L`espressione obbligatoria dei sentimenti

Antonella Caforio
L’espressione
obbligatoria
dei sentimenti
Alcune riflessioni
sulle emozioni
nelle società
etnologiche
Pubblicazioni
dell’I.S.U. Università Cattolica
ANTONELLA CAFORIO
L’espressione
obbligatoria
dei sentimenti
Alcune riflessioni
sulle emozioni
nelle società
etnologiche
Milano 2007
© 2007
ISU Università Cattolica – Largo Gemelli, 1 – Milano
http://www.unicatt.it/librario
ISBN 978-88-8311-519-6
in copertina: Episodi della vita coniugale secondo la volontà
degli dèi, dipinto su un paravento giapponese del XVIII secolo.
Venezia, Museo orientale.
Indice
Premessa
7
Che cos’è un’emozione
17
Il caso dei bambini selvaggi
29
“Il dolore stanca”: il rapporto corpo/mente
37
L’apprendimento delle emozioni
51
La cultura come controllo dei sentimenti
67
“Almeno le mie lacrime la terranno legata a
me”: la perdita del controllo e l’eccesso
dei sentimenti
91
La trasformazione dei sentimenti in
comportamenti e istituzioni
La paura
L’invidia
La collera
107
118
129
139
Da una mancanza di comunicazione
ad una categoria: il silenzio
145
Infine...
153
Bibliografia
155
3
a Guglielmo Guariglia
Premessa
emozione: turbamento più o meno vivo dell’animo. Ha un’infinità
di sfumature di significato, adattandosi ai fenomeni più disparati che
agiscono sull’animo umano.... Dal fr. émotion, deriv. del tardo lat.
emòtio-ònis, sommovimento dell’animo.
sensazione: impressione prodotta negli esseri animati da uno stimolo
esterno o interno su un organo di senso, trasmessa dai nervi al cervello
ed elaborata dalla coscienza; percezione di una modificazione fisica o
psichica avvenuta nel proprio organismo; impressione, senso; atteggiamento psichico, stato d’animo; la cosa stessa, lo stimolo che provoca
una determinata impressione fisica e psichica.
sentimento: sensazione interiore profonda e duratura, positiva o
negativa, che coinvolge la sfera emotiva, affettiva o passionale, che
può essere o meno manifestata agli altri; coscienza, consapevolezza
delle proprie azioni e dei propri principi morali (ha un alto sentimento religioso, il sentimento del bene ...), senso; la sfera emotiva in contrapposizione con quella razionale; il modo di sentire e di mostrarsi
agli altri; sensibilità.
Voci del Grande Dizionario Illustrato della Lingua Italiana di Aldo Gabrielli
Un termine oggi molto diffuso soprattutto quando si parla di sentimenti è quello di empatia, che, invece, secondo molti antropologi va usato con prudenza. Per molto tempo,
il concetto di unità psichica del genere umano e la conseguente concezione delle emozioni come naturali e universali giustificarono a livello teorico una supposta possibilità
di comprensione immediata tra persone di culture diverse:
l’antropologo avrebbe quindi potuto comprendere empaticamente le emozioni altrui in quanto identiche alle proprie,
in virtù della comune umanità, e utilizzare senza problemi
le proprie categorie per descrivere un altro mondo affettivo.
In un universo di costumi bizzarri e logiche differenti, era
confortante assumere che gli altri non erano poi così diversi
da noi quando piangevano, ridevano, amavano e si arrabbiavano. Varie critiche sono state a ragione mosse agli approcci
che si sono avvalsi in modo aproblematico dell’empatia co7
L’espressione obbligatoria dei sentimenti
me “sensibilità straordinaria, quasi una capacità preternaturale di sentire, pensare e percepire come i nativi” ... in quanto spostavano la possibilità di comprensione transculturale
in un’improbabile dimensione extraculturale nella quale
sarebbe possibile un accesso emozionale diretto alle persone
di altre culture1.
Ora, il rischio maggiore nell’uso del concetto di
empatia è proprio quello di enunciare delle banalità.
Infatti le vaste generalizzazioni, sosteneva Boas, possono ridursi a luoghi comuni e il compito dell’etnologia diventa, invece, quello di descrivere e analizzare
le differenze nella maniera in cui si manifestano nelle
diverse culture e di renderne conto. Che cosa impariamo, in verità, dal concetto di empatia quando ci
viene detto che esso è universalmente presente, data la
comune appartenenza alla specie umana? Oltretutto,
un uso ingenuo di questo concetto può portare molto
facilmente al malinteso, come nota Pussetti, “in
quanto non considera né il punto di vista dei locali né
il più ampio contesto politico, storico e sociale, e colloca acriticamente l’esperienza degli altri all’interno
di concetti di persona ed emozione propri
dell’antropologo, rischiando di dare luogo “a una
forma di imperialismo occidentale sulle emozioni
degli altri”2.
Piangere la morte di un bambino nelle società
capitalistiche non è equivalente, per esempio, al dolersi per la perdita di un piccolo nelle società etnologiche: cambiano l’intensità, le concezioni di vita, le
finalità ecc. Come riferisce Le Breton, citando uno
studio di Lofland, la sofferenza relativa alla morte
cambia
in funzione soprattutto del grado di investimento del defunto, del tasso di mortalità del gruppo, del modo in cui le
emozioni vengono controllate o esacerbate e infine dal livello di isolamento del soggetto che lo porta a fissarsi sul lutto
1
Pussetti, Chiara, Poetica delle emozioni I Bijagó della Guinea
Bissau, introd. di F. Remotti, Laterza, Bari, 2005, p. 50.
2
Pussetti, C., op. cit., p. 22.
8
L’espressione obbligatoria dei sentimenti
per mancanza di relazione con gli altri o all’inverso ad attenuarne le conseguenze nella trama dei legami sociali. Così
un tasso di mortalità infantile elevato, implicando il rischio
per una famiglia di perdere un bambino in piccola età, favorisce meno l’investimento affettivo al suo riguardo. Se
muore, il lutto non ha in generale l’intensità drammatica
che riveste nelle nostre società in cui il bambino è molto
desiderato, oggetto di un forte investimento dei suoi genitori. Nelle famiglie contadine europee del XVIII o del XIX
secolo in cui la morte colpisce spesso, il lutto ha meno pregnanza sociale... da avvenimento doloroso, ma passeggero, la
morte del bambino è oggi una tragedia. Il cambiamento di
significato della morte porta con sé quello delle attitudini
affettive al suo riguardo, esso trasforma il contenuto e la
durata del lutto3.
Anche Pussetti sottolinea l’importanza degli elementi simbolici nella percezione del dolore quando
afferma che “in società ... con altissimi tassi di mortalità infantile ... è abbastanza comune che il processo di
socializzazione che trasforma un bambino in una persona sociale sia molto lento. Attribuire gradualmente
ai bambini caratteristiche umane quali consapevolezza, volontà, intenzionalità, capacità di provare sentimenti e memoria, è infatti... una strategia che concede
alle madri un periodo piuttosto lungo di attesa prima
di investire materialmente ed emotivamente nei
bambini, consentendo loro di proteggersi dal dolore
della eventuale perdita”4. Del resto, nelle culture etnologiche tutto ciò che riguarda la nascita è evento privato, mai festeggiato a livello sociale e la morte eventuale del neonato deve avere manifestazioni luttuose
molto contenute.
Nella tradizione europea, come in quella di altri
continenti, vita e morte si succedono in un ciclo continuo senza che l’una possa prevalere sull’altra. Il simbolo universalmente riconosciuto di tale ciclo può
essere considerato il chicco di grano che, gettato nel
3
Le Breton, D., Les passions ordinaires Anhtropologie des émotions, Colin, Paris, 2002, p. 108.
4
Pussetti, C., op. cit., pp. 63-64.
9
L’espressione obbligatoria dei sentimenti
terreno in autunno, sembra morire per poi rinascere
in forma di spiga in estate, quindi circa nove mesi dopo. “In questo mondo continuamente in movimento,
nel quale la vita si manifesta sotto forme così diverse,
le specie coesistono senza confondersi: non c’è incontro, alleanza possibile tra la specie umana e una specie
animale e vegetale: solamente strane corrispondenze, i
‘segni’”5. Nulla si confonde, nulla si può confondere
perché l’universo continui nella sua vita ordinata e
meravigliosa – un miracolo quotidiano per l’uomo
del passato –, ma tutte le forme così diverse sono in
corrispondenza tra loro, in continua comunicazione.
Le stesse leggi regolano la vita dell’uomo e quella
dell’universo perché l’essere umano è egli stesso universo e il corpo è semplicemente lo specchio perfetto
del grande corpo dell’universo. Come sostiene un
maestro vietnamita: “se guardiamo le cose in profondità vedremo che una cosa contiene tutte le altre
cose. Se guardi un albero in profondità, scoprirai che
non è soltanto un albero: è anche una persona, una
nuvola, la luce del sole, la terra, gli animali e i minerali... in un pezzo di pane c’è la luce del sole. Non è
difficile da capire: senza sole, il pane non potrebbe
esistere. In un pezzo di pane ci sono le nuvole: senza
nuvole, il grano non potrebbe crescere. Quindi, ogni
volta che mangi un pezzo di pane, mangi le nuvole, la
luce del sole, i minerali, il tempo, lo spazio, tutto...
senza la luce del sole, le nuvole, l’aria, i minerali, un
albero non può sopravvivere”6. L’uomo concepisce se
stesso come un prolungamento dell’universo e nel suo
corpo non ci sono frontiere, ma grande fluidità di
passaggi. “Il suo corpo era ‘aperto al mondo esterno’
attraverso tutte le sue aperture, tutti i suoi fori, tutte
le sue appendici: la sua bocca, gli organi genitali, i
seni, il fallo, il suo ventre prominente, il suo naso. Il
corpo si mescolava con il mondo, gli animali, le cose;
5
Gélis J., L’arbre et le fruit La naissance dans l’Occident moderne (XVI-XIX siècle), Fayard, Paris, 1984, p. 26.
6
Thich Nhat Hanh, La luce del Dharma Dialogo tra cristianesimo e buddhismo, Mondadori, Milano, 2003, pp. 7-16.
