altro a basso
valore (3-4), costituito dalla proteina. Il potenziale viene calcolato a pH
neutro, determinando il contributo dei singoli gruppi con il loro stato di
protonazione ed è rappresentato disegnando linee equipotenziali, ossia quelle
in cui i valori di potenziale assumono lo stesso valore. Un esempio viene
riportato in figura 8 dove è rappresentata la distribuzione del potenziale della
superossido dismutasi (SOD) a rame e zinco. In questo modo si può osservare
come una molecola esterna percepisce la macromolecola da un punto di vista
elettrostatico.
Figura 8. Linee equipotenziali intorno alla superossido dismutasi.
40
Conoscere la distribuzione delle linee equipotenziali può rivelarsi
fondamentale per comprendere i meccanismi di riconoscimento proteinaproteina o enzima-substrato. Nel caso della superossido dismutasi, ad esempio,
il substrato è una molecola di superossido carica negativamente, che potrà
interagire con l’enzima solo attraverso le regioni rappresentate in rosso che
indicano la presenza di un potenziale positivo.
Modulazione dell’intervallo di pH di funzionamento di un enzima
variando le caratteristiche elettrostatiche
Le proteasi a serina hanno un sito catalitico che è costituito da 3 aminoacidi
(triade catalitica): serina, istidina ed aspartico; le proteasi effettuano un attacco
nucleofilo sul gruppo carbonilico del legame peptidico che deve essere
proteolizzato. L’attacco nucleofilo viene effettuato dalla serina della triade
catalitica. La serina nella catena laterale ha un gruppo OH e, per poter
effettuare l’attacco nucleofilo, la serina deve cedere il protone ad un altro
aminoacido che è l’istidina. In seguito a questa cessione l’istidina diventa
carica positivamente. Per funzionare la subtilisina deve quindi avere l’istidina
nello stato non protonato, altrimenti la serina non sarebbe in grado di cedere il
protone all’istidina stessa.
Questo significa che l’enzima nativo funziona in un intervallo di pH
determinato, a valori di pH basso, dal pK dell’istidina. Se l’istidina è
protonata, la serina non può cedere il suo protone e l’enzima non può
funzionare. Al fine di ampliare l’intervallo di pH in cui l’enzima è
funzionante, è necessario effettuare una o più mutazioni in modo da abbassare
il pK dell’istidina della triade catalitica, e ridurre così il valore di pH per il
quale la subtilisina è in grado di funzionare.
La subtilisina è una proteina a struttura nota; analizzando la struttura
tridimensionale è possibile individuare un residuo di aspartico e di glutammico
in prossimità dell’istidina stessa. Questi due aminoacidi sono stati mutati
singolarmente e sostituiti con una serina. Il profilo di kcat/KM in funzione del
pH (Fig. 9) mostra che il mutante funziona a pH più bassi dell’enzima nativo,
poiché, eliminando una carica negativa in prossimità dell’istidina 64, se ne
abbassa il valore di pK.
41
Figura 9. Dipendenza di kcat/KM dal pH.
L’eliminazione di una carica negativa porta alla sottrazione di un elemento che
stabilizza la carica positiva dell’istidina e, in tal modo, si riduce il valore di pH
per il quale l’enzima riesce a funzionare. Dunque è possibile diversificare le
capacità enzimatiche modulando l’elettrostatica del sistema e il pK
dell’istidina può essere diminuito eliminando cariche negative vicine ad essa.
La variazione può essere predetta calcolando la variazione del potenziale
sull’istidina in seguito all’eliminazione di una carica negativa in quanto essa è
direttamente correlata con il valore del pK.
Un’ulteriore considerazione riguarda l’effetto della variazione del pK
osservato al variare della forza ionica (Tabella II). L’effetto è evidente a bassa
forza ionica, mentre è quasi nullo ad alta forza ionica in quanto la presenza di
ioni porta ad una schermatura della carica e quindi ad un annullamento
dell’effetto elettrostatico. Si delinea così la regola generale secondo cui per
verificare se un parametro dipende dall’elettrostatica del sistema, occorre
misurare tale parametro in funzione della forza ionica; se il parametro non
varia risulta indipendente dall’elettrostatica del sistema.
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Tabella II. Variazione di pK in funzione della forza ionica.
Riassumendo:
le interazioni elettrostatiche sono interazioni deboli e quindi
dell’ordine di qualche kcal/mol;
le interazioni elettrostatiche possono essere utili nel riconoscimento
molecolare: infatti una definita distribuzione delle cariche sulla proteina crea
un potenziale elettrostatico utile all’interazione con il suo partner molecolare;
introduzione o eliminazione di cariche possono essere utilizzate per
modulare i pK di singole catene laterali;
la misura di un parametro in funzione della forza ionica permette di
comprendere la sua dipendenza da fattori elettrostatici.
Effetto idrofobico
L’effetto idrofobico deriva dal fatto che le macromolecole biologiche si
trovano in un solvente acquoso e l’acqua non ha un’interazione favorevole con
atomi non polari. Questo effetto ha un ruolo dominante nella stabilità delle
macromolecole biologiche e possiede alcune proprietà inusuali.
