Antonella Caforio L’espressione obbligatoria dei sentimenti Alcune riflessioni sulle emozioni nelle società etnologiche Pubblicazioni dell’I.S.U. Università Cattolica ANTONELLA CAFORIO L’espressione obbligatoria dei sentimenti Alcune riflessioni sulle emozioni nelle società etnologiche Milano 2007 © 2007 ISU Università Cattolica – Largo Gemelli, 1 – Milano http://www.unicatt.it/librario ISBN 978-88-8311-519-6 in copertina: Episodi della vita coniugale secondo la volontà degli dèi, dipinto su un paravento giapponese del XVIII secolo. Venezia, Museo orientale. Indice Premessa 7 Che cos’è un’emozione 17 Il caso dei bambini selvaggi 29 “Il dolore stanca”: il rapporto corpo/mente 37 L’apprendimento delle emozioni 51 La cultura come controllo dei sentimenti 67 “Almeno le mie lacrime la terranno legata a me”: la perdita del controllo e l’eccesso dei sentimenti 91 La trasformazione dei sentimenti in comportamenti e istituzioni La paura L’invidia La collera 107 118 129 139 Da una mancanza di comunicazione ad una categoria: il silenzio 145 Infine... 153 Bibliografia 155 3 a Guglielmo Guariglia Premessa emozione: turbamento più o meno vivo dell’animo. Ha un’infinità di sfumature di significato, adattandosi ai fenomeni più disparati che agiscono sull’animo umano.... Dal fr. émotion, deriv. del tardo lat. emòtio-ònis, sommovimento dell’animo. sensazione: impressione prodotta negli esseri animati da uno stimolo esterno o interno su un organo di senso, trasmessa dai nervi al cervello ed elaborata dalla coscienza; percezione di una modificazione fisica o psichica avvenuta nel proprio organismo; impressione, senso; atteggiamento psichico, stato d’animo; la cosa stessa, lo stimolo che provoca una determinata impressione fisica e psichica. sentimento: sensazione interiore profonda e duratura, positiva o negativa, che coinvolge la sfera emotiva, affettiva o passionale, che può essere o meno manifestata agli altri; coscienza, consapevolezza delle proprie azioni e dei propri principi morali (ha un alto sentimento religioso, il sentimento del bene ...), senso; la sfera emotiva in contrapposizione con quella razionale; il modo di sentire e di mostrarsi agli altri; sensibilità. Voci del Grande Dizionario Illustrato della Lingua Italiana di Aldo Gabrielli Un termine oggi molto diffuso soprattutto quando si parla di sentimenti è quello di empatia, che, invece, secondo molti antropologi va usato con prudenza. Per molto tempo, il concetto di unità psichica del genere umano e la conseguente concezione delle emozioni come naturali e universali giustificarono a livello teorico una supposta possibilità di comprensione immediata tra persone di culture diverse: l’antropologo avrebbe quindi potuto comprendere empaticamente le emozioni altrui in quanto identiche alle proprie, in virtù della comune umanità, e utilizzare senza problemi le proprie categorie per descrivere un altro mondo affettivo. In un universo di costumi bizzarri e logiche differenti, era confortante assumere che gli altri non erano poi così diversi da noi quando piangevano, ridevano, amavano e si arrabbiavano. Varie critiche sono state a ragione mosse agli approcci che si sono avvalsi in modo aproblematico dell’empatia co7 L’espressione obbligatoria dei sentimenti me “sensibilità straordinaria, quasi una capacità preternaturale di sentire, pensare e percepire come i nativi” ... in quanto spostavano la possibilità di comprensione transculturale in un’improbabile dimensione extraculturale nella quale sarebbe possibile un accesso emozionale diretto alle persone di altre culture1. Ora, il rischio maggiore nell’uso del concetto di empatia è proprio quello di enunciare delle banalità. Infatti le vaste generalizzazioni, sosteneva Boas, possono ridursi a luoghi comuni e il compito dell’etnologia diventa, invece, quello di descrivere e analizzare le differenze nella maniera in cui si manifestano nelle diverse culture e di renderne conto. Che cosa impariamo, in verità, dal concetto di empatia quando ci viene detto che esso è universalmente presente, data la comune appartenenza alla specie umana? Oltretutto, un uso ingenuo di questo concetto può portare molto facilmente al malinteso, come nota Pussetti, “in quanto non considera né il punto di vista dei locali né il più ampio contesto politico, storico e sociale, e colloca acriticamente l’esperienza degli altri all’interno di concetti di persona ed emozione propri dell’antropologo, rischiando di dare luogo “a una forma di imperialismo occidentale sulle emozioni degli altri”2. Piangere la morte di un bambino nelle società capitalistiche non è equivalente, per esempio, al dolersi per la perdita di un piccolo nelle società etnologiche: cambiano l’intensità, le concezioni di vita, le finalità ecc. Come riferisce Le Breton, citando uno studio di Lofland, la sofferenza relativa alla morte cambia in funzione soprattutto del grado di investimento del defunto, del tasso di mortalità del gruppo, del modo in cui le emozioni vengono controllate o esacerbate e infine dal livello di isolamento del soggetto che lo porta a fissarsi sul lutto 1 Pussetti, Chiara, Poetica delle emozioni I Bijagó della Guinea Bissau, introd. di F. Remotti, Laterza, Bari, 2005, p. 50. 2 Pussetti, C., op. cit., p. 22. 8 L’espressione obbligatoria dei sentimenti per mancanza di relazione con gli altri o all’inverso ad attenuarne le conseguenze nella trama dei legami sociali. Così un tasso di mortalità infantile elevato, implicando il rischio per una famiglia di perdere un bambino in piccola età, favorisce meno l’investimento affettivo al suo riguardo. Se muore, il lutto non ha in generale l’intensità drammatica che riveste nelle nostre società in cui il bambino è molto desiderato, oggetto di un forte investimento dei suoi genitori. Nelle famiglie contadine europee del XVIII o del XIX secolo in cui la morte colpisce spesso, il lutto ha meno pregnanza sociale... da avvenimento doloroso, ma passeggero, la morte del bambino è oggi una tragedia. Il cambiamento di significato della morte porta con sé quello delle attitudini affettive al suo riguardo, esso trasforma il contenuto e la durata del lutto3. Anche Pussetti sottolinea l’importanza degli elementi simbolici nella percezione del dolore quando afferma che “in società ... con altissimi tassi di mortalità infantile ... è abbastanza comune che il processo di socializzazione che trasforma un bambino in una persona sociale sia molto lento. Attribuire gradualmente ai bambini caratteristiche umane quali consapevolezza, volontà, intenzionalità, capacità di provare sentimenti e memoria, è infatti... una strategia che concede alle madri un periodo piuttosto lungo di attesa prima di investire materialmente ed emotivamente nei bambini, consentendo loro di proteggersi dal dolore della eventuale perdita”4. Del resto, nelle culture etnologiche tutto ciò che riguarda la nascita è evento privato, mai festeggiato a livello sociale e la morte eventuale del neonato deve avere manifestazioni luttuose molto contenute. Nella tradizione europea, come in quella di altri continenti, vita e morte si succedono in un ciclo continuo senza che l’una possa prevalere sull’altra. Il simbolo universalmente riconosciuto di tale ciclo può essere considerato il chicco di grano che, gettato nel 3 Le Breton, D., Les passions ordinaires Anhtropologie des émotions, Colin, Paris, 2002, p. 108. 4 Pussetti, C., op. cit., pp. 63-64. 9 L’espressione obbligatoria dei sentimenti terreno in autunno, sembra morire per poi rinascere in forma di spiga in estate, quindi circa nove mesi dopo. “In questo mondo continuamente in movimento, nel quale la vita si manifesta sotto forme così diverse, le specie coesistono senza confondersi: non c’è incontro, alleanza possibile tra la specie umana e una specie animale e vegetale: solamente strane corrispondenze, i ‘segni’”5. Nulla si confonde, nulla si può confondere perché l’universo continui nella sua vita ordinata e meravigliosa – un miracolo quotidiano per l’uomo del passato –, ma tutte le forme così diverse sono in corrispondenza tra loro, in continua comunicazione. Le stesse leggi regolano la vita dell’uomo e quella dell’universo perché l’essere umano è egli stesso universo e il corpo è semplicemente lo specchio perfetto del grande corpo dell’universo. Come sostiene un maestro vietnamita: “se guardiamo le cose in profondità vedremo che una cosa contiene tutte le altre cose. Se guardi un albero in profondità, scoprirai che non è soltanto un albero: è anche una persona, una nuvola, la luce del sole, la terra, gli animali e i minerali... in un pezzo di pane c’è la luce del sole. Non è difficile da capire: senza sole, il pane non potrebbe esistere. In un pezzo di pane ci sono le nuvole: senza nuvole, il grano non potrebbe crescere. Quindi, ogni volta che mangi un pezzo di pane, mangi le nuvole, la luce del sole, i minerali, il tempo, lo spazio, tutto... senza la luce del sole, le nuvole, l’aria, i minerali, un albero non può sopravvivere”6. L’uomo concepisce se stesso come un prolungamento dell’universo e nel suo corpo non ci sono frontiere, ma grande fluidità di passaggi. “Il suo corpo era ‘aperto al mondo esterno’ attraverso tutte le sue aperture, tutti i suoi fori, tutte le sue appendici: la sua bocca, gli organi genitali, i seni, il fallo, il suo ventre prominente, il suo naso. Il corpo si mescolava con il mondo, gli animali, le cose; 5 Gélis J., L’arbre et le fruit La naissance dans l’Occident moderne (XVI-XIX siècle), Fayard, Paris, 1984, p. 26. 6 Thich Nhat Hanh, La luce del Dharma Dialogo tra cristianesimo e buddhismo, Mondadori, Milano, 2003, pp. 7-16. 10 L’espressione obbligatoria dei sentimenti era un corpo cosmico”7. Così gli uomini nascono dalla Terra, fonte inesauribile di vita, e più precisamente dalle sorgenti, dalle pietre o dagli alberi. Il simbolismo dell’albero come fonte di vita è estremamente antico e anche nella tradizione europea il neonato è sempre paragonato a un germoglio che emerge “dall’albero-madre e incarna le speranze della famiglia. Che fuoriesca direttamente dal fusto o dalle radici dell’albero, è destinato anche lui a portare dei frutti un giorno... Così, a immagine della natura, nella quale la morte vegetale preparava per via sotterranea la futura mietitura, gli antenati attendevano con impazienza il momento nel quale il corpo del nuovo nato permettesse di assicurare la permanenza del lignaggio”8. Infatti, secondo antiche credenze raccolte, per esempio, in diversi luoghi della montagna dei Vosgi in Francia, i neonati riportano alla vita l’anima dei loro antenati. “Per Ognissanti e il Giorno dei Morti, e più precisamente durante la notte dal 1° al 2 novembre, si effettuava in maniera privilegiata la rinascita periodica del mondo e dei suoi esseri; ciascuna famiglia, ciascun lignaggio celebrava allora gli antenati la cui scomparsa non poteva, non doveva essere che temporanea. Poiché la morte non è che un cambiamento di stato, una nuova vita. Ecco perché la morte di un bambino era perfettamente accettata nel momento in cui era stato battezzato”9. La morte, quindi, veniva considerata semplicemente come una trasformazione, un passaggio dalla società visibile dei viventi a quella, invisibile, degli antenati, che ha i suoi luoghi e tempi di manifestazione. Come sostengono queste donne pugliesi: “Nell’aldilà siamo tutti spiriti, ma si vedono anche se non c’è il corpo. Siamo uguali come nella vita, ma siamo spiriti... Siamo spiriti perché così tutti ci cacciamo [ci stiamo tutti sulla Terra]... Noi simu tutti circondati dagli spiriti. Stanno 7 Gélis, J., op. cit., p. 29. Gélis, J., op. cit., pp. 89-104. 9 Gélis, J., op. cit., pp. 104-105. 8 11 L’espressione obbligatoria dei sentimenti dappertutto ... Tutto an giro, ci stanno tutti spiriti e sanno tutto quello che succede ... Certo noi non li vediamo, ma loro ci vedono. L’anima del defunto ci vede. Noi le abbiamo sempre... circondate, le abbiamo in giro”. Insomma, dietro questi modi di dire e questi comportamenti traspariva l’idea di un mondo pieno, di una grande famiglia di vivi e di morti sempre uguale nel numero; di un ‘capitale costante e continuo di anime’ ripartite nei due mondi, tra i quali gli scambi si fanno ‘vita per vita, anima per anima’; di un’umanità continuamente mutevole, ma sempre una, sotto il suo doppio vestito di vita e di morte, come è una la natura, il cui sonno invernale precede e segue le belle mietiture”10. Così si comprende come presso molte popolazioni, per esempio i Quecha delle Ande peruviane, la coppia madre-neonato sia pensata come una entità unica. Se per noi occidentali il neonato è già una persona, non così per gli andini, o per le altre popolazioni etnologiche, per le quali egli è per metà assimilato a sua madre sino a quando, verso i due anni, dopo lo svezzamento, diviene un essere compiuto che comunque ha ancora un lungo tragitto da compiere per arrivare alla maturità. Il distacco, la separazione dal corpo della madre segna, così, l’inizio della costruzione della sua identità come essere vivente così che si può parlare di una vera e propria fabbricazione sociale del bambino che avviene, appunto, in seguito ad una lunga serie di rituali e cerimonie. Presso i Toradja dell’Indonesia, per esempio, il bambino che muore prima che siano apparsi i denti non ha diritto a celebrazioni luttuose e il suo corpo viene incluso in un albero vivente11. Il bambino è un frutto e quindi il destino e la natura decideranno della sua maturazione o meno: l’uomo in questo non può nulla perché anch’egli è soggetto alle leggi della 10 Gélis, J., op. cit., p. 106. Cfr. Jannel, C., Lontcho, F., Les Toradjas d’Indonesie Laissez venir ceux qui pleurent, Colin, Paris, 1992, p. 71. 11 12 L’espressione obbligatoria dei sentimenti natura. Secondo le popolazioni etnologiche, come si è visto, il neonato o il bambino molto piccolo, non essendo ancora considerato una persona, nel caso di morte ritorna immediatamente da dove è venuto. Secondo i Bijagó, per esempio, “un neonato, fino allo svezzamento, è infatti ritenuto più vicino alla categoria ‘spirito’ che alla categoria ‘persona’: è incompleto, ancora senza identità, “nessuno lo conosce, non ha mai parlato e non ha niente nella testa”, e quindi “non ha importanza”. La sua morte dunque non viene pianta e il cadavere è abbandonato senza alcuna cerimonia alle onde del mare o interrato rapidamente in un posto qualsiasi: non avendo il neonato alcun significato sociale, non ne ha infatti nemmeno come defunto”. Perciò una madre non deve piangere per la perdita del suo bambino poiché “così affliggerà il suo orebok [spirito, principio vitale] ed egli avrà paura di ritornare nel suo ventre”12. Sempre per questi motivi la morte di un neonato o di un bambino che presenta malformazioni provoca reazioni deboli da parte della comunità: egli verrà sepolto velocemente, senza una cerimonia funebre e senza lamenti, nella foresta, quindi all’esterno del villaggio. Anche in questo caso, il pianto impedirebbe al neonato di ritornare rapidamente in vita. O ancora, la morte e il lutto costituiscono per la nostra società fortemente individualista un’esperienza intima e comunque un evento traumatico che non presenta una ritualità comune significativa. Nelle società europee del passato, e in quelle etnologiche, invece, la morte era avvenimento sociale per eccellenza, spesso con un personaggio d’eccezione, la prefica, ad incarnare il dolore della comunità e non solo della famiglia colpita dal lutto. Sempre presso i Bijagó, per esempio, secondo numerosi osservatori, gli uomini si uccidevano alla minima provocazione e in generale usano impiccarsi poiché la morte per un Bijagó 12 Pussetti, C., op. cit., 156. 13 L’espressione obbligatoria dei sentimenti “non è niente più che un breve sonno, e a causa di questa certezza di essere istantaneamente reincarnati nel loro paese, un Bijagó si mette la corda al collo e si impicca con la stessa facilità con cui noi ci mettiamo la cravatta. Il caso più recente è quello che accadde a Bissau. Una piroga di Bijagò lasciò il porto, dimenticando a terra uno dei loro compagni. L’abbandonato, venuta la bassa marea, malgrado i suoi tentativi e le sue grida non riuscì a farsi sentire dalla piroga, che si era già di molto allontanata. Fece allora questo ragionamento: “loro mi hanno abbandonato, ma io arriverò per primo nel mio paese e allo stesso istante, afferrata un’ascia, si tagliò la gola ... altri confermano che i Bijagò si suicidano per questioni veramente futili [naturalmente per noi]”13. Tutto ciò che noi possiamo fare, come chiariva Lévi-Strauss quando scriveva dei rapporti tra storia e etnologia, è l’ampliamento di un’esperienza particolare fino a che diventi più generale in modo che possa essere accessibile in quanto esperienza ad uomini di altri paesi o di altri tempi ed eventualmente essere discussa o scelta. In altri scritti, sempre Lévi-Strauss sosteneva che definire la cultura attraverso le sue proprietà formali – quali le credenze religiose, le regole di matrimonio ecc. – non basta, così come sapere che esistono tratti universali della condizione umana non ci insegna molto sull’uomo. “Constatarlo non basta; occorre anche capire perché queste credenze e queste regole sono diverse da una società all’altra, o talora addirittura contraddittorie. La cura dei morti, paura o rispetto, è universale; ma qualche volta si manifesta in pratiche tendenti ad allontanarli definitivamente dalla comunità dei vivi perché sono ritenuti pericolosi, altre volte, al contrario, in azioni che mirano ad accaparrarli, ad implicarli in ogni istante nelle lotte dei viventi... il problema della cultura, e quindi della condizione umana, quale si pone oggi agli etnologi, consiste nello scoprire le leggi d’ordine, sottostanti alla diversità osservabile delle credenze e delle istituzioni... Esse sole, invarianti attraverso le epoche e le culture, potranno permettere di scavalcare l’antino13 14 Pussetti, C., op. cit., p. 95. L’espressione obbligatoria dei sentimenti mia apparente tra l’unicità della condizione umana e la pluralità apparentemente sconfinata delle forme sotto cui la percepiamo”14. Lo studio della diversità serve molto: scoprire che qualunque fenomeno, in apparenza arbitrario, obbedisce a leggi universali non accessibili immediatamente all’osservazione empirica, questo sì permette di comprendere la sostanziale uguaglianza degli esseri umani, ma su basi profonde di conoscenza e riflessione. Come insegna lo strutturalismo, tutto l’universo mentale dell’uomo, compresi i miti considerati frutto di libera inventiva sociale, obbedisce ad una ferrea logica ed è governato da determinate leggi e strutture, di natura per lo più inconscia. Comprendere questi meccanismi e vederli all’opera in persone di società diverse dà la possibilità a noi di rispettare realmente l’altro e di avere con lui un rapporto tra uguali. Il rispetto, infatti, nasce solo dalla comprensione profonda. E, in fondo, come pensano i Bijagó, è anche possibile un ‘contagio delle emozioni’ poiché esse “al pari delle malattie, possono passare da una persona all’altra, specialmente qualora queste condividano una relazione di prossimità, penetrando facilmente i permeabili confini corporei. Questa trasmissione avviene in modo involontario e quotidiano, senza necessità di prendere appunti o accendere il registratore, semplicemente partecipando delle stesse situazioni, in particolar modo quando queste siano di particolare intensità emotiva, come nel caso di conflitti o crisi... Restava innanzitutto a me, secondo i miei anziani precettori, adottando un’attitudine umile, attenta e ricettiva, rendere il mio corpo accessibile, e al loro impegno e pazienza trovare il modo di ‘aprire i miei occhi e le mie orecchie’, ciechi e sorde alle loro parole”15. 14 Lévi-Strauss, C., Lo sguardo da lontano, Einaudi, Torino, 1984, pp. 43-44. 15 Pussetti, C., op. cit., p. 23. 15 Che cos’è un’emozione Che cos’è un’emozione? Che cosa significa parlare di ‘mia’ o ‘nostra’ nozione di emozione, ammesso che esistano così come ne parliamo abitualmente? Per molto tempo, gli antropologi sono stati molto riluttanti nell’affrontare tale materia che “come la vetta di una montagna, ... presenta un’apparente immediatezza e concretezza, e tuttavia ha la caratteristica di svanire in una nebbia concettuale”1. Il tema in verità rappresenta proprio, come sottolinea Pussetti, una zona di vere e proprie sabbie mobili tanto che la lettura delle emozioni come costruzione sociale si sviluppa in antropologia piuttosto tardi, essenzialmente a partire dagli anni settanta “anche in seguito alle note affermazioni di Geertz secondo il quale “non solo le idee, ma anche le emozioni dell’uomo sono manufatti culturali ... e le passioni sono culturali quanto gli stratagemmi”2. Una prima riflessione che questo tema suscita riguarda non solo la struttura di concetti come la morte, la gioia, la sofferenza, le emozioni nelle altre società, ma anche le origini dei termini e gli usi linguistici delle categorie adottate. Come sostiene sempre Pussetti, di fronte alle definizioni, tutti sanno cosa è un’emozione fino a quando non ci viene richiesto di definirla. Anzi, “nonostante molti psicologi diano per scontata l’esistenza di un corrispettivo di ‘emozione’ in tutte le lingue, considerandola un’esperienza universale, in alcune culture questo concetto non viene distinto in quanto categoria autonoma, quanto piuttosto assimilato ad altre forme di esperienza e connesso ad altri aspetti della realtà”3. 1 Pussetti C., “Introduzione Discorsi sull’emozione”, in Antropologia Annuario diretto da Ugo Fabietti, n. 6, a. 5, 2005, p. 6. 2 Pussetti, C., Introduzione cit., p. 7. 3 Pussetti, C., Poetica cit., p. 27. 17 L’espressione obbligatoria dei sentimenti L’estrema varietà delle concezioni sui sentimenti si riflette del resto già nel vocabolario, molto limitato presso numerose popolazioni, invece ricco anche di centinaia di termini in altre, la qual cosa naturalmente ha la sua spiegazione nelle idee riguardanti la famiglia, le attività sociali, quelle economiche ecc. La parola ‘emozione’ non trova, per esempio, un equivalente nelle lingue dei Papua della Nuova Guinea, degli Aborigeni australiani e di altre popolazioni come i Bijagó della Guinea Bissau. Le stesse definizioni del concetto di persona mettono in evidenza, inoltre, come la separazione netta propria dell’Occidente tra corpo e mente, pensiero e sentimento, pubblico e privato, spesso si dimostra inadeguata in molte altre culture. Molti studiosi si sono chiesti se esistono emozioni che possiamo considerare primarie e universali, ma non è mai stato trovato un accordo sul repertorio eventuale delle emozioni che si pretendono essere innate e fisiologicamente descrivibili. Inoltre nessuna struttura neurofisiologica autorizza a credere nell’esistenza di emozioni ad essa collegate. Così la nozione di ‘emozione di base’ rimane un’ipotesi di scuola e la stessa domanda risulta essere errata, “come se si domandasse quali sono i popoli di base? sperando di ottenere una risposta che chiarisca la diversità umana”4. L’emozione, inoltre, ha a che fare strettamente con il concetto di identità: come sostiene Ferrarotti, noi siamo ciò che ricordiamo di essere e quindi l’identità non è tanto una sostanza, quanto un sentimento che non ha realtà in sé. Esso infatti non dipende dalla natura umana, ma dalle condizioni sociali della sua esistenza, dal tessuto sociale, dalla sensibilità particolare dell’individuo ed è il sentimento ad orientare lo stile delle relazioni tra le persone, ad assegnarne valori e gerarchie. Come nota Le Breton, “la particolarità sociale e culturale dell’affettività delle società, il fatto che gli ethos differiscano sensibilmente in luoghi e tempi diversi secondo gli orientamenti collettivi, si 4 18 Le Breton, D., op. cit., p. 168. L’espressione obbligatoria dei sentimenti notano dall’esistenza di emozioni o di sentimenti che non sono traducibili senza errori grossolani di interpretazione nel vocabolario di un altro gruppo... numerosi etnologi dicono così la loro impotenza a render conto della cultura affettiva della società che studiano a causa della sua singolarità”5. L’esistenza umana è già, essa stessa, forma affettiva tanto che, tra gli Indo-Figiani dell’Oceania, i sentimenti non sono ritenuti stati della mente, eventi interiori, ma vengono individuati negli avvenimenti stessi. Così in Grecia, le attività nei caffè frequentati solo dagli uomini tendono a far dimenticare le preoccupazioni e gli affanni della quotidianità per far emergere lo stato di kefi, ‘buonumore’, il quale non è una emozione solitaria, ma un sentimento condiviso, vissuto in un luogo preciso e in seguito ad eventi determinati. In questo modo, l’emozione, difficilmente controllabile e quindi pericolosa, viene come rimodellata e trasformata in qualcosa di molto più facile da gestire, quindi in un avvenimento che produce un ‘umore’, uno stato d’animo. “Il kefi è legato a una socialità liberamente, volontariamente condivisa, così come è messa in opera nel caffè: bere in compagnia, cantare, danzare; derti [cattivo umore] e ponos [dolore, pena] sopravvengono nei contesti di una socialità contrattuale, funzionale, a carattere più (il lavoro dipendente) o meno (il matrimonio) obbligatorio”6. Il ‘buonumore’ è propriamente “uno stato affettivo di gioia e di distensione, idealmente, uno stato presociale di purezza emozionale e di leggerezza dal quale il sé si lascia penetrare e del quale partecipa”7. Dunque, parlare di emozioni in senso assoluto comporta senza dubbio un ritorno al concetto di etnocentrismo poiché si presuppone implicitamente un significato comune per le diverse culture. Come sostiene Le Breton, “i motivi di vergogna, per esempio, 5 Le Breton, op. cit., p. 126. Papataxiarchis, E., “Émotions et stratégies d’autonomie en Grèce égéenne”, TERRAIN, 22, mars 1994, p. 11. 7 Papataxiarchis, E., op. cit., p. 12. 6 19 L’espressione obbligatoria dei sentimenti possono essere diversi, sconosciuti ad altre società, le conseguenze ben differenti e il sentire affettivo così guardato non avere nulla dei tratti comuni con quello di un individuo “che prova vergogna” nelle nostre società”8. ‘Avere i nervi’, per esempio, per noi vuol dire essere arrabbiato o agitato, mentre per i Bijagó l’esperienza dell’attacco di nervi è collegata all’etica del controllo dei sentimenti e può essere intesa anche come una risposta a fratture di carattere sociale o familiare. Come spiega Pussetti Quando la situazione si calma, chiedo ... che cosa significa ‘avere i nervi’. Loro mi rispondono in bijagó: Kariá è alterato; non si sa controllare e trema per i nervi (tendini, muscoli, vasi sanguigni). Mi spiegano in seguito che è abbastanza normale che i giovani vengano presi dai nervi, in special modo qualora vengano pubblicamente rimproverati o derisi... questo ikosó [avere i nervi] ... è un kutribá [pensiero-sentimento] che si prova generalmente quando si perde il controllo di fronte agli anziani, mentre non lo si sente in presenza di donne o bambini. Un esempio tipico è l’ubriachezza, che è motivo di ikosó solo se sotto lo sguardo di superiori di grado d’età. La causa, ossia l’elemento che suscita questo kutribá è quindi individuato nella percezione di aver infranto una norma sociale, ma all’interno di una relazione interpersonale asimmetrica, ossia di fronte a persone superiori per età o che sono comunque in una situazione di potere e quindi rappresentano in un certo senso le norme che sono state infrante. In questo caso forse la traduzione più adeguata è ‘vergogna’, pur tenendo conto delle effettive differenze9. La depressione, altro sentimento a noi molto noto, non trova, per esempio, equivalenti semantici in molte lingue di società non occidentali o in quella cinese. Anzi uno studio transculturale su questo sentimento ha messo in evidenza come essa non sia affatto rappresentata nel lessico dei popoli non occidentali e ciò dovrebbe far riflettere. Sappiamo, infatti, che molte malattie in realtà sono delle creazioni sociali: si 8 9 20 Le Breton, D., op. cit., p. 126. Pussetti, C., op. cit., pp. 89-90. L’espressione obbligatoria dei sentimenti pensi, per esempio, nelle nostre società alla bulimia o all’anoressia. Il concetto di ama, considerato dallo psichiatra Doi come un concetto basilare per comprendere la visione del mondo giapponese, non ha anch’esso equivalenti in altre lingue poiché rinvia ad una cultura specifica, appunto quella sviluppatasi in Giappone. I giapponesi stessi si sorprendono per l’assenza di un termine equivalente nell’Occidente e tale sentimento potrebbe essere definito con queste perifrasi “dipendere dall’amore di un altro”, “riscaldarsi” o “abbandonarsi alla dolcezza di un altro” per il quale si prova allo stesso tempo ammirazione. L’emozione si riferisce a una gradevole dipendenza, alla ricerca di una gratificazione o all’abbandono passivo all’affetto di un’altra persona... il comportamento del bambino nei confronti della madre dà l’archetipo di un sentimento che proseguirà in seguito su un altro registro... al di là del modello d’origine, il sentimento ama si ritrova nelle relazioni tra marito e moglie, maestro e discepolo ecc. Sul fondo di una relazione asimmetrica, ama introduce un calore riconfortante, una dolce intimità. La verticalità delle relazioni sociali nel Giappone è un principio di spiegazione della essenzialità di questo sentimento che valorizza e rende meno dura una dipendenza personale... Doi analizza l’intrico di sentimenti legati all’ama che compone la vita affettiva dei giapponesi... I giapponesi ... pensano che l’uso delle parole possa raffreddare l’atmosfera mentre gli americani al contrario si sentono incoraggiati e rassicurati da una tale comunicazione. Ciò è legato alla psicologia dell’ama perché in Giappone coloro che sono vicini uno all’altro – o piuttosto coloro che hanno il privilegio di fondersi insieme – non hanno bisogno di parole per esprimere i loro sentimenti. Bisogna non essere a stretto contatto con l’altro (mancare di ama) per provare così la necessità di usare le parole10. Questo esempio mette molto bene in evidenza come sia impossibile comprendere in quale modo possa essere vissuto un sentimento se non si conosce altrettanto bene la cultura a cui esso appartiene. 10 Le Breton, D., op. cit., pp. 127-128. 21 L’espressione obbligatoria dei sentimenti Un altro esempio illuminante riguarda un’emozione spagnola, la verguenza ajena, caratterizzata da uno sconvolgimento interiore “che si prova alla vista di un individuo il quale si comporta in modo inadeguato. La vergogna provata rimane esterna all’individuo che non partecipa per nulla all’infrazione delle norme, né si sente colpevole. Ma la risonanza affettiva è così forte che essa è differenziata dalle altre perché tocca una nozione chiave della cultura spagnola, quella della dignitad”11. La verguenza ajena, che si ritrova anche nel sud d’Italia ed è spesso espressa da un modo di dire molto diffuso, quale ‘mi vergogno per te o per Tizio’, “è un’arma terribile per squalificare un’azione o un attore, coloro che ne sono all’origine vengono considerati come ridicoli, e ciò per la cultura spagnola diventa un marchio temibile”12. Anche in questo caso, non si può comprendere questo sentimento se non si conosce bene l’importanza in questi paesi del concetto di onore così sapientemente studiato per esempio da Bourdieu13. Oltre a ciò, molte altre culture possono unire quelle che noi consideriamo emozioni distinte, creando nuove categorie, oppure individuare emozioni particolari e originali che non trovano facilmente una corrispondenza nella nostra classificazione emozionale. Alcune lingue africane, per esempio, assimilano in un unico termine ‘tristezza’ e ‘rabbia’ mentre l’espressione ilongot delle Filippine liget significa contemporaneamente rabbia e invidia. Così, presso i Kaingang del Brasile, l’ira implica sentimenti diversi dai nostri, come sottolinea Henry In molte lingue esistono parole che hanno implicazioni, e quindi effetti emotivi, le cui origini non possono essere rivelate grazie alla semplice conoscenza delle definizioni delle parole stesse. Simili parole possiedono aure emotive che non sono affatto evidenti per le loro definizioni. “Libertà”, 11 Le Breton, D., op. cit., p. 129. Ibidem. 13 Cfr. Bourdieu, P., Per una teoria della pratica con Tre studi di etnologia cabila, Cortina, Milano, 2003. 12 22 L’espressione obbligatoria dei sentimenti “eguaglianza” e “democrazia” ne sono, in inglese, degli esempi. Queste parole, in virtù della loro storia culturale e, in particolare, a causa del loro rapporto con la storia degli Stati Uniti, hanno un grosso effetto su qualunque uditorio composto da americani. Si dovrà riconoscere che un tale effetto è del tutto sproporzionato rispetto al significato effettivo di queste parole... Fenomeni analoghi si verificano anche a livello primitivo, ma le loro radici possono spesso trovarsi a tale profondità da non poter essere svelate se non mediante una conoscenza approfondita della popolazione. In kaingang ... “essere adirato” potrebbe essere un buon esempio di una parola del genere ... nella società kaingang la paura spesso si muta in collera. Una persona spaventata può sia sfuggire alla causa della sua paura sia aggredirla e distruggerla in preda a un violento accesso d’ira... Ho udito i Kaingang descrivere un incontro con un serpente, un animale che temono anche più del giaguaro: “egli [l’uomo] si arrabbiò [con il serpente] e lo uccise”. In una situazione di faida, in cui due gruppi vivono assieme in un reciproco terrore mortale, la tensione ha come conseguenza l’omicidio e una manifestazione emotiva che viene descritta e percepita come rabbia14. Si deve, perciò, ricordare sempre che tutte le emozioni o i sentimenti vengono valutati sempre e soltanto secondo un metro di giudizio sociale, cioè secondo l’utilità o meno che quel determinato sentimento può avere all’interno di un gruppo. Nessun sentimento, infatti, viene mai considerato nel senso privato, personale, ma solo secondo forme e modi che possano essere ‘intesi’ e ‘comunicati’ all’interno della società ed ecco perché essi prevedono sempre forme altamente convenzionali, rigide. Così anche sentimenti intensi come il dolore, il desiderio, la gelosia, trovano, attraverso delle forme ben definite, quali i canti, i lamenti, la poesia, la danza, una espressione che “rispettando i criteri estetici locali di coerenza, controllo e bellezza, non rappresenta un pericolo per l’individuo né per il gruppo, né costituisce un’effettiva ribellione contro i valori della società. Questi lin14 Henry, J., L’espressione linguistica dell’emozione, Ei, Roma, 1994, pp. 21-23. 23 L’espressione obbligatoria dei sentimenti guaggi permettono dunque di esprimere affetti personali, intensi e pericolosi, attraverso simboli e significati pubblicamente accettati: un processo che è stato definito ... ‘lavoro della cultura’”15. A noi, invece, le percezioni sensoriali e l’espressione delle emozioni sembrano “emanazioni dell’intimità più segreta del soggetto” e quindi assolutamente spontanee e individuali16. Tuttavia gli stessi gesti, come già rilevava Mauss, non sono pura e semplice fisiologia, né sola psicologia, ma il simbolismo corporale è l’insieme di questi due elementi. Allo stesso modo, le emozioni non sono sostanze che possiamo trasferire da una persona o da un gruppo all’altro e neppure processi puramente fisiologici: esse sono relazioni, cioè il frutto di una valutazione di una situazione all’interno di una cultura affettiva che fornisce gli schemi d’esperienza e di azione. L’individuo, in questo contesto già determinato, costruisce la sua condotta e quindi le emozioni secondo la sua storia, il suo carattere e il suo stile di vita. Se l’insieme degli uomini del pianeta dispone dello stesso apparato fonatorio, essi non parlano necessariamente la stessa lingua; allo stesso modo se la struttura muscolare e nervosa è identica, ciò non lascia presagire in nulla gli usi culturali alla quale essa darà luogo. Da una società umana ad un’altra, gli uomini sentono affettivamente gli avvenimenti della loro esistenza attraverso repertori culturali differenti che qualche volta si rassomigliano, ma non sono identici. Ciascun termine del lessico affettivo di una società o di un gruppo sociale deve essere messo in rapporto con il contesto locale ...Si tratta di evitare la confusione tra le parole e le cose e di naturalizzare le emozioni trasportandole senza precauzioni da una cultura all’altra attraverso un sistema di traduzione cieco alle condizioni sociali dell’esistenza che avvolge l’affettività. In un contesto di comparazione tra le culture, l’impiego dei termini affettivi impone di metterli 15 16 24 Pussetti, C., op. cit., p. 146. Le Breton, D., op. cit., p. 7. L’espressione obbligatoria dei sentimenti sempre tra virgolette per ricordare l’indeterminatezza che li circonda17. Come già aveva visto bene Aristotele, le emozioni vanno ricercate nella questione del senso da dare a qualunque avvenimento. “Nel terrore che si impadronisce di una folla, nell’odio razzista o nelle manifestazioni di furore individuale o collettivo, non vi è alcun trionfo dell’“irrazionale” o della “natura”, ma l’intervento di un ragionamento, di una logica mentale, di un’atmosfera sociale”18. Secondo alcuni studiosi, invece, l’emozione nasce semplicemente dai cambiamenti del corpo e solo in seguito interviene il pensiero: il pianto, il tremito, l’atto di picchiare ecc., cioè dei fenomeni puramente fisiologici, producono solo secondariamente l’emozione, quindi una sensazione dell’avvenimento. In poche parole, secondo queste analisi, non è pensabile un’emozione che non abbia un radicamento e una sensazione organica cosicché diventerebbe semplicemente una conseguenza della consapevolezza del cambiamento corporeo. Altri studiosi, invece, sono dell’opinione che sia la consapevolezza del fatto a determinare l’emozione e non l’inverso. Come sottolinea Le Breton: “non è il corpo ad essere commosso, ma il soggetto”19. A questo proposito, è dimostrato come il mutamento del ritmo cardiaco, della pressione sanguigna o la dilatazione delle pupille di per sé possa significare emozioni piuttosto diverse, quali la gioia, la collera o la paura. Comunque, secondo i dati dell’esperienza, il contenuto dell’emozione è dato dall’interpretazione diversa che l’individuo fornisce dell’evento, come in questo esempio chiarificatore Un uomo è spaventato se si sente minacciato da un rumore sospetto nella sua casa; avanza con timore, ma si rassicura se vede una finestra rimasta aperta e agitata dal vento. Ma la paura può ritornare se si ricorda di averla chiusa prima e 17 Le Breton, D., op. cit., p. 7. Le Breton, D., op. cit., p. 99. 