10
L’espressione obbligatoria dei sentimenti
era un corpo cosmico”7. Così gli uomini nascono
dalla Terra, fonte inesauribile di vita, e più precisamente dalle sorgenti, dalle pietre o dagli alberi. Il
simbolismo dell’albero come fonte di vita è estremamente antico e anche nella tradizione europea il neonato è sempre paragonato a un germoglio che emerge
“dall’albero-madre e incarna le speranze della famiglia. Che fuoriesca direttamente dal fusto o dalle radici dell’albero, è destinato anche lui a portare dei
frutti un giorno... Così, a immagine della natura, nella
quale la morte vegetale preparava per via sotterranea
la futura mietitura, gli antenati attendevano con impazienza il momento nel quale il corpo del nuovo nato permettesse di assicurare la permanenza del lignaggio”8. Infatti, secondo antiche credenze raccolte,
per esempio, in diversi luoghi della montagna dei Vosgi in Francia, i neonati riportano alla vita l’anima dei
loro antenati. “Per Ognissanti e il Giorno dei Morti, e
più precisamente durante la notte dal 1° al 2 novembre, si effettuava in maniera privilegiata la rinascita
periodica del mondo e dei suoi esseri; ciascuna famiglia, ciascun lignaggio celebrava allora gli antenati la
cui scomparsa non poteva, non doveva essere che
temporanea. Poiché la morte non è che un cambiamento di stato, una nuova vita. Ecco perché la morte
di un bambino era perfettamente accettata nel momento in cui era stato battezzato”9. La morte, quindi,
veniva considerata semplicemente come una trasformazione, un passaggio dalla società visibile dei viventi
a quella, invisibile, degli antenati, che ha i suoi luoghi
e tempi di manifestazione. Come sostengono queste
donne pugliesi:
“Nell’aldilà siamo tutti spiriti, ma si vedono anche se non
c’è il corpo. Siamo uguali come nella vita, ma siamo spiriti...
Siamo spiriti perché così tutti ci cacciamo [ci stiamo tutti
sulla Terra]... Noi simu tutti circondati dagli spiriti. Stanno
7
Gélis, J., op. cit., p. 29.
Gélis, J., op. cit., pp. 89-104.
9
Gélis, J., op. cit., pp. 104-105.
8
11
L’espressione obbligatoria dei sentimenti
dappertutto ... Tutto an giro, ci stanno tutti spiriti e sanno
tutto quello che succede ... Certo noi non li vediamo, ma
loro ci vedono. L’anima del defunto ci vede. Noi le abbiamo
sempre... circondate, le abbiamo in giro”.
Insomma, dietro questi modi di dire e questi
comportamenti traspariva l’idea di un mondo pieno,
di una grande famiglia di vivi e di morti sempre
uguale nel numero; di un ‘capitale costante e continuo di anime’ ripartite nei due mondi, tra i quali gli
scambi si fanno ‘vita per vita, anima per anima’; di
un’umanità continuamente mutevole, ma sempre
una, sotto il suo doppio vestito di vita e di morte,
come è una la natura, il cui sonno invernale precede e
segue le belle mietiture”10.
Così si comprende come presso molte popolazioni, per esempio i Quecha delle Ande peruviane, la
coppia madre-neonato sia pensata come una entità
unica. Se per noi occidentali il neonato è già una persona, non così per gli andini, o per le altre popolazioni etnologiche, per le quali egli è per metà assimilato a sua madre sino a quando, verso i due anni, dopo
lo svezzamento, diviene un essere compiuto che comunque ha ancora un lungo tragitto da compiere per
arrivare alla maturità. Il distacco, la separazione dal
corpo della madre segna, così, l’inizio della costruzione della sua identità come essere vivente così che si
può parlare di una vera e propria fabbricazione sociale del bambino che avviene, appunto, in seguito ad
una lunga serie di rituali e cerimonie.
Presso i Toradja dell’Indonesia, per esempio, il
bambino che muore prima che siano apparsi i denti
non ha diritto a celebrazioni luttuose e il suo corpo
viene incluso in un albero vivente11. Il bambino è un
frutto e quindi il destino e la natura decideranno
della sua maturazione o meno: l’uomo in questo non
può nulla perché anch’egli è soggetto alle leggi della
10
Gélis, J., op. cit., p. 106.
Cfr. Jannel, C., Lontcho, F., Les Toradjas d’Indonesie Laissez venir ceux qui pleurent, Colin, Paris, 1992, p. 71.
11
12
L’espressione obbligatoria dei sentimenti
natura. Secondo le popolazioni etnologiche, come si è
visto, il neonato o il bambino molto piccolo, non essendo ancora considerato una persona, nel caso di
morte ritorna immediatamente da dove è venuto. Secondo i Bijagó, per esempio, “un neonato, fino allo
svezzamento, è infatti ritenuto più vicino alla categoria ‘spirito’ che alla categoria ‘persona’: è incompleto,
ancora senza identità, “nessuno lo conosce, non ha
mai parlato e non ha niente nella testa”, e quindi
“non ha importanza”. La sua morte dunque non viene pianta e il cadavere è abbandonato senza alcuna
cerimonia alle onde del mare o interrato rapidamente
in un posto qualsiasi: non avendo il neonato alcun
significato sociale, non ne ha infatti nemmeno come
defunto”. Perciò una madre non deve piangere per la
perdita del suo bambino poiché “così affliggerà il suo
orebok [spirito, principio vitale] ed egli avrà paura di
ritornare nel suo ventre”12. Sempre per questi motivi
la morte di un neonato o di un bambino che presenta
malformazioni provoca reazioni deboli da parte della
comunità: egli verrà sepolto velocemente, senza una
cerimonia funebre e senza lamenti, nella foresta,
quindi all’esterno del villaggio. Anche in questo caso,
il pianto impedirebbe al neonato di ritornare rapidamente in vita.
O ancora, la morte e il lutto costituiscono per la
nostra società fortemente individualista un’esperienza intima e comunque un evento traumatico che non
presenta una ritualità comune significativa. Nelle società europee del passato, e in quelle etnologiche, invece, la morte era avvenimento sociale per eccellenza,
spesso con un personaggio d’eccezione, la prefica, ad
incarnare il dolore della comunità e non solo della
famiglia colpita dal lutto. Sempre presso i Bijagó, per
esempio, secondo numerosi osservatori, gli uomini si
uccidevano alla minima provocazione e in generale
usano impiccarsi poiché la morte per un Bijagó
12
Pussetti, C., op. cit., 156.
13
L’espressione obbligatoria dei sentimenti
“non è niente più che un breve sonno, e a causa di questa
certezza di essere istantaneamente reincarnati nel loro paese, un Bijagó si mette la corda al collo e si impicca con la
stessa facilità con cui noi ci mettiamo la cravatta. Il caso più
recente è quello che accadde a Bissau. Una piroga di Bijagò
lasciò il porto, dimenticando a terra uno dei loro compagni.
L’abbandonato, venuta la bassa marea, malgrado i suoi tentativi e le sue grida non riuscì a farsi sentire dalla piroga, che
si era già di molto allontanata. Fece allora questo ragionamento: “loro mi hanno abbandonato, ma io arriverò per
primo nel mio paese e allo stesso istante, afferrata un’ascia,
si tagliò la gola ... altri confermano che i Bijagò si suicidano
per questioni veramente futili [naturalmente per noi]”13.
Tutto ciò che noi possiamo fare, come chiariva
Lévi-Strauss quando scriveva dei rapporti tra storia e
etnologia, è l’ampliamento di un’esperienza particolare fino a che diventi più generale in modo che possa
essere accessibile in quanto esperienza ad uomini di
altri paesi o di altri tempi ed eventualmente essere
discussa o scelta. In altri scritti, sempre Lévi-Strauss
sosteneva che definire la cultura attraverso le sue proprietà formali – quali le credenze religiose, le regole di
matrimonio ecc. – non basta, così come sapere che
esistono tratti universali della condizione umana non
ci insegna molto sull’uomo. “Constatarlo non basta;
occorre anche capire perché queste credenze e queste
regole sono diverse da una società all’altra, o talora
addirittura contraddittorie. La cura dei morti, paura
o rispetto, è universale; ma qualche volta si manifesta
in pratiche tendenti ad allontanarli definitivamente
dalla comunità dei vivi perché sono ritenuti pericolosi, altre volte, al contrario, in azioni che mirano ad
accaparrarli, ad implicarli in ogni istante nelle lotte
dei viventi... il problema della cultura, e quindi della
condizione umana, quale si pone oggi agli etnologi,
consiste nello scoprire le leggi d’ordine, sottostanti
alla diversità osservabile delle credenze e delle istituzioni... Esse sole, invarianti attraverso le epoche e le
culture, potranno permettere di scavalcare l’antino13
14
Pussetti, C., op. cit., p. 95.
L’espressione obbligatoria dei sentimenti
mia apparente tra l’unicità della condizione umana e
la pluralità apparentemente sconfinata delle forme
sotto cui la percepiamo”14.
Lo studio della diversità serve molto: scoprire che
qualunque fenomeno, in apparenza arbitrario, obbedisce a leggi universali non accessibili immediatamente all’osservazione empirica, questo sì permette di
comprendere la sostanziale uguaglianza degli esseri
umani, ma su basi profonde di conoscenza e riflessione. Come insegna lo strutturalismo, tutto l’universo
mentale dell’uomo, compresi i miti considerati frutto
di libera inventiva sociale, obbedisce ad una ferrea
logica ed è governato da determinate leggi e strutture,
di natura per lo più inconscia. Comprendere questi
meccanismi e vederli all’opera in persone di società
diverse dà la possibilità a noi di rispettare realmente
l’altro e di avere con lui un rapporto tra uguali. Il rispetto, infatti, nasce solo dalla comprensione profonda.
E, in fondo, come pensano i Bijagó, è anche possibile un ‘contagio delle emozioni’ poiché esse
“al pari delle malattie, possono passare da una persona
all’altra, specialmente qualora queste condividano una relazione di prossimità, penetrando facilmente i permeabili
confini corporei. Questa trasmissione avviene in modo involontario e quotidiano, senza necessità di prendere appunti o accendere il registratore, semplicemente partecipando delle stesse situazioni, in particolar modo quando
queste siano di particolare intensità emotiva, come nel caso
di conflitti o crisi... Restava innanzitutto a me, secondo i
miei anziani precettori, adottando un’attitudine umile, attenta e ricettiva, rendere il mio corpo accessibile, e al loro
impegno e pazienza trovare il modo di ‘aprire i miei occhi e
le mie orecchie’, ciechi e sorde alle loro parole”15.
14
Lévi-Strauss, C., Lo sguardo da lontano, Einaudi, Torino,
1984, pp. 43-44.
15
Pussetti, C., op. cit., p. 23.
15
Che cos’è un’emozione
Che cos’è un’emozione? Che cosa significa parlare
di ‘mia’ o ‘nostra’ nozione di emozione, ammesso che
esistano così come ne parliamo abitualmente? Per
molto tempo, gli antropologi sono stati molto riluttanti nell’affrontare tale materia che “come la vetta di
una montagna, ... presenta un’apparente immediatezza e concretezza, e tuttavia ha la caratteristica di svanire in una nebbia concettuale”1. Il tema in verità
rappresenta proprio, come sottolinea Pussetti, una
zona di vere e proprie sabbie mobili tanto che la lettura delle emozioni come costruzione sociale si sviluppa in antropologia piuttosto tardi, essenzialmente
a partire dagli anni settanta “anche in seguito alle note affermazioni di Geertz secondo il quale “non solo
le idee, ma anche le emozioni dell’uomo sono manufatti culturali ... e le passioni sono culturali quanto gli
stratagemmi”2.