In figura 10 vediamo riassunte una serie di peculiarità dell’acqua che è uno dei
pochi liquidi che si espande quando congela.
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Figura 10. Legami idrogeno nel ghiaccio.
Il ghiaccio quando si scioglie comincia a contrarsi e questo fenomeno perdura
fino ad una temperatura di 4°C, temperatura dopo la quale l’agitazione termica
controbilancia il fenomeno di contrazione. Il fenomeno di espansione in
seguito a congelamento avviene perché il ghiaccio è composto da molecole di
acqua estremamente ordinate, che aumentano la loro distanza per ottimizzare i
loro legami idrogeno.
Un’altra proprietà importante dell’acqua è quella di avere un momento di
dipolo del valore di 1.8 Debye, che le permette di essere un ottimo accettore e
donore di legame idrogeno. La presenza di legame idrogeno caratterizza infatti
una serie di proprietà dell’acqua, sia a livello microscopico che macroscopico.
La rilevanza del legame idrogeno viene evidenziata in tabella III che riporta il
punto di fusione e di ebollizione dell’H2O e H2S.
Tabella III. Paragone tra i punti di fusione ed ebollizione per molecole di grandezza
simile.
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Il valore è molto diverso ed il motivo risiede nel fatto che le molecole di acqua
formano un buon legame idrogeno e quindi è necessaria una maggiore
temperatura, ovvero una maggiore quantità di energia, per separare le
molecole ed avere fusione ed ebollizione. L’acqua forma dei legami idrogeno
ideali nel ghiaccio dove le molecole di acqua sono fortemente ordinate e
questo ordine, anche se non ottimale, permane in soluzione. Ciò comporta che
le molecole di acqua sono parzialmente ordinate anche in fase liquida.
In figura 11 è rappresentata la funzione di distribuzione radiale, che indica la
probabilità di trovare una determinata molecola ad una certa distanza da
un’altra e poi un’altra ancora e così via. Dalla figura emerge che c’è un picco
intorno ai tre Å ed un altro intorno ai 4/5 Å. Nella parte alta della figura, dove
la distanza è espressa in termini del diametro di van der Waals della molecola,
è possibile osservare la presenza di un picco per ogni multiplo del diametro, ad
intensità decrescente. Il grafico indica che ogni molecola di acqua ha un ordine
elevato determinato dalla presenza di altre molecole di acqua in prima sfera di
coordinazione e che questo ordine va attenuandosi allontanandosi dalla
molecola.
Figura 11. Distribuzione radiale dell’acqua.
La presenza di molecole ordinate in prima sfera ma anche in seconda e
parzialmente in terza sfera, denota la capacità dell’acqua di creare un network
di legami idrogeno in soluzione, sebbene non così perfetto e definito come nel
caso del ghiaccio. Questo arrangiamento ha importanza dal punto di vista della
solubilità e della capacità di molecole o macromolecole ad associarsi o meno
45
tra loro. Per la comprensione del fenomeno occorrerà valutare l’energetica
totale di questo sistema.
Tabella IV. Costanti di associazione per molecole di vario tipo.
Nella tabella IV è riportata la costante di associazione per una serie di piccole
molecole, ovvero la capacità di associarsi l’una con l’altra quando vengono
messe in solvente acquoso. La costante di associazione (che si misura in M-1) è
abbastanza elevata per molecole che sono in grado di fare ponti salini ed è
dello stesso ordine di grandezza per molecole che sono idrofobiche, in grado
quindi di interagire fra di loro per interazione idrofobica, mentre è più bassa
(con un fattore 10 di differenza) per molecole che sono polari e possono
interagire tra loro solamente attraverso legami idrogeno. L’acqua è in grado di
modulare la capacità di associazione delle molecole a seconda delle loro
proprietà. In dettaglio: piccole molecole che sono in grado di interagire tra di
loro così come con l’acqua avranno una costante di associazione di 1/55 M =
0.02 M-1, perché 55 M è la concentrazione dell’acqua in fase liquida. Se ne
deduce che a tal concentrazione queste molecole hanno una capacità di
interagire con se stesse come con l’acqua, perché è identica la costante di
associazione. Quest’ultima indica la tendenza di due molecole ad associarsi ed
è data da:
KAB= [AB] / [A ] [ B] M-1
Due molecole, per associarsi tra loro, devono superare un ostacolo entropico,
riducendo il proprio grado di libertà, e necessitano di un’energetica migliore
nell’interazione tra loro rispetto a quella tra ciascuna molecola e l’acqua. In
46
figura 12 viene descritto il comportamento, in diversi solventi, del
metilacetamide, impiegato come composto modello del legame peptidico, a
causa del legame idrogeno che può instaurarsi tra il gruppo CO e NH.
Figura 12. Formazione del dimero del metilacetamide in vari solventi.