19 Le Breton, op. cit., p. 102. 18 25 L’espressione obbligatoria dei sentimenti scopre allora la maniglia forzata. Da un ragionamento all’altro l’emozione cambia radicalmente di forma. L’individuo spinto su un marciapiede da un passante anche lui intrappolato nei movimenti della folla passa oltre in tutta indifferenza, ma non se è stato brutalmente spintonato... per essere presi dalla rabbia occorre un motivo, come diceva Aristotele, il sentimento di essere stato oggetto di un’aggressione, o di un disprezzo che sconvolge il senso della dignità personale20. La propria storia, la propria psicologia e soprattutto le scelte culturali della società cui si appartiene sono così essenziali nell’elaborazione delle emozioni e dei sentimenti che qualunque individuo può benissimo arrivare sino alla morte nel momento in cui interiorizza, per esempio, la convinzione del tutto culturale di essere vittima di stregoni, o maghi come nelle nostre società, o di aver infranto un tabu. Illuminante, a questo proposito, è il breve saggio di Marcel Mauss sulla suggestione collettiva dell’idea di morte a partire da alcuni fatti australiani o neozelandesi21. Dunque, perché un sentimento possa essere espresso e di conseguenza provato, esso deve fare parte in qualche forma del repertorio culturale del suo gruppo poiché le emozioni non sono altro che “modalità di affiliazione ad una comunità sociale, un modo di riconoscersi e di poter comunicare insieme su un fondo di un sentire comune”22. Se, infatti, non si condivide uno stesso mondo simbolico, non si può neppure comunicare alcun sentimento poiché esso risulta incomprensibile ad un altro che non appartenga al gruppo. Mi sembrano, perciò, veramente illuminanti le conclusioni a cui giunge la linguista Wierzbicka che così scrive: l’unità psichica dell’umanità non risiede nell’universalità apparente di nozioni quali l’amore, la collera o la gioia, ma 20 Le Breton, D., op. cit., p. 103. Cfr. Mauss, M., Teoria della magia e altri saggi, Boringhieri, Torino, 1965, p. 330 sgg. 22 Le Breton D., op. cit., p. 104. 21 26 L’espressione obbligatoria dei sentimenti nell’universalità di nozioni più elementari, come volere, dire, sapere, pensare, buono, cattivo eccetera, che sembrano avere una realizzazione lessicale in tutte le lingue. Le nozioni del campo dei sentimenti, quali l’amore, la collera o la gioia risultano essere delle configurazioni specifiche di queste nozioni elementari; esse sono comparabili tuttavia alle configurazioni concettuali di altre lingue o di altre culture, perché tutte queste configurazioni riposano su idee universali, semplici e chiare, espresse negli elementi indefinibili di tutte le lingue del mondo23. 23 Le Breton, D., op. cit., p. 132. 27 Il caso dei bambini selvaggi Alla sua nascita e nei primi anni della sua esistenza, l’uomo è il più sguarnito tra gli animali. La venuta nel mondo di un bambino è quella di un organismo prematuro ... che deve essere completamente plasmato. Questa incompletezza non è solamente fisica, ma anche psichica, sociale, culturale. Il piccolo uomo ... deve acquisire i segni e i simboli che gli permettano di dotarsi di un mezzo per comprendere il mondo e comunicare con gli altri. Alla sua nascita, l’orizzonte del neonato è infinito, aperto a tutte le sollecitazioni, mentre le condizioni future della vita dell’animale sono essenzialmente già lì, iscritte nel suo programma genetico, praticamente immutabili all’interno di una stessa specie. Nell’uomo, invece, l’educazione supplisce agli orientamenti genetici che non assegnano alcun comportamento prestabilito, né determinano la sua intelligenza. La natura dell’uomo si realizza solo all’interno della cultura che lo accoglie ... egli dispone esattamente della stessa costituzione fisica dell’uomo del neolitico. Così il neonato dell’età della pietra continua a nascere in ogni istante in tutti i luoghi della terra con la stessa possibilità di apertura e la stessa attitudine ad entrare nel sistema di senso e di valori del gruppo che lo accoglie1. L’uomo, infatti, possiede, a differenza degli animali, il sistema simbolico e l’educazione ha appunto la funzione di modellare il linguaggio, la gestualità, l’espressione dei sentimenti, le percezioni sensoriali ecc. secondo le esigenze del gruppo. Il simbolico diventa nondimeno corporeità che permette di comprendere istintivamente le modalità corporee degli altri e di comunicare. Nella specie umana, del resto, nessun bambino – e per molti versi neppure un adulto – potrebbe sopravvivere all’abbandono del gruppo. Riguardo a questo tema molto utile per comprendere a fondo la malleabilità profonda della nostra specie, vi 1 Le Breton, D., op. cit., pp. 11-12. 29 L’espressione obbligatoria dei sentimenti sono numerosi documenti storici che hanno permesso la ricostruzione delle vicende di alcuni bambini sopravvissuti all’isolamento precoce dalla comunità umana. Di per sé, già il concetto di ‘bambino selvaggio’ ancora oggi suscita inquietudine nel nostro immaginario. I bambini ‘selvaggi’ possono essere suddivisi in due categorie: da una parte vi sono i bimbi allevati o raccolti da un animale in seguito a circostanze eccezionali, quali la guerra, che si identificano anche corporeamente agli animali con i quali vivono e dall’altra dei piccoli abbandonati o persi per indifferenza o negligenza dai loro genitori nella prima età. “Il denominatore comune a queste categorie di bambini consiste in un isolamento precoce e nell’assenza di una mediazione umana sufficientemente prolungata per assicurare loro una entrata socializzata nel mondo che li circonda. La denominazione di ‘selvaggio’ è solo un’immagine eccessiva ereditata dai Lumi e rinvia ad una carenza di educazione, ad un’assenza sensibile degli altri nei primi anni della loro esistenza”2. Le testimonianze su bambini raccolti dagli animali – in genere lupi, orsi, pecore, leopardi ecc. – sono piuttosto rare, ma confermano che “anche le nostre sensazioni più intime, le più impercettibili, i limiti delle nostre percezioni, i nostri gesti più elementari, la forma stessa del nostro corpo e anche molti altri tratti dipendono dall’ambiente sociale e culturale. Le modalità di espressione corporea del bambino vissuto insieme ad un animale dicono con chiarezza quanto noi siamo modellati dall’ambiente circostante nonostante il nostro sentimento di autonomia e di spontaneità”3. In India, sino agli inizi del 1900, sono stati scoperti numerosi casi di bambini allevati da lupi: essi si comportano esattamente come loro, e la loro stessa costituzione fisica rassomiglia a quella degli animali, 2 3 30 Le Breton, D., op. cit., pp. 11-13. Le Breton, D. op. cit., p. 14. L’espressione obbligatoria dei sentimenti con occhi che brillano nell’oscurità, denti ravvicinati con bordi taglienti, canini lunghi e appuntiti ecc. Anche questi bambini si muovono, corrono, mangiano, dormono come gli animali con i quali vivono e ciò sottolinea in maniera precisa la malleabilità del corpo umano. Inoltre essi sembrano conoscere solo emozioni come la collera o l’impazienza mentre ignorano la risata o il sorriso, ma si rivelano docili di fronte agli sforzi degli educatori e trasformano molto rapidamente le loro antiche esperienze corporee. Essi, inoltre, si conformano abbastanza alle regole del loro nuovo gruppo senza riuscire mai a cancellare del tutto le tracce del loro passato poiché la durata del loro isolamento costituirà sempre un limite. L’educazione li porterà, per esempio, a parlare e ad esprimere alcuni sentimenti, ma la loro storia sembra essere quella di una forma di violenza esercitata per ricondurre il loro corpo e la loro intelligenza a dimensioni socialmente accettabili tanto è vero che la maggior parte di questi bambini muore precocemente. Comunque, sono impressionanti i resoconti di coloro che hanno potuto conoscere questi ragazzi in quanto immediatamente ci si rende conto della potenza della cultura: veramente la specie umana può essere qualunque cosa, basta che lo voglia. Si può citare come esempio il caso di Victor, un ragazzino francese di dodici anni abbandonato forse verso i quattro o cinque anni nell’Aveyron e ritrovato nel 1800. Egli sembrava muto, a parte l’emissione di grida gutturali e uniformi, insensibile alle minacce o alle carezze, indifferente alle donne, ai suoni, agli odori e ai profumi, incapace di fissare la sua attenzione su un oggetto e sembrava ignorare le lacrime. Quando venne scoperto, il ragazzino viveva interamente nudo nonostante gli inverni molto freddi. In pieno inverno, si rotolava nella neve cosicché il suo tutore iniziò ad imporgli giornalmente dei bagni di diverse ore nell’acqua calda, quindi in quella fredda. Victor, così, iniziò a temere il freddo, e divenne molto 31 L’espressione obbligatoria dei sentimenti fragile mentre prima godeva di ottima salute4. Inoltre, seduto vicino al fuoco, raccoglieva senza fretta i carboni ardenti e li deponeva nel focolare o ancora toglieva le patate dall’acqua bollente per mangiarle immediatamente, pur avendo una pelle sottile e vellutata. Le analisi approfondite hanno sottolineato il carattere selettivo dei suoni che interessavano il ragazzo: il rumore di una noce caduta accanto a lui, delle voci che lo disturbavano e dalle quali cercava di allontanarsi attraevano la sua attenzione, mentre restava indifferente ad altre stimolazioni sonore che non erano legate ad alcun significato a lui conosciuto. Inoltre egli usava in abbondanza il linguaggio dei gesti. Come rileva Le Breton, i ragazzi selvaggi ci insegnano che all’interno di una società le attitudini del corpo sono lontane dall’essere tutte concretizzate. Ciascun individuo realizza nella sua esperienza corporea solo una piccolissima parte delle possibilità offerte dalla natura e nello stesso tempo l’educazione e l’ambiente circostante influiscono in modo determinante nel campo della vita organica, cioè in quella sezione che sembrerebbe sfuggire alle influenze esterne: le percezioni sensoriali, il campo dei sentimenti e delle emozioni, per esempio. Inoltre, secondo la loro età, le condizioni e la durata del loro isolamento, questi ragazzi, una volta reinseriti nella vita sociale, riescono solo in parte a riprendere i loro sistemi percettivi o gestuali: Victor, per esempio, non parlerà mai poiché il suo isolamento si era protratto per troppo tempo e la sua età non gli permetterà che una flessibilità molto limitata. Un altro caso studiato è stato quello, molto conosciuto, di Kaspard Hauser, un ragazzo di circa 17 anni rinchiuso per molti anni da solo in un mastio e ritrovato nel 1828 a Norimberga: anch’egli, come altri ragazzi selvaggi, vede perfettamente nella notte e ha una forte sensibilità olfattiva. 4 32 Le Breton, D., op. cit., p. 20 sgg. L’espressione obbligatoria dei sentimenti Insomma, questi casi dimostrano la rilevante elasticità e resistenza del corpo umano mentre le trasformazioni fisiche, le singolarità sensoriali o affettive di cui danno prova sono legate alla durata del loro isolamento e alla pressione dell’ambiente circostante. Esse sono una conseguenza della loro capacità di adattamento: il trauma iniziale (isolamento immediato, allevamento da parte di un animale, abbandono dei genitori ecc.) non deve per nulla intaccare in profondità le loro difese psicologiche. Questa è la prima condizione per la sopravvivenza di un uomo che si ritrova improvvisamente in situazioni estreme, come si può notare nei casi di naufraghi rinvenuti morti nei loro canotti dopo soltanto qualche giorno di deriva: fisiologicamente, non vi è alcuna ragione per la loro morte precoce. In realtà, essi non sono morti né per la fame né per la sete, ma semplicemente a causa della disperazione. Così, per un Victor che riesce a sopravvivere, ve ne sono molti morti per sfinimento o divorati dagli animali: solo una volontà tenace rende possibile l’adattamento progressivo ad una situazione estrema e quindi una forza di carattere poco comune che non ci permette, perciò, di evocare la debolezza mentale per questi soggetti. Invece, per quanto riguarda certe funzioni, come la parola o l’intelligenza, queste esperienze mettono in evidenza come esse si possono realizzare solo in un momento preciso della crescita individuale in quanto sono legate agli scambi tra il bambino e il suo ambiente. Tuttavia, come molto giustamente e acutamente osserva Le Breton, i ragazzi ‘selvaggi’ non sono un negativo della socialità, non ne sono che una singolare deviazione. Essi realizzano ai margini della vita collettiva alcune varianti delle possibilità corporee che la cultura trascura (visione notturna, resistenza al freddo, quadripedia, ecc.). Essi non sfuggono all’‘umanità’ dei loro corpi né alle sue virtualità. Tutte le modalità fisiche che mettono in opera per sopravvivere, lungi dal dimostrare la loro ‘idiozia congenita’ come pensava Pinel, illustrano al contrario il potere stupefacente di adattamento di cui dispone l’uomo, anche se immesso in una situazione estrema. Questa forza di resistenza attinge 33 L’espressione obbligatoria dei sentimenti alla elasticità della sua condizione corporea. L’educazione dei bambini detti ‘selvaggi’ presenta sotto tratti esagerati il processo di acquisizione che fa di qualunque bambino un individuo conforme, nella sua singolarità, alla cultura percettiva e gestuale del suo gruppo. Tuttavia una necessità antropologica presiede allo sviluppo di questa facoltà: l’impronta che l’Altro ha lasciato nelle fibre del corpo. L’uomo non esiste senza l’educazione che modella il suo rapporto con il mondo e con gli altri, il suo accesso al linguaggio, e plasma contemporaneamente le risorse più intime del suo corpo5. Pertanto, come i recenti studi di neurobiologia hanno confermato, “il cervello umano non è un organo definitivamente formato alla nascita, bensì un’entità dinamica, modellata dall’ambiente e dall’esperienza individuale e capace di creare continuamente nuove connessioni tra le sue cellule. Questa caratteristica viene generalmente denominata ‘plasticità’, nozione che occupa oggi un posto centrale nell’ambito delle neuroscienze”6. Del resto, Clifford Geertz ricordava come la cultura non debba essere intesa tanto come un ornamento dell’esistenza umana, quanto piuttosto come una condizione vitale poiché il cervello e il sistema nervoso del corpo umano hanno bisogno di un ambiente sociale e culturale per poter funzionare. Ora, “il cervello umano infatti si sviluppa anche dopo la nascita e la crescita neuronale continuerà per i primi due anni; soltanto dopo vincerà a mostrare i primi segni di decrescita. Il naturale isolamento della corteccia e le connessioni di mielina ... non si formano completamente prima dei sei anni di vita. Solo alla pubertà si potrà dire che la maturazione fisica del cervello umano si è completata, anche se lo sviluppo neuronale continuerà per tutta la vita... Si può parlare perciò, secondo gli studiosi, di un ‘cervello ecologico o 5 6 34 Le Breton, D., op. cit., p. 28. Pussetti, C., op. cit., p. 33. L’espressione obbligatoria dei sentimenti culturale’, dipendente per tutta la vita dalla relazione con l’ambiente”7. Un esempio ci viene dallo studio dell’apprendimento del linguaggio: secondo gli specialisti, il bambino produce e riconosce molti suoni, dei quali soltanto alcuni si troveranno nell’adulto. In Le strutture della parentela, Lévi-Strauss ha affermato che i neonati sono capaci di distinguere esattamente suoni che gli adulti non distinguono, ma cominciano a perdere questa capacità acquisendo un linguaggio particolare. Infatti, “quando il bambino supera quel momento di porosità molto speciale, cui spesso ci si riferisce definendolo ‘periodo critico’ e che va circa dai diciotto mesi ai tre anni di vita, il cervello diverrà mano a mano sempre meno plastico e non gli sarà più possibile apprendere un linguaggio con la stessa facilità. I centri cerebrali legati al linguaggio sembrano non poter raggiungere piena maturità senza una stimolazione adeguata nel periodo adatto, come nel caso dei bambini selvaggi. Se un bambino non viene inserito durante questo periodo in un ambiente nel quale è utilizzata una data lingua, in seguito non riuscirà ad acquisire e utilizzare con competenza un linguaggio, nemmeno se sollecitato da insegnamenti intensivi”8. Per di più, alcuni ricercatori londinesi hanno scoperto che, durante gli ultimi cinque milioni di anni, la crescita considerevole del nostro cervello, e in maniera specifica della corteccia, è stata provocata soprattutto dallo sviluppo delle relazioni di tipo emozionale, quindi dalle relazioni sociali più che da quello delle abilità tecniche. E se, come dichiarava sempre Geertz, il cervello è progettato per accogliere ciò che noi definiamo cultura – dunque i sistemi simbolici – gli esseri umani che sono senza ‘cultura’ sono forse anche esseri senza emozioni, secondo la stimolante domanda di Pussetti? 7 8 Le Breton, D., op. cit., p. 34. Le Breton, D., op. cit., pp. 35-36. 35 L’espressione obbligatoria dei sentimenti Molti studiosi hanno tentato di scoprire, dunque, un linguaggio ‘naturale’ delle emozioni, un linguaggio che possa essere, cioè, anatomicamente e fisiologicamente identificabile. L’emozione, però, non è una sostanza, una entità fissa e immutabile poiché “nell’esperienza affettiva corrente, l’emozione o il sentimento non sono mai di una sola tinta, esse sono spesso mescolate, oscillanti da una tonalità ad un’altra, segnati da una ambivalenza. Si può ... essere geloso disapprovando un tale sentimento o trovandolo infondato; avere vergogna per una situazione dicendosi che è tempo di prendere l’impegno di respingere un’educazione troppo pudica ecc. L’emozione non ha la chiarezza di un’acqua di sorgente, essa è spesso un miscuglio inafferrabile la cui intensità non cessa di cambiare”9. 9 36 Le Breton, D., op. cit., p. 171. “Il dolore stanca”: il rapporto corpo/mente Per noi occidentali, legati alla dicotomia ragione/sentimento, corpo/anima, il discorso legato alla materialità dell’emozione appare piuttosto strano e comunque difficile da comprendere, ma presso molte altre società non c’è frontiera chiara tra corporeità e relazione affettiva o emozione: l’emozione è anche e sempre qualcosa che si prova con il corpo e non può esistere slegata da esso. Il corpo è parte, dunque, essenziale delle relazioni sociali. “I Chewong della Malesia, per esempio, traducono i loro sentimenti attraverso l’intermediario del fegato così possono dire ‘il mio fegato è buono’ (mi sento bene) o ‘il mio fegato è tutto ristretto’ (ho vergogna ) ... Per i tahitiani incontrati da Levy, le emozioni hanno ugualmente la loro sede in organi differenti. Se ne parla in terza persona, e non come se provenisse da sé. Un uomo in collera dirà per esempio: ‘i miei intestini sono in collera’”1. È esperienza quotidiana per tutti noi, comunque, quella di essere influenzati fortemente non solo nello spirito, ma anche nel corpo da una sensazione o una emozione: quante volte la paura ci ‘blocca’ lo stomaco o accelera i battiti del cuore o ancora la gioia ci rende particolarmente vitali! Questa comune esperienza è alla base di una credenza molto radicata e diffusa secondo la quale l’emozione non è solo qualcosa di immateriale o spirituale, ma ha una sua componente corporea. Anche nelle nostre espressioni quotidiane usiamo metafore come queste: avere un grande cuore = bontà; ci vuole fegato= coraggio. Come è noto, le tecniche di guarigione sciamaniche rivolte al recupero dell’anima persa o quelle che riguardano la stregoneria si muovono appunto 1 Le Breton, D., op. cit., pp. 123-124. 37 L’espressione obbligatoria dei sentimenti nell’ottica di questo rapporto essenziale tra le diverse parti del corpo. Infatti nelle società etnologiche, il corpo fisico è solo la parte visibile del corpo completo il quale ha anche una parte energetica non visibile ben più importante. Lo dice molto bene Pussetti quando rileva che per i Bijagó l’energia vitale è “immaginata come un’ombra bianca evanescente aggrappata al dorso del corpo”2. Del resto, l’Oriente ha teorizzato in modo molto approfondito questa idea attraverso il concetto di aura3. Il corpo visibile, insomma, è solamente la porta sensoriale sul mondo e, proprio per tale motivo, le emozioni possono essere espresse anche attraverso il linguaggio dei sensi: una strega o uno stregone ha in molte società un odore cattivo, e nei luoghi in cui si riuniscono gli stregoni si sente un fetore di decomposizione, di fermentazione, quindi un odore disgustoso/minaccioso. Così tutti gli emarginati o i ‘diversi’ come i barboni, gli zingari, i tossicodipendenti ecc. si contraddistinguono in primo luogo per la loro diversità visibile e sensoriale: l’odore sgradevole, l’abito in disordine, la vista ‘oscena’, il contatto proibito. Come sostiene Pussetti, le pratiche antisociali e antimorali collegate a queste persone suscitano “reazioni di disgusto, al punto che vengono associate all’odore repellente della putrefazione”4. Allo stesso modo, gli spiriti della foresta dei Bijagó della Guinea Bissau, spaventosi e errabondi, “possiedono un corpo, ma in decomposizione; hanno ancora la voce, ma monocorde, priva delle tonalità e del ritmo propri della vita; necessitano di nutrirsi, ma non sono in grado di procurarsi il cibo”5. Così, nel caso di una morte, il corpo viene massaggiato con un infuso di piante odorose e poi il cadavere viene avvolto in una stuoia mentre si inizia a bruciare foglie odorose. 2 Pussetti, C., op. cit., p. 62. Cfr. Rampa Lobsang T., I segreti dell’aura, AstrolabioUbaldini, Roma, 1975, 4 Pussetti, C., op. cit., p. 117. 5 Pussetti C., op. cit., p. 122. 3 38 L’espressione obbligatoria dei sentimenti L’odore della morte viene sempre associato alla figura dello stregone o “a qualsiasi condotta pericolosa o aberrante, che provoca disgusto. Un cadavere che emani un odore molto intenso e ripugnante sarà facilmente sospettato di essere stato uno stregone e si procederà a rituali di divinazione ... allo stesso modo anche gli spiriti dei morti sono caratterizzati da un odore specifico, che riflette a livello olfattivo la loro condotta in vita”6. Mentre nelle nostre società il senso sociale per eccellenza è costituito dalla vista, in molte altre anche l’udito ha una funzione fondamentale. Ciò che è facilmente comprensibile perché “lo scambio di parole, la dinamica parlare/sentire, fondamentale nelle relazioni sociali, viene brutalmente interrotta dal sopraggiungere della morte: la frattura dei legami affettivi, il sentimento della perdita, è quindi metaforicamente espresso nei canti attraverso l’immagine del giovane che tenta invano di comunicare con i suoi defunti”7. Tra i Bijagò, “una delle maggiori cause di suicidio tra gli anziani è infatti la sordità, che impedisce loro di ascoltare e comprendere le parole degli altri e degli antenati, escludendoli di fatto da qualunque tipo di relazione sociale ... il penultimo re, si è ucciso: “perché aveva la più brutta malattia: aveva perso l’udito ... Se non senti sei già morto, perché non ascolti i problemi, le discussioni del villaggio e quindi non fai parte del consiglio degli anziani. Non senti la voce del tamburo e quindi non sai cosa avviene al villaggio e nell’isola e non ascolti le parole degli antenati. Un re deve essere uno che ha un buon udito-che comprende”8. Dietro questi comportamenti, dunque, vi è sempre l’idea centrale che la vita valga la pena di essere vissuta solo quando è vita di relazione e di adesione piena ai valori socialmente condivisi. Inoltre “è interessante notare che ... l’influenza del male venga trasmessa più generalmente per mezzo 6 Pussetti C., op. cit., p. 154. Pussetti C., op. cit., p. 206. 8 Pussetti C., op. cit., p. 65. 7 39 L’espressione obbligatoria dei sentimenti dello sguardo, mentre l’influenza complementare del bene ... per mezzo del tatto... comunque l’atto di fissare ha connotazioni che variano dal malaugurio alla vera e propria scortesia, a seconda della cultura”9. Uno sguardo fisso e strano presenta comunque degli aspetti temibili o una vera e propria natura ingiuriosa. Quando il grande studioso di mitologia Campbell parla delle tradizioni religiose dell’umanità, sostiene che esse sono tutte legate da alcuni motivi mitici e tra questi cita l’impulso al saccheggio, all’avidità. “Psicologicamente esso potrebbe forse essere interpretato come un’estensione del comando bioenergetico al nutrimento e al consumo; tuttavia la motivazione in questo caso non fa parte di alcuna esigenza primaria, ma proviene da un impulso lanciato attraverso gli occhi, non a consumare ma a possedere”10. Quindi, dopo aver analizzato questo impulso, sottolinea come “le forze che ci motivano sono sempre costituite dalla stessa temibile triade di necessità di cui Dio ci ha fornito: nutrirsi, procreare, dominare. E per il corretto soddisfacimento almeno della prima e della terza di queste motivazioni, nello stagno dei pesci che è la storia, il primo requisito nell’ordine della natura ... è la soppressione dell’impulso naturale alla pietà”11. Ora, come si è potuto già osservare, mentre il male ha la sua via immateriale, cioè l’occhio e quindi lo sguardo, per entrare nel mondo, “l’influenza complementare del bene ... esige il contatto fisico, agisce per mezzo del tatto; il bene ha bisogno di toccare”12. Ecco perché segnare alla maniera dei guaritori diventa positivo: “la segnatura è toccare con amore, è un contatto che trasmette all’altro un’energia benefica, un 9 Douglas M. (a cura di ), La stregoneria Confessioni e accuse nell’analisi di storici e antropologi, Einaudi, Torino, 1980, pp. 383384. 10 Campbell, J., Le distese interiori del cosmo La metafora nel mito e nella religione, TEA, Milano, 2003, p. 15. 11 Campbell, J., op. cit., p. 17. 12 Cecconi A., L’acqua della paura Il sistema di protezione magico di Piteglio e della montagna pistoiese, B. Mondadori, Milano, 2003, p. 68. 40 L’espressione obbligatoria dei sentimenti contatto che guarisce e cura. Accanto al rituale dell’acqua e dell’olio, la segnatura è infatti usata proprio come antidoto e rimedio al malocchio. Alessio è un guaritore ed è convinto che “a tutti si può segnare, basta volerlo”; allora non siamo solo prede in balia delle occhiate altrui, in noi c’è anche il potere di neutralizzarle, in noi abita il potere di curare e curarsi”13. Del resto, il saluto o l’atto di accomiatarsi è spesso espresso attraverso un contatto che investe l’intera persona, come l’abbraccio, la stretta di mano, l’alzarsi, il togliersi o mettersi il cappello ecc. Questa positività del contatto probabilmente può essere anche una conseguenza del modo di portare i bambini di molte popolazioni. Gli antropologi, e in particolare Margaret Mead, hanno insegnato che la maniera di trattare i bambini anche nelle cose che apparentemente sembrano irrilevanti o di poca importanza, quali appunto il modo di essere nutrito, portato con sé, addormentato ecc., “è una delle cose più significative nella formazione della personalità dell’adulto” e naturalmente delle emozioni che ad esse sono collegate. Il bambino Arapesh della Nuova Guinea per esempio “non è mai lontano dalle braccia di qualcuno. Andando in giro, la madre lo porta o sul dorso, in un sacco di rete speciale sostenuto dalla fronte, o sospeso sotto uno dei due seni, in una specie di bilancia di scorza d’albero intrecciata”14. Allo stesso modo, tra i Fore della nuova Guinea, i neonati sono talvolta portati sulla schiena della madre, in ceste imbottite di morbida scorza e di foglie, come in un utero artificiale, ma spesso sono anche portati sotto il braccio. L’antropologo Sorenson rileva inoltre che i bambini più piccoli restavano in contatto corporeo quasi continuo con la loro madre, i suoi familiari o le sue compagne di lavoro nell’orto. Il grembo materno è il centro della vita infantile ed i piccini se ne stanno lì a succhiare il latte, a 13 Ibidem. Mead M., Sesso e temperamento, il Saggiatore Net, Milano, 2003, p. 68. 14 41 L’espressione obbligatoria dei sentimenti dormire e a giocare con il loro corpo o con quello della loro nutrice. Ed essi non vengono messi da parte neppure durante lo svolgimento di altre attività, come la preparazione del cibo o il trasporto di oggetti, anche pesanti. Restando a stretto e ininterrotto contatto fisico con quelli che stanno loro attorno, i loro bisogni basilari – riposo, nutrimento, stimolazione e sicurezza – vengono continuamente soddisfatti senza problemi. Poiché tutti i bambini fore hanno una possibilità costante di interscambio tattile, ben prima di poter parlare, essi comunicano bisogni, desideri e sentimenti ad un certo numero di persone che si occupano di loro, tramite il tatto ed il movimento fisico. Questo costante ‘linguaggio’ del contatto rende pronta e facile la soddisfazione dei bisogni e dei desideri dell’infante e rende superflui i più rigidi espedienti normativi e dietetici... questo modello ‘socio-sensuale’ istituisce un rapporto molto intimo con le persone circostanti ... l’economia cooperativa, le relazioni umane di tipo consensuale e l’ordine sociale egualitario emergono dalla condizione iniziale di relazione tattile15. Poiché il corpo fisico è solo la parte visibile del nostro essere nelle popolazioni etnologiche in genere non si fa differenza tra gli ambiti che noi definiremmo propri della mente e quelli che riguardano le emozioni così come spesso si ritiene che l’emozione abbia in genere un organo specifico nel quale risiede. Anche in questo caso la separazione tra corpo e mente non ha nessun significato poiché un sentimento, quindi qualcosa che noi riteniamo invisibile, ha un luogo corporeo ben visibile. Quindi, ambiti che noi definiamo razionali, quali la riflessione, l’intelligenza, la ragione vengono considerati come uniti agli stati emozionali. Tra i Bijagó, “la traduzione immediata che si può dare del termine kutribá è quindi quella di pensiero-sentimento, in quanto si riferisce in generale a tutti quelli che noi definiremmo come stati mentali, andando da ciò che consideriamo ‘pensiero’ a ciò che chiamiamo ‘emozione’. La presenza di n’atribá [plurale] 15 Sorenson E.R., “Cooperazione e libertà tra i Fore della Nuova Guinea”, in Montagu A. ed., Il Buon Selvaggio, Elèuthera, Milano, 1987, pp. 23-24. 42 L’espressione obbligatoria dei sentimenti si può avvertire fisicamente, a seconda delle circostanze, nella pancia, nel cuore, nel fegato, nella testa, nelle gambe, negli occhi. Per esempio, il rispetto è associato alla testa, la tristezza e la pazienza al petto e alla pancia, l’invidia agli occhi, la rabbia alla gola; certi n’atribá possono cuocere gli occhi, bruciare il torace o bloccare le gambe; un’alterazione dell’equilibrio dei n’atribá può causare malattie e addirittura morte; l’odio può materializzarsi sotto forma di una sostanza nera nel ventre; la pancia può arrabbiarsi, infastidirsi o addirittura aprirsi per fare uscire n’atribá pericolosi. Questi sono certamente organi fisici, ma anche, in un modo che è difficile per noi apprezzare pienamente, fonte di azione e consapevolezza. La concezione indigena collega dunque la psicologia e la fisiologia umana, includendo come aspetti dello stesso processo quanto noi distinguiamo come pensieri, sentimenti, desideri, volontà e i loro intimi effetti sul corpo”16. Naturalmente il corpo energetico, quello che in molti casi viene impropriamente definito anima, dà e mantiene in vita l’essere umano, mentre il corpo fisico ci consente di essere presenti nel mondo, di avere delle attività e soprattutto un carattere e dei rapporti sociali. Il corpo fisico non è perciò una muraglia impenetrabile, una fortezza, soprattutto nell’età infantile e, per tale motivo, esso è sempre esposto alle influenze altrui e ai pericoli che vengono dall’esterno. Se abbiamo chiara questa idea del corpo, allora diventa facile capire le tecniche dei guaritori, degli stregoni o sciamaniche di recupero dell’anima. Nella maggior parte dei gruppi amazzonici, per esempio, e in particolare presso gli Jivaro, come rileva acutamente Taylor, la malattia è la sofferenza in quanto tale e non ciò che le dà origine. Essa è vista come un’esperienza di metamorfosi che nasce da uno squilibrio con la società, da un’alterazione dei rapporti sociali e trasforma l’individuo sano in un paziente, cioè in un essere ammalato. La risposta della società a questa alterazione avviene attraverso “l’elaborazione, a fini terapeutici, di una trasformazione 16 Pussetti C., op. cit., pp. 60-61. 43 L’espressione obbligatoria dei sentimenti corrispondente”, positiva, questa, e attuata dagli specialisti quali appunto gli sciamani17. Koká così racconta la morte improvvisa del figlio per un incidente e la perdita del proprio principio vitale: sentivo gridare per strada, le donne chiamavano il mio nome e così ancora segnavano il mio destino. Mi hanno raccontato quello che era successo e che dovevo correre ... io correvo, ma poi le gambe non si sono più mosse e non potevo camminare. Sono caduta e sono rimasta così, le mie gambe sono ancora malate, guarda: sono gonfie e pesanti. Da allora ero sempre malata, il mio spirito si era perduto per il dolore. Mi hanno portata da diversi guaritori e poi nel continente ... ma non guarivo... non mangiavo, non bevevo, non dormivo, non avevo più pensieri-sentimenti, stavo solo sdraiata e basta. Avevo perso un figlio... il mio corpo era sempre più debole e dicevano che sarei morta presto... ma la realtà è che Koká non poteva smettere di piangere ... avevo perduto il controllo... adesso mi sono stancata di piangere per il mio dolore ... il dolore stanca ... ma le sofferenze ... sono restate qui: nello stomaco e nelle gambe è il loro ricordo18. La perdita del figlio, quindi un sentimento, è anche perdita corporea, perdita del controllo, delle forze vitali, della coscienza, paralisi momentanea, inappetenza, insonnia o confusione, mollezza, svogliatezza, fiacchezza. E il corpo negli anni continua a ricordare questo dolore e questa nuova condizione. Come osserva Pussetti, la grande capacità dei guaritori tradizionali è proprio quella di saper curare allo stesso tempo l’unità costituita dal corpo, dai sentimenti e dalle relazioni sociali. Obennó mi descrive i sintomi che la affliggono, mi parla di un corpo aperto ... dai confini dissolti dalle sofferenze, un corpo ‘annodato’, invaso e violentato ... dai pensieri, dai sentimenti e dalle azioni degli altri: “...non voglio ricordare 17 Taylor A.C., “L’oubli des morts et la mémoire des meurtres Expériences de l’histoire chez les Jivaro”, TERRAIN, 28, mars 1997, p. 86. 18 Pussetti C., op. cit., pp. 138-139. 