Una prima riflessione che questo tema suscita riguarda non solo la struttura di concetti come la morte, la gioia, la sofferenza, le emozioni nelle altre società, ma anche le origini dei termini e gli usi linguistici
delle categorie adottate. Come sostiene sempre Pussetti, di fronte alle definizioni, tutti sanno cosa è
un’emozione fino a quando non ci viene richiesto di
definirla. Anzi, “nonostante molti psicologi diano per
scontata l’esistenza di un corrispettivo di ‘emozione’
in tutte le lingue, considerandola un’esperienza universale, in alcune culture questo concetto non viene
distinto in quanto categoria autonoma, quanto piuttosto assimilato ad altre forme di esperienza e connesso ad altri aspetti della realtà”3.
1
Pussetti C., “Introduzione Discorsi sull’emozione”, in Antropologia Annuario diretto da Ugo Fabietti, n. 6, a. 5, 2005, p. 6.
2
Pussetti, C., Introduzione cit., p. 7.
3
Pussetti, C., Poetica cit., p. 27.
17
L’espressione obbligatoria dei sentimenti
L’estrema varietà delle concezioni sui sentimenti
si riflette del resto già nel vocabolario, molto limitato
presso numerose popolazioni, invece ricco anche di
centinaia di termini in altre, la qual cosa naturalmente ha la sua spiegazione nelle idee riguardanti la famiglia, le attività sociali, quelle economiche ecc. La
parola ‘emozione’ non trova, per esempio, un equivalente nelle lingue dei Papua della Nuova Guinea,
degli Aborigeni australiani e di altre popolazioni come i Bijagó della Guinea Bissau. Le stesse definizioni
del concetto di persona mettono in evidenza, inoltre,
come la separazione netta propria dell’Occidente tra
corpo e mente, pensiero e sentimento, pubblico e privato, spesso si dimostra inadeguata in molte altre culture. Molti studiosi si sono chiesti se esistono emozioni che possiamo considerare primarie e universali,
ma non è mai stato trovato un accordo sul repertorio
eventuale delle emozioni che si pretendono essere innate e fisiologicamente descrivibili. Inoltre nessuna
struttura neurofisiologica autorizza a credere nell’esistenza di emozioni ad essa collegate. Così la nozione
di ‘emozione di base’ rimane un’ipotesi di scuola e la
stessa domanda risulta essere errata, “come se si domandasse quali sono i popoli di base? sperando di ottenere una risposta che chiarisca la diversità umana”4.
L’emozione, inoltre, ha a che fare strettamente con il
concetto di identità: come sostiene Ferrarotti, noi
siamo ciò che ricordiamo di essere e quindi l’identità
non è tanto una sostanza, quanto un sentimento che
non ha realtà in sé. Esso infatti non dipende dalla natura umana, ma dalle condizioni sociali della sua esistenza, dal tessuto sociale, dalla sensibilità particolare
dell’individuo ed è il sentimento ad orientare lo stile
delle relazioni tra le persone, ad assegnarne valori e
gerarchie. Come nota Le Breton, “la particolarità sociale e culturale dell’affettività delle società, il fatto
che gli ethos differiscano sensibilmente in luoghi e
tempi diversi secondo gli orientamenti collettivi, si
4
18
Le Breton, D., op. cit., p. 168.
L’espressione obbligatoria dei sentimenti
notano dall’esistenza di emozioni o di sentimenti che
non sono traducibili senza errori grossolani di interpretazione nel vocabolario di un altro gruppo... numerosi etnologi dicono così la loro impotenza a render conto della cultura affettiva della società che studiano a causa della sua singolarità”5. L’esistenza umana è già, essa stessa, forma affettiva tanto che, tra gli
Indo-Figiani dell’Oceania, i sentimenti non sono ritenuti stati della mente, eventi interiori, ma vengono
individuati negli avvenimenti stessi. Così in Grecia, le
attività nei caffè frequentati solo dagli uomini tendono a far dimenticare le preoccupazioni e gli affanni
della quotidianità per far emergere lo stato di kefi,
‘buonumore’, il quale non è una emozione solitaria,
ma un sentimento condiviso, vissuto in un luogo
preciso e in seguito ad eventi determinati. In questo
modo, l’emozione, difficilmente controllabile e
quindi pericolosa, viene come rimodellata e trasformata in qualcosa di molto più facile da gestire, quindi
in un avvenimento che produce un ‘umore’, uno stato
d’animo. “Il kefi è legato a una socialità liberamente,
volontariamente condivisa, così come è messa in opera nel caffè: bere in compagnia, cantare, danzare; derti
[cattivo umore] e ponos [dolore, pena] sopravvengono nei contesti di una socialità contrattuale, funzionale, a carattere più (il lavoro dipendente) o meno (il
matrimonio) obbligatorio”6. Il ‘buonumore’ è propriamente “uno stato affettivo di gioia e di distensione, idealmente, uno stato presociale di purezza emozionale e di leggerezza dal quale il sé si lascia penetrare
e del quale partecipa”7.
Dunque, parlare di emozioni in senso assoluto
comporta senza dubbio un ritorno al concetto di etnocentrismo poiché si presuppone implicitamente un
significato comune per le diverse culture. Come sostiene Le Breton, “i motivi di vergogna, per esempio,
5
Le Breton, op. cit., p. 126.
Papataxiarchis, E., “Émotions et stratégies d’autonomie en
Grèce égéenne”, TERRAIN, 22, mars 1994, p. 11.
7
Papataxiarchis, E., op. cit., p. 12.
6
19
L’espressione obbligatoria dei sentimenti
possono essere diversi, sconosciuti ad altre società, le
conseguenze ben differenti e il sentire affettivo così
guardato non avere nulla dei tratti comuni con quello
di un individuo “che prova vergogna” nelle nostre
società”8. ‘Avere i nervi’, per esempio, per noi vuol
dire essere arrabbiato o agitato, mentre per i Bijagó
l’esperienza dell’attacco di nervi è collegata all’etica
del controllo dei sentimenti e può essere intesa anche
come una risposta a fratture di carattere sociale o
familiare. Come spiega Pussetti
Quando la situazione si calma, chiedo ... che cosa significa
‘avere i nervi’. Loro mi rispondono in bijagó: Kariá è alterato; non si sa controllare e trema per i nervi (tendini, muscoli, vasi sanguigni). Mi spiegano in seguito che è abbastanza normale che i giovani vengano presi dai nervi, in
special modo qualora vengano pubblicamente rimproverati
o derisi... questo ikosó [avere i nervi] ... è un kutribá
[pensiero-sentimento] che si prova generalmente quando si
perde il controllo di fronte agli anziani, mentre non lo si
sente in presenza di donne o bambini. Un esempio tipico è
l’ubriachezza, che è motivo di ikosó solo se sotto lo sguardo
di superiori di grado d’età. La causa, ossia l’elemento che
suscita questo kutribá è quindi individuato nella percezione
di aver infranto una norma sociale, ma all’interno di una
relazione interpersonale asimmetrica, ossia di fronte a persone superiori per età o che sono comunque in una situazione di potere e quindi rappresentano in un certo senso le
norme che sono state infrante. In questo caso forse la traduzione più adeguata è ‘vergogna’, pur tenendo conto delle
effettive differenze9.
La depressione, altro sentimento a noi molto noto, non trova, per esempio, equivalenti semantici in
molte lingue di società non occidentali o in quella cinese. Anzi uno studio transculturale su questo sentimento ha messo in evidenza come essa non sia affatto
rappresentata nel lessico dei popoli non occidentali e
ciò dovrebbe far riflettere. Sappiamo, infatti, che molte malattie in realtà sono delle creazioni sociali: si
8
9
20
Le Breton, D., op. cit., p. 126.
Pussetti, C., op. cit., pp. 89-90.
L’espressione obbligatoria dei sentimenti
pensi, per esempio, nelle nostre società alla bulimia o
all’anoressia.
Il concetto di ama, considerato dallo psichiatra
Doi come un concetto basilare per comprendere la
visione del mondo giapponese, non ha anch’esso
equivalenti in altre lingue poiché rinvia ad una cultura specifica, appunto quella sviluppatasi in Giappone.
I giapponesi stessi si sorprendono per l’assenza di un
termine equivalente nell’Occidente e tale sentimento
potrebbe essere definito con queste perifrasi
“dipendere dall’amore di un altro”, “riscaldarsi” o “abbandonarsi alla dolcezza di un altro” per il quale si prova allo
stesso tempo ammirazione. L’emozione si riferisce a una
gradevole dipendenza, alla ricerca di una gratificazione o
all’abbandono passivo all’affetto di un’altra persona... il
comportamento del bambino nei confronti della madre dà
l’archetipo di un sentimento che proseguirà in seguito su un
altro registro... al di là del modello d’origine, il sentimento
ama si ritrova nelle relazioni tra marito e moglie, maestro e
discepolo ecc. Sul fondo di una relazione asimmetrica, ama
introduce un calore riconfortante, una dolce intimità. La
verticalità delle relazioni sociali nel Giappone è un principio di spiegazione della essenzialità di questo sentimento
che valorizza e rende meno dura una dipendenza personale... Doi analizza l’intrico di sentimenti legati all’ama che
compone la vita affettiva dei giapponesi... I giapponesi ...
pensano che l’uso delle parole possa raffreddare l’atmosfera
mentre gli americani al contrario si sentono incoraggiati e
rassicurati da una tale comunicazione. Ciò è legato alla psicologia dell’ama perché in Giappone coloro che sono vicini
uno all’altro – o piuttosto coloro che hanno il privilegio di
fondersi insieme – non hanno bisogno di parole per esprimere i loro sentimenti. Bisogna non essere a stretto contatto con l’altro (mancare di ama) per provare così la necessità
di usare le parole10.
Questo esempio mette molto bene in evidenza
come sia impossibile comprendere in quale modo
possa essere vissuto un sentimento se non si conosce
altrettanto bene la cultura a cui esso appartiene.
10
Le Breton, D., op. cit., pp. 127-128.
21
L’espressione obbligatoria dei sentimenti
Un altro esempio illuminante riguarda un’emozione spagnola, la verguenza ajena, caratterizzata da
uno sconvolgimento interiore “che si prova alla vista
di un individuo il quale si comporta in modo inadeguato. La vergogna provata rimane esterna all’individuo che non partecipa per nulla all’infrazione delle
norme, né si sente colpevole. Ma la risonanza affettiva
è così forte che essa è differenziata dalle altre perché
tocca una nozione chiave della cultura spagnola,
quella della dignitad”11. La verguenza ajena, che si ritrova anche nel sud d’Italia ed è spesso espressa da un
modo di dire molto diffuso, quale ‘mi vergogno per te
o per Tizio’, “è un’arma terribile per squalificare
un’azione o un attore, coloro che ne sono all’origine
vengono considerati come ridicoli, e ciò per la cultura
spagnola diventa un marchio temibile”12. Anche in
questo caso, non si può comprendere questo sentimento se non si conosce bene l’importanza in questi
paesi del concetto di onore così sapientemente studiato per esempio da Bourdieu13.