La figura 12 riporta la percentuale di N-metilacetamide in forma dimerica in
funzione della concentrazione della molecola stessa. Per forma dimerica si
intende la capacità di creare un legame idrogeno tra il gruppo CO ed il gruppo
NH di due molecole. In un solvente come CCl4, già a bassa concentrazione,
l’N-metilacetamide è in forma dimerica, mentre in un solvente come l’acqua è
necessario aumentare la concentrazione a 10 M. Ciò è dovuto alla
competizione che si verifica tra l’acqua e la molecola stessa nella formazione
di un legame idrogeno, che impedisce al metilacetamide di assumere la forma
dimerica. La capacità o meno di creare legami idrogeno viene studiata tramite
la tecnica della spettroscopia infrarossa, osservando la banda di vibrazione
dell’NH. La banda di vibrazione dell’NH risulta diversa a seconda che la
molecola sia in forma monomerica od in forma dimerica, (il protone,
interagendo con il carbonile di un’altra molecola, vibrerà diversamente).
47
Tabella V. Cambiamenti di energia libera per il trasferimento di vari composti
dall’etanolo all’acqua a 25 °C.
I precedenti esempi mostrano come il solvente moduli in modo incisivo le
proprietà dei soluti sciolti nel solvente stesso, e questo avviene anche quando i
soluti sono gli aminoacidi. In particolare, ogni aminoacido possiede specifiche
caratteristiche idrofiliche o idrofobiche determinate dalla composizione
chimica della sua catena laterale. In tabella V viene riprodotto il cambiamento
di energia libera ΔG per il trasferimento di una determinata molecola
dall’etanolo in acqua. Il ΔG di trasferimento indica quanto una molecola
gradisce ripartirsi in un ambiente acquoso oppure in un solvente più idrofobico
come l’etanolo. La misura del ΔG di trasferimento per tutti gli aminoacidi
permette di ottenere una scala relativa della caratteristica idrofobica o
idrofilica di ogni aminoacido. Il ΔG di trasferimento può essere misurato
valutando la solubilità della molecola in acqua e in etanolo e calcolando il
logaritmo del rapporto delle due solubilità. Un valore di ΔG < 0 indica una
molecola idrofilica, mentre un valore di ΔG > 0 indica una molecola
idrofobica. Poiché ogni aminoacido ha il gruppo carbossilico ed il gruppo
amminico, il suo ΔG di trasferimento dall’etanolo in acqua è negativo, perché
la carica negativa e la carica positiva tendono a spingerlo verso il solvente
acquoso. Il valore risulta quindi negativo per tutti gli aminoacidi riportati in
tabella. La glicina può essere presa come riferimento, in quanto priva di catena
laterale, e, sottraendo ogni volta il suo valore, è possibile ottenere il ΔG
relativo di ogni singola catena laterale. E’ possibile così valutare le
caratteristiche idrofiliche o idrofobiche di ciascuna catena laterale e costruire
una scala relativa di idropatia. Similmente è possibile procedere, ad esempio,
48
per altre molecole come l’etano ed il metano. I valori riportati in tabella
indicano che ogni gruppo chimico dà un uguale contributo indipendentemente
dalla molecola di provenienza. Nel caso del CH2, per esempio, tale contributo
è identico qualora si ottenga sia per sottrazione tra etano e metano, sia tra
alanina e glicina che tra leucina e valina. Ne deriva che il gruppo CH2 fornisce
un apporto di 0.7 kcal/mol quale gradimento di ripartizione verso l’ambiente
idrofobico indipendentemente dalla molecola in cui si trova.
Se si calcola il ΔG di trasferimento del metano dal benzene (situazione
idrofobica) all’acqua, il valore risulterà positivo in quanto il metano non
gradisce un ambiente idrofilico.
In figura 13 sono riportati il contributo entalpico ed entropico relativi a tale
trasferimento.
Figura 13. Variazione di energia
libera per il trasferimento di
molecole da solventi idrofobici
all’acqua.
La tendenza delle molecole idrofobiche a non voler essere trasferite verso
l’ambiente idrofilico è dovuta ad una componente entropica. Il ΔH infatti è
negativo, di conseguenza, dal punto di vista delle interazioni entalpiche, la
molecola gradisce essere sciolta in acqua, ma risultando il ΔS fortemente
negativo e sapendo che ΔG = ΔH-TΔS, il valore finale di ΔG sarà positivo. In
figura 14 è rappresentato lo schema di una molecola idrofobica che viene
disciolta in ambiente acquoso; a tal fine occorre creare un’opportuna cavità
ove inserire la molecola, così che l’acqua intorno si ordini e formi una gabbia
o clatrato. L’acqua che ingabbia la molecola idrofobica è fortemente ordinata e
quindi l’effetto idrofobico ha una forte connotazione entropica.
Figura 14. Formazione di clatrati per dissolvere
molecole idrofobiche.