44 L’espressione obbligatoria dei sentimenti quel tempo così brutto. Ma il mio corpo ricorda: mi vennero a prendere per lavorare e io non potevo camminare, quella gente mi attaccò una malattia, non so, ero sempre più debole e rimasi al villaggio. In tutto il corpo soffrivo: il corpo si era aperto ... e tutto mi faceva del male... tutto il corpo mi doleva, non riuscivo a dormire, né a parlare, non potevo camminare. Stavo per morire, non avevo più consapevolezza di nulla, stavo solo sdraiata e basta. Dopo qualche tempo mi portarono nel luogo dove si fanno le cerimonie, mi curarono, mi massaggiarono ... per rendere la pelle dura e farmi sudare. Mi lavarono e quella notte riuscii già a dormire. Quella cosa nel mio corpo aveva smesso. Poiché continuavo a lavarmi con quella medicina che rendeva il mio corpo duro e forte, non riuscirono a uccidermi. Ma continuo ad avere dolore alle gambe e al petto, sempre a causa di quella gente”19. Dunque, la prima reazione ad un forte dolore è sempre corporea, ed è una reazione di blocco della vitalità. Sembra quasi che il corpo non riesca a sopportare un evento tanto grave e straordinario cosicché si ferma, come per prendere coraggio e affrontare la dura sfida. La natura, del resto, dà l’impressione di comportarsi allo stesso modo quando, prima di un evento straordinario – un ciclone, un terremoto ecc. – si ferma per un attimo e sempre in questo lungo attimo tutto tace. Così, il tema del silenzio e dell’immobilità in occasione di eventi speciali si ripresenta, per esempio, nei testi della tradizione religiosa in seguito alla nascita di creature ‘eccezionali’ quali Cristo o Buddha. La vita cosmica sembra sospesa, e “i mondi creati ... entrano in una condizione di stupore che si esprime come immobilità, silenzio, interruzione improvvisa del ritmo continuo e normale degli atti e del flusso vitale. Trascorso l’acme ... la normalità del 19 I corsivi sono miei, a sottolineare che la malattia si guarisce rendendo il corpo duro, non più malleabile e penetrabile da qualunque entità. Pussetti C., op. cit., p. 140. 45 L’espressione obbligatoria dei sentimenti corso cosmico riprende il suo flusso”20. Il silenzio, perciò, è solo “un aspetto del più vasto quadro dello stupore e della riverenza che invadono i mondi di fronte ad un’epifania la cui destinazione salvifica ... investe uomini, animali e dei”21. Come illustra molto efficacemente De Martino, in una sua opera molto nota, “nella sua forma più radicale la crisi del cordoglio presenta la caratteristica polarità dell’assenza e della scarica convulsiva: la presenza perde se stessa degradandosi a pura e semplice energia meccanica che defluisce senza significato. La frequenza di una reazione di questo tipo è incredibilmente alta fra le contadine lucane ... in una forma meno radicale l’assenza si attenua in uno stato di ebetudine stuporosa, o in luogo della scarica meramente meccanica si ha la terrificante esplosione parossistica, tendenzialmente autoaggressiva. Lo stato di ebetudine stuporosa ha tra le contadine lucane una incidenza così forte da essere indicato con un vocabolo di uso corrente nei villaggi lucani: attassamento. La persona attassata è irrigidita in una immobilità fisica che riflette un vero e proprio blocco psichico più o meno accentuato... la persona attassata – ci ha detto una informatrice di Montemurro – non riconosce le persone: non ricorda neppure che c’è il morto. Se le si chiede qualche cosa non risponde, oppure dà risposte senza senso. È come se sognasse. Quando esce dall’attassamento, si guarda intorno per capire che cosa è successo, poi getta un grido e riprende la lamentazione”. “L’attassamento può durare un quarto d’ora... viene specialmente quando si ha la notizia di una morte improvvisa. Può durare anche mezza giornata... appena si esce dall’attassamento si dà un grido perché si riconosce che cosa è accaduto”. Polarmente contrapposta allo stato di ebetudine stuporosa è l’esplosione parossistica. Se nell’ebetudine stuporosa la donna colpita da lutto sta come inerte, ... nell’esplosione parossistica essa si getta a terra, dà col capo nel muro, salta, si graffia a sangue le gote, è accesa da furore tendenzialmente diretto verso la propria persona, si strappa i capelli, si lacera le vesti, si abbandona ad un gridato che è 20 Di Nola A.M., Antropologia religiosa Introduzione al problema e campioni di ricerca, Newton Compton, Roma, 1984, p. 178. 21 Di Nola A.M., op. cit., p. 181. 46 L’espressione obbligatoria dei sentimenti piuttosto un ululato. A questo comportamento disordinato e pericoloso, possiamo dare la denominazione di planctus irrelativo”, cioè di un pianto privo di un legame e di una relazione, quindi un pianto ‘disumano’ che può trascinare sino alle soglie della follia22. Solo in un secondo momento, con la ritualizzazione del pianto, viene riconquistata l’umanità e il corpo ritorna sotto il controllo della mente. Presso gli aborigeni australiani, Glowczewski così racconta: “quando gli Aborigeni decidono di lasciarsi morire, non c’è nulla che si possa fare dal punto di vista medico ... L’uomo era il padre adottivo di un giovane di cui gli era stato annunciato oggi la morte in un incidente stradale. E secondo il costume, per il dolore era in una specie di stato catatonico che avrebbe potuto farlo morire. Solo l’entourage, parlandogli e massaggiandolo, poteva bloccare questo processo. Dopo qualche ora di cure premurose commoventi, uomini e donne succedendosi al suo capezzale e parlandogli dolcemente, egli ritornò in sé”23. Tra gli Hagen della Nuova Guinea, un sentimento, detto pipil, equivalente alla nostra vergogna e paura insieme, si può notare sulla pelle. Le manifestazioni di questo sentimento implicano non soltanto il fatto di essere tenuti in scacco dai propri pari, ma anche di essere terrorizzati dagli spiriti al punto che “la nostra pelle si copre di sudore; i capelli si sollevano dal collo; i denti si legano; noi diciamo che gli spiriti ci vogliono uccidere e mangiare. Ciò succede quando andiamo in un cimitero o una casa in cui un uomo è morto e quando sentiamo un pipistrello o un gufo... se pipil è un’emozione che si esteriorizza sulla superficie del corpo, popokl traduce una collera suscitata dall’estorsione degli altri ma che resta chiusa nella vita segreta dell’individuo. Essa non può mai essere rivelata. Il modo corrente di espressione rimane la malattia. Se il 22 De Martino, E., Morte e Pianto Rituale dal lamento funebre antico al pianto di Maria, Boringhieri, Torino, 1975, pp. 83-84. 23 Glowczewski, B., Les rêveurs du désert peuple Walpiri d’Australie, ACTES SUD, Arles, 1996, p. 110. 47 L’espressione obbligatoria dei sentimenti pipil è tutta esteriorità, popokl è tutta interiorità. Cadendo malato il soggetto annuncia la sua emozione. La procedura terapeutica impone che egli riveli la ragione della sua agitazione. La confessione, il proiettare fuori da sé con le parole il popokl costituisce la tappa iniziale della guarigione. Margaret Mead aveva osservato un rituale simile nelle isole Samoa”24. Questa ‘malattia’, quindi, sembra essere un’espressione controllata di un’emozione pur sempre pericolosa se lasciata a se stessa. In Africa, per esempio, chi ha perduto ‘l’anima’ a causa della paura presenta sempre gli stessi sintomi che ritroviamo anche nelle concezioni europee. Colui che cede alla paura, che non è educato a controllare le proprie paure e a coltivare il coraggio, presenta “una sintomatologia tipica: inappetenza, insonnia, dolori somatici diffusi, espressione assente e indifferenza per quanto lo circonda. Il malato generalmente passa le sue giornate seduto o sdraiato, senza intrattenere alcuna relazione con il mondo intorno a lui: questa totale abulia lo porterà lentamente alla morte”25. Molto frequenti e propri di molte culture sono, infatti, i racconti di apparizioni di entità sovrumane, quali il morto, che determinano lo squilibrio e spesso la morte nel giro di tre giorni a causa della forte paura. In conclusione, ciascuna società dà la sua spiegazione circa il luogo o i luoghi in cui si troverebbero le emozioni. Nelle nostre culture, estremamente razionali, che hanno come miti fondanti la scienza o la ragione, vi sono teorie di altro tipo, quali quelle neurologiche, ormonali ecc. mentre in molti altri gruppi gli organi sono in genere la sede dei diversi sentimenti e ciò cambia da società in società. Comunque è molto difficile comprendere veramente questi sistemi di conoscenza, nonostante l’apparente facilità di approccio. Come sostiene Descola: 24 25 48 Le Breton, D., op. cit., p. 130. Pussetti, C., op. cit., p. 109. L’espressione obbligatoria dei sentimenti presupponendo l’universalità di una distinzione convenzionale tra l’interiorità e la fisicità, non ignoro che l’interiorità è spesso presentata come multipla né che la si suppone connessa con la fisicità da numerose delimitazioni reciproche... qualunque sia il numero delle componenti immateriali della persona, che siano innate o acquisite, che vengano trasmesse dal padre, dalla madre, per caso o da un’entità benevola o ostile, che siano temporanee, durevoli o eterne, immutabili o sottomesse al cambiamento, tutti questi principi generatori di vita, di conoscenza, di passione o di destino hanno una forma indeterminata, sono fatti di una sostanza indefinibile che risiede ordinariamente nella parte più intima dei corpi. Certo, spesso si dice che queste ‘anime’ risiedano in un organo o in un fluido ... o che siano legate in maniera indissociabile con il corpo, come il soffio, il viso o l’ombra ... Dappertutto presente sotto modalità diverse, la dualità dell’interiorità e della fisicità non è dunque la semplice proiezione etnocentrica di un’opposizione che sarebbe propria dell’Occidente tra il corpo, da una parte, l’anima o lo spirito, dall’altra.... Bisogna al contrario comprendere questa opposizione così come è stata fabbricata in Europa ... come una variante locale di un sistema più generale di contrasti elementari ... contrariamente ad un’opinione molto in voga, le opposizioni binarie non sono invenzioni dell’Occidente o finzioni dell’antropologia strutturale, poiché esse sono largamente utilizzate presso tutte le popolazioni in molte circostanze26. 26 Descola, P., Par-delà nature et culture, Gallimard, Paris, 2005, pp. 174-175. 49 L’apprendimento delle emozioni La vita sociale, di relazione, dunque la cultura di cui parlano gli antropologi, è “quella disposizione ad affrontare la realtà che si costituisce negli individui in quanto membri di una società storicamente determinatasi e determinantesi. Cultura cioè designa quel patrimonio sociale dei gruppi umani che comprende conoscenze, credenze, fantasie, ideologie, simboli, norme, valori, nonché le disposizioni all’azione che da questo patrimonio derivano e che si concretizzano in schemi e tecniche d’attività tipici in ogni società”1. Il processo di acquisizione della cultura da parte dell’individuo è chiamato dagli antropologi inculturazione o socializzazione e, come ben si comprende, costituisce un processo fondamentale che si sviluppa durante tutta la vita dell’individuo. La fase più importante del processo inculturativo è, però, quella che si attua nei primi anni di esistenza dell’individuo, anni durante i quali si struttura la personalità di base e si interiorizzano i valori fondamentali della cultura. Per distinguere tale fase dalle restanti, alcuni Autori propongono di riservare ad essa soltanto i termini di ‘inculturazione’ o ‘socializzazione’ e di indicare come ‘integrazione sociale dell’individuo’ l’intero svolgimento del processo che si realizza nella rete di rapporti dinamici che l’individuo contrae con il proprio ambiente sociale ed ecologico e in virtù dei quali struttura il proprio ‘patrimonio culturale e individuale’. Nel rapporto integrativo di questo patrimonio con quello biopsichico dell’individuo si articola la ‘personalità’2. I modi socialmente accettabili di esprimere le emozioni, dunque, come qualunque altro elemento della cultura, vengono insegnati e trasmessi, perciò, soprattutto nel primo periodo della vita umana. 13. 1 Tentori, T., Antropologia culturale, Studium, Roma, 1976, p. 2 Tentori, T., op. cit., p. 142. 51 L’espressione obbligatoria dei sentimenti Come sottolinea Lévi-Strauss, “non va mai dimenticato che se all’origine dell’umanità l’evoluzione biologica ha potuto selezionare caratteri preculturali quali la stazione eretta, l’abilità manuale, la tendenza alla vita associata, il pensiero simbolico, l’attitudine a focalizzare ed a comunicare, molto presto il determinismo ha cominciato a funzionare in senso inverso... Non è il gene (se pure esiste) che conferisce resistenza alle temperature polari ad aver donato agli Inuit la loro cultura: al contrario, è stata questa cultura che ha avvantaggiato i più resistenti al freddo, sfavorendo gli altri”3. Perché una scelta di vita possa mantenersi nel tempo, però, ha bisogno di includere e accogliere pratiche e credenze attraverso le quali i suoi modelli di adattamento possano essere trasmessi alle nuove generazioni. Così, se possiamo anche ammettere che le emozioni possano essere innate e che si manifestino in modo comune nelle diverse società, bisogna, però, differenziarle dagli stati affettivi che le liberano. Se io sono più commosso per la presa in ostaggio di un concittadino che da quella di uno straniero, ciò è dovuto sicuramente al fatto che faccio una differenza tra gli uni e gli altri e che apprendo ad associare delle emozioni a questa categorizzazione. Se sono indignato per la trasgressione di questa regola, ciò è dapprima perché la regola esiste ed è stata trasgredita: la regola è anteriore all’emozione ed è essa che determina a quale proposito si può (o no), si deve (o no) provare e manifestare delle emozioni e quali. Il processo di trasmissione, sebbene più intenso nei primi anni di vita, prosegue lungo tutta l’esistenza, particolarmente nelle società in cui la divisione sociale del lavoro è complessa e i cambiamenti rapidi in tutti i settori dei costumi. Se si aggiunge che, in queste società, trasmettere l’eredità vuol dire anche, almeno parzialmente, essere capace di rimetterla in discussione e modificarla, si comprende la complessità del problema di fronte al quale ci si trova4. 3 Lévi-Strauss, C., op. cit., 1984, p. 41. Héraux, P., “Modes de socialisation et d’éducation”, in Poirier J. (sous la dir.), Histoire des moeurs II vol. I, Modes et modèles, Gallimard, Paris, 1991, p. 310. 4 52 L’espressione obbligatoria dei sentimenti Così, ogni società non solo crea e fabbrica i ‘suoi’ sentimenti nel momento in cui sceglie il proprio stile di vita – così come ogni cultura effettua una selezione tra il complesso delle potenzialità umane e ne sviluppa solo alcune a scapito di altre –, ma li rielabora e li trasforma continuamente in seguito a cambiamenti di ordine sociale, economico o politico. Si comprende, quindi, come, per le popolazioni etnologiche, la persona sia prima di tutto, come già sosteneva Van Gennep, una creatura sociale: il piccolo infatti “verrà considerato appartenente alla categoria ‘persona’ solo quando acquisirà – grazie al contatto con gli altri e attraverso un lungo cammino di formazione e costruzione – caratteristiche, competenze e comportamenti sociali”5. Pertanto il bambino, crescendo e interiorizzando i modelli culturali, viene sottoposto, come sostengono molti antropologi, ad un processo di specializzazione emozionale diretto dal gruppo. Come già sappiamo, il termine infante viene dal latino in-fans, cioè senza parola, quindi senza una capacità di simbolizzare il mondo che lo circonda. Si è già visto come nelle società etnologiche, durante i primi mesi della sua esistenza, in generale, il neonato abbia una relazione quasi simbiotica con la madre, dalla quale non si distacca quasi mai. La presenza di questa figura è continua e il contatto corporeo diretto con il neonato particolarmente intenso. Parlare, quindi, significa imparare la ‘buona distanza’ e, non a caso, i sentimenti sociali come la vergogna, il senso di colpa, l’imbarazzo appaiono verso i tre anni circa, quando il sé comincia a fissarsi in modo ormai stabile. “In mille modi la parola o il gesto formalizzano l’affettività del bambino e confermano ciò che egli sente vedendo vivere il suo prossimo. In un primo momento il bambino in collera, per esempio, urla, batte i piedi per terra, piange ecc. ma diventando più adulto apprende a ritualizzare la sua emozione, a con5 Pussetti, C., op. cit., p. 59. 53 L’espressione obbligatoria dei sentimenti tenerla nelle norme espressive”6. Inoltre “Condon segnala che la sincronia dell’interazione è un dato rilevante della condizione umana. Egli ha potuto mostrare come i neonati armonizzino i loro movimenti con le voci che sentono intorno a loro, qualunque sia la lingua. Egli suggerisce inoltre che questa sincronia si ritrovi già nell’utero”7. In questo modo, il rapporto intenso e continuo con la madre permette al neonato di apprendere semplicemente attraverso gli innumerevoli stimoli sensoriali di ogni tipo mentre, secondo alcune teorie, le emozioni dei neonati sono ancora non definite e senza controllo poiché la corteccia cerebrale non si è pienamente sviluppata a contatto con l’ambiente. Del resto, l’accrescimento continua per lunghi anni completandosi solo verso il periodo che noi definiamo adolescenza. Sempre tra i Bijagó, si sottolinea appunto come le donne considerino in modo molto diverso il neonato, il bambino molto piccolo e quello che oramai è arrivato ad avere tra i quattro e i sette anni. Secondo queste teorie, i bambini piccoli possono provare solo sensazioni simili a quelle degli animali – fame, sete, dolore, sonno – in quanto non hanno ancora acquisito una personalità sociale8. Ciò che è importante rilevare è il fatto che per le culture etnologiche i sentimenti non sono elementi ‘innati’, ma si formano gradualmente in seguito alla crescita e soprattutto in seguito all’educazione. Ecco perché la morte di un bambino è sempre un evento piuttosto privato. Si diventa un essere umano quando si condividono le regole e per condividere le regole in primo luogo bisogna conoscere, usare e comprendere, quindi, una lingua. La parola è ciò che ci fa entrare direttamente in un gruppo: essa è molto potente, è energia, creazione poiché produce trasformazioni profonde. Ascoltare e parlare, infatti, non sono equivalenti al semplice sentire dei suoni, capacità che possiedono già i bambini piccoli. 6 Le Breton, D., op. cit., p. 141. Le Breton, op. cit., p. 88. 8 Cfr. Pussetti, C., op. cit., p. 56 sgg. 7 54 L’espressione obbligatoria dei sentimenti A Giava, per esempio, nei primi anni di vita, il bambino “è considerato come non ancora giavanese”. La stessa frase si applica a persone che hanno difficoltà mentali o ad adulti che si mostrano irrispettosi nei confronti degli anziani ... Ciò implica che la persona non è ancora civilizzata, non è ancora capace di controllare le sue emozioni o di esprimersi con il rispetto richiesto dalle differenti situazioni sociali. Alla fine del processo educativo, il bambino diventa un uomo o una donna interamente, partner dello scambio sociale”9. Come commenta Pussetti i neonati e i bambini piccoli, che ancora non sono socializzati ... certamente piangono, ma si tratta di lacrime senza una relazione con gli eventi sociali, il pianto di chi “non comprende l’importanza delle cose”. Per questo il pianto dei neonati è considerato in qualche modo paragonabile a un verso animale: è un lamento del tutto dipendente da necessità fisiologiche, da fame, sete o disagio fisico. “È un pianto come quello di chi ha qualcosa in un occhio – mi spiega Koka – non come quello di chi soffre per la morte di qualcuno, e quindi non è veramente umano” ... Infatti, quando un bambino piange urlando in modo incontrollato – mi dicono alcune donne parlando dell’educazione dei loro figli – dev’essere immediatamente ripreso e pubblicamente biasimato, in modo che acquisisca in fretta a livello corporeo un habitus, inteso come disposizione a piangere nel modo appropriato in qualsiasi circostanza... il pianto dei bambini deve presentare al più presto un suono tipicamente ‘umano’10. Interessante, perciò, notare come il suono, pensato come ‘naturale’, per essere parte del sociale, e quindi ‘compreso’, debba essere sempre modellato culturalmente. Si comprende meglio il discorso sul pianto dei bambini se si tiene presente che, sempre presso i Bijagó, già verso i cinque anni, il pianto avviene secondo un modello culturale preciso, modulato su due note 9 Le Breton, op. cit., p. 143. Pussetti, C., op. cit., p. 164. 10 55 L’espressione obbligatoria dei sentimenti separate da un intervallo di quinta aumentata e nonostante la lingua “possieda un unico termine ... per indicare sia il piangere, sia il verso di alcuni animali (i più rappresentativi sono gli uccelli, i bovini e i gatti), i Bijagó ci tengono a specificare sempre se si tratta di... ‘pianto dei neonati’, ... ‘pianto degli adulti’ ... o ‘verso/pianto degli animali’ ... forse uno degli aspetti più sorprendenti era proprio il sentire piangere in questo modo melodico sia per esempio una ragazzina in lacrime dopo una severa punizione, sia una donna che si era ferita al braccio, sia una madre per la morte di suo figlio”11. L’espressione del dolore è perciò un aspetto fondamentale sul quale riflettere perché il pianto culturalmente appreso è il modo, l’unico modo secondo il quale l’individuo esprime in maniera ‘comprensibile’ e quindi condivisa il suo dolore. Proprio per questo, le distinzioni tra pianto ‘naturale’ o istintivo e pianto ‘convenzionale’ o simulato, cioè quel pianto inteso come espressione formale e quindi priva di sincerità dei sentimenti, non hanno significato. Il particolare urlo delle donne, caratterizzato da brevi grida ripetute in falsetto, di cui parla Pussetti, piuttosto che il pianto lungo e forte con stile melodico ritmico dei Gusii dell’Africa occidentale o il lamento studiato da De Martino nelle società mediterranee sono modi diversi di esprimere in maniera spontanea la sofferenza. Se la vita è innanzitutto relazione sociale, piangere o ridere in modo ‘appropriato’ significa in primo luogo mostrare la propria umanità. De Martino, nelle sue analisi sul pianto rituale antico, parte dalla constatazione che il lamento funebre è per prima cosa una tecnica del piangere specifica nata dall’esigenza di umanizzare la pura scarica meccanica di energia psichica data dall’urlo o dal grido disperato. Così, nel rito della lamentazione, il cordoglio accoglie il pianto, ma lo sottopone alla regola di gesti 11 56 Pussetti, C., op. cit., p. 165. L’espressione obbligatoria dei sentimenti ritmici già stabiliti dalla tradizione poiché ‘si piange così’ e solo così. “Operata questa prima selezione ordinatrice sul numero e sulla qualità dei gesti, il lamento rituale lucano riplasma il gridato e l’ululato in ritornelli emotivi da iterare periodicamente, in modo che fra ritornello e ritornello sia dato orizzonte al discorso individuale”12. Quindi, il lamento funebre prevede un tema melodico dato da “una linea melodica con cui ciascun versetto è cantilenato, e dalla strofa melodica nel suo complesso”13. Inoltre, come nel caso di un lamento registrato a Ferrandina, in Basilicata, “ogni versetto è cantato su una linea melodica che in Ferrandina è tradizionale per lamentare il morto: essa è formata da una scala pentatonica discendente dal fa al si: ne nasce, per ogni versetto, un senso di caduta o addirittura di scarica, accentuata dal fatto che spesso appare un portamento del fa, cioè una breve salita iniziale, come un librarsi prima di precipitare. Un secondo carattere che domina la melodia del lamento è il vuoto sonoro determinato in ogni versetto dalla costante mancanza del re. Tale vuoto non ha luogo a caso rispetto alla struttura letteraria del testo, poiché cade sempre prima del ritornello emotivo invocante il fratello [cioè il morto]”14. Lamentarsi diventa, dunque, un atto complesso giacché significa “innanzitutto ricordarsi dei moduli letterari adatti scegliendoli fra quelli che stanno a disposizione della memoria culturale di ciascuna lamentatrice, e che tendono per così dire ad esaurire i tipi fondamentali delle possibili situazioni luttuose. Ma alla memoria culturale di ciascuna lamentatrice appartengono non soltanto questi moduli, ma anche – in organica connessione unitaria – la mimica che li deve accompagnare e la melodia con cui vanno cantati”15. 12 De Martino, E., op. cit., p. 85. De Martino, E., op. cit., p. 97. 14 De Martino, E., op. cit., p. 100. 15 De Martino, E., op. cit., p. 136. 13 57 L’espressione obbligatoria dei sentimenti Pussetti poi sottolinea un altro aspetto molto interessante del pianto che andrebbe approfondito ulteriormente, cioè la sua associazione al mondo degli uccelli. Infatti “il pianto umano opportunamente modulato è inoltre associato a un altro ‘pianto’ considerato armonioso ed esteticamente appagante: quello degli uccelli. Il canto degli uccelli non è infatti considerato solo un piangere ..., ma anche un cantare ..., che, secondo i miei informatori, evoca in modo particolarmente appropriato sentimenti che hanno a che vedere con la perdita, l’abbandono, la partenza... ‘diventare o essere come un uccello’ o ‘piangere come un uccello’ sono espressioni tipiche per rappresentare colei che piange per la perdita di una persona cara”16. Del resto, come sostiene Lévi-Strauss, il mondo degli uccelli è concepito nelle mitologie e nel folclore come una società umana metaforica, cioè a noi simile e in alcuni casi persino letteralmente parallela17. Ora, si è potuto osservare come gli esseri umani possano imparare praticamente tutto: emblematico a questo riguardo è il caso dei bambini ‘selvaggi’. Noti agli studiosi sono, per esempio, gli studi di Margaret Mead sulla personalità e le differenze tra i sessi e in particolare sull’inesistenza del concetto di ‘maternità naturale’ da noi spesso invocato. Infatti la forza del condizionamento sociale è tale che, come puntualizza la grande antropologa americana, “si è costretti a concludere che la natura umana è incredibilmente malleabile, tale da adattarsi infallantemente, con aspetti contrastanti, a condizioni culturali in contrasto. Le differenze tra individui appartenenti a culture diverse, come le differenze fra individui della stessa cultura, sono da attribuirsi quasi interamente a differenze di condizionamento, soprattutto durante l’infanzia; un condizionamento la cui forma è determinata culturalmente”18. 16 Pussetti, C., op. cit., pp. 165-166. Cfr. Lévi-Strauss, C., Il pensiero selvaggio, EST, Milano, 1996, p. 223. 18 Mead, M., op. cit., p. 296. 17 58 L’espressione obbligatoria dei sentimenti Altrettanto interessanti sono gli studi in cui si analizza il modo in cui molte popolazioni educano i loro bambini alla non aggressività e al rifiuto della competitività. L’aggressività cui ci si riferisce è quel comportamento finalizzato ad infliggere sofferenza fisica o psichica ad altri e noi sappiamo che vi sono degli studiosi quali Konrad Lorenz o Desmond Morris i quali sostengono la tesi innato-aggressivista secondo la quale l’aggressività sia innata e universale. Ora, però, la costituzione genetica umana e le potenzialità aggressive, qualunque esse siano, non sono sufficienti a creare un comportamento aggressivo che, invece, dipende, in ogni sua fase, da una complessa interazione tra geni e ambiente. Il comportamento aggressivo non è determinato da elementi innati più di quanto lo sia quel comportamento che chiamiamo linguaggio. Senza le potenzialità innate per il linguaggio non impareremmo mai a parlare, per quanto stimolante fosse l’ambiente, in termini di linguaggio per l’appunto. Ma senza un ambiente di “parlanti” non impareremmo mai a parlare poiché, per quanto se ne abbiano le potenzialità innate, perché si parli bisogna che ci si parli e che si viva in un ambiente di linguaggio ... Quello che la realtà conosciuta sembra indicare è che non ci sono modelli operativi prefissati, non ci sono “istinti”che determinano la spontanea comparsa dell’aggressività oppure il suo scatenarsi a partire da un determinato stimolo. Ciò che può sembrare una reazione “scatenata”, “automatica”, “prefissata”, “stereotipata” ad uno stimolo può essere in realtà qualcosa di assai diverso19. Tra i Fore della Nuova Guinea, per esempio, la comunicazione tattile e la libertà nelle attività esplorative del piccolo, insieme ad altre forme di insegnamento che vengono attuate sin dalla prima infanzia, contribuiscono a plasmare un carattere cooperativo e non conflittuale, come ben specifica il ricercatore il modo culturalmente peculiare di trattare il bambino ... fa sì che non si instaurino comportamenti tipo ‘fuggire o fare a 19 Montagu, A., op. cit., pp. 12-13. 59 L’espressione obbligatoria dei sentimenti botte’. E, ‘vendicarsi’, ‘fargliela pagare’ o analoghi impulsi distruttivi rivolti contro la famiglia, le persone care e il loro modo di vita non entrano a far parte del repertorio comportamentale dei Fore. Tra i Fore non si presentano problemi assai comuni nelle società occidentali come il ‘gap generazionale’, la rivalità tra fratelli, la prepotenza sociale, la rivolta adolescenziale ed atteggiamenti aggressivi simili. Vi sono atti aggressivi sperimentali ed accidentali da parte dei più piccini che, tuttavia, vengono considerati conseguenza naturale dell’immaturità di chi non si rende ancora conto dell’impatto di simili azioni. Vengono perciò giudicati divertenti. Non viene fatto alcun tentativo di castigare né viene esibita normalmente alcuna espressione di ira o di disapprovazione. Piuttosto, la reazione tipica dei bambini più grandi e degli adulti fatti oggetto di azioni aggressive od ostili dei più piccoli è di interessato ed affettuoso divertimento. Se l’attacco diventa doloroso, chi ne è oggetto se ne va oppure cerca di distrarre il piccino con affettuosa scherzosità o proponendogli altri interessi. Quando l’“aggressione” è rivolta verso coetanei viene scoraggiata ma, di nuovo, non con rimbrotti o punizioni bensì tramite giochi diversivi. Il comportamento aggressivo sperimentale e accidentale dei più piccini non dura; le loro azioni aggressive casuali od embrionali non riescono a trovare uno spazio nello stile di vita quotidiana. Nella loro vita l’ira, il litigio, la lotta non diventano ‘naturali’. Espressioni momentanee d’ira – ad esempio in caso di ‘incidenti’ durante giochi rudi, si disperdono rapidamente. Il conflitto riguardante il possesso o l’uso di ‘cose’ viene tipicamente sviato tramite costumi comportamentali di rispetto reciproco o di sintonia cooperativa20. Allo stesso modo si può educare a provare qualunque sentimento e però questi comportamenti sono prodotti e controllati da un insieme di influenze, da valori dominanti che vanno cercati altrove, e più precisamente nei modelli di adattamento socioambientale scelto dalla cultura di riferimento. Così, per esempio, la nota gentilezza nella società tahitiana è un comportamento adattativo essenziale, da intendersi come un tratto del comportamento che dà buo20 60 Sorenson, E., R., op. cit., pp. 27-28. L’espressione obbligatoria dei sentimenti ne possibilità di successo nell’ambiente polinesiano, come la competitività nelle nostre società in trasformazione dopo la rivoluzione industriale. Se, perciò, in una società viene enfatizzato un tratto particolare, quale, per esempio, la gentilezza, ciò che la caratterizza non è tanto la tecnica educativa quanto il modello dei controlli di quel comportamento che potrebbe essere definito di superficie. Esso, infatti, implica una invisibile, ma forte struttura di fondo che incide profondamente sulla personalità, enfatizzando, per esempio, determinati comportamenti, come quelli citati da Levy si ritiene che l’ostilità cronica sia molto pericolosa anche perché porta a conseguenze magiche, all’attivazione di spiriti ancestrali che spesso determinano, in una complicata teoria della ritorsione, la morte della persona arrabbiata... La dottrina tahitiana dell’ira dice che tutto ciò che va oltre la breve espressione verbale è sbagliato, che indica una mancanza di autocontrollo ed immaturità. È perciò cosa di cui vergognarsi. La gente che, nonostante le numerose e formidabili forme di controllo, provano [sic] sentimenti ostili, non li esprimono, se vogliono essere considerati cittadini responsabili e se vogliono evitare quel senso di vergogna che per varie ragioni turba profondamente il carattere tahitiano tradizionale... L’ira che non viene trattata e dominata in questo modo viene considerata una mancanza di controllo regressiva, e se gli altri si accorgono dell’incapacità di un individuo a padroneggiare l’ira lo svergognano. Un individuo su cui hanno operato tutte queste influenze culturali ... non s’arrabbierà spesso e quando gli succede ne proverà disagio e timore e tenderà a liquidare l’ira il più presto possibile21. Ora, in ogni società si possono vedere all’opera una serie di dispositivi tecnologici e sociali e una serie di credenze che favoriscono l’accettazione di un valore ritenuto essenziale ad una pacifica convivenza. Nel caso del carattere gentile dei tahitiani, ciò non signifi- 21 Levy, R., I., “Gentilezza tahitiana e controlli ridondanti”, in Montagu A.(ed.), op. cit., pp. 262-263. 61 L’espressione obbligatoria dei sentimenti ca che in questa società non ci siano segni di ostilità e di controllo dell’ostilità. Anzi, all’ostilità ci si deve preparare, le frustrazioni debbono essere ridotte e debbono essere istituiti controlli su quei processi emozionali e comportamentali che minacciano di evolversi in senso distruttivo. Ma questo viene fatto in modo tale che l’ostilità come patologia, come forza disgregante dell’organizzazione personale ed interpersonale, viene tenuta ad un livello minimo in forma garbata e con un “costo” minimo. Non sono necessari complessi controlli secondari (cioè sanzioni sociali severe, come la prigione, o un duro autocontrollo personale)... Per esempio, è opinione corrente che gli individui abbiano scarso controllo sulla natura e sul comportamento degli altri; che, anzi, se qualcuno si dà troppo da fare, se cerca di forzare la realtà in nuovi modelli, quella realtà (Dio, la natura, gli altri) inevitabilmente reagirà distruggendo il trasgressore. Viceversa, se uno non si agita troppo per forzare le cose, la realtà inevitabilmente si prenderà cura dell’individuo. La gente impara così ad essere “passivamente ottimista”. Questa opinione generale, prodotta dalle condizioni della socializzazione, viene rafforzata da leggende, pratiche guaritorie dei medici – stregoni e da valori consciamente e universalmente manifestati22. In questo modo, i controlli non saranno solo abbondanti, ma quasi gerarchizzati nel senso che quelli acquisiti molto precocemente entreranno a far parte dell’io e diventeranno ‘naturali’ o ‘istintivi’; saranno, quindi, molto più potenti perché inconsci e riguardanti il corpo. “Così, se l’opinione, universalmente accettata, secondo cui l’ambiente sociale e fisico è refrattario all’aggressione non è sufficiente a trattenere un individuo dal pensare o iniziare un’azione aggressiva, proverà comunque vergogna per la sua “devianza” e la vergogna terrà sotto controllo il suo agire”23. In conclusione, “da un lato, i tahitiani presentano potenzialità aggressive. Dall’altro hanno imparato a strutturarsi in modo tale da non essere 22 23 62 Levy, R., I., op. cit., pp. 257-258. Levy, R., I., op. cit., p. 264. L’espressione obbligatoria dei sentimenti “fondamentalmente aggressivi”. Essi in genere non hanno alcun bisogno di reprimere l’ostilità dentro di loro; sono strutturati in modo tale da minimizzare il problema”24. Per comprendere l’importanza di questi controlli, si pensi, per esempio, come, in molte società etnologiche, il rispetto nei confronti di un anziano sia principio fondamentale che ispira continuamente il comportamento di ciascuno e i rapporti interpersonali. Tra i Bijagó, per esempio, avere un comportamento sociale corretto significa accettare i legami con gli altri e rispettare le posizioni gerarchiche. Così la condotta che si deve avere nei confronti degli anziani viene assimilata lentamente attraverso la pratica, l’abitudine e una serie continua di collegamenti apparentemente arbitrari con situazioni sempre apparentemente molto diverse. Come riferisce Pussetti, aiutata dalle loro indicazioni ho imparato a non guardare mai un anziano negli occhi, a salutarlo inchinandomi leggermente e prendendogli la mano in modo da fargli capire la mia posizione nel percorso iniziatico, a non sovrastarlo fisicamente, cercando di scegliere sempre posizioni composte e inferiori in altezza. Ho compreso l’importanza del mantenere un atteggiamento corporeo compito e pacato, del controllare l’irrequietezza e gli sguardi, del dominare la parola, non conversando mai oltre misura, a voce troppo alta, impulsivamente o interrompere un anziano. Ho preso a servire da bere nel giusto ordine e modo, ad attendere il mio turno per mangiare o parlare, ad anticipare i desideri per non infliggere l’umiliazione di chiedere, ad accettare sempre le offerte o le richieste, sapendo di poterle in ogni caso passare a qualcuno a me inferiore d’età, costretto dalla stessa regola a non rifiutare. Tutti questi atteggiamenti ai quali si viene educati fin da ragazzini costituiscono un codice morale tacito che viene incorporato visceralmente e che mette in relazione i concetti di rispetto, pazienza, ordine, compostezza e controllo... senza l’abitudine, il rispetto sarà solo un’apparenza, un’ostentazione, che non reggerà a lungo di fronte alle situazioni più difficili, come per esempio il ritiro iniziatico in foresta, in cui i giovani dovranno sotto24 Levy, R., I., op. cit., p. 266. 