Oltre a ciò, molte altre culture possono unire
quelle che noi consideriamo emozioni distinte, creando nuove categorie, oppure individuare emozioni
particolari e originali che non trovano facilmente una
corrispondenza nella nostra classificazione emozionale. Alcune lingue africane, per esempio, assimilano in
un unico termine ‘tristezza’ e ‘rabbia’ mentre l’espressione ilongot delle Filippine liget significa contemporaneamente rabbia e invidia.
Così, presso i Kaingang del Brasile, l’ira implica
sentimenti diversi dai nostri, come sottolinea Henry
In molte lingue esistono parole che hanno implicazioni, e
quindi effetti emotivi, le cui origini non possono essere rivelate grazie alla semplice conoscenza delle definizioni delle
parole stesse. Simili parole possiedono aure emotive che
non sono affatto evidenti per le loro definizioni. “Libertà”,
11
Le Breton, D., op. cit., p. 129.
Ibidem.
13
Cfr. Bourdieu, P., Per una teoria della pratica con Tre studi
di etnologia cabila, Cortina, Milano, 2003.
12
22
L’espressione obbligatoria dei sentimenti
“eguaglianza” e “democrazia” ne sono, in inglese, degli
esempi. Queste parole, in virtù della loro storia culturale e,
in particolare, a causa del loro rapporto con la storia degli
Stati Uniti, hanno un grosso effetto su qualunque uditorio
composto da americani. Si dovrà riconoscere che un tale
effetto è del tutto sproporzionato rispetto al significato effettivo di queste parole... Fenomeni analoghi si verificano
anche a livello primitivo, ma le loro radici possono spesso
trovarsi a tale profondità da non poter essere svelate se non
mediante una conoscenza approfondita della popolazione.
In kaingang ... “essere adirato” potrebbe essere un buon
esempio di una parola del genere ... nella società kaingang la
paura spesso si muta in collera. Una persona spaventata può
sia sfuggire alla causa della sua paura sia aggredirla e distruggerla in preda a un violento accesso d’ira... Ho udito i Kaingang descrivere un incontro con un serpente, un animale
che temono anche più del giaguaro: “egli [l’uomo] si arrabbiò [con il serpente] e lo uccise”. In una situazione di faida,
in cui due gruppi vivono assieme in un reciproco terrore
mortale, la tensione ha come conseguenza l’omicidio e una
manifestazione emotiva che viene descritta e percepita come rabbia14.
Si deve, perciò, ricordare sempre che tutte le
emozioni o i sentimenti vengono valutati sempre e
soltanto secondo un metro di giudizio sociale, cioè
secondo l’utilità o meno che quel determinato sentimento può avere all’interno di un gruppo. Nessun
sentimento, infatti, viene mai considerato nel senso
privato, personale, ma solo secondo forme e modi che
possano essere ‘intesi’ e ‘comunicati’ all’interno della
società ed ecco perché essi prevedono sempre forme
altamente convenzionali, rigide. Così anche sentimenti intensi come il dolore, il desiderio, la gelosia,
trovano, attraverso delle forme ben definite, quali i
canti, i lamenti, la poesia, la danza, una espressione
che “rispettando i criteri estetici locali di coerenza,
controllo e bellezza, non rappresenta un pericolo per
l’individuo né per il gruppo, né costituisce un’effettiva ribellione contro i valori della società. Questi lin14
Henry, J., L’espressione linguistica dell’emozione, Ei, Roma,
1994, pp. 21-23.
23
L’espressione obbligatoria dei sentimenti
guaggi permettono dunque di esprimere affetti personali, intensi e pericolosi, attraverso simboli e significati pubblicamente accettati: un processo che è stato
definito ... ‘lavoro della cultura’”15.
A noi, invece, le percezioni sensoriali e l’espressione delle emozioni sembrano “emanazioni dell’intimità più segreta del soggetto” e quindi assolutamente
spontanee e individuali16. Tuttavia gli stessi gesti, come già rilevava Mauss, non sono pura e semplice fisiologia, né sola psicologia, ma il simbolismo corporale è
l’insieme di questi due elementi. Allo stesso modo, le
emozioni non sono sostanze che possiamo trasferire
da una persona o da un gruppo all’altro e neppure
processi puramente fisiologici: esse sono relazioni,
cioè il frutto di una valutazione di una situazione
all’interno di una cultura affettiva che fornisce gli
schemi d’esperienza e di azione. L’individuo, in questo contesto già determinato, costruisce la sua condotta e quindi le emozioni secondo la sua storia, il suo
carattere e il suo stile di vita.
Se l’insieme degli uomini del pianeta dispone dello stesso
apparato fonatorio, essi non parlano necessariamente la
stessa lingua; allo stesso modo se la struttura muscolare e
nervosa è identica, ciò non lascia presagire in nulla gli usi
culturali alla quale essa darà luogo. Da una società umana ad
un’altra, gli uomini sentono affettivamente gli avvenimenti
della loro esistenza attraverso repertori culturali differenti
che qualche volta si rassomigliano, ma non sono identici.
Ciascun termine del lessico affettivo di una società o di un
gruppo sociale deve essere messo in rapporto con il contesto
locale ...Si tratta di evitare la confusione tra le parole e le
cose e di naturalizzare le emozioni trasportandole senza
precauzioni da una cultura all’altra attraverso un sistema di
traduzione cieco alle condizioni sociali dell’esistenza che
avvolge l’affettività. In un contesto di comparazione tra le
culture, l’impiego dei termini affettivi impone di metterli
15
16
24
Pussetti, C., op. cit., p. 146.
Le Breton, D., op. cit., p. 7.
L’espressione obbligatoria dei sentimenti
sempre tra virgolette per ricordare l’indeterminatezza che li
circonda17.
Come già aveva visto bene Aristotele, le emozioni
vanno ricercate nella questione del senso da dare a
qualunque avvenimento. “Nel terrore che si impadronisce di una folla, nell’odio razzista o nelle manifestazioni di furore individuale o collettivo, non vi è
alcun trionfo dell’“irrazionale” o della “natura”, ma
l’intervento di un ragionamento, di una logica mentale, di un’atmosfera sociale”18. Secondo alcuni studiosi,
invece, l’emozione nasce semplicemente dai cambiamenti del corpo e solo in seguito interviene il pensiero: il pianto, il tremito, l’atto di picchiare ecc., cioè
dei fenomeni puramente fisiologici, producono solo
secondariamente l’emozione, quindi una sensazione
dell’avvenimento. In poche parole, secondo queste
analisi, non è pensabile un’emozione che non abbia
un radicamento e una sensazione organica cosicché
diventerebbe semplicemente una conseguenza della
consapevolezza del cambiamento corporeo. Altri
studiosi, invece, sono dell’opinione che sia la consapevolezza del fatto a determinare l’emozione e non
l’inverso. Come sottolinea Le Breton: “non è il corpo
ad essere commosso, ma il soggetto”19. A questo proposito, è dimostrato come il mutamento del ritmo
cardiaco, della pressione sanguigna o la dilatazione
delle pupille di per sé possa significare emozioni piuttosto diverse, quali la gioia, la collera o la paura. Comunque, secondo i dati dell’esperienza, il contenuto
dell’emozione è dato dall’interpretazione diversa che
l’individuo fornisce dell’evento, come in questo
esempio chiarificatore
Un uomo è spaventato se si sente minacciato da un rumore
sospetto nella sua casa; avanza con timore, ma si rassicura se
vede una finestra rimasta aperta e agitata dal vento. Ma la
paura può ritornare se si ricorda di averla chiusa prima e
17
Le Breton, D., op. cit., p. 7.
Le Breton, D., op. cit., p. 99.
19
Le Breton, op. cit., p. 102.
18
25
L’espressione obbligatoria dei sentimenti
scopre allora la maniglia forzata. Da un ragionamento
all’altro l’emozione cambia radicalmente di forma. L’individuo spinto su un marciapiede da un passante anche lui
intrappolato nei movimenti della folla passa oltre in tutta
indifferenza, ma non se è stato brutalmente spintonato...
per essere presi dalla rabbia occorre un motivo, come diceva
Aristotele, il sentimento di essere stato oggetto di un’aggressione, o di un disprezzo che sconvolge il senso della dignità personale20.
La propria storia, la propria psicologia e soprattutto le scelte culturali della società cui si appartiene
sono così essenziali nell’elaborazione delle emozioni e
dei sentimenti che qualunque individuo può benissimo arrivare sino alla morte nel momento in cui interiorizza, per esempio, la convinzione del tutto culturale di essere vittima di stregoni, o maghi come
nelle nostre società, o di aver infranto un tabu. Illuminante, a questo proposito, è il breve saggio di Marcel Mauss sulla suggestione collettiva dell’idea di morte a partire da alcuni fatti australiani o neozelandesi21.
Dunque, perché un sentimento possa essere espresso
e di conseguenza provato, esso deve fare parte in
qualche forma del repertorio culturale del suo gruppo
poiché le emozioni non sono altro che “modalità di
affiliazione ad una comunità sociale, un modo di riconoscersi e di poter comunicare insieme su un fondo
di un sentire comune”22. Se, infatti, non si condivide
uno stesso mondo simbolico, non si può neppure
comunicare alcun sentimento poiché esso risulta incomprensibile ad un altro che non appartenga al
gruppo.
Mi sembrano, perciò, veramente illuminanti le
conclusioni a cui giunge la linguista Wierzbicka che
così scrive:
l’unità psichica dell’umanità non risiede nell’universalità
apparente di nozioni quali l’amore, la collera o la gioia, ma
20
Le Breton, D., op. cit., p. 103.
Cfr. Mauss, M., Teoria della magia e altri saggi, Boringhieri,
Torino, 1965, p. 330 sgg.
22
Le Breton D., op. cit., p. 104.
21
26
L’espressione obbligatoria dei sentimenti
nell’universalità di nozioni più elementari, come volere,
dire, sapere, pensare, buono, cattivo eccetera, che sembrano
avere una realizzazione lessicale in tutte le lingue. Le nozioni del campo dei sentimenti, quali l’amore, la collera o la
gioia risultano essere delle configurazioni specifiche di queste nozioni elementari; esse sono comparabili tuttavia alle
configurazioni concettuali di altre lingue o di altre culture,
perché tutte queste configurazioni riposano su idee universali, semplici e chiare, espresse negli elementi indefinibili di
tutte le lingue del mondo23.
23
Le Breton, D., op. cit., p. 132.