49
Tale effetto si amplifica via via che la molecola apolare assume dimensioni
superficiali maggiori. Il grafico di trasferimento della catena laterale di un
aminoacido da acqua ad etanolo, in cui sia riportata la superficie accessibile al
solvente (SAS) della catena laterale in funzione del ΔG di trasferimento,
denota un andamento lineare (Fig. 15). L’aumentare della dimensione della
catena laterale comporta valori di ΔG sempre maggiori e negativi, in quanto
sempre più ampia dovrà essere la cavità nel solvente e maggiore sarà il
numero di molecole che dovranno ordinarsi intorno a questa molecola. Le
molecole idrofobiche tendono a minimizzare la superficie accessibile al
solvente, interagendo tra loro. Il valore della pendenza di questa retta
corrisponde a 20 cal/mol Å2. Ciò significa che ogni Å2 della superficie dà un
contributo di 20 cal/mol relativamente all’interazione idrofobica, valore che è
stato trovato anche da esperimenti di stabilità realizzati su macromolecole
proteiche.
Figura 15. Trasferimento di catene laterali di aminoacidi dall’acqua all’etanolo.
Ad esempio, nel caso del lisozima è stata calcolata la variazione di stabilità in
seguito ad una serie di mutazioni di aminoacidi idrofobici interni (Fig. 16).
Figura 16. Variazione della stabilità di una
proteina in seguito alla creazione di cavità
interna.
50
In dettaglio, sono state eliminati aminoacidi di leucina nel core idrofobico
della proteina, mutandoli in alanina, al fine di creare cavità ed è stato misurato
l’effetto sulla stabilità della proteina stessa. Detta analisi è stata attuata in
modo sistematico, calcolando, per ognuno di questi mutanti, il ΔG di
denaturazione, ovvero determinando la differenza di energia libera tra la forma
nativa e quella mutata, per poi valutare l’effetto della mutazione sulla stabilità.
La destabilizzazione è direttamente proporzionale all’area della cavità creata
nella proteina (Fig. 16), e la pendenza della retta raffigurata ha un valore
intorno a 20 cal/mol Å2. Ne consegue che superfici intorno a 100 Å2 offrono
un contributo di stabilizzazione dell’ordine di 1-2 kcal/mol. In sintesi, quando
un soluto idrofobico viene sciolto in un solvente acquoso si verificano tre
eventi che determinano l’energetica totale del processo:
1.
creazione di una cavità nel solvente;
2.
introduzione del soluto nella cavità;
3.
riarrangiamento del soluto e del solvente in modo da
ottimizzare l’interazione.
Nella figura 17 è schematizzato il passaggio in un solvente acquoso a due
differenti temperature di una molecola non polare in fase gassosa, liquida e
solida rispettivamente.
Figura 17. ΔG di trasferimento di una molecola non polare nelle sue diverse fasi verso la
soluzione acquosa.
Nella valutazione termodinamica del processo si deve tener presente che la
variazione di entalpia ΔH riflette la differente ampiezza delle interazioni non
covalenti tra le molecole nelle due fasi, mentre il cambiamento di entropia ΔS
riflette modificazioni del disordine. La figura 17 (parte sinistra) mostra la
transizione dalla fase liquida alla soluzione acquosa alla temperatura, prossima
all’ambiente, per la quale si ha un ΔH pari a zero. Se ne deduce che la
51
molecola interagisce parimenti sia nell’ambiente idrofobico che in quello
idrofilico e quindi l’energetica delle interazioni entalpiche è comparabile. Il
valore di ΔG è però positivo e questo è quindi dovuto a motivi entropici. Le
molecole di acqua si ordinano intorno alla molecola idrofobica e, anche se
questo avviene per ottimizzare la solubilità della molecola idrofobica, la
riduzione del disordine comporta un costo energetico in termini entropici. Se
si aumenta la temperatura l’agitazione termica fa muovere maggiormente le
molecole di acqua rendendole più disordinate. E’ possibile incrementare la
temperatura fino al livello in cui la variazione di entropia per la transizione
dalla fase liquida alla soluzione acquosa sia pari a zero (Fig. 17, parte destra).
Ciò implica che non vi è nessun costo energetico di tipo entropico nel passare
dalla fase liquida alla soluzione acquosa. Anche in questo caso, il valore di ΔG
è positivo, implicando che la penalizzazione energetica è di tipo entalpico.
Tale penalizzazione è superiore all’esperimento effettuato a più bassa
temperatura (Fig. 17). Ne consegue che l’effetto idrofobico è temperatura
dipendente e si riduce al diminuire della temperatura.
La presenza di una scala relativa di idropatia per gli aminoacidi può essere
sfruttata per predire quali sono i segmenti di una proteina che si trovano
all’interno di una membrana. Infatti, una volta determinati i valori di ΔG di
trasferimento per tutte le catene laterali, è possibile definire una scala relativa
che indichi, ad esempio, quanto l’arginina sia più idrofilica rispetto alla
glicina, alla leucina e così via. In tal modo si è in grado di predire dalla
sequenza di una determinata proteina la presenza di segmenti che hanno una
buona probabilità di trovarsi all’interno di un doppio strato lipidico. A questo
scopo vengono analizzate sequenze di segmenti di lunghezza compresa tra 17
e 21 aminoacidi (corrispondenti al numero di residui necessari per attraversare
da parte a parte una membrana in conformazione ad α-elica). Attraverso la
scala idropatica vengono effettuate analisi utilizzando ad esempio finestre di
17 residui e viene costruito un grafico di idropatia in cui si rileva il grado di
idrofobicità dei segmenti di questa lunghezza in funzione della sequenza. In
pratica, vengono presi i primi 17 residui, assegnando a ciascuno il suo valore
idropatico, i valori vengono sommati e mediati ed il valore medio del
segmento viene riportato nel grafico, sulla metà del segmento.