63 L’espressione obbligatoria dei sentimenti stare umilmente alle angherie degli anziani. Il legame tra il rispetto per gli anziani e un atteggiamento calmo e misurato è indicato a livello semantico e concettuale. Le espressioni di rispetto più frequenti nei consigli e nei commenti che ho registrato sono ... avere testa, ma anche dare un senso, un significato alle cose ... essere testa, ma anche essere consapevole e riflessivo ... essere ordinato, fare pulizia, essere buono ad agire lentamente25. E così presso gli Oglala, gruppo della nazione Sioux, alla comparsa dei primi denti, al piccolo era impedito l’allattamento al seno attraverso piccoli colpi sulla testa. “Un trattamento così inabituale provoca violente collere. Lo si fascia allora sino al collo, lo si attacca sulla culla e lo si lascia urlare sino all’esaurimento (più grida forte e più, si crede, sarà un buon cacciatore), rendendo così impossibile l’esteriorizzazione della sua rabbia se non attraverso la voce”26. Questo comportamento apparentemente di poca importanza, in realtà è uno dei molteplici modi in cui il bambino impara per esempio a “riorientare una parte dell’aggressività in autoaggressione, nell’obbligo di sopportare il dolore con impassibilità, e anche a ricercarlo in alcuni momenti di determinate occasioni rituali”27. Oppure, ancora presso molte popolazioni africane, per esempio, i giochi dei bambini, che pure occupano la maggior parte del loro tempo, sono facilmente interrotti: gli adulti o i primogeniti utilizzano i bambini per effettuare tutti i lavori che questi ultimi possono sostenere e che sono compatibili con le loro forze e le loro capacità. Il giovane deve prendere presto l’abitudine di aiutare le persone che lo circondano. Egli ne trae in compenso la convinzione, giustificata, che è a tutti gli effetti un membro del gruppo ed è utile ad esso. Egli è anche necessario per tenere certi ruoli rituali: simbolizzando il rinnovamento, è insostituibile quando bisogna maneggiare le sementi, festeggiare le primizie28. 25 Pussetti, C., op. cit., p. 75. Héraux, P., op. cit., p. 342. 27 Ibidem 28 Héraux, P., op. cit., p. 349. 26 64 L’espressione obbligatoria dei sentimenti Insomma, comportamenti, credenze, teorie, abitudini apparentemente strane o assolutamente arbitrarie possono essere comprese solo se inserite in un contesto. Esse, infatti, assumono significato analogo nell’acquisizione di un corretto comportamento, in quanto forme diverse in cui si sottolinea lo stesso concetto di base e si educa ad applicarlo con naturalezza in tutte le circostanze. 65 La cultura come controllo dei sentimenti In nessuna società, quindi, i sentimenti vengono mai espressi liberamente poiché il controllo di sé è il valore fondante della propria umanità. Si potrebbe, anzi, dire che la società è controllo delle emozioni, controllo che viene attuato attraverso quella che Mauss denomina “l’espressione obbligatoria dei sentimenti”, cioè la mancanza di spontaneità assoluta nell’espressione di un sentimento1. Questa espressione, infatti, non è mai un fatto puramente individuale tanto è vero che è sempre manifestata in gruppo, in tempi, luoghi e persone ben determinate. Questo carattere collettivo non esclude affatto la sincerità delle emozioni, ma “tutte queste espressioni collettive, simultanee, con valore morale e con forza obbligatoria dei sentimenti dell’individuo e del gruppo, sono qualcosa di più che semplici manifestazioni; sono segni, espressioni capite, ossia un linguaggio. Questi gridi sono come frasi e parole. Bisogna emetterli, ma se bisogna emetterli è perché li capisca tutto il gruppo. Dunque è più che un manifestare i propri sentimenti; è un manifestarli agli altri, perché si deve manifestarglieli. Li si manifesta a se stessi esprimendoli agli altri e per conto degli altri. Si tratta, essenzialmente, di una simbolica”2. Allo stesso modo Granet, nel suo saggio molto famoso sul linguaggio del dolore nel rituale funerario della Cina classica, sottolinea come nell’espressione dei sentimenti 1 Cfr. Mauss, M., “L’espressione obbligatoria dei sentimenti”, in Granet, M., Mauss, M., Il linguaggio dei sentimenti, Adelphi, Milano, 1975, p. 3 sgg. 2 Mauss, M., op. cit., p. 13. 67 L’espressione obbligatoria dei sentimenti la spontaneità non appare che al termine di una evoluzione: per reazione contro il formalismo iniziale e il ritualismo sviluppato del linguaggio sentimentale, e solo quando la società è abbastanza instabile perché l’individuo percepisca una dissonanza tra il proprio ideale e l’organizzazione sociale. Ma in una società stabile e che tiene alla propria stabilità non sono certo l’originalità dell’individuo né le tradizioni di famiglia a governare il sentimento e la sua espressione. Per cui tutti gli avvenimenti che danno materia a una emozione che conta veramente nella vita personale, riguardano nello stesso tempo l’individuo e tutta la società. Nel momento in cui l’amore, il dolore penetrano in un’anima umana, il corpo sociale è testimone dell’unione sessuale o della morte che ne sono l’occasione, e partecipa attivamente al matrimonio e al lutto che modificano la sua propria composizione e il suo ordinamento. A ogni grave crisi della vita affettiva corrisponde una rottura di equilibrio della vita sociale3. Non a caso, la tradizione orientale è molto chiara in tema di cortesia, come si può leggere in questo brano: “In Vietnam è tradizione che marito e moglie si trattino l’un l’altro come ospiti di riguardo. Ci si rispetta davvero a vicenda: quando ci si cambia d’abito non lo si fa davanti all’altro; ci si comporta con reverenza. Se non c’è più il rispetto dell’altro, il vero amore non può durare a lungo. Rispettarsi l’un l’altro, trattarsi a vicenda come ospiti è una tradizione della società asiatica... Senza questa sorta di mutuo rispetto... la rabbia e le altre energie negative cominciano a prendere il sopravvento... gli sposi si inchinano l’uno all’altro in segno di rispetto”4. La cultura, infatti, è controllo ferreo delle emozioni: le buone maniere, la cortesia, dunque ciò che viene ritenuto forma è, invece, sostanza. Del resto, senza questo controllo, non potrebbe esistere alcuna società, cioè una comunità che decide di fare insieme il viaggio della vita giacché le emozioni, sia positive sia negative, se 3 Granet, M., “Il linguaggio del dolore nel rituale funerario della Cina classica”, in Granet, M., Mauss, M., op. cit., pp. 37-38. 4 Thich Nhat Hanh, Spegni il fuoco della rabbia Governare le emozioni, vivere il nirvana, Mondadori, Milano, 2002, pp. 49-50. 68 L’espressione obbligatoria dei sentimenti lasciate libere, la distruggerebbero. Come sostiene Nitobe, in Giappone Il fine di qualsiasi norma di cortesia è coltivare la mente in modo che persino quando siete seduti tranquillamente nessuno oserà assaltarvi, nemmeno il più rozzo dei ribaldi. Ciò significa che, esercitandosi costantemente nelle buone maniere, si portano tutte le parti e le facoltà del corpo a funzionare secondo un ordine perfetto, e si arriva a una tale armonia con se stessi e con il proprio ambiente da esprimere la padronanza dello spirito sulla carne. La cortesia è una grande conquista della cultura umana ... per esempio, siete sotto un sole cocente e abbagliante, senza ombra intorno a voi. Un conoscente giapponese vi passa accanto; vi accostate a lui, e istantaneamente questi si toglie il cappello: bene, questo è perfettamente normale, ma... mentre parla con voi, tiene il parasole chiuso e anch’egli rimane esposto al sole cocente... La motivazione che si cela dietro questo gesto è: “sei sotto il sole e io simpatizzo con te; ti prenderei volentieri sotto il mio parasole, se fosse abbastanza grande o se fossimo amici intimi; dunque, poiché non posso farti ombra, condividerò il tuo disagio”. La disciplina da un lato, con lo sviluppo di una forza d’animo tale da sopportare tutto senza un lamento, e l’insegnamento della cortesia dall’altro, con l’imposizione di non guastare il piacere o la serenità degli altri esprimendo loro il dolore o la sofferenza personali, si sono combinati nel generare l’orientamento apparentemente stoico del nostro carattere nazionale5. E sempre Nitobe, quando deve spiegare il dominio di sé e il controllo ferreo delle emozioni nella società giapponese che non permette alcuna espressione del dolore, così scrive Era considerato indegno di un samurai tradire le proprie emozioni lasciandole trapelare sul volto. La frase “non mostra segni di gioia o di collera” era usata per descrivere un uomo di grande carattere. Persino l’espressione degli affetti più naturali era tenuta sotto controllo. Un padre poteva abbracciare suo figlio solo a spese della propria dignità; un marito non avrebbe baciato sua moglie in presenza di altre persone ... Se andate a trovare un amico giapponese in un 5 Nitobe, I., Bushido L’anima del Giappone, Luni, Milano, 2003, pp. 42-68. 69 L’espressione obbligatoria dei sentimenti momento di profondo dolore, egli vi riceverà invariabilmente ridendo, con gli occhi rossi o le guance bagnate. Di primo acchito, potreste pensare che è un isterico. Se premete affinché vi dia delle spiegazioni, non pronuncerà che qualche luogo comune senza senso: “La vita dell’uomo comporta dei dolori”; “coloro che si incontrano devono separarsi”; “colui che nasce deve morire” ... In realtà, i giapponesi ricorrono al riso ogni volta che la fragilità della natura umana è messa a dura prova6. In maniera magistrale, Granet aveva chiarito la questione con queste acute riflessioni: “il dolore erompe davanti alle condoglianze recate – chi le reca rende sensibile l’obbligo di tale dolore – e si esprime sullo schema di temi tradizionali, per mezzo di manifestazioni convenzionali e obbligatorie, imposte a ciascuno e comuni a tutti, – perché esso è efficace solo se la sua espressione, rituale, chiara come un segno, immediatamente accessibile, mette in gioco automaticamente la simpatia. Un dolore, se fosse possibile, che volesse restare assolutamente intimo o che riuscisse a tradursi in termini liberi e spontanei, in un momento di propria scelta e secondo una formula personale, che, in una parola, non si accordasse subito ai voti del pubblico, non comporterebbe da parte di questo alcuna partecipazione e non recherebbe alcun conforto. Anzi, arresterebbe il proprio sviluppo e, limitato alle forme più passive dell’angoscia, non manifestandosi convenientemente, perderebbe i benefici di un esercizio attivo per mezzo del quale può essere regolato, disciplinato, espulso. Per questo i gesti del dolore si sono ordinati in una successione di riti che sono anche un sistema di segni. Essi costituiscono una tecnica e una simbolica; formano un linguaggio pratico che ha le sue necessità di ordine, di correttezza, di chiarezza; che ha la sua grammatica, la sua sintassi, la sua filosofia e, direi, anche la sua morale”7. Propria di gran parte delle società etnologiche è la creazione dell’istituzione iniziatica, essenziale per comprendere la vita e il pensiero di queste popolazioni, come illustra Servier a proposito delle culture 6 7 70 Nitobe, I., op. cit., pp. 68-70. Granet, M., op. cit., p. 39. L’espressione obbligatoria dei sentimenti aborigene australiane: “i miti [in queste popolazioni] sono come una rivelazione. Essi rivelano all’uomo la natura dell’umanità e del mondo nel quale vive, indicano il modo di pervenire alla redenzione ... la nascita e la morte sono cose relativamente minori, pochi rituali le accompagnano. In tutti e due i casi, le potenze divine sono considerate agire in modo arbitrario e gli esseri umani, a questo riguardo, hanno ben poco da dire. Fondamentali sono, invece, le serie interminabili dei riti di iniziazione con i quali l’individuo afferma il suo controllo dei miti, dei riti e dei postulati sui quali è fondata la vita della comunità”8. L’istituzione iniziatica ha, tra le altre, la funzione di insegnare ad affrontare in maniera corretta le proprie emozioni e soprattutto le proprie paure una volta per tutte. Appunto per questo motivo entra in gioco il corpo, in quanto, attraverso lo strumento del dolore, si rafforza in maniera decisiva e ‘definitiva’ questa entrata nel mondo degli uomini. Il corpo dell’iniziando, infatti, è un corpo non socializzato, simile a quello di un animale feroce e quindi va ‘umanizzato’. Non a caso, dei bambini si dice che hanno emozioni ancora incontrollate e che per questo le loro reazioni assomigliano a quelle degli animali: i bambini, cioè, non sono ancora stati modellati completamente dalla ‘cultura’ e reagiscono, perciò, secondo ‘natura’, appunto come gli animali. L’atteggiamento selvaggio esprime in modo simbolico la mancanza di ‘cultura’, cioè di pensieri-sentimenti ‘umani’. Del resto, solo i bambini, i folli o coloro che sono ai margini della società esprimono i loro sentimenti in modo incontrollato o perché non hanno ancora acquisito o hanno perso la propria energia vitale oppure non hanno ancora le caratteristiche specificamente umane e una posizione sociale certa. Come rilevano i bijagó, “tutto ciò che può provare un bambino piccolo sono le sensazioni che provano gli ani8 Servier, J., “Histoire de la pensée symbolique”, in Poirier J. (sous la dir.), Histoire des moeurs II vol. 2 Modes et Modèles, Gallimard, Paris, 1991, p. 704. 71 L’espressione obbligatoria dei sentimenti mali: il neonato avverte solo fame e sete, dolore fisico e sonno... prima di nascere il bambino non può avere pensieri – sentimenti, perché non riceve stimoli, non fa esperienze, non intesse relazioni”9. La cultura è, invece, legge, ordine, regola, come racconta questa donna bijagó La gente un tempo viveva come gli animali, tutti volevano comandare. Se eri in grado di picchiare .... qualcuno, lo picchiavi. Se volevi una cosa di qualcun altro e lui rifiutava di dartela, lo picchiavi e rubavi la cosa che era sua: la gente si picchiava gli uni con gli altri. Ci si comportava come banditi e ciò non aveva nessuna conseguenza. Quello che aveva forza fisica comandava ‘sulla testa di tutti’: tutti facevano ciò che volevano, senza mai curarsi degli altri. Un giorno un figlio del clan padrone della terra, ... pensò nella sua testa che ciò non poteva essere, che questo comportamento era pericoloso ... e minaccioso ... Chiamò suo padre e parlò con lui. Il padre chiamò tutti i più anziani, uomini e donne: parlò con loro dell’idea del figlio. Tutti gli diedero ragione e decisero di discutere per sedere il villaggio nella legge ... affinché se qualcuno avesse fatto qualcosa lo si castigasse. Inventarono anche il n’obitr kusina,[ciclo dei doni agli anziani] per trasmettere la legge ... e aiutare gli anziani che non possono più lavorare. Tutto ciò è l’origine del manras [iniziazione]10. Colui che decide di non entrare nella società tramite l’iniziazione naturalmente non sarà mai considerato un uomo completo e potrà sempre, proprio per questo, rappresentare un pericolo per il gruppo come racconta questo adulto Kariá non ha fatto il manras [iniziazione], non conosce la legge. La responsabilità-legge non è scritta sul suo ventre, né nei suoi pensieri-sentimenti. Non ha dimostrato controllo, né rispetto e ha offeso gli anziani. In foresta dovrà scontare tutto questo con dolore. Attenzione a chi non si comporta bene con gli anziani: il castigo dipenderà dagli errori commessi. In foresta si impara a controllarsi e ad avere coraggio. Questo è ciò che ci si aspetta da un uomo bijagó, che sappia 9 Pussetti, C., op. cit., p. 63. Pussetti, C., op. cit., pp. 84-85. 10 72 L’espressione obbligatoria dei sentimenti riconoscere il cammino indicato dagli antenati e ascoltarecomprendere il consiglio degli anziani. I pensieri-sentimenti possono muovere un uomo come fa il vento con gli alberi, o la tempesta con le piroghe: possono travolgere chi non è forte o non sa governare le onde. Sono come il fuoco, che è indispensabile per vivere, ma può trasformarsi in incendio. Chi non sa resistere alla forza dei pensieri-sentimenti può ammalarsi e fare ammalare il villaggio. La disciplina e il controllo ... si imparano dagli anziani ogni giorno e dagli antenati in foresta11. Molto acutamente Pussetti sottolinea che “l’istituzione della legge rappresenta quindi il termine di questa condizione primeva, caratterizzata da un’illimitata libertà individuale e da un mondo di pensieri-sentimenti totalmente egoistici, in favore di esigenze sociali più ampie. La creazione della società coincide con l’assunzione individuale della responsabilità, che viene rappresentata simbolicamente dalle scarificazioni incise sul petto degli uomini iniziati... la responsabilità sociale e l’etica iniziatica del controllo appartengono invece decisamente a un processo che potremmo definire di androgenesi, destinato cioè a stabilire ciò che l’uomo ha da essere in quanto individuo maschile. Gli uomini infatti hanno bisogno di maggiore controllo perché i loro n’atriba [pensierisentimenti] sono più pericolosi e violenti: sono stati educati a provare emozioni adatte a un guerriero destinato a difendere il villaggio”12. Naturalmente anche le donne avranno la loro iniziazione rappresentata anche in maniera corporea, ma le iniziazioni femminili sono dappertutto, quando ci sono, molto meno rilevanti di quelle maschili perché le donne sono ritenute già ‘complete’, espressione perfetta e compiuta della ‘natura’, data la loro capacità di generare come la Terra. La ‘cultura’, quindi l’umanità, cioè la facoltà di vivere insieme – espressione propria dell’essere maschile – è, invece, in continua costruzione e 11 Pussetti, C., op. cit., p. 93. Pussetti, C., op. cit., p. 85. 1212 73 L’espressione obbligatoria dei sentimenti trasformazione in quanto dato che non ci viene dalla natura. Come si è già accennato, i sentimenti pericolosi o difficili da dominare possono essere, così, espressi in modo conveniente e sicuro solo attraverso i veli protettivi della forma poetica, attraverso una forma convenzionale – quale il lamento funebre, il canto o la danza – e all’interno di uno spazio e di un tempo rigidamente definiti. Per fare un solo esempio, si potrebbe citare il cosiddetto duello canoro degli Eschimesi centrali e orientali così descritto da Harris Accade spesso che un uomo ne accusi un altro di avergli rubato la moglie. La controquerela sostiene che la donna non è stata portata via ma che se n’è andata volontariamente perché suo marito “non era abbastanza uomo” per prendersi cura di lei. La controversia viene risolta di fronte ad un numeroso pubblico lì convenuto che potrebbe essere paragonato ad un tribunale, ma non viene prodotta alcuna testimonianza a sostegno di una delle due versioni sui motivi dell’abbandono del marito da parte della moglie. Piuttosto, le “due parti” si scambiano, a turno, insulti in musica, sotto forma di canzoni. Il “tribunale” reagisce ad ogni esibizione con risate più o meno fragorose. Alla fine, uno dei due cantanti viene sopraffatto e le urla e le grida lanciate contro di lui diventano generali – perfino i suoi parenti fanno fatica a non ridere: Si va sussurrando qualcosa/ su di un uomo e sua moglie/ che non riuscivano ad intendersi/ di che si trattava, in sostanza?/ di una moglie che, giustamente in collera,/ strappò le pellicce del marito/ prese la loro imbarcazione/ e remò via con suo figlio./ Ay-ay, tutti voi che ascoltate/ cosa pensate di lui,/ possente nella sua collera/ ma privo di forza,/ a balbettare debolmente?/ ha avuto quello che meritava/ poiché è stato lui che, con protervia,/ ha dato inizio a questa disputa con stupide parole./ ... Gli eschimesi non hanno nessun tipo di specialisti poliziesco-militari che si occupino di imporre il “verdetto”. Tuttavia, è possibile che lo sconfitto nel duello canoro lasci perdere, poiché non può più fare affidamento sul sostegno di nessuno se decide di esasperare il conflitto. 74 L’espressione obbligatoria dei sentimenti D’altra parte, il perdente può anche decidere di continuare da solo13. O ancora, in molte società vi sono alcuni individui che possono essere equiparati ai bambini e visti, perciò, come ‘selvaggi’ e sono coloro che costituiscono il gruppo degli iniziandi o di coloro che affronteranno le cerimonie relative al passaggio da un grado di età ad un altro. Nella cultura bijagó, per esempio, proprio agli individui che ancora non fanno a pieno titolo parte del gruppo, come coloro che ancora non sono iniziati e quindi anche alle ragazze non sposate, o a personaggi speciali quali il musicista, vengono permesse canzoni definite della ‘miseria-sventura umana’. Essi possono, quindi, cantare liberamente il tormento, la sofferenza, il dolore, l’amore, il tradimento, il desiderio, cioè quei sentimenti dolorosi o difficili che pure fanno parte dell’esistenza umana e che in qualche modo devono trovare sfogo, devono essere liberati. La liberazione, però, non può che avvenire attraverso figure che hanno uno status sociale ancora incerto o che non hanno acquisito quel senso d’onore e di dignità dell’essere umano completo. Come sottolinea sempre Pussetti, l’ammissione pubblica di debolezza è molto significativa perché dà sfogo, sempre in modo pubblico, a tutte quelle cariche dolorose e potenzialmente negative della società rispetto alla fragilità che l’esistenza umana comporta, ma sotto il velo protettivo della forma poetica e comunque sempre da individui che non rappresentano la comunità nella sua pienezza: “il cantante si dichiara ad alta voce vinto, soggiace suo malgrado all’intensità dei suoi n’atriba [pensieri-sentimenti], esponendo se stesso e gli altri ai rischi del suo mancato controllo. Gli uomini, la cui condotta dovrebbe essere di esempio per i più giovani, confessano la loro debolezza; i ragazzi, che devono affrontare il manras, svelano i loro timori e le loro perplessità; le donne, che dovreb13 Harris, M., Antropologia culturale, Zanichelli, Bologna, 1990, pp. 174-175. 75 L’espressione obbligatoria dei sentimenti bero preoccuparsi dell’armonia familiare, cantano la loro gelosia, il desiderio e la rabbia per il tradimento. E il pubblico, coinvolto, si lascia conquistare: rapito, si arrende al contagio del dolore”14. La persona, l’essere umano nella sua piena realizzazione è prima di tutto individuo, essere sociale che ha acquisito caratteristiche e comportamenti sociali. Il concetto di persona, come si è già notato, si riferisce sempre al modello culturale della società di riferimento. Esso va visto, dunque, “come una “finzione legale”, vale a dire una costruzione fondata su valori solidali dell’organizzazione sociale. Ma tali valori, o almeno alcuni, non si assorbono se non attraverso le usanze che ad essi si ispirano o li mettono in pratica...”15. Tra gli Yoruba, per esempio, le loro idee sulla dipendenza dell’individuo dalla famiglia o dalla comunità, che raggruppa i vivi e i morti cosicché gli antenati si perpetuano nei discendenti, comportano anche un concetto di persona originale che rinvia sempre ad una eredità insieme cosmica e familiare. La testa, infatti, sede dell’intelligenza, ritorna nella famiglia, mentre il ritorno del principio vitale, o spirito, è libero. “La testa rimane per qualche tempo nel paese dei morti prima di tornare sulla terra, di modo che normalmente sono i nipoti ad essere considerati la reincarnazione del nonno o della nonna recentemente scomparsi”16. Al fondo di simile concezione vi è l’idea che il mondo dei morti e quello dei vivi siano in contatto continuo tra loro e che vi sia un passaggio e uno scambio continuo tra le due realtà. Tuttavia la nozione di persona non è un dato acquisito una volta per tutte: l’insieme dei destini, infatti, non sempre è completamente determinato dalla discendenza e dalla nascita: tra gli Jivaro, per esempio, un individuo adulto maschio può cumulare diverse anime e l’anima più importante, quella denominata 14 Pussetti, C., op. cit., p. 219. Augé, M., “Persona”, in Enciclopedia Einaudi, vol. 10°, Einaudi, Milano, 1980, p. 655. 16 Augé, M., op. cit., p. 656. 15 76 L’espressione obbligatoria dei sentimenti arutam, si acquisisce. Come sostiene molto efficacemente Augé, “la nozione di individuo è sempre sul punto di dissolversi per eccesso o per difetto di significato”17. L’identità si può perciò acquisire, conquistare o trasformare come nel caso di quelle che avvengono in seguito all’iniziazione o alle successive iniziazioni così come la successione del nome spesso si collega al concetto di reincarnazione, anche se solo parziale, degli individui. Per prima cosa, però, come sostengono i Mossi dell’Alto Volta, “bisogna parlare per vivere”: le parole sono la parte centrale del pensiero poiché senza parole non c’è pensiero. Per di più ogni parola richiede una risposta: la forma elementare della vita sociale è in realtà il dialogo. Il dramma della morte è proprio quello di non poter comunicare “tanto che in molte regioni il morto è denominato ‘colui che non ha più aria’ o ‘colui che ha terminato di parlare’18. Infatti il soliloquio, in tutte le culture provoca sconcerto e sgomento e viene sempre ricollegato a disturbi nel rapporto sociale, quali la follia o l’ubriachezza. Come le piante, anche le parole maturano e ciò è proprio dei saggi la cui parola, matura per eccellenza, può essere indirizzata verso le divinità ed è l’unica capace di proteggerci dalla morte o di provocarla, come nel caso degli stregoni. La parola è, secondo i Mochica dell’antico Messico “il segno più evidente dell’esistenza individuale e sociale della persona”19. E così, in molte regioni dell’Africa, il saggio, “colui che possiede la conoscenza, si esprime con misura, ponderazione, lentezza (ciò che i Dogon definiscono “la parola solida “)... L’uomo che sa tacere è l’essere sociale per eccellenza. Egli dà prova di pazienza, trattiene le parole quando è necessario e evita anche le liti. Un tale uomo è molto apprezzato nel villaggio ... 17 Augé, M., op. cit., p. 658. Calame-Griaule, G., “La parole et le discours”, in Poirier, J. (sous la dir.), Histoire des moeurs II vol. 1 Modes et modèles, Gallimard, Paris, 1991, pp. 39-40. 19 Calame-Griaule, G., op. cit., p. 41. 18 77 L’espressione obbligatoria dei sentimenti presso i Bambara, il silenzio è ancora più valorizzato della parola, perché è la prova del controllo di sé, del dominio del proprio sé; da ciò la sua importanza nell’iniziazione... Il proverbio francese “la parola è d’argento, il silenzio è d’oro” si ritrova in tuareg. Questo silenzio tuttavia, non deve arrivare sino all’assenza di comunicazione, perché “il mutismo è assimilato all’isolamento, o addirittura alla solitudine”... il silenzio di cui si parla è piuttosto fatto di ritegno e implica che si sappia ascoltare”20. Il linguaggio e dunque la parola sono la condizione necessaria per essere considerati uomini in qualunque società e per tale motivo hanno acquisito un valore sacro in tutte le culture. Nella tradizione europea, per esempio, quando si parla degli animali domestici spesso gli intervistati dicono: “sembra una persona, gli manca solo la parola”. Sempre presso i Dogon del Mali, l’uomo è stato creato senza parola: prima della nascita gli esseri umani sono dei ‘pesci’ e all’arrivo sulla terra conoscono una specie di ‘infanzia’ che consiste nell’esprimersi con gesti o versi inarticolati, di abitare in caverne e nutrirsi solo dei frutti della terra. Solo in seguito all’arrivo del dio Nommo, la civiltà comparve ed egli rivelò la parola e il linguaggio agli uomini21. Una delle domande costanti nelle diverse culture, quindi, è quella relativa all’origine della lingua, alla sua natura e alle sue funzioni. Per molte civiltà, all’origine del mondo vi è la Parola di una divinità che ‘nominando le cose’ ha dato loro realtà. La parola, quindi, ha una grande forza creatrice e perciò va usata con cautela e sobrietà. Così, la persona ideale, tra Bijagó come in molte altre popolazioni, è colei che ha “il dominio di sé, la sobrietà nell’espressione delle proprie emozioni, il controllo dei propri bisogni fisiologici. Il comportamento privo di pudore e ritegno, assolutamente dipendente dalle necessità fisiologiche dei bambini vie20 21 78 Calame-Griaule, G., op. cit., p. 45. Cfr. Calame-Griaule, G., op. cit., p. 21. L’espressione obbligatoria dei sentimenti ne associato in senso denigratorio a quello degli animali”22. La forma fisica in cui si esprime questo controllo è, appunto, la lentezza, la calma, la moderazione nella parola. Del resto, l’eccesso nella parola, non a caso parolaccia, è per esempio tollerato in molte società, ma il giudizio della comunità è comunque negativo per colui che non riesce a mantenere il controllo delle situazioni dimostrando collera. Ora, come osserva sempre Pussetti, il valore di un essere umano non risiede nell’individualismo, ma nel senso comunitario dell’esistenza. “La vera indipendenza, l’autonomia, non sono quindi il prodotto di una volontà privata, di un atteggiamento individualistico, ma il risultato della relazione con gli anziani: non diventa adultocompleto chi è solo, ma chi siede insieme agli altri. La dipendenza sociale che i ragazzi criticano è infatti il fondamento stesso del loro essere-nel-mondo e della loro personalità: essi devono infatti agli altri la loro vita, il loro nutrimento, la loro educazione e la crescita dei loro pensieri-sentimenti, che li renderà un giorno persone complete”23. Questo senso comunitario della vita nell’universo proprio della specie umana è dato da “un’invenzione umana, un patto segreto, un accordo, un ‘giuramento’ ... l’iniziazione viene infatti definita anche manras, ossia ‘il patto originario’, ‘il giuramento’”24. Così, per esempio, tra i Senufo dell’Alto Volta, l’iniziazione è un congegno molto complesso: presso i Kiembara e i Nafara essa è ripartita in tre fasi di una durata di sette anni ciascuna cosicché il ciclo si estende su ventuno anni. Si può comprendere dunque come le attività riguardanti l’iniziazione dirigano tutta la vita sociale della comunità e le numerose tappe o stadi intermedi dei rituali permettano solo nell’età adulta di arrivare alla vera e propria conoscenza delle leggi e conoscenze del gruppo. Essa è da intendersi 22 Pussetti, C., op. cit., p. 63. Pussetti, C., op. cit., pp. 82-83. 24 Ibidem 23 79 L’espressione obbligatoria dei sentimenti come una ‘università’ nella quale ogni membro riceve gradualmente un’istruzione completa il cui fine è quello di renderlo uomo a tutti gli effetti. “... l’uomo nasce nell’animalità e vi resterebbe se non ricevesse un’‘illuminazione’ data dal poro [iniziazione] che, rivelandogli il senso dell’universo, la natura e la concatenazione delle cose, gli rivela il suo carattere divino”25. La dignità, il rispetto, l’onore nascono quindi dagli antenati che hanno creato la legge e dagli anziani che la fondano nel villaggio. La dignità degli anziani, dunque, “non deriva esclusivamente dal fatto che sanno dirigere i loro pensieri-sentimenti in base a un principio morale che impone il dominio di sé per il bene della società, ma dipende soprattutto dal fatto che sono gli autori di questo principio morale. Senza gli anziani che la creano, proclamano, simboleggiano fisicamente, la legge sarebbe un’astrazione inesistente, priva di vigore e di efficacia”26. Essi sono, dunque, la rappresentazione fisica e sociale di un pensiero profondo e insieme di una necessità della vita in gruppo così che il rispetto verso l’autorità che gli anziani rappresentano in pieno ha un valore fondamentale, essendo quasi un indice di ‘umanità’. Inoltre la lentezza di cui parlano i Bijagó e che è propria degli anziani non è altro che una espressione corporea della necessità di non rispondere alla veemenza del sentimento. “Come l’ubriachezza, anche un eccesso di energia non controllato può travolgere una persona, lasciandola in balia della furia della tempesta e dell’impeto delle onde, disorientata, confusa, incapace di riconoscere e seguire la direzione, il senso e lo scopo indicati dagli anziani”27. Per chi non rispetta le regole, per colui che si pone fuori dalla comunità rimane perciò la vita propria di ogni essere vivente – animale, pianta, montagna, fiume ecc. – e 25 Holas, B., Les Senoufo (y compris les Minianka), L’Harmattan, Paris, 2006, p. 153. 26 Pussetti, C., op. cit., p. 83. 27 Pussetti, C., op. cit., p. 86. 80 L’espressione obbligatoria dei sentimenti non certo quella, speciale, con un destino specifico proprio della specie umana. La vita umana, si vuole sottolineare, è vita di relazione e non vita solitaria o in branco. Anche in Europa, come ripetono incessantemente nei loro studi storici e antropologi, nel Mediterraneo la scelta fondamentale è sempre stata nei millenni passati quella della vita insieme agli altri. “Dove vivere? Mai da soli, ma in gruppo, quali che siano le dimensioni e la ricchezza di quest’ultimo. Un migliaio di uomini che vivano poveramente del lavoro della terra e dello scambio dei suoi prodotti è sufficiente, nel Mediterraneo, a costituire una città, a ricrearne la solidarietà e le contrapposizioni fondamentali: altrove, anche due volte più numerosi, essi formerebbero a malapena un villaggio”28. Proprio per questo motivo, i pastori vengono considerati quasi una categoria di uomini al di fuori delle regole o della legge: La gente di pianura, agricoltori e arboricoltori, li vede passare con timore e ostilità. Per loro e per gli abitanti della città si tratta di barbari, quasi di selvaggi. Proprietari e commercianti astuti, che li attendono quando scendono a valle, sono d’accordo per imbrogliarli. Fa scandalo la sola idea che una bella ragazza possa innamorarsi di uno di loro, come in questa canzone: Tu ti pigghij nu picurare,/ Nenna mia, n’ha proprio boni:/ jetta nu pezzu de fiatuni,/ dint’a li piattu nun ce sa magnà./Nenna mia, muta pensiere,/muterai sorte e fortuna:/’nnanze pigghiate nu cafoni/ca è ommi de società./”29 Come osserva Braudel, quando sottolinea il sogno di coloro che vivono nelle masserie di stare nel paese perché si possono frequentare i caffè, il cinema e soprattutto gli altri esseri umani – in quanto la loro stessa presenza istruisce –, essere un uomo significa 28 Braudel, F. (a cura di), Il Mediterraneo lo spazio e la storiagli uomini e la tradizione, Bompiani, Milano, 1987, p. 126. 29 Braudel, F. (a cura di), op. cit., p. 24. 