27
Il caso dei bambini selvaggi
Alla sua nascita e nei primi anni della sua esistenza, l’uomo è
il più sguarnito tra gli animali. La venuta nel mondo di un
bambino è quella di un organismo prematuro ... che deve
essere completamente plasmato. Questa incompletezza non
è solamente fisica, ma anche psichica, sociale, culturale. Il
piccolo uomo ... deve acquisire i segni e i simboli che gli
permettano di dotarsi di un mezzo per comprendere il
mondo e comunicare con gli altri. Alla sua nascita,
l’orizzonte del neonato è infinito, aperto a tutte le sollecitazioni, mentre le condizioni future della vita dell’animale
sono essenzialmente già lì, iscritte nel suo programma genetico, praticamente immutabili all’interno di una stessa
specie. Nell’uomo, invece, l’educazione supplisce agli orientamenti genetici che non assegnano alcun comportamento
prestabilito, né determinano la sua intelligenza. La natura
dell’uomo si realizza solo all’interno della cultura che lo accoglie ... egli dispone esattamente della stessa costituzione
fisica dell’uomo del neolitico. Così il neonato dell’età della
pietra continua a nascere in ogni istante in tutti i luoghi
della terra con la stessa possibilità di apertura e la stessa attitudine ad entrare nel sistema di senso e di valori del gruppo
che lo accoglie1.
L’uomo, infatti, possiede, a differenza degli animali, il sistema simbolico e l’educazione ha appunto
la funzione di modellare il linguaggio, la gestualità,
l’espressione dei sentimenti, le percezioni sensoriali
ecc. secondo le esigenze del gruppo. Il simbolico diventa nondimeno corporeità che permette di comprendere istintivamente le modalità corporee degli
altri e di comunicare. Nella specie umana, del resto,
nessun bambino – e per molti versi neppure un adulto – potrebbe sopravvivere all’abbandono del gruppo.
Riguardo a questo tema molto utile per comprendere
a fondo la malleabilità profonda della nostra specie, vi
1
Le Breton, D., op. cit., pp. 11-12.
29
L’espressione obbligatoria dei sentimenti
sono numerosi documenti storici che hanno permesso la ricostruzione delle vicende di alcuni bambini
sopravvissuti all’isolamento precoce dalla comunità
umana. Di per sé, già il concetto di ‘bambino selvaggio’ ancora oggi suscita inquietudine nel nostro immaginario. I bambini ‘selvaggi’ possono essere suddivisi in due categorie: da una parte vi sono i bimbi allevati o raccolti da un animale in seguito a circostanze
eccezionali, quali la guerra, che si identificano anche
corporeamente agli animali con i quali vivono e
dall’altra dei piccoli abbandonati o persi per indifferenza o negligenza dai loro genitori nella prima età.
“Il denominatore comune a queste categorie di bambini consiste in un isolamento precoce e nell’assenza
di una mediazione umana sufficientemente prolungata per assicurare loro una entrata socializzata nel
mondo che li circonda. La denominazione di ‘selvaggio’ è solo un’immagine eccessiva ereditata dai
Lumi e rinvia ad una carenza di educazione, ad
un’assenza sensibile degli altri nei primi anni della
loro esistenza”2.
Le testimonianze su bambini raccolti dagli animali – in genere lupi, orsi, pecore, leopardi ecc. – sono piuttosto rare, ma confermano che “anche le nostre sensazioni più intime, le più impercettibili, i limiti delle nostre percezioni, i nostri gesti più elementari, la forma stessa del nostro corpo e anche molti
altri tratti dipendono dall’ambiente sociale e culturale. Le modalità di espressione corporea del bambino
vissuto insieme ad un animale dicono con chiarezza
quanto noi siamo modellati dall’ambiente circostante
nonostante il nostro sentimento di autonomia e di
spontaneità”3.
In India, sino agli inizi del 1900, sono stati scoperti numerosi casi di bambini allevati da lupi: essi si
comportano esattamente come loro, e la loro stessa
costituzione fisica rassomiglia a quella degli animali,
2
3
30
Le Breton, D., op. cit., pp. 11-13.
Le Breton, D. op. cit., p. 14.
L’espressione obbligatoria dei sentimenti
con occhi che brillano nell’oscurità, denti ravvicinati
con bordi taglienti, canini lunghi e appuntiti ecc. Anche questi bambini si muovono, corrono, mangiano,
dormono come gli animali con i quali vivono e ciò
sottolinea in maniera precisa la malleabilità del corpo
umano. Inoltre essi sembrano conoscere solo emozioni come la collera o l’impazienza mentre ignorano
la risata o il sorriso, ma si rivelano docili di fronte agli
sforzi degli educatori e trasformano molto rapidamente le loro antiche esperienze corporee. Essi, inoltre, si conformano abbastanza alle regole del loro
nuovo gruppo senza riuscire mai a cancellare del tutto
le tracce del loro passato poiché la durata del loro
isolamento costituirà sempre un limite. L’educazione
li porterà, per esempio, a parlare e ad esprimere alcuni
sentimenti, ma la loro storia sembra essere quella di
una forma di violenza esercitata per ricondurre il loro
corpo e la loro intelligenza a dimensioni socialmente
accettabili tanto è vero che la maggior parte di questi
bambini muore precocemente. Comunque, sono impressionanti i resoconti di coloro che hanno potuto
conoscere questi ragazzi in quanto immediatamente
ci si rende conto della potenza della cultura: veramente la specie umana può essere qualunque cosa, basta
che lo voglia.
Si può citare come esempio il caso di Victor, un
ragazzino francese di dodici anni abbandonato forse
verso i quattro o cinque anni nell’Aveyron e ritrovato
nel 1800. Egli sembrava muto, a parte l’emissione di
grida gutturali e uniformi, insensibile alle minacce o
alle carezze, indifferente alle donne, ai suoni, agli
odori e ai profumi, incapace di fissare la sua attenzione su un oggetto e sembrava ignorare le lacrime.
Quando venne scoperto, il ragazzino viveva interamente nudo nonostante gli inverni molto freddi. In
pieno inverno, si rotolava nella neve cosicché il suo
tutore iniziò ad imporgli giornalmente dei bagni di
diverse ore nell’acqua calda, quindi in quella fredda.
Victor, così, iniziò a temere il freddo, e divenne molto
31
L’espressione obbligatoria dei sentimenti
fragile mentre prima godeva di ottima salute4. Inoltre,
seduto vicino al fuoco, raccoglieva senza fretta i carboni ardenti e li deponeva nel focolare o ancora toglieva le patate dall’acqua bollente per mangiarle immediatamente, pur avendo una pelle sottile e vellutata. Le analisi approfondite hanno sottolineato il carattere selettivo dei suoni che interessavano il ragazzo:
il rumore di una noce caduta accanto a lui, delle voci
che lo disturbavano e dalle quali cercava di allontanarsi attraevano la sua attenzione, mentre restava indifferente ad altre stimolazioni sonore che non erano
legate ad alcun significato a lui conosciuto. Inoltre
egli usava in abbondanza il linguaggio dei gesti. Come
rileva Le Breton, i ragazzi selvaggi ci insegnano che all’interno di una società le attitudini del corpo sono
lontane dall’essere tutte concretizzate. Ciascun individuo realizza nella sua esperienza corporea solo una
piccolissima parte delle possibilità offerte dalla natura
e nello stesso tempo l’educazione e l’ambiente circostante influiscono in modo determinante nel campo
della vita organica, cioè in quella sezione che sembrerebbe sfuggire alle influenze esterne: le percezioni
sensoriali, il campo dei sentimenti e delle emozioni,
per esempio. Inoltre, secondo la loro età, le condizioni e la durata del loro isolamento, questi ragazzi,
una volta reinseriti nella vita sociale, riescono solo in
parte a riprendere i loro sistemi percettivi o gestuali:
Victor, per esempio, non parlerà mai poiché il suo
isolamento si era protratto per troppo tempo e la sua
età non gli permetterà che una flessibilità molto limitata.
Un altro caso studiato è stato quello, molto conosciuto, di Kaspard Hauser, un ragazzo di circa 17
anni rinchiuso per molti anni da solo in un mastio e
ritrovato nel 1828 a Norimberga: anch’egli, come altri ragazzi selvaggi, vede perfettamente nella notte e
ha una forte sensibilità olfattiva.
4
32
Le Breton, D., op. cit., p. 20 sgg.
L’espressione obbligatoria dei sentimenti
Insomma, questi casi dimostrano la rilevante elasticità e resistenza del corpo umano mentre le trasformazioni fisiche, le singolarità sensoriali o affettive
di cui danno prova sono legate alla durata del loro
isolamento e alla pressione dell’ambiente circostante.
Esse sono una conseguenza della loro capacità di
adattamento: il trauma iniziale (isolamento immediato, allevamento da parte di un animale, abbandono
dei genitori ecc.) non deve per nulla intaccare in profondità le loro difese psicologiche. Questa è la prima
condizione per la sopravvivenza di un uomo che si
ritrova improvvisamente in situazioni estreme, come
si può notare nei casi di naufraghi rinvenuti morti nei
loro canotti dopo soltanto qualche giorno di deriva:
fisiologicamente, non vi è alcuna ragione per la loro
morte precoce. In realtà, essi non sono morti né per la
fame né per la sete, ma semplicemente a causa della
disperazione. Così, per un Victor che riesce a sopravvivere, ve ne sono molti morti per sfinimento o divorati dagli animali: solo una volontà tenace rende possibile l’adattamento progressivo ad una situazione
estrema e quindi una forza di carattere poco comune
che non ci permette, perciò, di evocare la debolezza
mentale per questi soggetti. Invece, per quanto riguarda certe funzioni, come la parola o l’intelligenza,
queste esperienze mettono in evidenza come esse si
possono realizzare solo in un momento preciso della
crescita individuale in quanto sono legate agli scambi
tra il bambino e il suo ambiente. Tuttavia, come molto giustamente e acutamente osserva Le Breton,
i ragazzi ‘selvaggi’ non sono un negativo della socialità, non
ne sono che una singolare deviazione. Essi realizzano ai
margini della vita collettiva alcune varianti delle possibilità
corporee che la cultura trascura (visione notturna, resistenza al freddo, quadripedia, ecc.). Essi non sfuggono
all’‘umanità’ dei loro corpi né alle sue virtualità. Tutte le
modalità fisiche che mettono in opera per sopravvivere,
lungi dal dimostrare la loro ‘idiozia congenita’ come pensava Pinel, illustrano al contrario il potere stupefacente di
adattamento di cui dispone l’uomo, anche se immesso in
una situazione estrema. Questa forza di resistenza attinge
33
L’espressione obbligatoria dei sentimenti
alla elasticità della sua condizione corporea. L’educazione
dei bambini detti ‘selvaggi’ presenta sotto tratti esagerati il
processo di acquisizione che fa di qualunque bambino un
individuo conforme, nella sua singolarità, alla cultura percettiva e gestuale del suo gruppo. Tuttavia una necessità
antropologica presiede allo sviluppo di questa facoltà:
l’impronta che l’Altro ha lasciato nelle fibre del corpo.