Viene quindi analizzato il segmento seguente che va dal residuo 2 al 18,
ricalcolato il valore idropatico medio e assegnato alla metà del segmento,
procedendo poi con l’analisi dei successivi segmenti (Fig. 18).
52
Figura 18. Predizione di segmenti
transmembrana attraverso il
grafico di idropatia.
A titolo esemplificativo, in figura 19 viene rappresentata l’analisi predittiva
dei segmenti transmembrana del centro di reazione fotosintetica per la
subunità M e per la subunità L. Il grafico mostra che ci sono dei segmenti che
hanno una connotazione idrofobica molto forte, corrispondenti ai segmenti che
hanno un’alta probabilità di trovarsi all’interno della membrana.
Figura 19. Predizione di segmenti
trans membrana delle sub unità M ed
L nel centro foto sintetico.
Va sottolineato che i segmenti transmembrana, benché abbiano una
caratteristica idrofobica rilevante, possono contenere anche residui carichi che
spesso sono utilizzati dalla proteina per interagire con il suo specifico
substrato.
53
Legame idrogeno
L’altra interazione debole di grande rilevanza per le macromolecole biologiche
è costituita dal legame idrogeno che assume un importante ruolo nel modulare
la stabilità di una macromolecola, ma soprattutto ha un peso fondamentale nei
processi di riconoscimento macromolecolare.
Il legame idrogeno è un’interazione polare in cui 1 atomo di idrogeno
elettropositivo è parzialmente condiviso da 2 atomi elettronegativi. L’idrogeno
può essere considerato come un protone che si è dissociato parzialmente da un
atomo donatore, permettendone così la condivisione da parte di un secondo
atomo accettore. La presenza o meno di un legame idrogeno può essere
delineata semplicemente tramite criteri geometrici. Affinché vi sia un legame
idrogeno la distanza tra il donore e l’accettore deve essere 3 Ǻ e l’angolo tra il
donore l’idrogeno e l’accettore deve essere uguale a 180 ± 60° (Fig. 20).
Quando l’angolo è 180°, tutti e tre gli atomi sono allineati, per cui il legame è
ottimale.
Figura 20. Il legame idrogeno
L’angolo può variare, ma se diventa inferiore a 120° non c’è più possibilità di
condivisione dell’ atomo di idrogeno da parte del donore e dell’accettore (Fig.
21).
Figura 21. Due diverse
rappresentazioni
del
legame idrogeno.
54
Nelle macromolecole proteiche il legame idrogeno si può formare tra
numerosi gruppi della catena laterale, ma spesso avviene a livello della catena
principale tra il carbonile e l’ammide ed è proprio la formazione di questa
tipologia di legami idrogeno che determina la preferenzialità delle strutture
secondarie. La macromolecola è in grado di formare legami idrogeno anche
con il solvente e con molecole esterne come il substrato e la preferenzialità di
interazione conferisce stabilità che può essere valutata considerando
l’energetica totale.
Nel caso in cui siano presenti, ad esempio, due molecole in grado di creare un
legame idrogeno tra loro e con il solvente, è necessario determinare
l’energetica di interazione prima e dopo che sia avvenuta l’interazione
bimolecolare. Le due molecole potrebbero essere un enzima ed un substrato
(SB). L’enzima ed il substrato in soluzione, prima di interagire tra di loro,
avranno una serie di gruppi in grado di interagire con l’acqua attraverso
legami idrogeno. L’interazione enzima-substrato permette la formazione di
uno o più legami idrogeno tra enzima e substrato, in seguito allo spiazzamento
di molecole di l’acqua che vanno a formare un legame idrogeno con l’acqua
del solvente. Se il legame è favorevole da un punto di vista energetico, la
reazione si indirizzerà verso la formazione del legame enzima-substrato. Per
capire la direzione della reazione va quindi calcolata l’energetica totale del
sistema, ovvero va calcolato il numero totale di legami idrogeno prima e dopo
la reazione per valutare la reazione da un punto di vista entalpico. Similmente
si dovrà procedere da un punto di vista entropico. In sintesi, più che
determinare il valore assoluto del legame idrogeno, occorre valutare
l’energetica prima e dopo il legame enzima-substrato, (ossia il numero ed il
tipo di interazioni esistenti), verificando se sia più favorole per l’enzima ed il
substrato interagire tra loro oppure con il solvente.