81 L’espressione obbligatoria dei sentimenti vivere tra gli uomini e non tra gli animali. E, a questo proposito, cita un bel brano di Rocco Scotellaro: “Quando sto così che guardo le bufale penso a tanti che vanno camminando alla spasso ... quelli che stanno assettati avanti al bar, si accattano l’aranciata, il caffè, tante cose, e quelli che vanno al cinema tutte le sere, loro possono ... e poi vorrei tante cose, come per esempio io vorrei più zappare, uccidermi di fatica e non guardare le bufale, mettere mano a faticare alle sette e alle cinque levar mano ed essere a libertà ... e la sera vorrei stare al paese: anche se uno non ci ha i soldi, pure che guarda nel paese già si spratichisce, si istruisce”. Il suo sogno, paradossale ai nostri occhi per un uomo che beneficia di un lavoro per tutto l’anno, mentre la regola è l’impiego temporaneo o la disoccupazione, è quello di diventare un semplice giornaliero: “lo zappatore, come vorrei fare io, quando è il sabato sera piglia la settimana di paga e la porta a casa... se avessi i soldi mi farei la casa” ... e “vorrei un po’ di terra per fare un orto”... Si tratta di sogni simbolici, e non di semplici rivendicazioni materiali. Una casa: l’indipendenza. Un orto: un posto da lavorare per sé, e non per un padrone, e un certo livello di autonomia... lavorare, certo: ma un lavoro che non dia alla terra e al padrone più tempo di quanto ne meritino, e lasci liberi di partecipare alla vita del gruppo. “Istruirsi”: non essere uno zotico, un “cafone”. E soprattutto, vivere tra gli uomini e non tra le bestie: è il solo modo di essere uomo e di sentirsi tale30. Come è stato già rilevato, l’onore e la dignità, cioè i sentimenti con i quali ciascuno può esprimere il suo ‘essere’ nel mondo – fondamentali in tutte le società in quanto espressione emozionale della preoccupazione fortissima per la salvaguardia dell’individuo e della comunità – forse possono essere considerati come i sentimenti centrali del controllo del sé. A questo proposito, possono essere molto utili, per esempio, gli studi di un grande sociologo, Erving Goffman, il quale ha analizzato in modo approfondito il sé con acute microanalisi sui comportamenti dell’individuo nelle società occidentali e così Bourdieu in uno studio sull’onore tra i Cabili veramente penetrante e illumi30 82 Braudel, F. (a cura di), op. cit., pp. 130-131. L’espressione obbligatoria dei sentimenti nante31. I concetti di dignità e onore, però, presuppongono in genere una marcata differenza tra la donna e l’uomo e molte sono le società nelle quali le distinzioni fondamentali non sono quelle relative alle classi sociali o alle etnie, ma quelle che si riferiscono alla categoria maschile/ femminile. In numerose culture, gli uomini maturi non possono manifestare liberamente qualunque sentimento in quanto essi sono l’espressione della comunità nel suo pieno vigore ed equilibrio, quella parte del gruppo che rappresenta simbolicamente, anche dal punto di vista corporeo, la Parola e quindi la Ragione, la Cultura. Alle donne, pura Natura, per dirla con Lévi-Strauss, spetta, proprio per questa loro caratteristica, il compito di mettere in scena le emozioni dei momenti collettivi fondamentali, come, per esempio, il matrimonio o in particolare la morte. Non solo, ma, visto che in ogni caso sarebbe contrario alla natura della specie umana impedire qualunque manifestazione di emozioni, gli uomini e le donne sono educati ad esternare emozioni specifiche al loro genere: i primi imparano a proiettare il loro corpo verso l’esterno, verso il gruppo cosicché devono esprimere sempre emozioni attive che dimostrino continuamente la loro abilità e che permettano loro di essere sempre in competizione. La bravata, così, permette all’uomo di mantenere l’onore e il prestigio sociale che riposa soprattutto sulla capacità di essere ‘uomo’. L’aggressività di molti comportamenti e le molteplici forme di aggressione verbale o gestuale di questi uomini, perciò, sembrano essere determinate soprattutto dalla continua paura di perdere l’onore e dunque la caratteristica di uomini di fronte agli altri. Come si può leggere in un articolo lucido e profondo sulle emozioni in rima presso un villaggio del sud del Portogallo, “la mascolinità deve essere costruita e affermata in continuazione, mentre la femminilità è considerata come stabile. Quando si è pic31 Per lo studio sui Cabili si veda Bourdieu, Pierre, Per una teoria della pratica con Tre studi di etnologia cabila, Cortina, Milano, 2003. 83 L’espressione obbligatoria dei sentimenti colo, non si è ‘uomo’ nel senso di ‘maschio’. Per arrivarci è necessario rompere l’intimità con la madre ... il servizio militare segna il completamento di questo processo, affermando attraverso l’irreggimentazione del corpo l’identificazione tra la categoria del ‘maschile’ e i valori del ‘militare’ e del ‘nazionale’”32. Questa condizione deve essere continuamente riaffermata poiché essa è sostanzialmente una relazione di dominio, di potere, quindi ‘culturale’, e non una situazione ‘naturale’ come quella femminile. La mascolinità è in sostanza continuamente in bilico anche perché il ‘valore’ è qualcosa che dà forma al sé, ma è anche e comunque qualcosa che è conferito dagli altri. Onore e famiglia sono le due parole-chiave per comprendere, per esempio, le società mediterranee, come viene ben analizzato anche in un breve saggio sulla Grecia egea: “onore è il sentimento che l’individuo ha del proprio valore, un sentimento profondamente ancorato in colui che è al suo ‘posto’. Ciascuno, uomo o donna, nasce in un luogo, una famiglia, una comunità, una nazione; da ciò, un primo segno: il nome. Con il tempo, si formano dei legami e si sviluppano, delle prospettive future cambiano, ma il sé rimane sempre parte integrante di un insieme sociale più vasto, determinato dalle cittadinanze che compongono la sua identità relazionale”33. Dunque, il sentimento dell’onore è l’emanazione affettiva della struttura sociale tanto è vero che “perdere il proprio posto equivale a perdere il proprio ‘valore’. La persona ‘fuori posto’, colui o colei che non si comporta secondo le esigenze del suo ‘posto’, perde il suo statuto morale ma, fatto ancora più rilevante, perde il sentimento intimo del proprio onore; uno spostamento effettivo è socialmente rivelatore di una grave colpa morale, di una colpa che tocca il sostrato emozionale dell’individuo: che rivela la sua incapacità di riconoscere il suo posto 32 Vale de Almeida, M., “Émotions rimées Poétique et politique des émotions dans un village du sud du Portugal”, TERRAIN, 22, mars 1994, p. 25. 33 Papataxiarchis, E., op. cit., p. 7. 84 L’espressione obbligatoria dei sentimenti e di agire di conseguenza. Ma il senso che si ha del proprio posto è anche funzione del sesso; uomini e donne provano in maniera diversa il sentimento di timi [onore]. Degli uomini, si dice che sono ‘per natura’ dotati di andrismos (di ‘virilità’): un carattere forte, coraggioso, nobile che li autorizza a possedere dei beni, ad avere dei ruoli (a rappresentare), a difendere i doveri di vassallaggio, a governare un sé territorializzato. Le donne, essendo ‘per natura’ la parte debole dell’umanità, ritengono nel tessuto della loro identità sociale qualcosa della loro vulnerabilità natia. Per proteggersi e per proteggere coloro che dipendono da loro, bisogna dar prova di ritegno e voltarsi verso l’interno, provare e manifestare della ‘vergogna’... Se, per l’uomo, la nozione di posto si identifica con l’affermazione del suo diritto al primo posto, per la donna, essa suggerisce il ritiro nella sfera del privato”34. Quindi i due sentimenti collegati ad una visione così precisa del mondo sembrano essere per l’uomo, l’audacia e la baldanza, e per la donna, la vergogna. I modi in cui viene reso operante il controllo delle emozioni nelle società sono naturalmente molto numerosi: un esempio tra i tanti, lo possiamo leggere in un classico di un grande antropologo, Malinowski, che in questo modo descrive una scena luttuosa nelle isole Trobriand Scegliamo come esempio la morte di un uomo dovuta all’età ormai avanzata, che lascia una vedova, parecchi figli e fratelli. A partire dal momento della sua morte, la distinzione fra i suoi parenti veri, ovvero quelli matrilineari, da una parte, e i suoi figli, parenti acquisiti e amici dall’altra, assume una forma precisa e persino visibile dall’esterno. I parenti del defunto cadono sotto un tabù: devono stare lontani dal cadavere... Inoltre i parenti non possono esibire alcun segno esteriore di lutto nel loro abbigliamento o nei loro ornamenti, anche se è lecito che mostrino il loro dolore e vi diano sfogo piangendo. Qui, il concetto che sta alla base di questa consuetudine è che i parenti materni sono colpiti nella loro stessa persona; che ognuno di loro soffre perché 34 Papataxiarchis, E., op. cit., pp. 8-9. 85 L’espressione obbligatoria dei sentimenti tutto il sottoclan al quale appartengono è stato minato dalla perdita di uno dei suoi membri. “Come se fosse stato tagliato un membro della propria persona, o un ramo da un albero”. Ma anche se non devono nascondere il proprio dolore, non possono però ostentarlo. Questa astensione da qualsiasi dimostrazione pubblica del lutto si estende non solo ai membri del sottoclan oltre che ai veri parenti, ma a tutti i membri del clan al quale apparteneva il defunto. D’altra parte il tabù che impedisce di toccare il cadavere vale in primo luogo per i membri del sottoclan e in particolare per i parenti veri per i quali evidentemente la tentazione di toccare il cadavere, come espressione d’affetto, è più forte che per gli altri. Molto diversa è invece la concezione degli indigeni riguardo al rapporto tra la vedova, i figli e i parenti acquisiti e il defunto e il suo cadavere. Secondo il codice morale questi devono soffrire e sentirsi privati della persona amata. Ma sentendosi privati della persona amata non soffrono direttamente, non sono afflitti per una perdita che colpisce il loro sottoclan e dunque la loro stessa persona. Il loro dolore non è spontaneo come quello dei parenti materni, ma è piuttosto un dovere quasi artificiale derivante dagli obblighi acquisiti. Per questo essi devono ostentatamente esprimere il loro cordoglio, dimostrarlo, e portarne su di sé i segni esteriori. Se non lo facessero, offenderebbero i membri ancora in vita del sottoclan del defunto. Tutto questo dà luogo a una situazione interessante e a uno stranissimo spettacolo: poche ore dopo la morte di una persona importante il villaggio si riempie di persone con la testa rasata, il corpo tutto unto con uno spesso strato di fuliggine, che urlano come demoni disperati. Sono le persone che non fanno parte dei parenti del defunto, coloro che non sono effettivamente colpiti dal lutto. Poi, in contrasto con queste, se ne vedono altre vestite come al solito, esteriormente calme, che si comportano come se non fosse successo nulla. Queste appartengono al sottoclan e al clan del defunto, e sono i veri dolenti... Quando la morte sta per sopraggiungere, la moglie e i figli, i congiurati e i parenti acquisiti si affollano attorno al letto, riempiendo completamente la capanna. Il momento della morte viene accolto con un frenetico scoppio di pianto. La vedova, che generalmente sta in piedi vicino al capo dell’uomo morente, emette il primo grido acuto, al quale rispondono immediatamente le altre donne fino a quando in tutto il vil- 86 L’espressione obbligatoria dei sentimenti laggio risuona la strana armonia del melodioso lamento funebre35. La strategia del controllo è qui molto chiara: i parenti stretti, che potrebbero perdere il controllo, sono tenuti a nascondere il dolore, mentre coloro che sicuramente non potranno subire conseguenze dalla negatività della situazione, sono tenuti a manifestare il dolore in maniera plateale, a ‘metterlo in scena’, dunque ad esprimere l’intensità e la profondità della perdita. Mauss aveva appunto sottolineato questo aspetto importante quando aveva scritto che non sono le parentele di fatto, cioè quelle prossime, ma quelle di diritto, e spesso i semplici congiunti imparentati, a guidare le manifestazioni del lutto, a dimostrazione proprio dell’obbligatorietà dell’espressione dei sentimenti. Un altro esempio, sempre piuttosto noto, potrebbe riguardare le società indonesiane e comunque quelle comprese nell’area del Sud-est asiatico e del Pacifico: gli studi antropologici hanno messo in rilievo sin dall’inizio l’assenza di un’espressione diretta dei sentimenti nel comportamento quotidiano delle popolazioni esaminate. Vorrei ricordare, a mo’ d’esempio, gli studi su Bali di Margaret Mead, la quale rileva l’equilibrio e la compostezza nella postura, in qualunque gesto o atteggiamento del Balinese. Sull’educazione dei bambini poi ella osserva che ai piccoli non viene mai permesso di litigare, né di bisticciare anche semplicemente per i giocattoli o tanto meno di picchiare o essere picchiati. Negli anni trascorsi in un villaggio balinese, la Mead infatti dichiara di non aver mai visto litigare bambini o ragazzi. Per Geertz questa posa nasce dalla “paura del palcoscenico” e comunque per tutti gli studiosi essa è il frutto di 35 I corsivi sono miei. Malinowski, B., La vita sessuale dei selvaggi nella Melanesia nord-occidentale Resoconto etnografico sul corteggiamento, sul matrimonio e sulla vita familiare fra gli indigeni delle Isole Trobriand, nella Nuova Guinea Britannica, Feltrinelli, Milano, 1968, pp. 148151. 87 L’espressione obbligatoria dei sentimenti un duro e costante lavoro sull’emozione determinato da una concezione del mondo riguardante la moralità e la salute molto specifica. L’imperturbabilità delle persone e delle espressioni dei loro volti nasce dall’idea secondo la quale i turbamenti provocano uno squilibrio corporeo e quindi favoriscono l’insorgere di una malattia. Come sostiene un indigeno toradja dell’Indonesia, “uno sempre arrabbiato, non ci piace uno così. Perché una persona del genere non fa altro che dire cose cattive così che anche noi finiamo per diventare infastiditi e arrabbiati... uno irascibile è uno che butta (tutto) fuori (uno che esprime la sua rabbia), ma uno paziente e tollerante è uno che la tiene per sé ... se tu reagisci alla rabbia di qualcun altro (diventando a tua volta arrabbiato) non va bene ... se la si butta sempre fuori (la rabbia), ci sono sempre difficoltà. È meglio rimanere pazienti/ tolleranti”36. Presso i Toradja, dunque, i regimi emozionali fondamentali sono due e opposti l’uno all’altro: il primo, quello della rabbia, cioè dell’eccesso, della mancanza di controllo, l’altro, quello della pazienza, proprio di chi non si lascia coinvolgere dal punto di vista emozionale e mantiene il controllo di se stesso. Una volta per esempio, durante il periodo che trascorsi sul campo, cadendo da un motorino mi graffiai un ginocchio. La ferita seppur leggera si infettò rapidamente e divenne dolorosa. Poiché in pochi giorni mi salì la febbre e l’infezione mi fece gonfiare le ghiandole della parte sinistra del corpo, cominciai a preoccuparmi. Ero sorpresa che una ferita tanto piccola potesse farmi stare così male. Non c’era nessun ospedale o dottore nel villaggio e mi sentivo troppo male per andare a Makale a cercarne uno. Quando una mattina mi svegliai e scoprii che l’infezione era ulteriormente peggiorata, cominciai a piangere sommessamente. Una donna allora mi rimproverò con delicatezza dicendomi che sarei dovuta essere ‘sa’bara’ [paziente]. Poiché in quel mo36 Donzelli, A., Hollan, D., “La disciplina delle emozioni tra introspezione e performance: pratiche e discorsi del controllo a Toraja (Indonesia)”, in Antropologia, n. 6, a. 5, 2005, p. 49. 88 L’espressione obbligatoria dei sentimenti mento non stavo facendo nulla che potesse sembrare impaziente e nervoso, non riuscii a comprendere completamente l’invito della donna a essere ‘paziente’. Il suggerimento, tuttavia, non era un invito a essere ‘calma’, ma piuttosto un ammonimento a non esternare le mie emozioni, a sopportare il dolore senza lamentarmi37. Così in un’altra situazione Un giorno mi svegliai e venni a sapere ... che una delle figlie del nostro vicino era improvvisamente morta durante la notte... la donna che mi riferì dell’accaduto mi chiese se volessi andare con lei a casa ... quel pomeriggio dove si sarebbe tenuta una piccola cerimonia islamica prima di procedere alla sepoltura del cadavere della bambina. Quando arrivammo fummo invitati a prendere posto nella stanza più grande della casa dove si erano già radunate molte persone provenienti dal villaggio e dai dintorni. Ci vennero offerti caffè e biscotti mentre i familiari ultimavano i preparativi della salma per il funerale... mentre stavo seduta nella sala insieme agli altri abitanti del villaggio, al cospetto dell’improvvisa morte di una giovane ragazza, la tristezza e la compassione presero il sopravvento e si trasformarono in lacrime irrefrenabili. La vista degli altri che stavano tranquillamente seduti senza emettere un solo sospiro rese ancora più acuto il mio dolore e cominciai a piangere ancora più forte. Ero l’unica a piangere in un gruppo di almeno cinquanta persone. Dopo che l’imam insieme a un gruppo di rappresentanti religiosi locali ebbero recitato alcune preghiere islamiche, i partecipanti lasciarono la casa mentre un gruppo di membri della famiglia si diresse con il piccolo cadavere al luogo della sepoltura. Fu soltanto quando me e me ne stavo tornando a casa insieme agli altri che udii dei lamenti disperati provenire dalla casa che ci stavamo lasciando alle spalle. Quando tornai al villaggio nel 2004 appresi che i genitori della bambina si erano spostati in un’altra casa. Nonostante la compostezza che, ai miei occhi, avevano dimostrato al funerale della figlia, quando ci rincontrammo dopo più di un anno dalla sua scomparsa, la madre mi disse immediatamente che avevano deciso di lasciare la vecchia casa perché dopo la sua morte “l’atmosfera era troppo triste e svuotata” e perché lei si sentiva troppo 37 Donzelli, A., Hollan, D., op. cit., pp. 49-50. 89 L’espressione obbligatoria dei sentimenti “stordita” e “confusa/ disorientata”, al punto che non potevano più sopportare di vivere là”38. L’utilizzo di termini come “confusa” e “stordita” non è casuale, ma allude alle credenze locali sulla consapevolezza continua necessaria nelle azioni, sul distacco dagli eventi e sull’importante concezione dell’energia vitale che ricorda quella orientale dei centri di energia corporei detti chakra. Bisogna, infatti, essere sempre all’erta, sempre attento, lucido e “consapevole delle implicazioni delle proprie azioni. Ma quando uno è emozionalmente eccitato o turbato ... egli diventa confuso e stordito e quindi perde ... la consapevolezza delle proprie azioni”39 e a lui può succedere qualunque cosa anche molto spiacevole o pericolosa. Inoltre la pazienza e la calma non servono solamente a dominare le proprie emozioni: l’effetto negativo prodotto dal turbamento emotivo, infatti, si riflette anche sugli altri e può provocare danni a persone e cose poiché l’energia circola liberamente e non conosce barriere. 38 39 90 Donzelli, A., Hollan, D., op. cit., pp. 50-51. Donzelli, A., Hollan, D., op. cit., p. 55. “Almeno le mie lacrime la terranno legata a me”: la perdita del controllo e l’eccesso dei sentimenti Gli studi di Lévi-Strauss hanno indicato oramai con grande chiarezza l’importanza che ogni cultura attribuisce all’equilibrio e alla ‘giusta distanza’ come scelta fondamentale della vita sociale. Come rileva il grande antropologo, “alle due prospettive, che potrebbero entrambe sedurre la sua immaginazione, di un’estate o di un inverno eterni, ma che sarebbero, l’una licenziosa sino alla corruzione, l’altro puro sino alla sterilità, l’uomo deve risolversi a preferire l’equilibrio e la periodicità del ritmo stagionale. Nell’ordine naturale, quest’ ultimo risponde alla stessa funzione cui, sul piano sociale, soddisfa lo scambio delle donne nel matrimonio e lo scambio delle parole nella conversazione, purché l’uno e l’altra siano praticati con la franca intenzione di comunicare; cioè, senza astuzie né perversità e, soprattutto, senza secondi fini”1. Il buon uso della comunicazione, dunque, è preoccupazione essenziale di ogni gruppo giacché, senza una corretta comunicazione, nessuna società è possibile. La comunicazione è una forma di socialità, anzi è socialità pura e semplice, in quanto opposta all’ostilità e alla guerra2. A questo proposito LéviStrauss illustra, in altri scritti, l’importanza dell’oblio o della dimenticanza nel pensiero mitico di molte popolazioni e sostiene che l’oblio formerebbe un sistema assieme al malinteso, l’indiscrezione e la nostalgia: 1 Lévi-Strauss, C., Antropologia strutturale due, il Saggiatore, Milano, 1990, p. 59. 2 Cfr. Lévi-Strauss, C., L’uomo nudo Mitologica 4, il Saggiatore, Milano, 1974, p. 652. 91 L’espressione obbligatoria dei sentimenti ... che cosa vi è di comune e che cosa vi è di diverso tra la dimenticanza, il malinteso e l’indiscrezione? ... Definiamo l’indiscrezione, consistente nel rivelare a qualcuno qualcosa che non gli si sarebbe dovuto dire, un eccesso di comunicazione con l’altro. Ne risulta che il malinteso, consistente nel comprendere in ciò che qualcuno ha detto un’altra cosa rispetto a quella che egli ha voluto dire, può essere definito un difetto di comunicazione anch’esso con l’altro. Vediamo allora quale posto è da attribuire all’oblio in questo sistema: esso consiste in un difetto di comunicazione, non più con l’altro, ma con se stesso. Infatti, dimenticare significa non dire a se stessi ciò che avremmo dovuto poterci dire3. Il motivo dell’oblio nei miti greci, per esempio, serve a fondare delle prescrizioni rituali, dei divieti, come quelli di pronunciare dei nomi di persone o di divinità in luoghi speciali o di entrare in determinati luoghi sacri o ancora a istituire dei rituali. In realtà, la funzione specifica e quindi la più rilevante della pratica rituale è senza dubbio quella di “preservare la continuità del vissuto. Infatti, proprio questa continuità è quella che viene rotta dall’oblio nell’ordine mentale: lo riconosciamo ogni volta che parliamo di “vuoti di memoria”. E sovente, in America e altrove, i miti stessi lo riconoscono, al loro modo, quando fanno derivare l’oblio da un passo falso: l’eroe perde la memoria quando barcolla, perché ha messo il piede in una depressione del terreno che è una discontinuità d’ordine fisico”4. In queste forme simboliche, dunque, viene espressa una preoccupazione essenziale per ogni gruppo, cioè la perdita di memoria di sé, della società cui si appartiene e delle regole a cui ciascuno deve sottostare. Allo stesso modo, nelle gesta di Asdiwal, un mito indigeno della costa canadese del Pacifico, l’eroe muore a causa della “nostalgia provata sia per la terra sia per il mare, dunque per non aver saputo realizzare un equilibrio tra i due elementi”5. La nostalgia, quindi, può essere definita come un eccesso di co3 Lévi-Strauss, C., op. cit., 1990, pp. 231-232. Lévi-Strauss, C., op. cit., 1984, p. 231. 5 Lévi-Strauss, C., op. cit., 1990, p. 230. 4 92 L’espressione obbligatoria dei sentimenti municazione con se stesso. Trattandosi naturalmente di una mancanza di equilibrio, cioè di un elemento insufficiente o sovrabbondante, esso può essere espresso solo dai membri della comunità ancora non maturi, da stranieri, emarginati o individui in condizioni economico-sociali di inferiorità, come in questo racconto che riguarda i Toradja dell’Indonesia Quando ritornai sul campo dopo più di un anno di assenza passato a scrivere la mia tesi, rimasi colpita da un commento che mi venne fatto diverse volte quando rincontrai alcuni dei miei amici. Durante le visite che feci alle famiglie a cui ero più affezionata, notai che gli adulti generalmente attribuivano ai bambini sentimenti di nostalgia nei miei confronti. Trovavo strano sentire il mio amico Daud dire che Kalambe’(il suo bambino di due anni che era un infante quando lo avevo conosciuto) aveva sempre chiesto di me durante la mia assenza. Il mio vicino di casa... mi disse la prima volta che ci rincontrammo: “Songgo (il figlio di otto anni di suo fratello) continuava a chiedermi: “quando tornerà Aurora?” Nura mi rimproverò bonariamente dicendo: “Iutten (il suo figlio più piccolo) chiedeva sempre: “perché Aurora non ci ha mai mandato una cartolina per il Lebaran’ (la fine del periodo di Ramadan)?” Mi resi conto che questi commenti costituivano un modo abbastanza comune di rendere l’idea del “ci sei mancata” o del “ci chiedevamo quando saresti tornata”, frasi che invece nessuno mi ha mai detto... le persone di rango inferiore o i bambini sono in qualche modo incaricati di un’espressione vicaria delle emozioni di nostalgia6. Insomma, gli studi antropologici insegnano che l’eccesso danneggia non solo l’individuo, ma la società e quindi deve essere trattato con estrema cautela. Uno dei modi adottati è quello di inserire in categorie sociali speciali le persone che non riescono a risolvere o comunque a ‘controllare’ i loro sentimenti: la follia è, infatti, sempre in agguato e con ciò i rischi di disgregazione sociale. Gli stregoni o i guaritori-divinatori, per esempio, in molte culture sono ritenute persone che ‘non si sanno dominare’, “possedute da pensieri – 6 Donzelli A., Hollan, D., op. cit., pp. 57-58. 93 L’espressione obbligatoria dei sentimenti sentimenti che non controllano, i quali secondo i casi possono essere gelosia, invidia, rancori o ambizioni divoranti, appetiti incontrollabili, sete di potere, desiderio eccessivo di denaro, profitto e successo. Sono le persone che hanno perso di vista la direzione indicata dagli anziani, costituendo una minaccia per il benessere del gruppo o addirittura per la loro famiglia”7. Un altro modo di trattare l’eccesso è quello di contrapporlo ad un eccesso opposto, ricreando con ciò un nuovo equilibrio e riducendo al minimo i rischi di conflitto sociale o di pericolo come in questo caso: “il trattamento del cadavere di un suicida sarà lasciato alle donne che sono in quel momento in stato di possessione, in quanto ... “non c’è alcun pericolo se il contatto avviene tra iarebok”[anime, spiriti vitali]8. In questo caso, il suicidio è proprio di chi non ha saputo controllarsi, non ‘ha resistito sotto le cose’, quindi di un debole: a questo deficit di vitalità deve corrispondere perciò un eccesso di energia, come nel caso di una donna posseduta da uno spirito. Un altro esempio di eccesso socialmente previsto riguarda una istituzione particolare relativa ai linguaggi d´etichetta, cioè la cosiddetta parentela per scherzo. Ad un eccesso di riserbo e di vergogna nei confronti di parenti stretti – quali la suocera, i fratelli o le sorelle – spesso espresso, per esempio, in forma di tabu di evitazione (non si può guardare, parlare ecc. con il parente oggetto di tabu) si risponde con un eccesso opposto, cioè l’insulto, l’angheria, la sfacciataggine obbligatoria nei confronti di un altro gruppo di parenti: “al dovere senza limiti e senza contropartita, possono esserci diritti senza limiti e, in certi casi, anche senza reciprocità”9. Sono numerose, infatti, le popolazioni nelle quali alle parentele implicanti il rispetto si contrappongono quelle implicanti lo scherzo, le 7 Pussetti, C., op. cit., p. 122. Pussetti, C., op. cit., p. 153. 9 Mauss, M., “Parentele implicanti lo scherzo”, in Granet, M., Mauss, M., Il linguaggio dei sentimenti, Adelphi, Milano, 1975, p. 84. 8 94 L’espressione obbligatoria dei sentimenti cosiddette parentele per scherzo. Mauss, studiando queste usanze, cita il saggio di Radin sui Winnebago, una tribu Sioux tra i quali “un uomo è estremamente riservato e educato con tutta la gente della propria parentela e del proprio gruppo imparentato. Invece, non smette di prendersi gioco di parenti e congiunti quali: figli di sorelle di padri, di fratelli di madri, ... fratelli di madri, cognate e cognati. “Egli lo fa [scherza] ogni volta che ne ha l’occasione, senza che l’altro possa offendersi”... la loro ragion d’essere può consistere nel fatto “che permettevano di allentare quella “etichetta costante che impediva rapporti disinvolti e senza disagio con tutti i parenti prossimi”10. Inoltre, questa usanza serve a minimizzare stati d’animo che possono presentare dei pericoli stabilendo “un ritmo che fa sì che si succedano senza pericolo stati d’animo opposti. Il ritegno, nella vita corrente, cerca una contropartita e la trova nell’indecenza e nella grossolanità. Noi stessi abbiamo ancora dei mutamenti d’umore di questo genere: soldati che abbandonano la posizione comandata; studenti che si sparpagliano nel cortile dei licei; signori che si rilassano nel fumoir dopo le cortesie troppo a lungo prodigate alle signore”11. Infine, questo sistema presenta senza dubbio una rilevante utilità sociale nell’eliminazione di eventuali rivalità tra parenti stretti, quali i suoceri o i generi e le nuore, o nell’eliminazione di eventuali rischi di incesto, per esempio tra fratelli. Il controllo, come elemento fondante dell’umanità e per questo tenacemente cercato in ogni società, è però sempre estremamente fragile: la malattia, la morte, il dolore, la sofferenza sono contraddizioni insanabili dell’esistenza. L’eccesso, pur inevitabile, comporta, però, uno stato di disequilibrio tra le componenti del corpo e quindi è sicuramente fonte di malattie che possono portare anche alla morte. Come giustamente nota Pussetti, le emozioni che più facil10 11 Mauss, M., op. cit., 1975, p. 87. Mauss, M., op. cit., 1975, pp. 90-91. 95 L’espressione obbligatoria dei sentimenti mente agiscono in maniera molto pericolosa sono la paura, il desiderio, il dolore per la perdita di un essere caro e l’angoscia di colui che pensa di essere vittima di un maleficio. Per questo, in molte società è considerato estremamente pericoloso essere individualisti e ribelli e non orientare secondo uno scopo socialmente utile le proprie emozioni poiché un eccesso di sentimenti “può travolgere una persona, lasciandola in balia della furia della tempesta e dell’impeto delle onde, disorientata, confusa, incapace di riconoscere e seguire la direzione, il senso dello scopo indicati dagli anziani”12. Qualunque malattia, infatti, nasce dalla perdita di equilibrio dei propri sentimenti e dalla frattura del legame tra le varie componenti del corpo e dello spirito. Questa convinzione che la forza vitale possa essere perduta nelle situazioni di sconvolgimento emotivo o catturata dagli stregoni i quali vogliono assorbirne l’energia è diffusa in molti contesti etnografici. In questo racconto riguardante i Toradja, si spiega molto efficacemente questa concezione Una volta ... ero seduta sul sedile anteriore di ... una specie di taxi collettivo con la mia amica Nura con cui stavo andando a fare compere al mercato ... la macchina, come al solito, si fermava spesso lungo la strada per permettere ai passeggeri di scendere dove volevano e per farne salire altri... durante una di queste fermate lungo la strada scoscesa e a quel tempo non ancora asfaltata che scendeva dalla montagna con strette curve, il guidatore scese per prendere qualche cosa da una casa nelle vicinanze, dimenticando di tirare il freno a mano. La macchina cominciò quindi a muoversi verso il ciglio della strada che dava su uno strapiombo. Trasalii. Non urlai, ma trasalii, tirando un profondo e udibile sospiro. Fortunatamente, un uomo che sedeva vicino al volante ebbe la prontezza di tirare il freno impedendo così che la macchina precipitasse nel dirupo. Con mia grande sorpresa, Nura, che mi sedeva accanto, mi rimproverò severamente per la mia reazione di paura e per avere dimostrato mancanza di controllo. Per molti giorni dopo l’incidente 12 96 Pussetti, C., op. cit., p. 86. L’espressione obbligatoria dei sentimenti continuò a sgridarmi per avere trasalito con tanta facilità. Io allora protestai che i suoi rimproveri erano troppo severi poiché dopo tutto avevo solo sospirato per la paura. Ma Nura continuava a insistere che si trattava di una cosa grave. Fu così che capii che la mia amica stava alludendo a una credenza locale secondo cui gli spaventi improvvisi possono seriamente nuocere alla salute. Secondo l’opinione di Nura, trascurando di mantenere vigilanza su me stessa, avevo corso seri rischi. Non sapevo che trasalire per uno spavento (kaget) era pericoloso? Come appresi poi ... è importante evitare spaventi improvvisi, per quanto piccoli essi possano essere13. E ancora questa donna ormai anziana della Guinea Bissau esprime con parole chiarissime la fragilità della vita e la difficoltà di riuscire a risanare le sofferenze della condizione umana Io già avevo dimenticato gli altri quattro morti da bambini, perché lei faceva tutto. Proprio tutto, aggiustava le cose, cucinava, era rispettosa, non sbagliava in niente. Si chiamava Kanimisia. È di lei che canto e della malattia ... che mi ha causato Kanimisia, la figlia che ho perduto. Gli altri sono morti così piccoli, non hanno avuto importanza, non facevano niente, non sapevano niente. Ma per le sofferenze causate da Kanimisia ho perso il controllo ... tutto il mio dolore-malattia è per Kanimisia. Se tu perdi un figlio piccolo, non ha importanza, ne partorirai un altro. Ma se perdi un figlio grande perdi tutto, e perdi il controllo... io non volevo lasciarla andare, ho puntato i piedi per la morte di mia figlia, e così ho perso il controllo e sono rimasta con questo dolore incollato al corpo. Se indosso un abito, quando penso a mia figlia l’abito stringe il mio corpo. E mi soffoca, tutto ciò che indosso si strappa, per la forza del mio dolore che esce dal mio corpo... la sorella di mio marito ... mi dice di limitare le mie lacrime, di smettere di piangere, perché se non smetterò di piangere mia figlia mi ammalerò. Ma io non voglio smettere di piangere, perché perdendo mia figlia sono rimasta senza niente. Se fosse stata una bambina piccola, allora non l’avrei pianta perché sarebbe ritornata presto. Ma era una 13 Donzelli, A., Hollan, D., op. cit., pp. 52-53. 97 L’espressione obbligatoria dei sentimenti figlia grande, che cosa mi resta ora? Almeno le mie lacrime la terranno legata a me14. Questo attaccamento, però, non può che risultare nocivo e autodistruttivo, così Pussetti nota che “i dolori permangono e ritornano per mantenere vivo e straziante il ricordo di ciò che non può essere dimenticato. Più questi sintomi diventano intensi, gravi e minacciosi, consumando le loro energie, più le due donne vengono spinte ai margini dell’umanità (non camminano, non parlano, non capiscono, non mangiano, non dormono). Se nessuno intervenisse a salvarle, il peso dei loro pensieri-sentimenti le trascinerebbe in un baratro”15. Anche sentimenti che sicuramente hanno un valore positivo per la società, come l’amore, devono essere vissuti con equilibrio e seguendo la norma fondamentale della ‘giusta distanza’. Un’eventuale sovrabbondanza di tali sensazioni è vista, quindi, con timore e giudicata negativamente, come in questa riflessione di Lanternari sull’amore Un caso illustrato da Nicole Echard, è dato dal criterio col quale gli Hausa dell’Ader [Niger] valutano la ‘passione d’amore’. Se nel nostro linguaggio la dizione ‘folle passione’, ‘follia d’amore’ riveste un significato candidamente convenzionale e al più ironico, gli Hausa vedono, nella ‘passione’, una manifestazione di vera follia, contrassegnata da valenza negativa in senso per nulla affatto convenzionale, bensì istituzionale. La ‘passione d’amore’ è da loro socialmente misconosciuta e condannata come base e movente di legami matrimoniali. Si riconosce in essa una ovvia forma con la quale si esprime una nuova relazione amorosa fra uomo e donna; ma si esclude che possa essere assunta come fondamento di un rapporto socialmente valido e cioè di un legame matrimoniale. Certo, per gli Hausa la ‘follia d’amore’ può coinvolgere uomini e donne in rapporti erotici, ma tali rapporti restano privi di valore sociale. Inoltre la stessa ‘follia d’amore’ caratterizza un diverso livello di rapporti, cioè quello che si instaura nella religione Bori, fra un 14 15 98 Pussetti, C., op. cit., pp. 183-184. Pussetti, C., op. cit., pp. 142-143. L’espressione obbligatoria dei sentimenti genio o spirito sovrannaturale e l’individuo-uomo o donnasu cui lo spirito incombe e che esso attacca. Infatti la credenza sita alla base del culto Bori è che lo spirito in certo modo si ‘innamori’ follemente di un individuo, e che perciò vuole conquistarlo, lo perseguita selvaggiamente per farsene un ‘amante’. Lo spirito sovrannaturale identificantesi con un essere del bosco – dunque selvaggio – attacca infatti il soggetto del quale si innamora, spinto da desiderio incontenibile, da folle passione... Una volta regolata, secondo la norma del culto, la relazione con lo spirito suo persecutoreamante, quest’ ultimo perderà la sua natura selvaggia. Così la persona ‘attaccata’, per innanzi soggetta a crisi psichiche sconvolgenti e incontrollabili, troverà nella partecipazione al culto l’occasione rituale di risolvere in modi controllati, anzi carichi di alto valore simbolico e sociale, la sua attitudine a manifestazioni psichiche di carattere sovra-ordinario. Si dirà, allora, che il seguace del culto è ‘cavalcato’ dallo spirito che lo possiede. Come si vede, in questa cultura è importante il fatto che una violenta esplosione di passione d’amore, sia nei rapporti interindividuali, sia nei rapporti fra persone e spiriti sovrannaturali, si configuri come ‘pazzia’, e richieda terapie adeguate per superarla... il colpo di fulmine, tipico di una repentina passione amorosa fra giovani, non può essere assunto a motivo e base di un matrimonio. L’assunto è socialmente ‘illecito’... Come in numerosi contesti di società a livello tecnologico, il matrimonio funge da alleanza fra gruppi familiari o lignaggi, e deve fondarsi su condizioni di equilibrio intergruppo16. Presso molte popolazioni, come i Pomak della Tracia, la gelosia è pur sempre un eccesso rispetto all’immagine della persona ideale, che, invece, deve essere generosa e può nascere anche per motivi esterni, quali la penuria, l’invidia di beni materiali o la malattia. Insomma l’eccesso si compensa con un altro eccesso, come appunto la povertà, la cattiva salute o la mancanza di felicità. Anche in queste comunità, la potenza dello sguardo può provocare il malocchio sempre se associata alla privazione della gioia. Infatti a 16 Lanternari, Vittorio, Medicina, Magia, Religione. Dalla cultura popolare alle società tradizionali, Libreria Internazionale Esedra, Roma, 1987, p. 115-116. 