L’uomo non esiste senza l’educazione che modella il suo
rapporto con il mondo e con gli altri, il suo accesso al linguaggio, e plasma contemporaneamente le risorse più intime del suo corpo5.
Pertanto, come i recenti studi di neurobiologia
hanno confermato, “il cervello umano non è un organo definitivamente formato alla nascita, bensì un’entità dinamica, modellata dall’ambiente e dall’esperienza individuale e capace di creare continuamente
nuove connessioni tra le sue cellule. Questa caratteristica viene generalmente denominata ‘plasticità’, nozione che occupa oggi un posto centrale nell’ambito
delle neuroscienze”6. Del resto, Clifford Geertz ricordava come la cultura non debba essere intesa tanto
come un ornamento dell’esistenza umana, quanto
piuttosto come una condizione vitale poiché il cervello e il sistema nervoso del corpo umano hanno bisogno di un ambiente sociale e culturale per poter funzionare.
Ora, “il cervello umano infatti si sviluppa anche
dopo la nascita e la crescita neuronale continuerà per
i primi due anni; soltanto dopo vincerà a mostrare i
primi segni di decrescita. Il naturale isolamento della
corteccia e le connessioni di mielina ... non si formano completamente prima dei sei anni di vita. Solo alla
pubertà si potrà dire che la maturazione fisica del cervello umano si è completata, anche se lo sviluppo
neuronale continuerà per tutta la vita... Si può parlare
perciò, secondo gli studiosi, di un ‘cervello ecologico o
5
6
34
Le Breton, D., op. cit., p. 28.
Pussetti, C., op. cit., p. 33.
L’espressione obbligatoria dei sentimenti
culturale’, dipendente per tutta la vita dalla relazione
con l’ambiente”7.
Un esempio ci viene dallo studio dell’apprendimento del linguaggio: secondo gli specialisti, il bambino produce e riconosce molti suoni, dei quali soltanto alcuni si troveranno nell’adulto. In Le strutture
della parentela, Lévi-Strauss ha affermato che i neonati sono capaci di distinguere esattamente suoni che
gli adulti non distinguono, ma cominciano a perdere
questa capacità acquisendo un linguaggio particolare.
Infatti, “quando il bambino supera quel momento di
porosità molto speciale, cui spesso ci si riferisce definendolo ‘periodo critico’ e che va circa dai diciotto
mesi ai tre anni di vita, il cervello diverrà mano a mano sempre meno plastico e non gli sarà più possibile
apprendere un linguaggio con la stessa facilità. I centri cerebrali legati al linguaggio sembrano non poter
raggiungere piena maturità senza una stimolazione
adeguata nel periodo adatto, come nel caso dei bambini selvaggi. Se un bambino non viene inserito durante questo periodo in un ambiente nel quale è utilizzata una data lingua, in seguito non riuscirà ad acquisire e utilizzare con competenza un linguaggio,
nemmeno se sollecitato da insegnamenti intensivi”8.
Per di più, alcuni ricercatori londinesi hanno scoperto che, durante gli ultimi cinque milioni di anni, la
crescita considerevole del nostro cervello, e in maniera specifica della corteccia, è stata provocata soprattutto dallo sviluppo delle relazioni di tipo emozionale, quindi dalle relazioni sociali più che da quello delle
abilità tecniche. E se, come dichiarava sempre Geertz,
il cervello è progettato per accogliere ciò che noi definiamo cultura – dunque i sistemi simbolici – gli esseri umani che sono senza ‘cultura’ sono forse anche
esseri senza emozioni, secondo la stimolante domanda di Pussetti?
7
8
Le Breton, D., op. cit., p. 34.
Le Breton, D., op. cit., pp. 35-36.
35
L’espressione obbligatoria dei sentimenti
Molti studiosi hanno tentato di scoprire, dunque,
un linguaggio ‘naturale’ delle emozioni, un linguaggio
che possa essere, cioè, anatomicamente e fisiologicamente identificabile. L’emozione, però, non è una
sostanza, una entità fissa e immutabile poiché
“nell’esperienza affettiva corrente, l’emozione o il
sentimento non sono mai di una sola tinta, esse sono
spesso mescolate, oscillanti da una tonalità ad un’altra, segnati da una ambivalenza. Si può ... essere geloso disapprovando un tale sentimento o trovandolo
infondato; avere vergogna per una situazione dicendosi che è tempo di prendere l’impegno di respingere
un’educazione troppo pudica ecc. L’emozione non ha
la chiarezza di un’acqua di sorgente, essa è spesso un
miscuglio inafferrabile la cui intensità non cessa di
cambiare”9.
9
36
Le Breton, D., op. cit., p. 171.
“Il dolore stanca”:
il rapporto corpo/mente
Per noi occidentali, legati alla dicotomia ragione/sentimento, corpo/anima, il discorso legato alla
materialità dell’emozione appare piuttosto strano e
comunque difficile da comprendere, ma presso molte
altre società non c’è frontiera chiara tra corporeità e
relazione affettiva o emozione: l’emozione è anche e
sempre qualcosa che si prova con il corpo e non può
esistere slegata da esso. Il corpo è parte, dunque, essenziale delle relazioni sociali.
“I Chewong della Malesia, per esempio, traducono i loro sentimenti attraverso l’intermediario del fegato così possono dire ‘il mio fegato è buono’ (mi sento bene) o ‘il mio fegato è tutto ristretto’ (ho vergogna ) ... Per i tahitiani incontrati da Levy, le emozioni
hanno ugualmente la loro sede in organi differenti. Se
ne parla in terza persona, e non come se provenisse da
sé. Un uomo in collera dirà per esempio: ‘i miei intestini sono in collera’”1. È esperienza quotidiana per
tutti noi, comunque, quella di essere influenzati fortemente non solo nello spirito, ma anche nel corpo da
una sensazione o una emozione: quante volte la paura
ci ‘blocca’ lo stomaco o accelera i battiti del cuore o
ancora la gioia ci rende particolarmente vitali! Questa
comune esperienza è alla base di una credenza molto
radicata e diffusa secondo la quale l’emozione non è
solo qualcosa di immateriale o spirituale, ma ha una
sua componente corporea. Anche nelle nostre espressioni quotidiane usiamo metafore come queste: avere
un grande cuore = bontà; ci vuole fegato= coraggio.
Come è noto, le tecniche di guarigione sciamaniche
rivolte al recupero dell’anima persa o quelle che riguardano la stregoneria si muovono appunto
1
Le Breton, D., op. cit., pp. 123-124.
37
L’espressione obbligatoria dei sentimenti
nell’ottica di questo rapporto essenziale tra le diverse
parti del corpo. Infatti nelle società etnologiche, il
corpo fisico è solo la parte visibile del corpo completo
il quale ha anche una parte energetica non visibile ben
più importante. Lo dice molto bene Pussetti quando
rileva che per i Bijagó l’energia vitale è “immaginata
come un’ombra bianca evanescente aggrappata al
dorso del corpo”2. Del resto, l’Oriente ha teorizzato
in modo molto approfondito questa idea attraverso il
concetto di aura3.
Il corpo visibile, insomma, è solamente la porta
sensoriale sul mondo e, proprio per tale motivo, le
emozioni possono essere espresse anche attraverso il
linguaggio dei sensi: una strega o uno stregone ha in
molte società un odore cattivo, e nei luoghi in cui si
riuniscono gli stregoni si sente un fetore di decomposizione, di fermentazione, quindi un odore disgustoso/minaccioso. Così tutti gli emarginati o i
‘diversi’ come i barboni, gli zingari, i tossicodipendenti ecc. si contraddistinguono in primo luogo per la
loro diversità visibile e sensoriale: l’odore sgradevole,
l’abito in disordine, la vista ‘oscena’, il contatto proibito. Come sostiene Pussetti, le pratiche antisociali e
antimorali collegate a queste persone suscitano
“reazioni di disgusto, al punto che vengono associate
all’odore repellente della putrefazione”4. Allo stesso
modo, gli spiriti della foresta dei Bijagó della Guinea
Bissau, spaventosi e errabondi, “possiedono un corpo,
ma in decomposizione; hanno ancora la voce, ma
monocorde, priva delle tonalità e del ritmo propri
della vita; necessitano di nutrirsi, ma non sono in
grado di procurarsi il cibo”5. Così, nel caso di una
morte, il corpo viene massaggiato con un infuso di
piante odorose e poi il cadavere viene avvolto in una
stuoia mentre si inizia a bruciare foglie odorose.
2
Pussetti, C., op. cit., p. 62.
Cfr. Rampa Lobsang T., I segreti dell’aura, AstrolabioUbaldini, Roma, 1975,
4
Pussetti, C., op. cit., p. 117.
5
Pussetti C., op. cit., p. 122.
3
38
L’espressione obbligatoria dei sentimenti
L’odore della morte viene sempre associato alla figura
dello stregone o “a qualsiasi condotta pericolosa o
aberrante, che provoca disgusto. Un cadavere che
emani un odore molto intenso e ripugnante sarà facilmente sospettato di essere stato uno stregone e si
procederà a rituali di divinazione ... allo stesso modo
anche gli spiriti dei morti sono caratterizzati da un
odore specifico, che riflette a livello olfattivo la loro
condotta in vita”6.
Mentre nelle nostre società il senso sociale per eccellenza è costituito dalla vista, in molte altre anche
l’udito ha una funzione fondamentale. Ciò che è facilmente comprensibile perché “lo scambio di parole,
la dinamica parlare/sentire, fondamentale nelle relazioni sociali, viene brutalmente interrotta dal sopraggiungere della morte: la frattura dei legami affettivi, il sentimento della perdita, è quindi metaforicamente espresso nei canti attraverso l’immagine del
giovane che tenta invano di comunicare con i suoi
defunti”7. Tra i Bijagò, “una delle maggiori cause di
suicidio tra gli anziani è infatti la sordità, che impedisce loro di ascoltare e comprendere le parole degli altri e degli antenati, escludendoli di fatto da qualunque tipo di relazione sociale ... il penultimo re, si è
ucciso: “perché aveva la più brutta malattia: aveva
perso l’udito ... Se non senti sei già morto, perché non
ascolti i problemi, le discussioni del villaggio e quindi
non fai parte del consiglio degli anziani. Non senti la
voce del tamburo e quindi non sai cosa avviene al villaggio e nell’isola e non ascolti le parole degli antenati.
Un re deve essere uno che ha un buon udito-che
comprende”8. Dietro questi comportamenti, dunque,
vi è sempre l’idea centrale che la vita valga la pena di
essere vissuta solo quando è vita di relazione e di adesione piena ai valori socialmente condivisi.
Inoltre “è interessante notare che ... l’influenza del
male venga trasmessa più generalmente per mezzo
6
Pussetti C., op. cit., p. 154.
Pussetti C., op. cit., p. 206.