Valutazione del contributo del legame idrogeno da misure della costante
di equilibrio e di cinetica enzimatica
Un metodo agevole per valutare l’effetto di un legame idrogeno nella
determinazione del legame tra un ligando (L) ed una proteina (P), consiste nel
comparare, per la proteina nativa e la proteina mutata, la costante di
dissociazione proteina-ligando, dopo avere eliminato un singolo residuo, che
partecipa nella proteina nativa all’interazione con il ligando tramite un singolo
legame idrogeno. La mutazione perturberà infatti la costante di dissociazione
e, tramite un’analisi comparata, sarà possibile individuare il contributo, reso da
quello specifico legame idrogeno, alla costante di dissociazione e quindi alla
55
capacità di legare un determinato ligando. La costante di dissociazione KD è
data da: [P][L]/[PL] e può anche esprimersi come rapporto della velocità di
dissociazione k-1 sulla velocità di associazione k1. Il rapporto tra le due
velocità identifica la costante di dissociazione KD che è pari all’inverso della
costante di associazione ossia KD=1/KA.
Il ΔG relativo all’equilibrio tra la forma libera e legata che determina la
capacità della proteina nativa di legare un determinato ligando, è correlato alla
costante di associazione attraverso la relazione ΔG = -RTlnKA oppure ΔG =
RTlnKD.
KA può essere misurato sperimentalmente sia in condizioni native sia in
condizioni mutate, fornendo la possibilità di determinare la differenza di
energia libera associata al processo di legame. Tale differenza:
ΔΔG = RT (logKD prot nat/KD prot mut)
permette di valutare quanto la mutazione introdotta accresca o riduca la
capacità della proteina di legare il ligando.
Se il ΔΔG è negativo il mutante ha una minore capacità di legare il ligando
rispetto alla nativa. Questa ridotta capacità può essere ricondotta
all’eliminazione del singolo legame idrogeno, delineando così il suo
contributo nel riconoscere un partner molecolare (che in questo caso è un
ligando). Concettualmente l’esperimento è molto semplice: la proteina
riconosce il ligando attraverso una serie di interazioni, tra le quali un legame
idrogeno, che viene ad essere eliminato attraverso mutagenesi sito diretta. La
misura della costante di dissociazione prima e dopo mutazione permette di
valutare il peso del singolo legame idrogeno sulla costante di affinità.
Una misura termodinamica relativa al contributo di un singolo legame
idrogeno può anche essere determinata utilizzando come indicatore, non la
costante di affinità, come nell’esempio precedente, bensì i parametri che
definiscono una cinetica enzimatica come kcat, KM e kcat/KM. Nello schema
seguente è rappresentato la struttura generale di una reazione enzimatica dove
E, S e P rappresentano l’enzima, il substrato ed il prodotto, mentre k1 k-1 e k2
identificano le costanti di velocità associate ai diversi steps del meccanismo.
k2
k1
E + S  ES  E + P
k 1
Il contributo che i gruppi funzionali di un enzima forniscono alla catalisi può
essere valutato comparando i parametri della cinetica allo stato stazionario
dell’enzima nativo e dell’appropriato mutante.
56
Ricordiamo che kcat/KM può essere considerata come una costante di velocità
al secondo ordine. Questo implica che può essere utilizzata per descrivere il
processo che procede dai reagenti allo stato di transizione. Lo stato di
transizione è lo stato ad energia più alta nello schema di coordinata di reazione
ed è indicato con il simbolo*. La barriera energetica ΔGT* associata a questo
processo può essere determinata tramite
ΔGT* = RT ln ( kBT/h) – RT ln ( kcat/KM)
Il cambiamento dell’energia di legame enzima-substrato nello stato di
transizione tra la proteina nativa (wt) ed uno specifico mutante è dato da:
ΔΔGT* = ΔGT*
(wt)
- ΔGT*(mut)
ΔΔGT* = RT ln ( kcat/KM)mut/( kcat/KM)wt
ΔΔGT* rappresenta il cambiamento, nello stato di transizione, dell’energia di
legame enzima-substrato causato dalla mutazione; ΔΔGT* sarà negativo per
mutazioni che hanno un effetto destabilizzante sul legame nello stato di
transizione, ovvero per mutazioni che abbassano il valore di kcat/KM.
Analizzando lo schema riportato in figura 22, è possibile approfondire
l’energetica della reazione al fine di verificare se l’effetto della mutazione si
riflette sul legame enzima-substrato nello stato fondamentale e/o nello stato di
transizione. ΔGT* è costituito da un termine energetico favorevole ΔGB,
associato con il legame del substrato e da un termine sfavorevole ΔG*,
associato con l’attivazione chimica.
Figura 22. Schema energetico di una
reazione enzimatica
57
Una mutazione può perturbare uno solo o entrambi gli stati energetici,
provocando una variazione energetica del complesso enzima-substrato nello
stato fondamentale e/o nello stato di transizione. Per reazioni che soddisfano
l’equazione di Michaelis-Menten, KM può essere usato per calcolare ΔGB,
mentre kcat può essere utilizzato per determinare ΔG*.