99 L’espressione obbligatoria dei sentimenti provocare il malocchio vi sono i malati, gli ‘strani’, i molto credenti, le vedove e le persone che non sorridono facilmente. Nella montagna pistoiese” ... Rina intravedeva la causa del malocchio (soprattutto di quello che colpisce i bambini) non solo nell’invidia ma anche nel troppo amore. Come è possibile che l’amore porti malocchio? Allora Rina, per farmi capire, ha sottolineato la parola ‘troppo’. È la ‘sproporzione’ del sentimento, è il ‘troppo’ che può generare un malessere nell’altro; anche involontariamente una madre può ‘ammaldocchiare’ suo figlio”17. Allo stesso modo, nella Persia orientale si dice che “l’occhio amoroso è più pericoloso del malocchio. Questa considerazione mette in guardia, per esempio, dai pericoli dell’occhiata adorante di una madre... sono incline a interpretare tutto questo come un’estensione del concetto di malocchio. Chi è fuori della comunità invidia, chi è dentro adora. Entrambi gli atteggiamenti sono forme di attenzione indebita”, quindi di eccessi di rapporto e di comunicazione18. Anche l’esuberanza o l’esaltazione sono forme esagerate di espressione della felicità o della vitalità che vanno tenute a bada così come l’eccesso di lacrime nel caso di una morte di un neonato farebbe “per un verso ‘morire di dolore’ la madre, per l’altro impedirebbe al bambino-spirito di compiere un’altra volta il percorso tra i due mondi, rendendogli la strada difficile al punto che potrebbe perdere la direzione”19. In questo caso, qualunque manifestazione di dolore verrà senz’altro condannata perché valutata come inopportuna. Nella tradizione antropologica europea, per esempio, sussiste la credenza nella sopravvivenza temporanea del defunto durante un breve periodo 17 Cecconi, A., L’acqua della paura Il sistema di protezione magico di Piteglio e della montagna pistoiese, B. Mondadori, Milano, 2003, p. 68. 18 Spooner, B., “Il malocchio in Medio Oriente”, in Douglas, M. (a cura di), La stregoneria Confessioni e accuse nell’analisi di storici e antropologi, Einaudi, Torino, 1980, p. 382. 19 Pussetti, C., op. cit., p. 156. 100 L’espressione obbligatoria dei sentimenti immediatamente dopo il decesso: “il cadavere ... vede ed ode, soffre e partecipa sino alla sepoltura, ma non può parlare... gira per la casa e osserva le reazioni e il lutto dei superstiti. Per questi motivi ricerca la pace e disdegna gli eccessi di pianto”20. Spesso, le pratiche rituali del lutto possono presentare elementi che appaiono eccessivi e di difficile comprensione, come appunto nel caso della veglia del cadavere, cioè di quell’istituto culturale, “soprattutto popolare, attraverso il quale familiari, parenti ed amici, secondo forme rituali spesso rigorose, sono tenuti ad assistere il defunto dal momento del decesso al momento del trasporto dalla casa al cimitero”21. Si pensi alla nota tradizione irlandese della veglia funebre che tante critiche e commenti negativi ha suscitato soprattutto da parte del clero cattolico a causa degli eccessi nell’uso di bevande alcoliche e per i comportamenti licenziosi o i divertimenti esagerati. Tuttavia questi eccessi di cibo, di bevande, di vitalità che si traducono, per esempio, nei giochi sfrenati o nello stare svegli per tre giorni vegliando il cadavere ininterrottamente soprattutto durante la notte, cioè nel non chiudere ‘occhio’ come il morto, diventano forme simboliche importanti perché solo una sovrabbondanza di vitalità può aiutare ad allontanare la morte che, al contrario, è sovrabbondanza di inattività. Come sottolinea Sorlin, “ci si diverte e si ride parecchio, di quelle risate che assordino colui che veglia, vicino alla morte sorda. Di questa morte ci si burla, la si prende in giro, le si fanno subire mille tormenti, ci si fa beffe ... Questi giochi, che hanno la loro ragion d’essere in un contesto rituale, talvolta termineranno molto male, conducendo al punto ultimo di saturazione, in un ambiente 20 Di Nola, A.M., La nera signora Antropologia della morte, Newton & Compton, Roma, 1995, p. 202. 21 Di Nola, A.M., La morte trionfata Antropologia del lutto, Newton & Compton, Roma, 1995, pp. 237-238. 101 L’espressione obbligatoria dei sentimenti di follia organizzata che deve regnare nel corso della veglia”22. L’elaborazione normale del lutto, però, subisce delle forti variazioni quando ci si trova di fronte ad una morte violenta, non ‘naturale’, cioè di fronte ad una malamorte. Nelle società etnologiche europee, per esempio, muore di malamorte colui o colei che compie atti contrari alla coesione sociale o che si pone, sempre a causa dei suoi atti, al di fuori della società. In questo caso la sua morte provocherà paura e smarrimento23. Anche in molti paesi asiatici, la malamorte è il risultato di una violenza, come l’uccisione, il suicidio o una malattia sospetta24. Questa interruzione brutale di un’esistenza prima della sua scadenza naturale fa sì che si crei una rimanenza di vita non vissuta la quale induce lo spirito di quell’essere all’erranza. Nelle società in cui è presente il culto degli antenati, questo essere è posto fuori del sistema genealogico perché non può diventare un antenato e non può essere oggetto delle pratiche ritualizzate. Queste anime sono dunque bloccate, non possono avere pace o reincarnarsi, e neppure scomparire. Esse sono come “sospese”. Inoltre, non avendo diritto alla nascita in un nuovo stato, esse possono appropriarsi provvisoriamente del corpo di un vivo per ‘agire’ in lui. Ora, colui che muore in modo violento, dunque ‘eccessivo’, è proprio per questo un ‘cattivo nato’, un ‘nato male’ perché ha ereditato sicuramente un karma negativo che porta avanti oltre la morte. I buoni morti, invece, sono gli antenati, cioè coloro che hanno accettato serenamente la vita sociale con le sue regole e sono rimasti legati alla parentela, quindi sono i ‘morti senza viso’. 22 Sorlin, E., Cris de vie cris de mort Les Fées du destin dans les pays celtiques, Academia Scientiarum Finnica, Helsinki, 1991, p. 141. 23 Cfr. Di Nola, A.M., La morte trionfata, cit., pp. 237-238. 24 Cfr. Baptandier, B., “Introduction De la malemort en quelques pays d’Asie”, in Baptandier, B. (sous la dir.), De la malemort en quelques pays d’Asie, KARTHALA, Paris, 2001, p. 10 sgg. 102 L’espressione obbligatoria dei sentimenti Qualunque società, però, ha bisogno di lasciare liberi gli individui di dare sfogo ad emozioni forti e così prevede periodicamente dei periodi in cui certe esigenze possano essere espresse senza prevedere punizioni o ritorsioni. Gli unici eccessi previsti, obbligatori, ma anche strettamente codificati e ritualizzati, sono inseriti nei tempi considerati ‘straordinari’, cioè festivi. I più noti sono quelli che riguardano il Carnevale, ciclo dell’anno connesso con le attività agricole e con le stagioni denominato propriamente dagli etnologi come ciclo della fine dell’inverno o di Carnevale appunto. Come sostengono gli storici, il carnevale, periodo in cui si esaltano il corpo, il riso e la gozzoviglia, è un’innovazione della città medievale e nasce circa nel XII secolo in contrapposizione alla quaresima. Allo stesso modo, in Europa nascono, sempre in ambiente urbano, a partire dal XIII secolo, le feste dei folli con le relative sfilate del giorno di Capodanno25. Ora, una delle caratteristiche degli eccessi di rilevanza sociale è quella di essere manifestazione obbligatoria, alla quale nessuno si può sottrarre. Sull’obbligatorietà della risata e dello scherzo, e sulla frenesia gioiosa del carnevale, Toschi scrive pagine acute e in questo modo riflette: “anche se questa frenesia gioiosa può avere la funzione psicologica, etica e sociale di un momentaneo allentamento nei vincoli di una rigida morale, e di sfogo a un represso oscuro fondo di istinti e di passioni, il suo carattere fondamentale è invece puramente e sacralmente propiziatorio. I riti, nei quali viene a configurarsi e ad atteggiarsi questo principio magico, sono dunque ispirati al tripudio... Con un linguaggio un po’ paradossale si potrebbe dire così: mentre nei teatri di oggi è la commedia che provoca il riso degli spettatori, qui invece è il riso degli spettatori che produce la commedia. E, prolungando il paradosso, si può aggiungere che se la commedia non facesse ridere ... andrebbero 25 Schmitt, J.-C., Medioevo “superstizioso”, Laterza, Bari, 2004, p. 143 sgg. 103 L’espressione obbligatoria dei sentimenti male i raccolti, ci sarebbe il pericolo di una cattiva annata. Così, lo scherzo, la satira, la burla sono d’obbligo: e tanto più gli scherzi sono arditi e sguaiati, le satire pungenti, e le burle atroci, tanto più riescono a far ridere la collettività e tanto più hanno valore. Perciò “per Carnevale ogni scherzo vale”; ognuno ha il diritto di fare lo scherzo e il dovere di subirlo”26. Altri periodi in cui si può constatare, per esempio, un’eccezionale sfrenatezza sessuale, anche se ritualizzata, sono quelli in rapporto con i riti di passaggio, come nel caso di molte popolazioni australiane che chiudono i riti di pubertà femminile con cerimoniali di carattere sessuale27. In uno studio noto, Evans-Pritchard riflette sulle espressioni collettive e quindi rituali di ‘oscenità’ in Africa, cioè sulle espressioni di carattere erotico che nella vita quotidiana non vengono ammesse, anzi costituiscono un vero e proprio tabu, ma che hanno molta importanza, anzi sono persino obbligatorie in alcune particolari situazioni. Secondo le analisi di questo antropologo, le cerimonie in cui l’oscenità è ammessa sono di due gruppi: 1) cerimonie di iniziazione; cerimonie funebri; feste in onore delle anime degli antenati di rilievo; cerimonie per ottenere la pioggia; cerimonia per la protezione dei raccolti dagli insetti nocivi; furto fatto al fratello della madre; società segrete; cerimonie relative ai gemelli; matrimonio e malattie dei bambini; cerimonie per proteggere i raccolti; danza della semina. Il secondo gruppo è quello che riguarda i lavori difficili e di lunga durata eseguiti insieme, come quelli relativi alla costruzione di una nuova abitazione, alla semina, alla fonditura, alla pesca, al trasporto dei tetti delle capanne, al falciare e trasportare l’erba e così via. Come rileva Evans-Pritchard: “tutte queste cerimonie costituisco26 Toschi, P., Le origini del teatro italiano, Boringhieri, Torino, 1976, pp. 9-10. 27 A questo proposito, si può vedere, per citare un solo esempio, il libro di Lanternari V., La grande Festa, Dedalo, Bari, 1976, p. 512. 104 L’espressione obbligatoria dei sentimenti no altrettante occasioni di stress emotivo, e sono gravide di pericoli sia per l’individuo che le sperimenta che per la società in genere. Tutte le emozioni che si sono accumulate, l’ira, la paura, il dispiacere, il dolore, raggiungono un punto tale d’intensità che un’attività si rende in qualche modo necessaria; d’altra parte, se tale attività non fosse imbrigliata entro canali inoffensivi, finirebbe per dimostrarsi fatale all’individuo e distruttiva per la società. È appunto in tali occasioni che la società ammette o addirittura prescrive azioni che ordinariamente proibirebbe e punirebbe... l’oscenità fa parte di un gran numero di usanze, che hanno tutte la stessa funzione sociale, quella di canalizzare in forme di dispendio inoffensivo le tensioni emotive altamente pericolose per l’individuo e distruttive per la società”28. Nello stesso tempo, l’oscenità collettiva e obbligatoria dà forte rilievo al valore sociale dell’attività ad essa connessa. Infatti la sospensione da parte della società dei normali divieti viene attuata in due occasioni importanti nella vita di una comunità, quali le cerimonie religiose e le attività economiche eseguite in comune. Anche un saggio di Di Nola su un rituale della tradizione meridionale, quello dell’incanata, che prevede un comportamento piuttosto licenzioso e aggressivo collegato soprattutto alle due attività rurali della vendemmia e della mietitura, mette in evidenza gli stessi elementi simbolici studiati da Evans-Pritchard29. Insomma, come si è potuto notare, gli eccessi individuali vengono considerati sempre in modo negativo, mentre quelli socialmente controllati hanno sempre rilevanza e forte utilità sociale. 28 Evans-Pritchard, E.E., La donna nelle società primitive e altri saggi di antropologia sociale, Laterza, Bari, 1973, pp. 92-93. 29 Cfr. Di Nola, A.M., L’arco di rovo Impotenza e aggressività in due rituali del sud, Boringhieri, Torino, 1983. 105 La trasformazione dei sentimenti in comportamenti e istituzioni La parola è il mezzo verbale con il quale si entra in relazione con le persone o le cose, perciò essa è sempre segno di umanità. L’assenza della parola, quindi, è una caratteristica di colui che non è inserito a pieno titolo nella comunità, come il demente, il muto o anche il neonato che, anonimo, non sa che vagire. Per tale motivo, dare e ricevere un nome significa poter parlare di un essere semplicemente denominandolo e quindi togliendolo dal pericoloso silenzio relativo alla sua persona a cui lo avrebbe costretto l’anonimato iniziale. “Creare significa porre dei limiti ad un pensiero, cioè ‘dargli un nome’”1. In mancanza del nome, infatti, la comunicazione di qualunque cosa sarebbe impensabile e quindi socialmente inesistente. Come dicono gli orientali, nel momento in cui vi è una forma è pronto il nome: per questo motivo nell’Egitto classico esso viene considerato il più sottile e il più immateriale tra i principi che compongono l’individuo ed anche il più segreto e quello che determina l’esistenza dell’individuo. Esso è il modo in cui noi possiamo rappresentarci in maniera concreta una forma visibile e quindi la pronuncia del nome costituiva già nei più importanti testi liturgici egizi l’elemento fondamentale di qualunque operazione che dovesse mettere in moto ‘l’Invisibile’. Dare un nome, così, significa anche determinare il destino di una persona, come racconta questa donna bijagó quando ero bambina ... una sera, al crepuscolo, quando mia sorella era piccola e la mamma l’allattava ancora, siamo an1 Servier, J., “Histoire de la pensée symbolique”, in Poirier Jean (sous la dir.), Histoire des moeurs II vol. 2 Modes et Modèles, Gallimard, Paris, 1991, p. 1108. 107 L’espressione obbligatoria dei sentimenti dati al pozzo ... mi ricordo che era quasi tramontato il sole; all’improvviso comparve di fronte a mia mamma un’ombra, scivolata giù dal grande albero come un pitone. Ricordo un volto trasparente, dai tratti delicati, ma allora non capii, perché non sapevo nulla. L’ombra le girava intorno, alzando un gran vento e impedendole il cammino. Mia mamma mi prese la mano e mi mise dietro di lei per proteggermi con il suo corpo. Io non capivo bene cosa stava succedendo, ma sapevo che lei era spaventata. Quella cosa continua a volare intorno a mia mamma, due, tre, quattro volte; sembrava non vedere nemmeno me e mia sorella. Mia madre all’inizio era come paralizzata, ma poi si fece forza e riuscì a portarci in salvo al villaggio, dove l’ombra non poteva entrare. Da quel momento però mia madre divenne sempre più debole e malata: non riusciva più a camminare, non poteva uscire, stava solamente sdraiata, fino al giorno in cui è morta. È morta e io non ho capito cosa le era successo, nemmeno me ne sono accorta. Dormivo contro la sua schiena e pensavo dormisse... mi sono svegliata e le ho parlato, lei non rispondeva, credevo dormisse e sono rimasta in silenzio. Dopo alcuni minuti è entrata una zia di mia madre, che veniva a salutare e a vedere come stava. Ricordo ancora le sue grida e i lamenti delle donne: ... povera, povera bambina! Provo pena per te ..., tua madre è morta. Io ascoltavo, ma non capivo l’importanza... Koká, ‘poverina’ quello è rimasto il mio nome ed è anche il mio castigo. Da allora tutto ciò che mi è capitato è legato al mio nome e la gente mi vede per strada e dice ‘Koká’ chiamando il mio nome. Stai attenta a come chiamerai tuo figlio, perché scegliendone il nome deciderai il suo destino2. Bisogna, infatti, tenere sempre presente che non esiste propriamente un destino individuale, giacché esso è il frutto di molti elementi di ordine sociale, quali l’acquisizione di un vincolo di parentela, di una relazione di alleanza, il raggiungimento di una condizione sociale o l’appartenenza ad una classe d’età e così via. Tutto nell’esistenza ha un significato: “è in quanto nipote, figlio, membro della stessa classe d’età, marito, padre o zio, che un individuo (secondo l’opinione del gruppo o che si forma egli stesso) può 2 108 Pussetti, C., op. cit., pp. 112-113. L’espressione obbligatoria dei sentimenti essere colpito nel fisico, nell’equilibrio psichico o nella vita; al contrario, il progredire dell’individuo nella vita, la sua resistenza alle prove, il benessere o la sventura dei congiunti sono ogni giorno di più la testimonianza di una forza che non si potrebbe qualificare rigorosamente se non dopo molto tempo, dopo aver prodotto i suoi effetti. Nessun vincolo sociale si tesse impunemente. Nessuna malattia si affronta innocentemente. La longevità, come la sventura e la morte, non è mai priva di significato”3. Del resto, l’io esiste solo quando riconosce l’altro, sia quello esterno a sé sia quello interno poiché pensare alla persona significa sempre pensarla in relazione con un altro. Così, se noi non possiamo scegliere di essere soli, a prezzo, altrimenti, di rinunce essenziali, ma solo di essere ‘noi’ – quindi una comunità – il nostro destino è segnato dalla società nella quale siamo nati e l’iniziazione definisce il nostro destino sociale e la nostra trasformazione da esseri viventi in esseri umani. Pertanto il rifiuto dell’iniziazione da parte di un componente della comunità è sempre indice di alterazione dell’ordine e dell’equilibrio nelle relazioni sociali. Così tra i Bijagó, la storia di Abas è molto indicativa: il suo atteggiamento negativo nei confronti dell’iniziazione si collega a segni di squilibrio mentale sempre più gravi così che nel villaggio si sostiene che: “Abas va senza destino. La gente dice che non ha fatto le cerimonie (non sta bene ...), egli è passato in un luogo sacro, ma non si è fermato”... dopo essere fuggito in foresta ... verrà trovato morto dopo tre giorni”4. Allora, in quale modo le parole possono agire e fare agire persone o gruppi o, come sosteneva Marx, come le idee, impadronendosi delle masse, possono diventare o meno delle forze materiali? Uno dei modi è sicuramente quello della creazione di un’istituzione corrispondente tanto è vero che una parola che non crea una sua istituzione è destinata a scomparire, 3 4 Augé, M., op. cit., p. 666. Pussetti, C., op. cit., pp. 91-92. 109 L’espressione obbligatoria dei sentimenti spazzata via da altre nel corso del tempo. Debray cita l’esempio del simbolo monetario. “Esso non si accredita da solo. Un biglietto non ha valore di per sé. Anch’esso è come una parola, leggera, soffice, maneggevole. Materialmente adatto a passare di mano in mano, come l’altra di bocca in bocca, per circolare veramente ha bisogno di essere garantito da un punto fisso, un apparato di potere pesante, una potenza organizzata, suscettibile all’occorrenza di punire (sino alla reclusione a vita) i falsificatori, ossia, al di là di una banca centrale, di uno Stato o un gruppo di Stati... Curiosamente, qui, il leggero fa sparire il pesante. La parola si presenta a noi senza la sua infrastruttura ... Questa è la regola: il sostegno è ciò che si vede meno e che conta di più ... la parola, mobile, ci nasconde l’istituzione, motrice”5. Le emozioni, come si è già potuto osservare, sono componenti attive della struttura sociale, vere e proprie strategie che servono a favorire l’armonia sociale o a rafforzare e indebolire differenze di status o di sesso. Ogni società ha i ‘suoi’ sentimenti, nel senso che ogni comunità elabora le emozioni che vanno considerate socialmente appropriate e quelle ritenute pericolose. Così, a partire dal concetto che si ha del proprio essere nel mondo, cioè del modo migliore di porsi sulla Terra, ogni gruppo elabora la propria idea di dignità e onore, e crea istituzioni che le controllino, come il pettegolezzo, e figure appropriate attraverso le quali tenere a bada i sistemi emozionali, quali il vicino, lo psicologo, la polizia, il tribunale ecc. Sappiamo, infatti, che il giudizio altrui opera come prevenzione molto efficace contro i tentativi di sfuggire alle norme del gruppo. I sentimenti sono manifestazioni di partecipazione alla vita del gruppo, oltre che strumento di coesione e quindi l’assenza di emozioni viene vissuta dalla comunità come un’offesa. La società esercita in ogni 5 Debray R., “Le mot et son institution”, Ethnologie française, XXIX, 4, 1999, pp. 579-580. 110 L’espressione obbligatoria dei sentimenti momento una forte pressione perché i sentimenti degli individui siano sempre in armonia con la situazione e quindi provare indifferenza denota disinteresse e rifiuto del gruppo6. Già Durkheim aveva spiegato con parole molto efficaci che “una famiglia che tollera che uno dei suoi possa morire senza essere pianto testimonia di mancanza di unità morale e di coesione: essa abdica; rinuncia ad essere. Da parte sua, l’individuo, quando è fortemente attaccato alla società di cui fa parte, si sente moralmente tenuto a partecipare alle sue tristezze e gioie; disinteressarsene significherebbe rompere i legami che lo uniscono alla collettività”7. Infatti il lutto, come osserva acutamente Durkheim, non è semplicemente un avvenimento che riguarda la sensibilità strettamente individuale, ma è “un dovere imposto dal gruppo. Ci si lamenta, non semplicemente perché si è tristi, ma perché ci si deve lamentare. Si tratta di un’attitudine rituale che si è obbligati ad adottare per rispetto all’uso, ma che è in larga misura indipendente dallo stato affettivo degli individui”8. La stessa estrema convenzionalità o obbligatorietà dell’espressione del lamento potrebbe sembrare semplice recita mentre è semplicemente l’espressione di adesione al gruppo e anche una strategia molto efficace di contenimento di emozioni molto intense. Dunque, se l’esibizione dei sentimenti è ritenuta necessaria, l’assenza di emozioni, però, è considerata come moralmente inaccettabile quando l’emozione diventa una delle forme in cui la società esprime la propria ‘umanità’. Solo in questo caso, essa viene sanzionata giacché, come nota Paperman, “se un atto che ci pare coraggioso, lascia un altro indifferente, ciò 6 Cfr. Paperman, P., “L’absence d’émotion comme offense”, in Paperman P. et Ruwen O. (sous la dir.), La couleur des pensées Sentiments, émotions, intentions, EHESS, Paris, 1995, p. 177 sgg. 7 Durkheim, É., Les formes élémentaires de la vie religieuse, Alcan, Paris, 1912, p. 571. 8 Le Breton, D., op. cit., p. 105. 111 L’espressione obbligatoria dei sentimenti significa che egli non condivide le ragioni che inducono a pensarlo come coraggioso e quindi c’è un disaccordo, una divergenza morale. Riconoscere una divergenza morale, però, non significa riconoscere una incapacità morale che poi va sanzionata”9. Non provare emozioni, per esempio, per un omicidio eseguito, un atto di stupro o di violenza verso un handicappato denota forte distacco dai principi fondamentali della nostra società e quindi la riprovazione non è più sufficiente. Pertanto, la sanzione deve essere considerata come una cristallizzazione di un’emozione e le sanzioni hanno sempre carattere emozionale sia quando sono organizzate socialmente attraverso corpi definiti e costituiti sia quando sono regolate da ciascun individuo o da tutti in modo indifferenziato. Dunque, la vera ed essenziale funzione delle reazioni passionali, come sostiene Durkheim, è quella di mantenere intatta la coesione sociale. Il sentimento fondamentale con il quale noi esprimiamo naturalmente il legame sociale è l’affetto, forma emozionale di attaccamento al gruppo e l’affetto di cui parliamo è quello che noi manifestiamo per tutti coloro che appartengono al nostro gruppo e in particolare per coloro che fanno parte della nostra famiglia. Si pensi, per esempio, ai sistemi di parentela delle società del Mar Mediterraneo e in particolare agli abitanti dell’isola greca di Karphatos nell’Egeo tra i quali vige un sistema di parentela basato sui primogeniti e i cadetti e su linee di discendenza maschili e femminili nettamente separate. Il primo nato, infatti, eredita l’intero patrimonio paterno e la prima nata quello materno cosicché tutti gli altri figli maschi in genere erano costretti all’emigrazione mentre le altre donne spesso rimanevano nubili e continuavano a vivere in famiglia come lavoratrici agricole o come donne di casa per la coppia dei primogeniti. In questi casi, per ciò che riguarda l’investimento affettivo, esso natu9 112 Paperman, P. op. cit., p. 190. L’espressione obbligatoria dei sentimenti ralmente privilegiava in modo assoluto la famiglia dei primogeniti, quindi la famiglia di appartenenza. Del resto, come rileva Vernier, “lo studio degli scambi affettivi deve sempre essere articolato su quello degli scambi economici e simbolici e su quello dei rapporti di forza intra-familiari”10. In questi gruppi, lo stesso nome di battesimo ha già un suo valore nell’elaborazione di un sentimento di affinità tanto che l’autore parla quasi di ‘feticismo’ del nome. Nelle relazioni amorose, per esempio, i giovani ci tengono a sottolineare alle loro amate di avere lo stesso nome del padre o della madre della ragazza. O ancora un adolescente racconta che la sua vicina lo adora semplicemente perché ha il nome di un figlio marinaio. In queste società, dunque, si tende ad avere una naturale simpatia per i parenti che hanno il nome di un altro parente particolarmente amato. Insomma, qualunque società pretende moltissimo dall’individuo, impone sacrifici veramente notevoli, però, la grande forza della comunità, della parentela, del vicinato e comunque dei rapporti sociali stretti è quella di creare un sistema di protezione estremamente efficace e concreto, e non solo nei momenti di pericolo. Infatti, la solitudine è la minaccia peggiore per chiunque poiché essa è sentita come molto vicina alla morte, anzi come sottolinea Pussetti, essa è “la peggiore e più miserabile condizione possibile ... la morte dei propri familiari ha come tragico esito proprio la perdita di ogni supporto economico e affettivo: specialmente per le persone anziane, ... questa situazione si traduce in un totale isolamento sociale”11. Non a caso, le sofferenze più profonde sono quelle che si collegano a rotture sociali, come appunto sostiene sempre Pussetti: “Il dolore che lascia il segno, che “si incolla al corpo”, è quello causato da perdite che spezzano i legami sociali rilevanti”12. In alcuni 10 Vernier, B., La gènese sociale des sentiments Aînés et cadets dans l’île grecque de Karpathos, EHESS, Paris, 1991, p. 16. 11 Pussetti, C., op. cit., p. 209. 12 Pussetti, C., op. cit., p. 161. 113 L’espressione obbligatoria dei sentimenti canti bijagó viene rappresentata questa condizione con parole commoventi: “io vado da solo a casa, chi mi riceverà? / Guardate come sono sfortunato;/ già non ho più nessuno e/ ogni anno piango qualcuno./ I tamburi sacri del villaggio/ guardate cosa hanno mandato per me:/ i tamburi sacri del villaggio mi hanno fatto rimanere nella veranda da solo;/ nessuno parla più con me nella veranda./ I tamburi sacri, primo segnale di un lutto al villaggio, vengono utilizzati come metafore della morte stessa ... la veranda, luogo privilegiato di riunione della famiglia, di incontri, visite e chiacchiere, è ora silenziosa, muta”13. A questo proposito, basti pensare all’importanza presso numerose culture dei rituali che riguardano la veglia funebre e di tutti i comportamenti del vicinato e della famiglia durante il periodo del lutto in quanto essi sono un esempio molto interessante di come la comunità possa sostenere in maniera profonda l’individuo e la famiglia nei momenti più difficili. Inoltre il lavoro della cultura nasce dal tentativo di trasformare tutto ciò che è doloroso o pericoloso in ‘discorso’ possibile. Come precisa Pussetti riguardo al lamento funebre, esso “non è soltanto indice di un sentimento di perdita, ma suggerisce un desiderio di socialità, di unione, di supporto sociale all’individuo ferito”14. I lamenti, i canti, le danze, le poesie e qualunque forma di espressione artistica o letteraria diventano, così, una maniera di comunicare e partecipare emozioni comuni. In questo senso, si può affermare che i sentimenti sono delle pratiche discorsive attraverso le quali è possibile esprimere ciò che i codici sociali altrimenti non autorizzerebbero. E sempre per questi motivi, in molte società coloro che sono stati colpiti da un grave lutto evitano di parlare in pubblico di questo argomento. Come osserva molto bene Pussetti, “di fronte a perdite personali, gli individui in genere esprimono ostilità, rabbia, 13 14 114 Pussetti, C., op. cit., p. 209. Pussetti, C., op. cit., p. 171. L’espressione obbligatoria dei sentimenti sospetto, piuttosto che dolore, oppure semplicemente non parlano di ciò che provano, rispondendo alla morte come a un affronto o a un attacco personale piuttosto che come a una tragedia. Al contempo, il dolore è considerato il pensiero-sentimento più rappresentativo, al punto che l’espressione che generalmente viene utilizzata per indicare quello che noi definiremmo ‘coinvolgimento emotivo’ è ... ‘soffrire nel cuore’”15. Certo, il dolore rappresenta in tutte le società il sentimento che più è stato oggetto di riflessioni e forse quello che più ha determinato stili di vita e comportamenti sociali. Pensiamo, per esempio, di trovarci di fronte ad adulti che di fronte alla sofferenza di un bambino o di un parente adulto reagiscano con serenità e compostezza, con il silenzio o quasi con indifferenza, e comunque senza il senso di dramma che circonda il dolore nelle nostre società. Cosa penseremmo di tutto ciò e come valuteremmo la situazione? E, ancora oltre, cosa in realtà noi stiamo ‘vedendo’ di queste persone? Nelle società occidentali, gli individui hanno una paura terribile della sofferenza e cercano in tutti i modi di eliminare questo aspetto dalla vita quotidiana. Non così avviene in altre società nelle quali, invece, il dolore va sperimentato e vissuto intensamente poiché, come sostiene un africano, chi non conosce la sofferenza è un uomo a metà: “Attraverso il dolore, i ragazzi della montagna imparano a dare senso alla loro vita. Può un uomo, dicono gli anziani, vivere senza affrontare in modo cosciente e consapevole il dolore fisico o morale? Nella nostra terra chi non ha conosciuto il dolore è un uomo incompleto perché vive con il senso di colpa e l’umiliazione di essere diventato vecchio senza mai essere stato adulto”16. Nelle filosofie orientali, questa posizione riguardante il dolore viene teorizzata in 15 Pussetti, C., op. cit., p. 137. Kpan Teagbeu S., Il condottiero, EMI, Bologna, 2003, p. 115. 16 115 L’espressione obbligatoria dei sentimenti modo forte quando si sostiene che la via della felicità non può essere raggiunta finché non si entra in contatto con la sofferenza, e non se ne comprende la natura. Il dolore, sia fisico sia morale, è una realtà dell’esistenza di tutti gli esseri che vivono nell’universo ed è errato negarlo. Da questa constatazione, come sappiamo, ha avuto origine la meditazione del Buddha e l’analisi delle quattro Nobili Verità, fondamento di tutto l’insegnamento buddhista: 1) la vita è sofferenza; 2) la comprensione delle radici o cause della sofferenza; 3) la possibilità di liberazione dalla sofferenza; 4) i mezzi e i modi per raggiungere la liberazione dalla sofferenza. Il lavorio dello spirito, lo studio, la conoscenza e la meditazione servono appunto a trasformare la sofferenza in felicità poiché dalla sofferenza si può e si deve imparare se si vuole migliorare la propria vita e non si vuole rimanerne imprigionati quando la si vede solo come elemento negativo. Si tenga presente che il dolore è inevitabile, in quanto sensazione corporea, mentre la sofferenza è uno stato della mente: dunque il dolore e la sofferenza sono due cose diverse e possono essere trattate ed avere ciascuno la propria risposta, ma tutte e due costituiscono delle occasioni di liberazione. La maggior parte degli esseri umani spende molte delle sue energie a inventare dei mezzi per aumentare il piacere e diminuire il dolore mentre le teorie orientali e le concezioni di vita delle popolazioni etnologiche ci suggeriscono di investire una parte del nostro tempo e delle nostre energie a fare fronte ai dispiaceri poiché un certo grado di dolore è inevitabile e quindi l’unico modo di trattare la sofferenza è quello di essere sempre pronti ad affrontarne le conseguenze. Se osserviamo in profondità, vedremmo che la felicità non può esistere se non si accompagna a quella che chiamiamo sofferenza, proprio come non ci sono rifiuti e scarti organici che non possano trasformarsi in fiore né fiori che non si trasformino in rifiuti. Solo se si accetta e si comprende la natura della sofferenza, si può coltivare la comprensione e la felicità, mentre colui 116 L’espressione obbligatoria dei sentimenti che non riflette e che non cerca di conoscere in profondità la vita dell’uomo non può imparare e rimarrà intrappolato nel dolore. Il buddhismo ci insegna, come del resto tutte le religioni, che sempre la sofferenza può essere trasformata in felicità, e anche la morte può diventare occasione generatrice di speranza in un mondo migliore, come in questa magnifica riflessione di Manfredi Borsellino: “Sono orgoglioso e onorato di aver avuto un padre simile e spero che altri figli possano dire la stessa cosa dei loro padri”. Il ricordo in questo caso diventa fonte energetica continua, carica spirituale positiva, oasi fresca e ricca di acqua nei momenti di scoraggiamento, di paura, di sconforto. Ecco come la morte può essere trasformata in elemento positivo, quindi in speranza, memoria, ricordo, rispetto per gli anziani, e di conseguenza in pratiche relative ai morti o culto degli antenati, quindi sentimenti collegati ad istituzioni precise capaci di legare in modo forte ed efficace un gruppo. I sentimenti di gioia e di vitalità, invece, sono espressi soprattutto nella creazione dei tempi festivi, non ordinari e quindi nell’invenzione di festività o periodi di divertimento, anch’esse strutturate molto rigidamente e secondo sequenze rituali e comportamenti precisi e già stabiliti. Per fare solo un esempio, l’opera eccellente di Toschi sulle origini del teatro italiano offre a questo proposito un’analisi chiarissima e molto lucida del modo in cui in Europa si sono lentamente organizzate le grandi feste che noi oramai riteniamo tradizionali, quali il Capodanno, il Carnevale, la Pasqua e ne mette in rilievo i significati profondi di eliminazione del male, rinnovamento e propiziazione. La più importante fra queste feste è stata per noi il Carnevale: in essa “centro propulsore del tripudio, che dà anima e carattere a tutta la festa, è il principio magico secondo il quale l’intensa manifestazione della gioia da parte di tutta la comunità, provoca e assicura il prospero svolgersi degli avvenimenti, 117 L’espressione obbligatoria dei sentimenti l’abbondanza dei prodotti, il maggiore benessere per il nuovo anno che sorge”17. Ed ecco come alcune emozioni, elaborate e controllate socialmente secondo le scelte culturali del gruppo, diventano comportamenti e istituzioni sociali. La paura C’era una volta Corbezzi un paese arroccato sopra una montagna. Qui vivevano un fratello e una sorella. Si chiamavano Giovannino e Ninetta, erano orfani e abitavano da soli in una grande casa, appena fuori dal paese. D’inverno a Corbezzi faceva molto freddo e la strada che raggiungeva il paese era spesso interrotta dalla neve, si restava isolati anche per giorni interi. Giovannino faceva il falegname e ogni sera, appena ritornava a casa dal lavoro, scendeva in cantina a prendere la legna per accendere il fuoco. Una sera che era particolarmente stanco chiese alla sorella di andare in cantina a prendere la legna, ma non aveva fatto ancora tre scalini che la ragazza gridò “ho pauraaaa...” Paura? Che cosa diavolo significa? Dato che non aveva mai avuto paura di nulla, Giovannino non conosceva il significato di questa parola. La stessa cosa accadde la sera dopo e stavolta Giovannino disse alla sorella “se lo dirai un’altra volta, giuro che me ne vado”. La sera dopo chiese alla sorella di andare in cantina, e la ragazza dopo due scalini non riuscì a trattenersi e gridò ancora “ho pauraaaa ...”