8
Pussetti C., op. cit., p. 65.
7
39
L’espressione obbligatoria dei sentimenti
dello sguardo, mentre l’influenza complementare del
bene ... per mezzo del tatto... comunque l’atto di fissare ha connotazioni che variano dal malaugurio alla
vera e propria scortesia, a seconda della cultura”9.
Uno sguardo fisso e strano presenta comunque degli
aspetti temibili o una vera e propria natura ingiuriosa.
Quando il grande studioso di mitologia Campbell
parla delle tradizioni religiose dell’umanità, sostiene
che esse sono tutte legate da alcuni motivi mitici e tra
questi cita l’impulso al saccheggio, all’avidità. “Psicologicamente esso potrebbe forse essere interpretato
come un’estensione del comando bioenergetico al nutrimento e al consumo; tuttavia la motivazione in
questo caso non fa parte di alcuna esigenza primaria,
ma proviene da un impulso lanciato attraverso gli occhi, non a consumare ma a possedere”10. Quindi, dopo aver analizzato questo impulso, sottolinea come
“le forze che ci motivano sono sempre costituite dalla
stessa temibile triade di necessità di cui Dio ci ha
fornito: nutrirsi, procreare, dominare. E per il corretto soddisfacimento almeno della prima e della terza di
queste motivazioni, nello stagno dei pesci che è la
storia, il primo requisito nell’ordine della natura ... è
la soppressione dell’impulso naturale alla pietà”11.
Ora, come si è potuto già osservare, mentre il male
ha la sua via immateriale, cioè l’occhio e quindi lo
sguardo, per entrare nel mondo, “l’influenza complementare del bene ... esige il contatto fisico, agisce
per mezzo del tatto; il bene ha bisogno di toccare”12.
Ecco perché segnare alla maniera dei guaritori diventa
positivo: “la segnatura è toccare con amore, è un contatto che trasmette all’altro un’energia benefica, un
9
Douglas M. (a cura di ), La stregoneria Confessioni e accuse
nell’analisi di storici e antropologi, Einaudi, Torino, 1980, pp. 383384.
10
Campbell, J., Le distese interiori del cosmo La metafora nel
mito e nella religione, TEA, Milano, 2003, p. 15.
11
Campbell, J., op. cit., p. 17.
12
Cecconi A., L’acqua della paura Il sistema di protezione
magico di Piteglio e della montagna pistoiese, B. Mondadori, Milano, 2003, p. 68.
40
L’espressione obbligatoria dei sentimenti
contatto che guarisce e cura. Accanto al rituale dell’acqua e dell’olio, la segnatura è infatti usata proprio
come antidoto e rimedio al malocchio. Alessio è un
guaritore ed è convinto che “a tutti si può segnare,
basta volerlo”; allora non siamo solo prede in balia
delle occhiate altrui, in noi c’è anche il potere di neutralizzarle, in noi abita il potere di curare e curarsi”13.
Del resto, il saluto o l’atto di accomiatarsi è spesso
espresso attraverso un contatto che investe l’intera
persona, come l’abbraccio, la stretta di mano, l’alzarsi,
il togliersi o mettersi il cappello ecc.
Questa positività del contatto probabilmente può
essere anche una conseguenza del modo di portare i
bambini di molte popolazioni. Gli antropologi, e in
particolare Margaret Mead, hanno insegnato che la
maniera di trattare i bambini anche nelle cose che apparentemente sembrano irrilevanti o di poca importanza, quali appunto il modo di essere nutrito, portato con sé, addormentato ecc., “è una delle cose più
significative nella formazione della personalità dell’adulto” e naturalmente delle emozioni che ad esse
sono collegate. Il bambino Arapesh della Nuova Guinea per esempio “non è mai lontano dalle braccia di
qualcuno. Andando in giro, la madre lo porta o sul
dorso, in un sacco di rete speciale sostenuto dalla
fronte, o sospeso sotto uno dei due seni, in una specie
di bilancia di scorza d’albero intrecciata”14. Allo stesso
modo, tra i Fore della nuova Guinea, i neonati sono
talvolta portati sulla schiena della madre, in ceste imbottite di morbida scorza e di foglie, come in un utero
artificiale, ma spesso sono anche portati sotto il braccio. L’antropologo Sorenson rileva inoltre che
i bambini più piccoli restavano in contatto corporeo quasi
continuo con la loro madre, i suoi familiari o le sue compagne di lavoro nell’orto. Il grembo materno è il centro della
vita infantile ed i piccini se ne stanno lì a succhiare il latte, a
13
Ibidem.
Mead M., Sesso e temperamento, il Saggiatore Net, Milano,
2003, p. 68.
14
41
L’espressione obbligatoria dei sentimenti
dormire e a giocare con il loro corpo o con quello della loro
nutrice. Ed essi non vengono messi da parte neppure durante lo svolgimento di altre attività, come la preparazione del
cibo o il trasporto di oggetti, anche pesanti. Restando a
stretto e ininterrotto contatto fisico con quelli che stanno
loro attorno, i loro bisogni basilari – riposo, nutrimento,
stimolazione e sicurezza – vengono continuamente soddisfatti senza problemi. Poiché tutti i bambini fore hanno una
possibilità costante di interscambio tattile, ben prima di
poter parlare, essi comunicano bisogni, desideri e sentimenti ad un certo numero di persone che si occupano di
loro, tramite il tatto ed il movimento fisico. Questo costante ‘linguaggio’ del contatto rende pronta e facile la soddisfazione dei bisogni e dei desideri dell’infante e rende superflui i più rigidi espedienti normativi e dietetici... questo
modello ‘socio-sensuale’ istituisce un rapporto molto intimo con le persone circostanti ... l’economia cooperativa, le
relazioni umane di tipo consensuale e l’ordine sociale egualitario emergono dalla condizione iniziale di relazione tattile15.
Poiché il corpo fisico è solo la parte visibile del nostro essere nelle popolazioni etnologiche in genere
non si fa differenza tra gli ambiti che noi definiremmo propri della mente e quelli che riguardano le
emozioni così come spesso si ritiene che l’emozione
abbia in genere un organo specifico nel quale risiede.
Anche in questo caso la separazione tra corpo e mente non ha nessun significato poiché un sentimento,
quindi qualcosa che noi riteniamo invisibile, ha un
luogo corporeo ben visibile. Quindi, ambiti che noi
definiamo razionali, quali la riflessione, l’intelligenza,
la ragione vengono considerati come uniti agli stati
emozionali. Tra i Bijagó,
“la traduzione immediata che si può dare del termine kutribá è quindi quella di pensiero-sentimento, in quanto si riferisce in generale a tutti quelli che noi definiremmo come stati
mentali, andando da ciò che consideriamo ‘pensiero’ a ciò
che chiamiamo ‘emozione’. La presenza di n’atribá [plurale]
15
Sorenson E.R., “Cooperazione e libertà tra i Fore della
Nuova Guinea”, in Montagu A. ed., Il Buon Selvaggio, Elèuthera,
Milano, 1987, pp. 23-24.
42
L’espressione obbligatoria dei sentimenti
si può avvertire fisicamente, a seconda delle circostanze,
nella pancia, nel cuore, nel fegato, nella testa, nelle gambe,
negli occhi. Per esempio, il rispetto è associato alla testa, la
tristezza e la pazienza al petto e alla pancia, l’invidia agli occhi, la rabbia alla gola; certi n’atribá possono cuocere gli
occhi, bruciare il torace o bloccare le gambe; un’alterazione
dell’equilibrio dei n’atribá può causare malattie e addirittura morte; l’odio può materializzarsi sotto forma di una sostanza nera nel ventre; la pancia può arrabbiarsi, infastidirsi
o addirittura aprirsi per fare uscire n’atribá pericolosi. Questi sono certamente organi fisici, ma anche, in un modo che
è difficile per noi apprezzare pienamente, fonte di azione e
consapevolezza. La concezione indigena collega dunque la
psicologia e la fisiologia umana, includendo come aspetti
dello stesso processo quanto noi distinguiamo come pensieri, sentimenti, desideri, volontà e i loro intimi effetti sul
corpo”16.
Naturalmente il corpo energetico, quello che in
molti casi viene impropriamente definito anima, dà e
mantiene in vita l’essere umano, mentre il corpo fisico ci consente di essere presenti nel mondo, di avere
delle attività e soprattutto un carattere e dei rapporti
sociali. Il corpo fisico non è perciò una muraglia impenetrabile, una fortezza, soprattutto nell’età infantile e, per tale motivo, esso è sempre esposto alle influenze altrui e ai pericoli che vengono dall’esterno.
Se abbiamo chiara questa idea del corpo, allora diventa facile capire le tecniche dei guaritori, degli stregoni
o sciamaniche di recupero dell’anima.
Nella maggior parte dei gruppi amazzonici, per
esempio, e in particolare presso gli Jivaro, come rileva
acutamente Taylor, la malattia è la sofferenza in
quanto tale e non ciò che le dà origine. Essa è vista
come un’esperienza di metamorfosi che nasce da uno
squilibrio con la società, da un’alterazione dei rapporti sociali e trasforma l’individuo sano in un paziente, cioè in un essere ammalato. La risposta della
società a questa alterazione avviene attraverso “l’elaborazione, a fini terapeutici, di una trasformazione
16
Pussetti C., op. cit., pp. 60-61.
43
L’espressione obbligatoria dei sentimenti
corrispondente”, positiva, questa, e attuata dagli specialisti quali appunto gli sciamani17.
Koká così racconta la morte improvvisa del figlio
per un incidente e la perdita del proprio principio
vitale:
sentivo gridare per strada, le donne chiamavano il mio nome e così ancora segnavano il mio destino. Mi hanno raccontato quello che era successo e che dovevo correre ... io
correvo, ma poi le gambe non si sono più mosse e non potevo camminare. Sono caduta e sono rimasta così, le mie
gambe sono ancora malate, guarda: sono gonfie e pesanti.
Da allora ero sempre malata, il mio spirito si era perduto
per il dolore. Mi hanno portata da diversi guaritori e poi nel
continente ... ma non guarivo... non mangiavo, non bevevo,
non dormivo, non avevo più pensieri-sentimenti, stavo solo
sdraiata e basta. Avevo perso un figlio... il mio corpo era
sempre più debole e dicevano che sarei morta presto... ma la
realtà è che Koká non poteva smettere di piangere ... avevo
perduto il controllo... adesso mi sono stancata di piangere
per il mio dolore ... il dolore stanca ... ma le sofferenze ...
sono restate qui: nello stomaco e nelle gambe è il loro ricordo18.
La perdita del figlio, quindi un sentimento, è anche perdita corporea, perdita del controllo, delle forze
vitali, della coscienza, paralisi momentanea, inappetenza, insonnia o confusione, mollezza, svogliatezza,
fiacchezza. E il corpo negli anni continua a ricordare
questo dolore e questa nuova condizione.