Lo schema energetico di una mutazione che provoca una perturbazione in
maniera uniforme, sia nello stato fondamentale che nello stato eccitato (Fig.
22, linea intera superiore), produce un aumento di KM, ma nessun effetto su
kcat, in altre parole, ΔGB risulterà maggiore mentre ΔG* rimarrà invariato. Se il
fenomeno avviene soltanto nello stato di transizione (linea tratteggiata), KM
non varierà, ma kcat risulterà minore, (ovvero ΔGB resterà immutato mentre
ΔG* risulterà incrementato). In entrambi i casi il rapporto kcat/KM tende a
diminuire, nel primo caso la riduzione è dovuta all’aumento di KM, mentre nel
secondo deriva dalla diminuzione di kcat.
Consideriamo il caso in cui vengano utilizzate misure di kcat e KM per
l’enzima nativo e per una serie di mutanti, al fine di esaminare il ruolo di una
singola catena laterale nel legare il substrato attraverso legame idrogeno. La
misura delle costanti di cinetica enzimatica permette di ricavare l’energetica
del singolo legame idrogeno che è stato eliminato. In sintesi, si esegue una
misura di cinetica enzimatica allo scopo di calcolare un parametro
termodinamico. L’enzima preso in considerazione è la tirosil-tRNA-sintasi che
catalizza l’aminoacilazione del tRNA con la tirosina. La reazione avviene in
due passaggi: il primo consiste nell’attivazione della tirosina per formare il
tirosil adenilato con la liberazione di pirofosfato, il secondo nel trasferimento
della tirosina al tRNA con il rilascio di AMP (Fig. 23).
Figura 23. Schema di reazione della tirosil-tRNA sintasi.
58
L’intermedio è generalmente instabile, ma l’incubazione dell’enzima con ATP
in presenza di pirofosfatasi, che idrolizza il pirofosfato impedendo la reazione
inversa, rende il tirosil adenilato legato all’enzima un intermedio
estremamente stabile e cristallizzabile, consentendo di descrivere l’interazione
a livello atomico. Il tirosil adenilato crea con l’enzima nativo un network di 11
legami idrogeno (Fig. 24). I legami idrogeno vengono eliminati selettivamente
e singolarmente e l’effetto viene verificato misurando l’efficienza enzimatica,
ossia viene calcolato il rapporto kcat/KM della proteina nativa e mutata al fine
di ottenere una relazione relativa all’energetica del contributo dello specifico
idrogeno eliminato. La figura 24 mostra la presenza di una vasta rete di legami
idrogeno che avvengono tra gruppi carichi e gruppi polari ed è ipotizzabile che
il contributo del legame idrogeno possa essere diverso a seconda che siano
coinvolti gruppi polari o gruppi carichi.
Figura 24. Reti di legami idrogeno tra l’enzima e il tirosiladenilato.
Analizziamo l’effetto di alcune mutazioni. Le mutazioni tirosina 
fenilalanina-34 e cisteina  glicina-35 riguardano gruppi polari della proteina
che creano legame idrogeno con altri gruppi polari del substrato.
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Tabella VI. Parametri cinetici della tirosil-tRNA sintasi.
La mutazione cisteina-glicina porta ad una variazione di kcat/KM di circa un
fattore 3-4 da 3.7×106 a 1.1×106. La variazione è relativamente contenuta ed il
contributo energetico, attribuibile al singolo legame idrogeno, è intorno a 1
kcal/mol (Tabella VI). La mutazione tirosina-fenilalanina porta ad una
variazione di kcat/KM di circa un fattore 2-3 da 3.7×106 a 1.5×106 ed il
contributo energetico relativo è intorno a 0.5 kcal/mol. La variazione di
kcat/KM è quindi correlabile alla perdita del legame idrogeno che si ha ad
esempio tra la cisteina ed il gruppo idrossile del ribosio.
La trasformazione dell’istidina 48 in glicina porta alla perdita di un legame
idrogeno che avviene tra un residuo carico positivamente (istidina 48) ed un
atomo polare del ribosio. In tal caso l’effetto della mutazione dovrebbe portare
ad una maggiore variazione energetica, in quanto un legame idrogeno tra una
carica positiva ed un gruppo polare dovrebbe essere più forte rispetto a quello
tra due gruppi polari. Tuttavia, la tabella VI mostra che la modificazione di
kcat/KM dovuta alla mutazione, è di circa un fattore 6 e che la corrispondente
variazione di energia libera è di circa 1 kcal/mol, ovvero della stessa
grandezza delle mutazioni precedenti.
60
Tale esito può essere analizzato costruendo un bilancio energetico della
situazione dell’enzima e del substrato prima e dopo la loro interazione come
riportato in figura 25.
a)
b)
c)
d)
Figura 25. Schema della formazione dei legami idrogeno tra l’enzima e il substrato.