. “Hai paura? Bene, domani partirò”. E infatti il mattino dopo si svegliò, preparò il suo fagotto, se lo mise in spalla e se ne andò per la sua strada: voleva scoprire cosa fosse la paura. Giovannino cominciò a girare per il mondo in cerca di questa cosa chiamata paura. In un paese della Calabria scoprì che alla gente veniva “l’assustu”, in Sicilia incontrò chi aveva lo “spantu”, arrivò persino sulle Ande dove c’era chi provava il “susto”. Riempì il suo sacco di tanti racconti, di modi diversi di chiamare la paura, ma restavano soltanto parole parlate, parole guscio che non riusciva a succhiare. Cos’è questa cosa che gli uomini chiamano paura? Dove si trova? Viaggiò in lungo e in largo ma la paura non la riusciva a trovare. Una mattina 17 118 Toschi, P., op. cit., p. 9. L’espressione obbligatoria dei sentimenti d’aprile quasi senza accorgersene si ritrovò a Corbezzi, davanti alla porta della sua casa. Non sapeva quanto tempo era stato via, tutto sembrava rimasto uguale, ogni oggetto era al solito posto. Cominciò a guardarsi intorno e sarebbe stato senz’altro travolto da una folata gelida di ricordi se non fosse arrivata prima una stanchezza lunga come tutto il viaggio che aveva fatto. Non fece in tempo ad appoggiare a terra lo zaino pieno di paure che ci si addormentò sopra. La casa era vuota, Ninetta dopo la partenza del fratello era andata ad abitare da una zia, solo un merlo, che durante l’inverno si era rifugiato nella cantina, gli si avvicinò incuriosito e gli picchiettò la spalla. Giovannino si svegliò di soprassalto, che cosa era stato? Si guardò intorno e non vide niente. Si sdraiò di nuovo e chiuse gli occhi ma mentre cercava di riaddormentarsi si accorse che una strana sensazione gli era entrata nel corpo. A poco a poco l’immobilità e il silenzio della casa cominciarono a diventare insopportabili. Il suo cuore decise di battere più forte, la sua faccia di impallidire, e la sua pancia di stringersi. I suoi sensi, i suoi occhi, le sue orecchie sembravano abbandonarlo e mescolarsi faticosamente alla sua immaginazione, giocando ad amplificare rumori impercettibili, e prendendosi gioco di lui nel materializzare improvvise apparizioni. Cosa gli stava succedendo? Si alzò in piedi per guardarla, non sapeva ancora se era “lei” perché era la prima volta, ma forse senza più cercarla aveva incontrato la paura18. La paura è un’emozione essenziale nello sviluppo di una personalità equilibrata: essa è necessaria in quanto aiuta a muoversi nel mondo senza subire traumi anche gravi o irreversibili ed è una delle forme in cui si esprime il nostro istinto di sopravvivenza. Come sostengono gli studiosi, senza la paura nessuna specie potrebbe sopravvivere poiché essa rappresenta un riflesso necessario per sfuggire all’annientamento. Questa emozione, però, presenta anche un aspetto pericoloso poiché, non controllata adeguatamente, potrebbe prendere il sopravvento ed impedirci qualunque azione o cambiamento, come nel caso della morte per paura o della paralisi di fronte ad essa. 18 Cecconi, A., op. cit., pp. 72-73. 119 L’espressione obbligatoria dei sentimenti Secondo Delumeau, la paura è “un’emozionechoc, spesso preceduta da sorpresa, provocata dalla presa di coscienza di un pericolo presente ed imminente che avvertiamo come atto a minacciare la nostra incolumità”19 e quindi è un’abitudine, culturalmente creata, “posseduta da un gruppo umano di temere questa o quella minaccia (reale o immaginaria)”20. Allora siamo andati alla spiaggia dove c’è quell’uomo anziano che conosce Serafinte [spirito in forma di serpente] e gli abbiamo portato due galline e del vino di palma, perché ce la facesse incontrare. Il vecchio ha accettato i doni e poi ci ha detto che se fossimo riusciti a guardare senza avere paura, rimanendo fermi con sguardo sicuro, Serafinte non ci avrebbe fatto del male: solo in quel caso ci avrebbe ascoltato. Se ci fossimo spaventati, invece, correndo via con gli occhi chiusi, si sarebbe vendicata e ci avrebbe fatto morire. Chi ha paura, ci ha detto il vecchio, non c’è niente che lo possa salvare: Serafinte non sopporta i vigliacchi e li uccide21. La paura è stata considerata in genere la più naturale fra le emozioni ed è stata contrapposta spesso alla colpa o alla vergogna, due emozioni considerate invece come sicuramente culturali. Questa concezione nasce sicuramente dall’idea che essa derivi sostanzialmente dall’istinto di sopravvivenza. Come sostiene, però, Pussetti “questa prospettiva riflette l’idea che percezione e valutazione del pericolo, dalle quali deriva l’emozione della paura, siano esclusivamente determinate dall’istinto di sopravvivenza. É stato in seguito sostenuto che la cultura non ha meno rilevanza per la paura di quanto non l’abbia per la colpa: questa affermazione è supportata da diverse ricerche sul campo, che hanno messo in luce come le società possano variare nella percezione e definizione di ri19 Delumeau, J., La paura in Occidente (secoli XIV-XVIII) La città assediata, SEI, Torino, 1978, p. 27. 20 Delumeau, J., op. cit., p. 26. 21 Pussetti, C., op. cit., pp. 107-108. 120 L’espressione obbligatoria dei sentimenti schio e pericolo”22. Infatti, si può arrivare sino alla perdita del principio vitale a causa della paura e le vittime tipiche sono i bambini e le donne. In molte società, da quelle tribali alla nostra contadina europea, una delle cause di perdita del principio vitale o di grave malattia che in genere porta alla morte è data dall’apparizione di una entità soprannaturale o di un morto. L’etnologo De Martino ha svolto al riguardo lavori eccellenti nei quali, tra l’altro, si mette in evidenza come il mondo dei morti che, dappertutto, è da intendersi come ‘altro’ rispetto alla società dei viventi, non possa essere visto impunemente e che quindi deve sempre fare paura. Come si può notare, la paura di cui qui si parla e che spesso sarà all’origine della morte fisica di colui che ha avuto la visione è, dopotutto, una paura culturale innestata su una capacità fisica di provare un’emozione di tal genere, come in questo racconto della tradizione meridionale e più specificamente pugliese: Quello era un uomo bestemmiatore, però era un uomo che andava alla messa. Poi quest’uomo è morto. Una volta la moglie, era tempo d’estate, andò in campagna per raccogliere la spiga ed era quasi mezzogiorno, quasi le dodici e mezzo e stava per finire. La campagna era attaccata al cimitero. Edda si chiamava Carmela e lu maritu lu chiamavano lu mirduddu. Quando, a un certo punto, si sentì chiamare: “Carme’, Carme’..”. Lei sentì che era il marito che la chiamava, ma si prese paura e non rispondeva. Allora lui disse di nuovo: “Carme’, non mi conosci? Sono tuo marito”. Lei risposi: “Sì, ti sto conoscendo” – “Sono venuto per dirti che devi dire ai nostri figli, quando vai a casa, di vedersi la messa perché io per mezzo della messa sono stato salvato, ci no lu Signori m’era condannatu”. Questa donna fu tanto lo sgomento di sentire quest’uomo parlare vivo che prese tutta la sua roba e se ne andò a casa. Per tornare a Latiano doveva attraversare un ponte che passava sotto alla stazione. [questo ponte faceva da limite tra il cimitero e il paese] Nel traversare stu ponti, quest’anima le disse: “Sai, Carme’, fino a qua ti pozzu accompagnari, non ti pozzu accompagnari 22 Pussetti, C., op. cit., p. 109. 121 L’espressione obbligatoria dei sentimenti nel paese”. Sta cristiana tanta paura ca si prese, tantu sgomentu ca ebbi ca gli venne freddo e febbre e di dda moríu. Come sottolinea Delumeau, “il timore, lo spavento, il terrore appartengono più alla sfera della paura; l’inquietudine, l’ansietà, la depressione a quella dell’angoscia. La prima si riferisce all’ambito di ciò che è conosciuto, la seconda a quello dell’ignoto. La paura ha un oggetto determinato, a cui si può far fronte; l’angoscia non ne ha ed è vissuta come attesa dolorosa di fronte a un pericolo tanto più temibile in quanto non è chiaramente identificato: si tratta di un sentimento di insicurezza globale. Perciò l’angoscia è più difficile da sopportare della paura”23. Ed è per questo motivo che abbiamo bisogno di ‘dare’ un nome alla paura così che essa diventi paura di ‘qualcosa’, paura con un ‘nome’. “Dal momento che è impossibile conservare il proprio equilibrio interno affrontando per lungo tempo un’angoscia fluttuante, infinita e indefinibile, è necessario per l’uomo trasformarla e frammentarla in paure precise di qualcosa o di qualcuno”. Lo spirito umano fabbrica in permanenza la paura “per evitare un’angoscia a livello di malattia che sfocerebbe nell’abolizione dell’io. Si tratta di un processo che possiamo ritrovare al primo stadio di una civiltà. Mediante una lunga serie di traumi collettivi, l’Occidente ha vinto l’angoscia ‘denominando’ cioè identificando, e perfino ‘fabbricando’ paure particolari”24. La stessa paura della morte, perciò, può in ogni cultura essere frazionata in paure altrettanto terribili, ma in ogni caso ‘nominate’ e spiegate cosicché possano diventare accettabili: si pensi, per esempio, alla paura del demonio, del peccato e quindi della perdita dell’anima come testimoniano questa poesia insegnata ai bambini e la riflessione conseguente di una donna contadina pugliese 23 24 122 Delumeau, J., op. cit., p. 27. Delumeau, J., op. cit., p. 29. L’espressione obbligatoria dei sentimenti Vita breve/ morte certa./ Del morire l’ora è incerta/ un’anima sola si ha/ se si perde che sarà./ Dio mi veti/ Diu mi giudicherà/ o paradiso o inferno mi toccherà./ Finisci tutto/ e finisci presto/ eternità non finisci mai./ “La signora D’Ippolito mi diceva sempre: ‘Ma signora, guarda un po’: quando mi vede, mi dice sempre di pregare per la salvezza dell’anima dei suoi figli. Mi piace che per lei prima viene l’anima poi tutto il resto’. Ma scusa, a che vale il lavoro, i soldi se poi non si salvano l’anima. Prima di ogni cosa bisogna pensare all’anima”. O ancora si pensi alla paura della notte e dell’oscurità giacché, come sostiene una donna africana, “Dio ha fatto la notte, ma l’uomo l’oscurità ed è dall’oscurità che devi difenderti e non dalla notte”25. Così, la notte è stata riempita, nella lunga storia delle culture, da figure immaginarie che tramano contro l’uomo: lupi mannari, fantasmi, malefici stregoneschi, spiriti di ogni genere nel passato hanno affollato questa parte della giornata come oggi i criminali di qualunque tipo. Alla distinzione fondamentale tra paura e angoscia, Delumeau fa seguire un’altra teoria estremamente interessante per comprendere i meccanismi del pensiero, cioè quella dell’‘attaccamento’, ovvero di una tendenza originaria e stabile tesa a ricercare la relazione con l’altro. Come sottolinea lo storico, la natura sociale dell’uomo si presenta come vero e proprio fatto biologico, tanto che proprio in questo sostrato è possibile ricercare le radici della sua affettività. Così, il bambino rifiutato dalla madre o l’individuo che non ha avuto sin dall’inizio della sua esistenza legami normali con il gruppo rischia gravi forme di disadattamento le quali produrranno in primo luogo un senso profondo di insicurezza derivante da questa mancata realizzazione del bisogno di relazione. E questo senso di insicurezza, per esempio, diventa quasi sempre causa di aggressività per l’individuo o per la collettività cosicché “la tendenza 25 Kpan Teagbeu S. op. cit., p. 46. 123 L’espressione obbligatoria dei sentimenti da parte di un gruppo dominante di relegare in una situazione di disagio materiale e psichico una categoria di dominati costituisce perciò, a più o meno lunga scadenza, un atteggiamento suicida. Un tale rifiuto dell’amore e della ‘relazione’ genera inevitabilmente paura ed odio. I vagabondi dell’Ancien Régime, che erano degli ‘spostati’, respinti dai quadri sociali, provocarono nel 1789 la ‘Grande Paura’ dei possidenti, anche modesti e, con una conseguenza inattesa, il crollo dei privilegi giuridici su cui era fondata la monarchia... Come conseguenza, si verifica anche a livello collettivo ciò che risulta evidente sul piano individuale: si realizza cioè un legame tra paura e angoscia da un lato e aggressività dall’altro”26. Le riflessioni dello storico francese, che seguono l’opera sull’angoscia del filosofo Kierkegaard, permettono un’analisi più profonda quando sottolineano che l’angoscia può anche essere intesa in modo positivo come “vertigine del nulla ed esperienza di una pienezza: è ad un tempo tema e desiderio... per noi, uomini del ventesimo secolo, essa è diventata la contropartita della libertà, l’emozione del possibile. Infatti, liberarsi significa abbandonare uno stato di sicurezza, affrontare un rischio. L’angoscia è insomma la caratteristica della condizione umana, l’aspetto specifico di un essere che si crea incessantemente”27. Non a caso, essa sembra essere uno dei sentimenti importanti del nostro periodo e delle nostre società sempre tese verso il futuro e verso quella che potrebbe essere definita quasi un’ossessione del nuovo come della creatività. Nelle società etnologiche, inoltre, alla paura è collegato il periodo fondamentale della formazione dell’individuo, cioè quello dell’iniziazione. Una delle grandi lezioni dei riti di iniziazione in fondo sta semplicemente nel confronto con la paura al fine di poter entrare in contatto con la forza interiore che esiste in ciascuno di noi. Confrontarsi con la paura 26 27 124 Delumeau, J., op. cit., p. 30. Delumeau, J., op. cit., p. 28. L’espressione obbligatoria dei sentimenti significa giocare con metà della vita poiché solo sperimentando se stessi si può vedere se si può essere vincenti o perdenti. Nella vita di molte comunità tradizionali, infatti, non conta il denaro, il possesso materiale, ma il rispetto degli altri, l’onore, l’esperienza, risultato, tutto ciò, di anni di duro lavoro e di duro allenamento. La conoscenza della sapienza del gruppo è senza dubbio obiettivo fondamentale del periodo iniziatico, ma il cammino dei riti diventa oltremodo necessario semplicemente per misurarsi con se stessi, per dimostrare di essere un vero essere umano e come tale farsi rispettare. La vita è piena di sfide e noi esseri umani ci mettiamo alla prova accettandole. Anche se si soffre ne vale la pena, perché ci arricchiamo, diventiamo più maturi, più intelligenti e più adulti... Nella lotta quotidiana uno può vincere o essere vinto, l’importante è lottare e continuare a farlo: anche graffiando, pieni di ferite, bisogna sempre andare avanti. Superare gli ostacoli ci fortifica perché ci spinge a confrontarci con le nostre paure, a usare una buona dose di coraggio, e l’azione, per affrontarle e vincerle. Solo chi ha combattuto, usando l’immaginazione e l’intelligenza, armato del coraggio, della volontà, ed è sopravvissuto, può considerarsi un trionfatore... Tutti abbiamo paura, la paura è umana, affrontarla vuol dire andare verso l’ignoto. C’è bisogno di coraggio e di volontà per agire e affrontare la paura”28. Allora, come fronteggiare questo sentimento così rilevante e insieme sfuggente nella vita di tutti i giorni? La tradizione antropologica europea, per esempio, ci propone diversi modi in cui è possibile affrontare questi momenti difficili in maniera protetta culturalmente. Cecconi, in un bel libro sul sistema di protezione messo in atto nella montagna pistoiese per affrontare l’imprevedibilità della natura e della vita umana, così riflette La Paura è invisibile, sta fuori e a un certo punto entra dentro, può arrivare in qualsiasi momento, non dà preavvisi e 28 Mamani, H.H., La donna dalla coda d’argento, Mondadori, Milano, 2005, p. 284. 125 L’espressione obbligatoria dei sentimenti spesso non ha nemmeno un perché, arriva e basta. Ma da dove entra? Dalla testa, dalle orecchie, dagli occhi? E poi dove sta? C’è chi la sente nelle spalle, chi nella pancia, chi nei pensieri, chi nel cuore, chi nella gola. Ognuno ha la sua geografia della paura, ognuno la descrive con parole diverse, ma cosa si può fare davanti alla paura?... Quando la paura assale l’uomo gli impedisce di dormire e mangiare, si va allora da chi sa fronteggiarla e manipolarla. In ogni paese c’era qualcuno che sapeva “lavare la paura” ... È come se nel pensiero “magico” avvenisse una solidificazione degli stati d’animo: la paura, l’invidia, l’odio, l’amore diventano “cose”, e proprio questa solidificazione permette di elaborare delle strategie concrete ... se la paura è senza forma, senza nome, invisibile, senza contorno, si attorciglia intorno all’uomo, gli paralizza le gambe, gli impedisce ogni azione, lo immobilizza. Solo se la paura diventa qualcosa di concreto, l’uomo la può “guardare”, “toccare”e “lavare via”. Il rituale cresciuto sulla Montagna pistoiese, per liberarsi dalla paura, consiste proprio nel “lavarla” con un’erba magica chiamata erba lavandaia o erba di paura... Si lavano prima gli occhi e il viso, poi si passa con la mano tutto intorno alla persona, per quattro volte, e in ultimo si lavano le mani e piedi. Il rito va ripetuto per tre giorni, e se l’ultimo giorno l’acqua è ancora densa vuol dire che la paura non è ancora scomparsa del tutto e la persona dovrà essere lavata finché l’acqua nella bacinella non resterà limpida29. Un altro modo che permette di fronteggiare la paura è quello di personificarla in luoghi o situazioni ma la paura non è solo un “qualcosa” che sta dentro l’uomo, la paura è una vera e propria presenza: “la paura ce lo dicevano i vecchi, c’era in tal posto e se uno passava di lì, anche se non ce l’aveva, gli montava”. Antonio si ricorda bene del suo incontro con la paura: “io e un altro che è morto, s’era a fare il carbone nel bosco, e c’era un seccatoio dove seccavano le castagne, e dicevano che c’era la paura lì dentro. Un po’ che si fosse impressionati noi, ma inverso le 11.30, mezzanotte, si sente suonare la fisarmonica, un valzer. È verità, si prese la roba e si venne a casa. Erano le due di notte quando si venne a casa. Non ci si dormì mica più lì, c’erano gli spiriti ... “Lassù, sul Toricella, c’era una paura” racconta El29 126 Cecconi, A., op. cit., pp. 74-75. L’espressione obbligatoria dei sentimenti sa, e indica il luogo dalle finestre di casa sua. Lei questa cosa l’ha sempre sentita dire, ma di persona non si è mai azzardata a verificare30. Le considerazioni più rilevanti e commoventi per la profondità dello sguardo si possono leggere, però, nel momento in cui la ricercatrice illustra la filosofia che muove esseri umani di culture diverse a trovare dei modi sempre efficaci con i quali superare la paura In Perù il malato di “susto”, dopo essere stato curato dal guaritore, finalmente si addormenta, e accanto al suo letto i famigliari staranno svegli una notte intera. Lo guarderanno dormire, in cerchio intorno a lui vigileranno che il suo respiro resti regolare, e impediranno al “susto” di entrare ancora nel suo corpo, approfittando della solitudine notturna. Questa “veglia” e questa protezione collettiva rappresentano la fine rituale della cura iniziata dal guaritore. La paura si supera con il calore dell’altro, con la carezza di una mano che ti lava, una voce che scaccia gli incubi che tagliano il respiro. La paura va condivisa, ascoltata, e visto che il corpo è il primo a sentirla arrivare, è lui che può fare da guida... Se per alcuni è terapeutico il “flusso di parole” consigliato dalla psicanalisi, per altri sarà un “flusso d’acqua ed erba lavandaia” a lavare via quella paura che non fa più dormire e mangiare: c’è chi parla della paura e chi si fa lavare31. Ed ecco anche perché nelle società etnologiche questo sentimento viene affrontato nei riti di iniziazione, vissuti in gruppo e guidati dagli anziani. In conclusione, ogni società costruisce le sue paure e quindi i suoi sistemi di sicurezza che perciò si riferiscono sempre a oggetti ed esseri specifici, ben diversi a seconda del periodo storico e della situazione sociale. Come sostiene Febvre, la paura e il bisogno di sicurezza, – l’uno negativo e l’altro positivo – sono due sentimenti che alla fine si incontrano, ma certamente bisogna intendersi bene sui termini32. L’aiuto reciproco, per esempio, non è certamente la sicurezza 30 Cecconi, A., op. cit., pp. 75-76. Cecconi, A., op. cit., p. 82. 32 Febvre L., “Pour l’histoire d’un sentiment: le besoin de sécurité” in ANNALES, 2, 1956, p. 246 sgg. 31 127 L’espressione obbligatoria dei sentimenti quale noi la intendiamo. La domanda che allora si pone lo storico è estremamente importante poiché chiarisce l’importanza sociale del bisogno di sicurezza: quando nasce questo bisogno? È vero infatti che, sino a quando nella cultura occidentale ci si è abbandonati alla volontà di Dio, anche se imperscrutabile, sicurezza è stato un vocabolo con un significato molto diverso da quello che noi gli attribuiamo. Il termine, invece, acquisisce un nuovo valore quando ad esso associamo una organizzazione umana, l’uso del denaro, e una risposta immediata, automatica ed efficace di fronte ad una qualunque catastrofe o a ciò che noi riteniamo catastrofico. Dunque il bisogno di sicurezza nasce con il capitalismo, quando cioè l’intervento divino non appare più necessario agli uomini per spiegare gli avvenimenti che, invece, diventano, dal quel periodo in poi, di ordine puramente umano, come testimonia questo affascinante racconto di Delumeau Nel XVI secolo, non è facile entrare di notte ad Augusta. Montaigne, che visita la città nel 1580, rimane stupito di fronte alla “porta segreta” che, per opera di due custodi, filtra i viaggiatori che arrivano dopo il calar del sole. Essi si imbattono dapprima in una postierla di ferro che il primo guardiano, la cui camera dista più di cento passi, apre dal proprio alloggio mediante una catena di ferro, la quale “dopo un lungo percorso e molteplici giri” tira un paletto, anche esso di ferro. Una volta superato questo ostacolo, la porta si richiude di colpo. Il visitatore oltrepassa quindi un ponte coperto sopra un fossato della città e arriva su un piccolo spiazzo, dove declina le proprie generalità e indica l’indirizzo a cui intende alloggiare ad Augusta. Il guardiano avverte allora con un colpo di campanella un compagno, che aziona un congegno situato in una galleria vicino alla sua camera. Questo congegno apre dapprima una barriera – sempre di ferro – poi, mediante una grande ruota, comanda il ponte levatoio senza che si possa vedere nulla di tutti questi movimenti, “ché avvengono nello spessore del muro e delle porte” e “di improvviso ogni cosa si richiude con gran fracasso”. Al di là del ponte levatoio si apre una grande porta, “di legno molto spesso e rinforzata con parecchie grandi piastre di ferro”. Attraverso questa porta lo straniero accede 128 L’espressione obbligatoria dei sentimenti a una sala, dove si ritrova chiuso, solo e senza luce. Ma un’altra porta simile alla prima gli permette di entrare in una seconda sala, stavolta “illuminata” e dove si imbatte in un vaso di bronzo appeso a una catena: il forestiero vi deve depositare il denaro del pedaggio. Tirando la catena il secondo portiere recupera il vaso e verifica la somma depositatavi dal visitatore; se questa non è conforme alla tariffa, il portiere lo lascerà “marcire fino al giorno dopo”; se invece è soddisfatto “gli apre, allo stesso modo, una grossa porta simile alle altre, che si chiude dietro di lui, ed eccolo in città”. Un particolare importante completa questo dispositivo ad un tempo macchinoso ed ingegnoso: sotto le sale e le porte è sistemato un grande scantinato capace di alloggiare cinquecento armati con i propri cavalli, per fare fronte ad ogni eventualità. In caso di emergenza, essi vengono impiegati in azioni di guerra “all’insaputa dei cittadini qualunque”. Si tratta di precauzioni singolarmente rivelatrici di un clima di insicurezza: quattro grosse porte che si susseguono l’un l’altra, un ponte sul fossato, un ponte levatoio e una barriera di ferro non sembrano troppo per proteggere contro ogni sorpresa una città di 60.000 abitanti che è, a quell’epoca, la più popolosa e ricca della Germania. In un paese in preda alle contese religiose, e mentre i turchi premono alle frontiere dell’Impero, ogni straniero è sospetto, soprattutto di notte. Nello stesso tempo viene nutrita diffidenza verso i “cittadini qualunque” i cui “turbamenti” sono imprevedibili e pericolosi; perciò si provvede a che essi non si accorgano dell’assenza dei soldati abitualmente di stanza sotto il complicato dispositivo della “porta segreta”. All’interno di quest’ ultima sono stati messi in opera gli ultimi perfezionamenti dell’arte metallurgica tedesca di quel tempo. Grazie a queste precauzioni, una città il cui possesso è particolarmente bramato arriva, se non a respingere completamente la paura fuori dalle proprie mura, almeno ad attutirla in misura sufficiente per potervi convivere33. L’invidia Come è facile comprendere, l’invidia è un sentimento molto pericoloso che non può essere tollerato 33 Delumeau, J., op. cit., pp. 7-8. 129 L’espressione obbligatoria dei sentimenti in nessuna società e quindi ha dato origine a strutture sociali che costituiscono veri e propri mezzi di controllo sociale, i più diffusi dei quali sono la stregoneria, con la relativa creazione di specialisti a tempo parziale di religione come gli stregoni, e il malocchio. Il grande antropologo americano Marvin Harris presenta questo fenomeno culturale in maniera mirabile e, come al solito, estremamente chiara e molto piacevole da leggere. Ciò che più colpisce nella stregoneria intesa come un mezzo di controllo sociale è che coloro che la praticano, ammesso che esistano, raramente possono essere individuati. Con ogni probabilità, il numero delle persone ingiustamente accusate di stregoneria supera di gran lunga quello dei veri colpevoli. È chiaro, quindi, che l’astenersi dal praticare incantesimi non basta a proteggersi dall’accusa. E allora, come evitare di essere ingiustamente incolpati? Comportandosi in un modo amabile, aperto e generoso, evitando le dispute e facendo quanto possibile per non perdere l’appoggio dei propri parenti. Insomma, l’occasionale uccisione di un presupposto stregone rappresenta qualche cosa di molto più importante della semplice eliminazione di pochi individui effettivamente o potenzialmente antisociali. Questi incidenti violenti convincono tutti dell’importanza di non essere scambiati per dei malfattori. Ne risulta, come presso i Kuikuru [indios del Brasile], che la gente diventa molto più amabile, cordiale, generosa e disponibile a collaborare: “la regola che prescrive di essere gentili trattiene gli individui dall’accusarsi reciprocamente di delitti e quindi, in assenza di un reale controllo o politico o da parte di un gruppo di parenti, le relazioni interpersonali sono diventate una specie di gara in cui forse l’unica regola restrittiva è quella di non mostrare ostilità reciproca per paura di essere sospettati di stregoneria”. Questo metodo non è “a prova di bomba”. Sono noti molti casi di sistemi fondati sulla stregoneria che sono crollati, trascinando la comunità in una serie distruttiva di accuse e omicidi di ritorsione. Tuttavia tali casi (specialmente in situazioni di forte contatto coloniale, come in Africa e in Melanesia) devono essere correttamente messi in relazione con le condizioni di base della vita collettiva. In generale, la frequenza delle accuse di stregoneria varia a seconda dell’intensità del dissenso e della frustrazio130 L’espressione obbligatoria dei sentimenti ne della collettività... Quando una cultura tradizionale è sconvolta dal contatto con nuove malattie, da una accresciuta competitività per accaparrarsi la terra e dall’assunzione di persone per il lavoro salariato, bisogna aspettarsi un periodo di più marcati dissensi e frustrazioni. Esso sarà anche caratterizzato da una frenetica attività da parte di coloro che sono in grado di individuare e rendere manifesti i malvagi effetti delle streghe, come nel caso della frammentazione della società feudale in Europa e della grande ossessione per la stregoneria dal XV al XVII secolo34. Secondo Di Nola, la stregoneria potrebbe essere definita come “uno statuto mitico-rituale nel quale, all’interno di ogni cultura, viene ad esprimersi la reazione aggressiva di gruppi e di ‘margini sociali’ che, per motivi vari, non sono integrati (o sono parzialmente integrati) nei modelli propri della cultura dalla quale dipendono, o anche che respingono tali modelli”35. In alcune culture, per esempio, questo statuto viene attribuito a gruppi che la maggioranza respinge o emargina, come i Rom e i Sinti nelle nostre società, i Falascià nella cultura etiopica o i Fabbri in molte culture etnologiche. O ancora, si riversa su aree emarginate anche interne alla società il proprio malessere e si cerca di riacquisire una sicurezza di essere nel mondo combattendo simili individui o categorie. Si pensi, per esempio, ad un periodo storico della stregoneria, quello dei secoli XV-XVIII in Europa, come momento di culmine di un lungo processo di emarginazione della donna nella figura della strega e in piccola parte dello stregone nelle società cristiane. Malinowski sosteneva che in fondo la stregoneria costituisce un modo di spiegare il male e le crisi fondamentali dell’esistenza, quasi una delle forme in cui si esprime la teoria del capro espiatorio, secondo cui all’origine di tutto ciò che noi riteniamo inaccettabile o negativo vi sia un’azione o dei personaggi potenti che appartengono ad un mondo molto lontano da quello reli34 Harris, M., op. cit, pp. 177-178. Di Nola, A.M., “Stregoneria”, in Enciclopedia delle religioni, v. 5°, Vallecchi, Firenze, 1973, p. 1413. 35 131 L’espressione obbligatoria dei sentimenti gioso. Si pensi, per esempio, all’universo culturale delle fatture, dei filtri, degli operatori di malefici e quindi degli stregoni. In questo senso, Di Nola ritiene che la stregoneria vada considerata un fenomeno areligioso, “nella misura in cui si contrappone, negandoli, ai modelli religiosi del gruppo culturale in cui emerge”36. Essa sembrerebbe quasi una creazione culturale con la quale rendere visibili e personificare le pulsioni negative estreme, le forze oscure dell’agire degli uomini che pure sono parte integrante della nostra umanità. Anche la pratica dell’interrogazione del morto, cioè della ricerca del colpevole, molto comune in Africa, è una rappresentazione, quindi un dramma carico di tensione che aiuta a dare ampio sfogo alle cariche aggressive, invidiose o rancorose del gruppo. In Sud e magia, De Martino ricorda appunto questa riflessione dello studioso Strehlow sugli Aranda centro-australiani: “l’arte dello stregone consiste specialmente nel rendere innocua l’influenza di uomini ostili o di esseri maligni. Egli è chiamato in casi gravi, o che la malattia sia causata da persone ostili, o che invece la causa di essa sia una entità demoniaca ... tutte le malattie sono ricondotte dagli indigeni a influenze esterne, e cioè ad uomini che con l’aiuto della magia nera asseriscono di poter causare la morte di un altro individuo, ovvero a demoni che in forma animale o nei fenomeni naturali (per esempio nei venti maligni) si avvicinano all’uomo e gli recano danno”37. Naturalmente gli individui accusati di stregoneria non vengono scelti a caso, ma secondo dei criteri ben definiti orientati sempre socialmente che, per esempio, tra i Kuikuru del Brasile, erano i seguenti: “1) una storia di litigi e contese all’interno del villaggio, 2) un motivo per continuare a nuocere (il fidanzamento rotto) e 3) un debole sostegno parentale”38. Come sottolineano gli studiosi, gli sciamani, specialisti religiosi i quali svolgono un ruolo essenziale 36 Di Nola, A.M., op. cit., 1973, p. 1416. De Martino, E., Sud e magia, Feltrinelli, Milano, 1959, p. 81. 38 Harris, M., op. cit., p. 177. 37 132 L’espressione obbligatoria dei sentimenti nell’eliminazione delle fonti di conflitto, sono senza dubbio delle autorità, ma non sono onnipotenti, anzi sono fortemente vincolati dall’opinione pubblica. Essi devono essere sempre molto attenti a non accusare di stregoneria “persone benvolute e che godono dell’appoggio di un forte gruppo parentale” poiché se persistono nelle loro accuse rischiano l’espulsione o l’uccisione39. Quindi stregone è sostanzialmente colui che è emarginato all’interno del gruppo e che rappresenta e incarna i forti pensieri-sentimenti individualisti, antisociali, violenti degli esseri umani. Presso i Bijagó, “ogni male, sofferenza e sfortuna dipendono dall’azione di una persona che ci è vicina. L’origine del male è dunque sempre sociale; non solo, ma nasce spesso proprio all’interno della comunità familiare e per questo costituisce una minaccia contro i legami di solidarietà interni di un clan, contro la compattezza di un villaggio, cui è difficile sfuggire... la stregoneria ... in questa interpretazione è il ‘lato oscuro’ della parentela, la consapevolezza del fatto che le gelosie, i rancori e le invidie più intense e violente nascano proprio all’interno della famiglia, dove non dovrebbero regnare che fiducia e solidarietà. Tutte le relazioni umane, soprattutto quelle di grande prossimità sociale e affettiva, implicano interdipendenze troppo strette per non essere intensamente caricate di sentimenti di ambivalenza. Questo discorso è soprattutto vero per le società di piccole dimensioni, le comunità dalle interazioni ‘faccia a faccia’, e a maggior ragione per il più ristretto, intimo e coeso gruppo familiare”40. La stregoneria è quindi l’espressione visibile e drammatica della paura della solitudine, della frattura dei rapporti con la famiglia e la messa in scena dei sentimenti di invidia, gelosia e rancore esistenti in ogni gruppo familiare. Il ruolo del malocchio nell’organizzazione sociale, invece, non è così ben “definito e evidente (o meglio, 39 40 Ibidem Pussetti, C., op. cit., p. 133. 133 L’espressione obbligatoria dei sentimenti così ben studiato) come quello della stregoneria. Ad esempio non esistono pubbliche accuse riguardo al malocchio. In alcuni casi, esso può essere persino liquidato come una superstizione. Generalmente, tuttavia, rappresenta il reale timore di un’influenza malefica attuata per mezzo di altre persone... secondo alcune testimonianze, si tratta di un potere malefico autonomo, che agisce attraverso certe persone e in certe situazioni: secondo altre, si tratta semplicemente di individui il cui sguardo è malefico”41. Come si può notare, le credenze presentano delle differenze, anche se non particolarmente rilevanti. Secondo Spooner, per esempio, in Persia, “colui che possiede il malocchio può sapere o no di avere questa facoltà. Egli può essere nato con il malocchio. Quest’ultimo ha diversi gradi di efficacia in persone diverse”42. Questa credenza, però, può essere anche intesa come capacità che l’essere umano ha di credere in una forza negativa che può colpire quando non si ha la forza di reagire positivamente alle disavventure della vita, come in questa testimonianza di una donna della provincia di Pistoia: “il malocchio te lo puoi dare anche da te, è l’energia negativa che hai quando stai male, sei triste. Infatti è vero che te lo puoi dare anche da te, se ti metti in una visione negativa per cui tu pensi di stare male quando invece potresti anche stare bene”43. In generale, la vittima privilegiata del malocchio è il bambino piccolo che è visto da tutte le culture come un essere molto vulnerabile dal punto di vista fisico. In Africa, per esempio, è considerato come molle e bianco, e proprio questa penetrabilità del corpo “rende i piccoli estremamente fragili, esposti alle malattie, al vento malvagio e alla possessione da parte di esseri extraumani. I bambini hanno inoltre bisogno di essere protetti dai n’atribá violenti o malvagi, che possono assorbire in primo luogo nel latte materno e che 41 Spooner, B., op. cit., pp. 379-380. Ibidem 43 Cecconi, A., op. cit., p. 168. 