Nel primo caso è stato eliminato un residuo polare (cisteina 35) che genera
legame idrogeno con un gruppo polare del substrato. Nella situazione nativa,
prima dell’interazione enzima-substrato, l’enzima ed in particolare la cisteina
35 forma legami idrogeno con l’acqua così come il substrato (a); quando
enzima e substrato interagiscono, questi gruppi dell’enzima e del substrato
danno origine ad un legame idrogeno e similmente si comporteranno le acque.
La scomparsa della cisteina per mutazione produce l’eliminazione di un
singolo legame idrogeno da parte dell’enzima sia a destra che a sinistra della
reazione, ossia dell’interazione della cisteina sia con l’acqua sia con il
substrato, mentre continuerà ad esistere un legame idrogeno tra il substrato e
l’acqua e tra le molecole di acqua, perciò la reazione è isoentalpica.
Osservando la situazione che si determina in presenza di un gruppo carico
come l’istidina, si rileva che (prima del riconoscimento tra enzima e substrato)
la carica dell’istidina forma un legame idrogeno con l’acqua di tipo caricadipolo, che è più stabile rispetto ad un legame idrogeno dipolo-dipolo. Ne
consegue che a sinistra della reazione è presente un legame idrogeno carica61
dipolo oltre ad un legame idrogeno dipolo-dipolo tra il substrato e l’acqua (c).
Una situazione simile si verifica a destra della reazione, ove è presente sia un
legame idrogeno carica-dipolo, (tra l’enzima ed il substrato), sia un legame
idrogeno dipolo-dipolo tra le molecole d’acqua (c). La mutazione dell’istidina
provoca l’eliminazione del legame idrogeno carica-dipolo, ma questa avviene
sia a destra che a sinistra della reazione (d), rendendo quest’ultima
isoentalpica. Ciò spiega perchè l’eliminazione dell’istidina (un residuo carico)
determina una diminuzione del contributo al legame del substrato identico
all’eliminazione di un residuo non carico: in tutti e due i casi, infatti,
l’energetica a destra e a sinistra è la stessa ed il ΔG risulta dell’ordine di
grandezza di 1 kcal/mol.
Osserviamo adesso l’effetto della mutazione della tirosina 169 in fenilalanina.
Il residuo 169 forma un legame idrogeno con un gruppo del substrato carico
positivamente. L’effetto della mutazione sulla costante di specificità kcat/KM è
estremamente rilevante, il valore passa infatti da 106 a 103 e la variazione del
contributo energetico è dell’ordine di 4 kcal/mol (tabella VI). Dunque, la
trasformazione di un residuo che forma un legame idrogeno con un gruppo
carico del substrato, comporta una riduzione della specificità di un fattore
mille, che da 106 passa a 103 ed ad una variazione del contributo energetico
non più dell’ordine di 1 kcal/mol, ma di 4 kcal/mol. La motivazione si evince
dall’analisi dell’energetica totale (Fig. 26).
Figura 26. Schema della reazione del legame idrogeno tra l’enzima e il substrato in
seguito a delezione di un aminoacido che interagisce con un gruppo carico del substrato.
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Prima dell’interazione enzima-substrato l’enzima nativo interagisce con
l’acqua con un’interazione dipolo-dipolo, mentre il substrato interagisce con
l’acqua con un’interazione carica-dipolo, quindi particolarmente forte;
successivamente al legame enzima-substrato è presente un’interazione caricadipolo tra l’enzima ed il substrato ed un’interazione dipolo-dipolo tra le
molecole di acqua. La mutazione del gruppo dell’enzima che interagisce con
un gruppo carico del substrato determina un’ asimmetria delle interazioni a
destra ed a sinistra della reazione. A destra della reazione non si verifica
l’interazione carica-dipolo perchè la catena laterale della tirosina (con cui
interagiva il substrato carico) non esiste più, mentre permane l’interazione
dipolo-dipolo. La situazione è asimmetrica, in quanto a destra si è verificata
una perdita energetica dal punto di vista entalpico, in altre parole, la situazione
energetica di sinistra e più favorevole rispetto a quella di destra. La variazione
del contributo dovuta alla perdita di questo legame idrogeno è quindi di 4
kcal/mol e ciò influisce in modo incisivo sul valore della specificità
dell’enzima kcat/KM, che si riduce di un fattore mille. L’esempio descritto
conferma che i legami idrogeno forniscono contributi energetici dell’ordine di
qualche kcal/mol, ma dimostra anche la loro rilevanza in termini di specificità,
soprattutto per legami idrogeno in cui sono coinvolti gruppi carichi. L’analisi
dell’energetica totale del sistema è fondamentale per capire che l’effetto è
dipendente dalla posizione della carica: se la carica è collocata sulla proteina
(per es. l’istidina 48) la perdita di specificità è molto contenuta, ma se la carica
è collocata sul substrato è elevata, perché l’energetica è asimmetrica.
Occorre sottolineare, inoltre, l’importanza dei legami idrogeno nei processi di
riconoscimento. La mutazione della tirosina 69 in fenilalanina determina
infatti una riduzione di specificità per il substrato di un fattore 1000, ossia
diminuisce di 1000 volte la sua capacità di riconoscere e processare quel
definito substrato.
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