42 134 L’espressione obbligatoria dei sentimenti possono farli ammalare o addirittura morire... per lo stesso motivo i bambini non vengono mai lasciati soli; anzi in questo periodo di maggiore labilità dei confini corporei sono tenuti sempre a stretto contatto con il corpo della madre”44. Essere esposti al vento naturalmente si riferisce al ‘malocchio’ che potrebbe essere ‘soffiato’ sulla madre e sul bambino o che potrebbe essere trasmesso attraverso uno sguardo tagliente, anche in questo caso, quasi sempre da un amico o ancor più da un parente. Come sottolinea Le Breton, la credenza nel malocchio è semplicemente una cristallizzazione sociale dell’idea che lo sguardo abbia un forte potere sull’altro sino a metterne in discussione l’identità e a farlo sentire sotto una forte influenza. Non c’è scambio senza lo sguardo, attraverso il quale ogni distanza viene eliminata. Come nota Le Breton quando analizza i rituali di seduzione, si pensi all’adescamento e allo sguardo insistente dell’uomo sulla donna che finge all’inizio di ignorarlo, mentre lo stesso sguardo fatto da parte della donna mette quasi sempre in imbarazzo l’uomo45. In un noto libro sulla visione dell’harem nell’Occidente, la sociologa Fatema Mernissi così si esprime: “gli arabi pensano che siano gli occhi a tradire. “Gli occhi sono una porta aperta sull’anima ... scrutano i suoi segreti, comunicano i suoi più intimi pensieri”. Questo è il motivo per cui mi hanno insegnato che è buona tattica, per una donna, tenere gli occhi bassi, così che gli uomini non possano indovinare i suoi pensieri. La cosiddetta modestia delle donne arabe è in realtà una tattica di guerra”46. Uno dei testi fondamentali di un grande etnologo italiano, De Martino, appunto ci presenta il tema, importante nel sud d’Italia, ma diffuso presso numerosissime altre popolazioni, del fascino o fascinazione. 44 Pussetti, C., op. cit., pp. 64-65. Cfr. Le Breton, D., op. cit., p. 179. 46 Mernissi, F., L’harem e l’Occidente, Giunti, Firenze-Milano, 2006, p. 13. 45 135 L’espressione obbligatoria dei sentimenti Con questo termine si indica una condizione psichica di impedimento e di inibizione, e al tempo stesso un senso di dominazione, un essere agito da una forza altrettanto potente quanto occulta, che lascia senza margine l’autonomia della persona, la sua capacità di decisione e di scelta. Col termine affascino si designa anche la forza ostile che circola nell’aria, e che insidia inibendo o costringendo... cefalgia, sonnolenza, spossatezza, rilassamento, ipocondria accompagnano spesso la fascinazione: ma l’esperienza di una forza indomabile e funesta resta il tratto caratteristico. La fascinazione comporta un agente fascinatore e una vittima, e quando l’agente è configurato in forma umana, la fascinazione si determina come malocchio, cioè come influenza maligna che procede dallo sguardo invidioso (onde il malocchio è anche chiamato invidia), con varie sfumature che vanno dall’influenza più o meno involontaria alla fattura deliberatamente ordita con un cerimoniale definito, e che può essere – ed è allora particolarmente temibile – fattura a morte. L’esperienza di dominazione può spingersi sino al punto che una personalità aberrante, e in contrasto con le norme accettate dalla comunità, invade più o meno completamente il comportamento: il soggetto non sarà più allora semplicemente un fascinato, ma uno spiritato, cioè un posseduto o un ossesso, da esorcizzare ... il trattamento della fascinatura ... si fonda sull’esecuzione di un particolare cerimoniale da parte di operatori magici specializzati47. I possibili mezzi con cui può essere esercitata la fascinatura sono l’occhio, cioè lo sguardo, la mente, quindi il pensiero negativo o la volontà invidiosa di fare del male. Gli scongiuri servono a cancellare il fascino tentando di istituire una barriera dall’energia maligna che trama contro persone o beni (infatti anche gli animali possono essere oggetto di invidia e quindi avere il malocchio cosicché quando un maiale, per esempio, dimagrisce o non ingrassa a sufficienza sarà oggetto anch’esso di una pratica guaritoria) mentre gli incantesimi d’amore vengono usati per legare chi si ama in modo irresistibile e in certi casi sono impiegati dall’innamorato per far morire colui o colei che per esempio ha rifiutato il matrimonio. 47 136 De Martino, E., op. cit., 1959, p. 13. L’espressione obbligatoria dei sentimenti L’ideologia della fascinazione, secondo De Martino, costituisce l’elemento fondamentale della concezione del male e della malattia nel sud come in molte altre regioni del mondo. L’infanzia naturalmente è particolarmente esposta al rischio della fascinazione e, già prima della nascita, il destino del bambino è legato ai comportamenti della madre durante la gravidanza (si pensi semplicemente alle voglie ecc.). La gravidanza, perciò, è un momento critico dell’esistenza, un periodo molto pericoloso per la madre e per il neonato anche a causa di una condizione organico/psichica di fragilità e quindi di propensione alla malattia. Così la madre deve preoccuparsi di nascondere il suo stato e di evitare incontri pericolosi che potrebbero trasmettere energie negative per l’uno o per l’altra. “I bambini colpiti dal malocchio piangono, vomitano, diventano pallidi; e per malocchio possono anche scattare cioè ‘crepare’. Proprio quando stanno bene, e sono floridi, occorre stare attenti, perché sono esposti all’incontenibile moto d’invidia delle altre madri. Se si va a far visita in una casa dove ci sono bambini, è bene entrando render loro un ostentato saluto rituale: ‘cresci, san Martino,’ cioè ‘cresci in nome di San Martino,’ che è il santo dell’abbondanza e della vigoria. Questo saluto è reso ai piccoli al duplice scopo di difendersi dai propri incontrollati impulsi invidiosi e al tempo stesso per rassicurare la mamma che non nutra sospetti in proposito... lo stesso tema del neonato da confermare e proteggere magicamente si manifesta in altre costumanze ... in genere, il manifestarsi del fatto ‘crescita’ rivela un trapasso, un movimento, un mutamento di stato: e quindi anche l’accentuazione del rischio magico, perché ciò che è labile, problematicamente inserito nell’esistenza, può annullarsi (crepare o schiattare) o non passare in modo giusto nel nuovo stato. La dentizione, la crescita delle unghie e dei capelli, lo svezzamento, la prima uscita costituiscono appunto fatti rivelatori di una condizione che muta, di una vita che avanza nell’esistenza; pertanto ciascuno di questi fatti riaccende 137 L’espressione obbligatoria dei sentimenti l’agone magico, nella sua vicenda di rischi, di annullamenti e di contromisure di confermazione”48. Le forze maligne, se i piccoli non sono protetti, possono essere estremamente contagiose poiché il corpo, come abbiamo già sottolineato, è aperto energeticamente al mondo. Questo modo di rappresentazione del male e della malattia naturalmente è una delle maniere possibili di fronteggiare le crisi dell’esistenza e di dare una risposta sicura alle incertezze della vita. Il corpo è la forma in cui si può esprimere in modo concreto la sofferenza, la malattia, il non adattamento alla propria società in forma di pazzia cosicché la cura deve essere finalizzata al ristabilimento dell’ordine e dell’armonia. Il malocchio, dunque, è un linguaggio “psicologico istituzionalizzato, per personalizzare o semplicemente personificare la sventura, ed è particolarmente efficace quando la sventura o la paura di essa può essere messa in relazione con la paura di estranei e della loro invidia. Si è parlato anche dell’idea parallela della malalingua: oltre a essa, troviamo un’ulteriore idea connessa alle precedenti, quella di “malanimo”, cioè qualcosa di malefico che emana attraverso il respiro”49. È interessante notare come questi concetti abbiano un organo di riferimento, quale l’occhio per il malocchio, la lingua e quindi la parola per la malalingua o pettegolezzo, il cuore e il respiro per il malanimo. Per di più, questi concetti vengono immediatamente collegati alla figura femminile, che è colei che è destinata in molte società a rappresentare gli aspetti negativi dei sentimenti50. In genere è gente singolare – persone che per una ragione o per l’altra non appartengono pienamente alla comunità basata su forti legami interni, o perché sono straniere, o perché hanno qualche difetto fisico o qualche anormalità, non 48 De Martino, E., op. cit., 1959, pp. 33-34. Spooner, B., op. cit., p. 383. 50 Su queste problematiche, può essere molto utile, per esempio, il saggio di Pierre Bourdieu, Il dominio maschile, Feltrinelli, Milano, 1998. 49 138 L’espressione obbligatoria dei sentimenti necessariamente dell’occhio o della vista – che è sospettata di essere veicolo del malocchio. Uno straniero è considerato un veicolo temporaneo, mentre un uomo con un difetto fisico è probabilmente sospettato di essere nato con il malocchio. Presso alcune comunità si trova anche la concezione parallela della malalingua, e un detto turcomanno afferma che l’occhio da solo non nuoce, se l’agente non pronuncia anche parole invidiose... le donne sono particolarmente sospettabili. Poiché il loro ruolo sociale è definito più rigidamente di quello degli uomini e poiché, tanto per cominciare, sono in svantaggio fisico e sociale, qualunque portamento inconsueto o ogni elemento che impedisca loro di assolvere completamente alla loro funzione di donne, può renderle sospette: per esempio la sterilità, la sfacciataggine, le visite inspiegate... i mendicanti [in quanto stranieri o comunque emarginati dalla comunità] sono generalmente sospetti e devono proprio a questo sentimento molti dei loro guadagni. L’usanza di donare a un ospite un oggetto che egli ammira è molto probabilmente connessa in origine con il malocchio51. Questa concezione che tende a personificare e personalizzare la sventura è evidente, inoltre, in un altro originale istituto culturale proprio della cultura meridionale del Settecento, avente una sua letteratura e credenze specifiche, quale la jettatura, oggetto di uno studio famoso di De Martino. La collera La collera, come già si è potuto osservare, è un impulso che va sempre controllato e in qualunque ambito tribale o di società più complesse uno dei compiti importanti degli anziani è sempre stato quello di limitare tutte le pulsioni violente all’interno della comunità ed eventualmente di rivolgerle deliberatamente all’esterno. La morte, come si è visto, provoca in molte società sentimenti di dolore e insieme di rabbia che a loro volta fanno emergere tensioni e angosce all’interno 51 Spooner, B., op. cit., pp. 382-384. 139 L’espressione obbligatoria dei sentimenti della comunità. Secondo i Bijagó, “in quel tempo antico nel quale gli uomini non avevano la legge, quando moriva qualcuno la rabbia, che nasceva dal dolore non controllato, veniva sfogata in omicidi e atti di violenza tra famiglie, che davano origine a lunghissime faide. Oggi invece le cose non stanno più così: con la legge non si può uccidere quando si ha desiderio di farlo”.Ciò nonostante, i giorni immediatamente successivi alla morte sono carichi di ostilità, inquietudini, risentimenti e sospetti. Spesso, nonostante tutte le regole e il biasimo morale, mi è capitato di assistere a cerimonie di divinazione e rituali di interrogazione del morto, che si sono trasformati in violenti litigi”52. Già Ruth Benedict aveva parlato del sentimento di collera come di una compensazione attuata mettendo in lutto un’altra famiglia e poi Durkheim aveva sottolineato come presso i Kurnai dell’Australia i parenti del defunto provassero un sentimento complesso e confuso di dolore e insieme collera così che sentivano il bisogno di vendicare questa morte magari pensando di andare ad uccidere dei nemici. Per tali motivi, il dolore può essere considerato il sentimento più difficile da affrontare sia per l’individuo sia per il gruppo e sempre per questi motivi, “in numerose culture africane l’espressione della collera è vietata e non si manifesta mai. Se però traspare, essa è associata all’immaturità, alla stregoneria. La chiacchiera è il solo modo di disattivare un conflitto”53. Allo stesso modo, presso gli eschimesi Utka, la collera sembra non esistere nella vita quotidiana. “Non soltanto essi non la esprimono, ma non la provano, e non dispongono di alcun termine per nominarla. Delle circostanze che nelle nostre società la provocherebbero, non suscitano alcuna battuta di quest’ordine. Nessun termine del lessico utka evoca neppure lontanamente un equivalente della collera. Questa attitudine è tuttavia ben percepita tra i bambini o presso gli stranieri, 52 53 140 Pussetti, C., op. cit., pp. 171-172. Le Breton, D., op. cit., p. 132. L’espressione obbligatoria dei sentimenti e uno stesso termine la qualifica come infantile”54. La collera, però, può anche esprimere sentimenti relativi al senso di pericolo per la nostra sopravvivenza. L’antropologo Henry fa considerazioni molto interessanti per comprendere a fondo questo collegamento piuttosto diffuso tra emozioni apparentemente diverse quali la collera e la paura attraverso la narrazione di questo evento presso i Kaingang del Brasile Quando Patkle morì, Kangdadn eresse per lui una pira e tentò di bruciarlo, ma Patkle cadde giù dalla pira quando il fuoco aveva solo consumato i suoi piedi e le sue mani, mostrando così di possedere una pericolosità sovrannaturale e di costituire una terribile minaccia per chiunque. A causa di ciò, prosegue la storia, “essi [i suoi parenti] si arrabbiarono e se ne andarono. Quattro giorni dopo, andai a seppellire le sue ossa [è l’informatore che parla]. I parenti lo temevano e per questa ragione se n’erano andati. Patkle era vai [pericoloso in senso soprannaturale] per loro e potevano morire. Aveva mostrato loro che stavano per morire proprio lì. Per questo era caduto in direzione del posto in cui essi stavano per morire. Perciò essi si arrabbiarono. “Per noi è pericoloso (vai)”, dissero”... Quindi la paura-rabbia è un’emozione dall’aspetto duplice e la stessa espressione ‘essere arrabbiato’ significa anche ‘essere pericoloso nei tuoi confronti’. Come sottolinea Henry, “i congiurati in un complotto omicida non dicono ‘uccidiamoli’, ma ‘adiriamoci con loro’. Quando Thuli chiede a suo suocero di ‘essere in collera’, gli sta chiedendo di commettere un omicidio... Se dite ad A “sono in collera con te”, la sua reazione non è di contrizione o di pentimento o qualche altra sorta di sentimento negativo verso se stesso, ma di rabbia. Questo avviene perché, anche se costui può sapere che voi non avete alcuna intenzione di nuocere fisicamente, un’aura di pericolo circonda la collera e il pericolo genera paura la quale, a sua volta, porta con sé l’ira55. Inoltre, sono molto interessanti le riflessioni della Pussetti, quando rileva che i principi etici che guidano il comportamento sottolineano la necessità di inibire la manifestazione di n’atribá negativi quali 54 55 Le Breton, D., op. cit., p. 130. Henry, J., op. cit., pp. 24-30. 141 L’espressione obbligatoria dei sentimenti ‘collera’ o ‘gelosia’: è meglio essere d’accordo piuttosto che in disaccordo quando si parla con qualcuno, anche se il consenso raggiunto è solo superficiale. Nella psicologia bijagó, dunque, non è tanto pericoloso per la salute e per le relazioni sociali reprimere le proprie emozioni quanto piuttosto esprimerle apertamente: “se si provano n’atribá pericolosi è sempre meglio non manifestarli, mi suggerisce Tcharte, per non apparire ridicoli e non avere problemi di salute e con la gente del villaggio”. In particolare la ‘collera’ va sempre controllata: non è bene farsi vedere arrabbiati con qualcuno al villaggio, si diventa infatti il capro espiatorio per qualsiasi cosa capiti a lui o alla sua famiglia. La strategia più solidamente adottata è agire in modo indiretto, attraverso sortilegi, incantesimi o pozioni mortali. L’arte dei veleni è infatti molto diffusa in tutto l’arcipelago ... Per questo una delle prime regole di sopravvivenza nelle isole è non bere mai senza che prima abbia bevuto il tuo ospite e comunque prestare sempre attenzione ai suoi movimenti nel passaggio del bicchiere. Come è il caso delle accuse di ‘stregoneria’, che vengono spesso utilizzate per mantenere ai margini certi settori della collettività, anche lo spettro dell’avvelenamento è un linguaggio velato del potere, che per un verso ha una grande efficacia normativa e di controllo, per l’altro rivela i contrasti politici tra villaggi o gruppi di individui. D’altra parte ... [la collera e l’aggressività] se ben diretti e padroneggiati, sono n’atribá che hanno anche un valore positivo, per esempio qualora si debba difendere il villaggio. Ciò che è pericoloso è non saperli gestire, come quando si accende un fuoco per cuocere la carne e, non sapendolo dominare, si finisce per dar fuoco alla casa o al villaggio”, come sostengono gli indigeni con un’espressione proverbiale molto diffusa56. Anche in società fortemente competitive e nelle quali vige il diritto del più forte, come quella somala in cui c’è una continua oscillazione tra guerra e paci56 142 Pussetti, C., op. cit., pp. 92-93. L’espressione obbligatoria dei sentimenti ficazione, le dispute all’interno del clan o dei lignaggi vengono rapidamente conciliate in quanto minacciano gli interessi comuni legati per esempio allo sfruttamento di una sorgente d’acqua o all’accesso al pascolo ed intaccano il sistema di solidarietà del lignaggio. Lewis racconta a questo proposito un caso di disputa interessante Un noto anziano ... litigò con un figlio avuto dalla sua prima moglie... l’anziano aveva la schiena dolorante ed aveva chiesto alla prima moglie se poteva dargli da bere un po’ di ghi come medicina. Lei aveva risposto di non averne. Poi il marito le aveva chiesto se poteva uccidere per lui una pecora del gregge di lei. La moglie aveva risposto acidamente, consigliandolo di andarsene a comprare una. Il marito aveva perso le staffe ed aveva chiesto al figlio della donna ... di dargli un po’ di ghi. Il giovane aveva risposto che avrebbe visto cosa si poteva fare. A quel punto, la madre era andata dal marito dichiarandogli che non gli sarebbe stato dato il suo ghi e che la pecora se la sarebbe dovuta comprare. Lo rimproverava di trascurarla, favorendo la sua moglie nuova. “Non hai bisogno di noi, non hai bisogno dei nostri animali” – aveva urlato rabbiosamente. Poi si era lanciata in una lunga invettiva contro il marito ... il marito aveva afferrato un bastone e aveva cominciato a batterla. Il figlio, che aveva una ventina d’anni, aveva perso le staffe anche lui, ma saggiamente aveva preferito andarsene via. Erano accorsi dei parenti stretti del marito, che lo avevano afferrato cercando di impedirgli di colpire la moglie. Alla fine, la coppia era stata separata e l’uomo se n’era tornato al lavoro nei campi. La sera, rientrato nella capanna della moglie ultima, l’uomo avvampò di nuovo d’ira. Afferrò un lungo coltello e andò nello stazzo della prima moglie. Uccise una grossa pecora di quattro anni, minacciando di ucciderne altre. Ma giunsero dei suoi parenti, che gli impedirono di fare altri danni... il mattino successivo, gli anziani ... si dedicarono all’esame di quella che tutti ritenevano una gravissima violazione della tranquillità collettiva. Alla discussione parteciparono parecchi uomini che si trovavano in luogo per motivi non inerenti al caso... il procedimento si svolse tutto in modo abbastanza informale. Non ci fu alcuna dichiarazione formale di giudizio contro l’uomo o il figlio, e nessuno dei due contestò di essersi comportato male. Tutti diedero per certo che i fatti si erano svolti nel modo che io ho riferito e non furono 143 L’espressione obbligatoria dei sentimenti citati testimoni. In effetti, gli anziani si limitarono ad ammonire padre e figlio, e quasi tutti i presenti condannarono il loro comportamento. Era chiaro che la preoccupazione prioritaria di tutti era quella di riconciliare i due uomini e le due co-mogli57. Infine, anche la collera può essere trasformata in elemento positivo, tanto da diventare un segno di maturità: solo chi la prova, infatti, dimostra di aver superato la fase infantile e di essere inserito a pieno titolo nella vita sociale. Essa, quindi, è utilizzata a vantaggio della comunità e vissuta senza conflitti e paure, come tra gli Ilongot delle Filippine. In una nota ricerca di Rosaldo, è stato mostrato il carattere specificamente culturale del liget, una emozione che si avvicina alla collera degli europei, ma è differente nei modi di scatenamento e di espressione. “Liget ... è un termine associato al caos, alla separazione, al disordine, alla fuoriuscita di una forma affettiva non controllata dall’individuo, una “collera” che nasce dalla rabbia o dal successo di un altro. Un tale stato, però, viene connotato positivamente perché conferisce potenza al cacciatore, esso rappresenta una via d’entrata simbolica nell’età adulta. Bisogna averla vissuta per avere il diritto di sposarsi e assumere le proprie responsabilità di adulto... “sono carico di liget quando caccio”, dice un uomo, perché non temo la foresta” ... liget orientato su un oggetto desiderabile supera la diffidenza e l’irritazione che è all’origine... lo stesso termine vernacolare ingloba ciò che, ai nostri occhi, dipenderebbe da esperienze diverse come quelle della collera e dell’invidia”58. 57 Lewis, I.M., Una democrazia pastorale Modo di produzione pastorale e relazioni politiche tra i Somali settentrionali del Corno d’Africa, F. Angeli, Milano, 1983, pp. 269-271. 58 Le Breton, D., op. cit., p. 129. 144 Da una mancanza di comunicazione ad una categoria: il silenzio Nelle società occidentali, la Parola rappresenta il veicolo simbolico per eccellenza della Ragione, mito fondamentale delle culture contemporanee: giornali, libri, televisione, radio, e mail, telefonini ci inondano continuamente in modo diverso di parole; siamo circondati dalle parole e quasi loro prigionieri. La nostra è stata più volte soprannominata la ‘società della chiacchiera’ nella quale non solo non viene riconosciuto il valore sacro della parola, ma colui o colei che ha una comunicazione scarna mette imbarazzo. Il silenzio crea tensione e impaurisce. Tuttavia anche l’assenza apparente di comunicazione è un modo di espressione che viene scelto da molte società ed è legato al concetto di parola come di un atto creatore, quindi estremamente potente e pericoloso. Il silenzio implica, pertanto, un altro modo di vedere il mondo, essenziale e non gestito dalla ragione. Esso ha una forte rilevanza nella gestione delle emozioni ed è un altro elemento fondamentale che qualifica la morte e che, per tale motivo, viene elaborato in tanti modi dalle società etnologiche. Sono, infatti, numerose le culture nelle quali vige il silenzio sui morti che può essere espresso, per esempio, in forma di tabu. Ne aveva già parlato, tra gli altri, Frazer nelle sue opere, ma senz’altro un caso particolarmente indicativo riguarda il popolo nomade dei Rom e in particolare i Ma\nuš del Massiccio Centrale francese. Nei mesi successivi alla morte, i parenti stretti non pronunciano il nome del defunto e cessano di parlare di lui. Durante il tempo del lutto e talvolta per tutta la vita, per rispetto nei confronti del defunto, essi cessano di consumare ciò che al morto piaceva: “Si smet145 L’espressione obbligatoria dei sentimenti te di mangiare o di bere quello che il morto preferiva, ma si può anche smettere di cantare la canzone che egli aveva l’abitudine di cantare nelle feste, di raccontare le sue storie favorite, di ascoltare le musiche che gli piacevano, di frequentare i luoghi in cui andava a divertirsi ... oppure si può rinunciare a quella che era la sua attività prediletta (la pesca alla trota, il gioco a carte della belote...) ... la rinuncia a un certo cibo o a una certa attività non è accompagnata da nessuna dichiarazione. Non si dice niente. Ognuno sceglie e rispetta le proibizioni che si è scelto e non ne deve parlare con nessuno. Non ho mai sentito nessuno rifiutare un certo piatto o un bicchiere spiegando che era ‘per rispetto’ per il tale defunto”1. Il rispetto nei confronti del morto non permette di fare domande o di commentare i propri atti cosicché tutti si osservano continuamente, ma questo silenzio sembra quasi rafforzare la comunicazione tra i vivi, come in questo racconto: “una sera, un giovane, Pope, litiga con un uomo maturo, Xitâri, che ha la reputazione di essere particolarmente vendicativo. Il tono sale, minacce, ed ecco Pope che salta nella sua roulotte e ne ridiscende armato di un fucile. Xitâri esita un istante, smette di sbraitare, si crede che vada a gettarsi sul suo avversario, poi bruscamente si rigira e si allontana; la disputa è finita. L’indomani, Xitâri mi spiega che il fucile era ... “un fucile di un morto”, quello del padre di Pope deceduto due anni prima; non ha voluto insultare il fucile di un morto. Certo, è solo a me che lo spiega, tutti gli altri hanno capito perché si era tirato indietro – possedevano tutto il contesto –, nessuno può pensare che Xitâri abbia avuto paura di affrontare Pope”2. Il silenzio può essere inteso, inoltre, come una strategia estrema per tenere a bada i sentimenti o anche un modo in cui esprimere con forza ciò che le parole non possono comunicare, per esempio la pro1 Williams, P., Noi, non ne parliamo. I vivi e i morti tra i Mânuð, CISU, Roma, 1997, p. 10. 2 Williams, P., op. cit., p. 26. 146 L’espressione obbligatoria dei sentimenti fondità di un dolore o di una gioia. Questa scelta è possibile in tutte quelle società che hanno privilegiato il potere dell’affetto rispetto a quello della ragione. Per esempio, in uno studio socio-antropologico di grande acutezza e profondità sulla Corsica, Giudici sostiene che in questa società il concetto di philos greco è essenziale per comprendere i meccanismi profondi dell’agire corso, ma anche delle società del Mediterraneo in genere. Qui il primato dell’istanza affettiva si impone a uomini e divinità nel senso che il sistema di parentela è al contempo regola di vita in comunità e senso della vita sociale. Il rapporto affettivo non è mai affare privato, ma centro attorno al quale gravita la comunità, “la sua memoria, il suo fondamento, il suo tesoro”3. Affetto e solidarietà di clan sono le forze che cementano la vita dei gruppi e la sopravvalutazione dei rapporti familiari imprigiona l’individuo con i suoi divieti e con le emozioni che diventano regole di comportamento. La filosofia dell’Illuminismo e la conseguente distinzione tra civile, quindi pubblico, e privato non fanno parte della concezione di queste comunità le quali, invece, riconoscono valore solo alle solidarietà di clan. Questo mondo, però, presuppone la valorizzazione del silenzio, del buon comportamento sociale come quello dettato dalla morale dell’onore – anch’essa silenziosa, ‘idea muta’. Del resto, come afferma Giudici, “l’ossessione dell’onorabilità è la costante più ambigua del mezzogiorno” ed è una chiave fondamentale per comprendere soprattutto i silenzi e i segreti che circondano questo sistema di vita il quale non riconosce il potere contrattuale, laico e della libera circolazione delle idee e dei beni proprio delle società capitalistiche4. Così, in molte culture, parlare è un atto che va compiuto con prudenza e circospezione, in modo parsimonioso, senza mai abbandonarsi alla collera, 3 Giudici, N., Le crépuscule des Corses Clientélisme, identité et vendetta, Grasset, Paris, 1997, p. 204. 4 Cfr. Giudici, N., op. cit., p. 170. 147 L’espressione obbligatoria dei sentimenti sentimento che comporta un uso eccessivo della parola. Per un Tuareg, per esempio, le espressioni ‘portare il velo’ e parlare in modo misurato esprimono lo stesso concetto: per un uomo adulto, il velo serve a sottolineare la sobrietà nell’espressione, la misura ed essere uomini significa appunto avere un contegno e un comportamento sempre controllato. E allo stesso modo, secondo uno studio molto interessante di Larsen sulla cultura della Norvegia, il norvegese non è homo ludens ed è fortemente antiritualista tanto che per lui dire ‘buongiorno’ non ha alcun significato. Egli è abituato a parlare pochissimo e a scambiare solo le parole necessarie. Così anche confessare di amare un altro diventa cosa molto difficile e tutte le parole e le situazioni riguardanti le manifestazioni d’affetto sono percepite come ambigue. In questo saggio, per esempio, si racconta come, dopo una discussione tra padre e figlia su un paio di scarpe, il padre cerca di calmarsi tagliando legna mentre la figlia, colta dai rimorsi, porta bracciate di legna senza parlare, lava il pavimento e poi va a dormire sempre in silenzio. Il padre rimane seduto accanto al camino e si commuove perché lei, con questi suoi atti, le aveva manifestato tutto il suo affetto. L’autore ricorda anche un episodio relativo alla vita di due grandi attori, Liv Ullman e il marito Max von Sidow. Durante un film, l’attrice si ammala e così è costretta a letto. Il marito le è accanto e ad un certo punto le accarezza i capelli. Per giustificare questo gesto affettuoso, le dice: “siamo buoni amici noi”. Non ‘ti amo’ o ‘mi dispiace che tu stia male’, ma semplicemente una frase più neutra e meno imbarazzante5. Quando si hanno forti emozioni, del resto, la regola è quasi sempre quella del silenzio poiché la parola non riesce ad esprimere in pieno ciò che si prova. Tra i Pomak dellaTracia greca, il silenzio è l’elemento fondamentale della vita quotidiana ed è ciò 5 Cfr. Larsen, T., “Des paysans en ville”, in Klausen, A.M. (sous la dir.), Le savoir-être norvégien Regards anthropologiques sur la culture norvegienne, L’Harmattan, Paris, 1991, p. 63 sgg. 148 L’espressione obbligatoria dei sentimenti che colpisce in particolare il visitatore giacché è quasi assoluto6. Nei momenti importanti, come il matrimonio o la morte, ma anche nella vita quotidiana esso domina incontrastato: nel caffè, per esempio, gli uomini seduti qualche volta parlano a voce bassa al loro vicino, ma spesso hanno una espressione sonnolenta. Tutte le pratiche funebri, dal lavaggio alla sepoltura, si fanno in silenzio e non si ode alcun lamento né tra i giovani né tra gli adulti. Certamente si piange, ma le lacrime sono sempre silenziose. E poiché il diritto islamico vieta alle donne di partecipare alla sepoltura, esse danno l’addio al morto sulla soglia di casa sempre in silenzio. Solo nei momenti di crisi o di emergenza il silenzio viene spezzato, come nel caso dell’apparizione di un serpente, e allora viene invocato il genio perché possa fungere da protettore. Insomma, il silenzio costituisce un vero e proprio ordine culturale tanto che solamente coloro i quali vengono ritenuti non pienamente inseriti nella comunità, come i folli, gli stranieri, i giovani, gli anormali come i posseduti, non sono silenziosi e allo stesso modo la voce e il rumore sono segni di disordine. Ora, se si ritiene che la parola sia il mezzo d’espressione migliore della ragione, in questa società ciò che, invece, domina è lo sguardo, quindi un sistema che si basa sull’affetto e i sentimenti. E anche qui i racconti, le leggende, cioè la cosiddetta tradizione orale diventa un pilastro nella costruzione dell’immaginario anche perché essa è uno dei pochi modi in cui si possono esprimere i sentimenti individuali. Allo stesso modo in Giappone, il silenzio rimane la modalità più importante di espressione, come si legge in questo racconto Ricordo quando, durante l’ultima guerra con la Cina, un reggimento lasciò una certa città e una gran folla di gente invase la stazione per salutare il generale della sua armata. In 6 Cfr. Tsibiridou, F., Les Pomak dans la Thrace grecque Discours ethnique et pratiques socioculturelles, L’Harmattan, Paris, 2000, pp. 211 sgg. 149 L’espressione obbligatoria dei sentimenti quell’occasione un americano residente in Giappone si recò sul posto, aspettandosi di essere il testimone di grandi dimostrazioni d’affetto, dal momento che la nazione intera era coinvolta nella guerra incombente e c’erano padri, madri, mogli e fidanzate dei soldati tra la folla. L’americano rimase deluso: quando il treno cominciò a muoversi, migliaia di persone si tolsero silenziosamente il cappello, e le loro teste si abbassarono in un reverente addio; non ci fu alcuno sventolare di fazzoletti, non venne pronunciata alcuna parola; ci fu solo un profondo silenzio7. E così anche presso gli eschimesi, una donna non deve mai mostrare le sue emozioni, soprattutto verso un uomo che non appartiene alla propria tribu. Ecco come una donna Inuit racconta l’abbandono della propria casa e i due trasferimenti in un altro paese senza un gesto di addio, senza uno sguardo al villaggio e ai suoi abitanti che ci avevano lungamente osservato, ci siamo diretti verso il Nord addentrandoci nella tundra ancora ricoperta di neve e di ghiaccio... l’indifferenza delle persone alla nostra partenza era uguale alla nostra. Per gli Inuit, spesso l’espressione dei sentimenti non è visibile, sono i gesti che rivelano le emozioni.... Il giorno della mia partenza fu molto commovente. Tutti gli abitanti erano venuti sulla scogliera circostante la piccola baia per salutarmi. Questi uomini e queste donne che conducono una vita dura non hanno per abitudine quella di esprimere i loro sentimenti. Era in silenzio dunque che essi mi guardavano partire. La loro sola presenza testimoniava che erano stati segnati da ciò che era passato, e in fin dei conti, si dispiacevano di vedermi partire. Anch’io, come loro, dissimulavo la mia emozione. Molto tristemente, mi imbarcai sulla piccola zattera che doveva condurmi a bordo del grande battello. Non potei impedirmi di abbozzare un gesto di arrivederci a tutti, sapendo bene che questo genere di manifestazione non appartiene al nostro popolo. Gesto al quale rispose fortemente con brevi parole l’uomo più anziano [non a caso risponde solo il più anziano] del villaggio: “niente sarà più come prima!”8 7 Nitobe, I., op. cit., pp. 68-69. Pouget, D., L’esprit de l’ours Croyances et magie inuit, Présence Image, s.l., 2004, pp. 153-154. 8 150 L’espressione obbligatoria dei sentimenti Anche presso i Rom, la modalità del silenzio rimane una costante nell’espressione quotidiana delle emozioni, come sostiene Williams: “È vero che i Ma\nuš appaiono molto laconici. Il pudore (i lací, la “vergogna”) è tra di loro un valore sociale cardinale. Esprimere i propri sentimenti è una cosa che non si fa. Se si vuole interrompere uno scambio (non solo tra Ma\nuš e Gage [non zingari]), il mezzo migliore è quello di mettersi a far domande. La risposta allora ... è ... la scomparsa dell’interlocutore... Il silenzio ... è ciò che lega i Ma\nuš tra loro. Quando ci si separa, non ci si dice arrivederci, ci si dice – e la formula è divenuta così abituale che appare equivalente a una formula di congedo – ... “ci diciamo niente”9. Emblematico, infine, del silenzio come di un elemento che ha in sé una forte tensione spirituale è questo emozionante racconto di Carmelo Bene A Mosca, Carmelo Bene arriva per uno spettacolo teatrale ed è accolto dalla stampa come lo ‘zar del teatro italiano’. Così egli racconta la sua esperienza: “alla ‘prima’, ma anche nelle repliche successive, non volava una mosca a teatro. Si chiude il sipario nel silenzio assoluto. Sembrava un cimitero. Penso a un ‘fiasco’ straordinario, una sorta di choc collettivo. Trascorsi parecchi minuti, mi raggiunge Shadrin [il sovrintendente del teatro] in camerino. Mi abbraccia commosso, raggiante. “Un trionfo!” Quel silenzio raggelante testimoniava l’apoteosi. “Devo ringraziare, allora?” “Un vero zar non s’inchina mai”, mi esime Shadrin. Sbircio dal sipario chiuso. Qualcuno in platea è genuflesso su un solo ginocchio, come in preghiera ... La sera della terza recita, presente l’elite culturale moscovita, alcuni poeti chiedono di vedermi ... torno in camerino. Mi avvisano che era il caso di mostrarsi ancora, sorta di bis urlati da tanto silenzio10. 9 Williams, P., op. cit., pp. 77-78. Bene C., Dotto, G., Vita di Carmelo Bene, Bompiani, Milano, 1998, pp. 380-381. 10 151 Infine... Insomma, perché si piange, si ride, si scherza, ci si arrabbia, si ha paura? In fondo, la risposta degli studiosi è molto semplice: ciò succede soltanto perché pensiamo, e questo ci permette di percepire il mondo e di valutarne gli eventi. Che cos’è dunque un’emozione? È semplicemente una maniera di essere nel mondo, un modo di dare un senso e di agire nel mondo. Come sostiene Michelle Rosaldo, l’emozione è un ‘pensiero incorporato’, situato in quella zona di confine tra individuo, corpo e società. “Parlare di emozioni significa dunque discutere questioni che hanno a che fare con il potere, la politica, la parentela, i cambiamenti storici, le differenze di genere, i concetti di normalità e devianza. Significa anche ... studiare “il modo in cui le persone concettualizzano, orientano e discutono i processi mentali e i comportamenti propri e altrui”1. 1 Pussetti, C., op. cit., pp. 48-51. 153 Bibliografia ANTROPOLOGIA Annuario diretto da Ugo Fabietti, Emozioni, n. 6, a. 5, 2005, Meltemi, Roma. AUGÉ, Marc, “Persona”, in Enciclopedia Einaudi, vol. 10°, Einaudi, Torino, 1980, pp. 651-672. BAPTANDIER Brigitte, “Introduction De la malemort en quelques pays d’Asie”, in BAPTANDIER Brigitte (sous la dir.), De la malemort en quelques pays d’Asie, KARTHALA, Paris, 2001, pp. 7-22. BENE Carmelo, DOTTO, Giancarlo, Vita di Carmelo Bene, Bompiani, Milano, 1998. 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