Come osserva Pussetti, la grande capacità dei
guaritori tradizionali è proprio quella di saper curare
allo stesso tempo l’unità costituita dal corpo, dai sentimenti e dalle relazioni sociali.
Obennó mi descrive i sintomi che la affliggono, mi parla di
un corpo aperto ... dai confini dissolti dalle sofferenze, un
corpo ‘annodato’, invaso e violentato ... dai pensieri, dai
sentimenti e dalle azioni degli altri: “...non voglio ricordare
17
Taylor A.C., “L’oubli des morts et la mémoire des meurtres
Expériences de l’histoire chez les Jivaro”, TERRAIN, 28, mars
1997, p. 86.
18
Pussetti C., op. cit., pp. 138-139.
44
L’espressione obbligatoria dei sentimenti
quel tempo così brutto. Ma il mio corpo ricorda: mi vennero a prendere per lavorare e io non potevo camminare,
quella gente mi attaccò una malattia, non so, ero sempre più
debole e rimasi al villaggio. In tutto il corpo soffrivo: il corpo si era aperto ... e tutto mi faceva del male... tutto il corpo
mi doleva, non riuscivo a dormire, né a parlare, non potevo
camminare. Stavo per morire, non avevo più consapevolezza di nulla, stavo solo sdraiata e basta. Dopo qualche tempo
mi portarono nel luogo dove si fanno le cerimonie, mi curarono, mi massaggiarono ... per rendere la pelle dura e farmi
sudare. Mi lavarono e quella notte riuscii già a dormire.
Quella cosa nel mio corpo aveva smesso. Poiché continuavo
a lavarmi con quella medicina che rendeva il mio corpo duro e forte, non riuscirono a uccidermi. Ma continuo ad avere
dolore alle gambe e al petto, sempre a causa di quella gente”19.
Dunque, la prima reazione ad un forte dolore è
sempre corporea, ed è una reazione di blocco della
vitalità. Sembra quasi che il corpo non riesca a sopportare un evento tanto grave e straordinario cosicché
si ferma, come per prendere coraggio e affrontare la
dura sfida. La natura, del resto, dà l’impressione di
comportarsi allo stesso modo quando, prima di un
evento straordinario – un ciclone, un terremoto ecc.
– si ferma per un attimo e sempre in questo lungo
attimo tutto tace. Così, il tema del silenzio e dell’immobilità in occasione di eventi speciali si ripresenta, per esempio, nei testi della tradizione religiosa
in seguito alla nascita di creature ‘eccezionali’ quali
Cristo o Buddha. La vita cosmica sembra sospesa, e “i
mondi creati ... entrano in una condizione di stupore
che si esprime come immobilità, silenzio, interruzione improvvisa del ritmo continuo e normale degli atti
e del flusso vitale. Trascorso l’acme ... la normalità del
19
I corsivi sono miei, a sottolineare che la malattia si guarisce
rendendo il corpo duro, non più malleabile e penetrabile da qualunque entità.
Pussetti C., op. cit., p. 140.
45
L’espressione obbligatoria dei sentimenti
corso cosmico riprende il suo flusso”20. Il silenzio,
perciò, è solo “un aspetto del più vasto quadro dello
stupore e della riverenza che invadono i mondi di
fronte ad un’epifania la cui destinazione salvifica ...
investe uomini, animali e dei”21.
Come illustra molto efficacemente De Martino,
in una sua opera molto nota,
“nella sua forma più radicale la crisi del cordoglio presenta
la caratteristica polarità dell’assenza e della scarica convulsiva: la presenza perde se stessa degradandosi a pura e semplice energia meccanica che defluisce senza significato. La frequenza di una reazione di questo tipo è incredibilmente alta
fra le contadine lucane ... in una forma meno radicale
l’assenza si attenua in uno stato di ebetudine stuporosa, o in
luogo della scarica meramente meccanica si ha la terrificante esplosione parossistica, tendenzialmente autoaggressiva.
Lo stato di ebetudine stuporosa ha tra le contadine lucane
una incidenza così forte da essere indicato con un vocabolo
di uso corrente nei villaggi lucani: attassamento. La persona
attassata è irrigidita in una immobilità fisica che riflette un
vero e proprio blocco psichico più o meno accentuato... la
persona attassata – ci ha detto una informatrice di Montemurro – non riconosce le persone: non ricorda neppure che
c’è il morto. Se le si chiede qualche cosa non risponde, oppure dà risposte senza senso. È come se sognasse. Quando
esce dall’attassamento, si guarda intorno per capire che cosa
è successo, poi getta un grido e riprende la lamentazione”.
“L’attassamento può durare un quarto d’ora... viene specialmente quando si ha la notizia di una morte improvvisa.
Può durare anche mezza giornata... appena si esce
dall’attassamento si dà un grido perché si riconosce che cosa
è accaduto”. Polarmente contrapposta allo stato di ebetudine stuporosa è l’esplosione parossistica. Se nell’ebetudine
stuporosa la donna colpita da lutto sta come inerte, ...
nell’esplosione parossistica essa si getta a terra, dà col capo
nel muro, salta, si graffia a sangue le gote, è accesa da furore
tendenzialmente diretto verso la propria persona, si strappa
i capelli, si lacera le vesti, si abbandona ad un gridato che è
20
Di Nola A.M., Antropologia religiosa Introduzione al problema e campioni di ricerca, Newton Compton, Roma, 1984, p.
178.
21
Di Nola A.M., op. cit., p. 181.
46
L’espressione obbligatoria dei sentimenti
piuttosto un ululato. A questo comportamento disordinato
e pericoloso, possiamo dare la denominazione di planctus
irrelativo”,
cioè di un pianto privo di un legame e di una relazione, quindi un pianto ‘disumano’ che può trascinare
sino alle soglie della follia22. Solo in un secondo momento, con la ritualizzazione del pianto, viene riconquistata l’umanità e il corpo ritorna sotto il controllo
della mente.
Presso gli aborigeni australiani, Glowczewski così
racconta: “quando gli Aborigeni decidono di lasciarsi
morire, non c’è nulla che si possa fare dal punto di
vista medico ... L’uomo era il padre adottivo di un
giovane di cui gli era stato annunciato oggi la morte
in un incidente stradale. E secondo il costume, per il
dolore era in una specie di stato catatonico che avrebbe potuto farlo morire. Solo l’entourage, parlandogli e
massaggiandolo, poteva bloccare questo processo.
Dopo qualche ora di cure premurose commoventi,
uomini e donne succedendosi al suo capezzale e parlandogli dolcemente, egli ritornò in sé”23.
Tra gli Hagen della Nuova Guinea, un sentimento, detto pipil, equivalente alla nostra vergogna e paura insieme, si può notare sulla pelle.
Le manifestazioni di questo sentimento implicano non soltanto il fatto di essere tenuti in scacco dai propri pari, ma
anche di essere terrorizzati dagli spiriti al punto che “la nostra pelle si copre di sudore; i capelli si sollevano dal collo; i
denti si legano; noi diciamo che gli spiriti ci vogliono uccidere e mangiare. Ciò succede quando andiamo in un cimitero o una casa in cui un uomo è morto e quando sentiamo
un pipistrello o un gufo... se pipil è un’emozione che si esteriorizza sulla superficie del corpo, popokl traduce una collera
suscitata dall’estorsione degli altri ma che resta chiusa nella
vita segreta dell’individuo. Essa non può mai essere rivelata.
Il modo corrente di espressione rimane la malattia. Se il
22
De Martino, E., Morte e Pianto Rituale dal lamento funebre
antico al pianto di Maria, Boringhieri, Torino, 1975, pp. 83-84.
23
Glowczewski, B., Les rêveurs du désert peuple Walpiri
d’Australie, ACTES SUD, Arles, 1996, p. 110.
47
L’espressione obbligatoria dei sentimenti
pipil è tutta esteriorità, popokl è tutta interiorità. Cadendo
malato il soggetto annuncia la sua emozione. La procedura
terapeutica impone che egli riveli la ragione della sua agitazione. La confessione, il proiettare fuori da sé con le parole
il popokl costituisce la tappa iniziale della guarigione. Margaret Mead aveva osservato un rituale simile nelle isole Samoa”24.
Questa ‘malattia’, quindi, sembra essere un’espressione controllata di un’emozione pur sempre pericolosa se lasciata a se stessa. In Africa, per esempio, chi
ha perduto ‘l’anima’ a causa della paura presenta
sempre gli stessi sintomi che ritroviamo anche nelle
concezioni europee. Colui che cede alla paura, che
non è educato a controllare le proprie paure e a coltivare il coraggio, presenta “una sintomatologia tipica:
inappetenza, insonnia, dolori somatici diffusi, espressione assente e indifferenza per quanto lo circonda. Il
malato generalmente passa le sue giornate seduto o
sdraiato, senza intrattenere alcuna relazione con il
mondo intorno a lui: questa totale abulia lo porterà
lentamente alla morte”25. Molto frequenti e propri di
molte culture sono, infatti, i racconti di apparizioni
di entità sovrumane, quali il morto, che determinano
lo squilibrio e spesso la morte nel giro di tre giorni a
causa della forte paura.
In conclusione, ciascuna società dà la sua spiegazione circa il luogo o i luoghi in cui si troverebbero le
emozioni. Nelle nostre culture, estremamente razionali,
che hanno come miti fondanti la scienza o la ragione, vi
sono teorie di altro tipo, quali quelle neurologiche, ormonali ecc. mentre in molti altri gruppi gli organi sono
in genere la sede dei diversi sentimenti e ciò cambia da
società in società. Comunque è molto difficile comprendere veramente questi sistemi di conoscenza, nonostante l’apparente facilità di approccio.
Come sostiene Descola:
24
25
48
Le Breton, D., op. cit., p. 130.
Pussetti, C., op. cit., p. 109.
L’espressione obbligatoria dei sentimenti
presupponendo l’universalità di una distinzione convenzionale tra l’interiorità e la fisicità, non ignoro che l’interiorità
è spesso presentata come multipla né che la si suppone connessa con la fisicità da numerose delimitazioni reciproche...
qualunque sia il numero delle componenti immateriali della
persona, che siano innate o acquisite, che vengano trasmesse
dal padre, dalla madre, per caso o da un’entità benevola o
ostile, che siano temporanee, durevoli o eterne, immutabili
o sottomesse al cambiamento, tutti questi principi generatori di vita, di conoscenza, di passione o di destino hanno
una forma indeterminata, sono fatti di una sostanza indefinibile che risiede ordinariamente nella parte più intima
dei corpi. Certo, spesso si dice che queste ‘anime’ risiedano
in un organo o in un fluido ... o che siano legate in maniera
indissociabile con il corpo, come il soffio, il viso o l’ombra ...
Dappertutto presente sotto modalità diverse, la dualità
dell’interiorità e della fisicità non è dunque la semplice
proiezione etnocentrica di un’opposizione che sarebbe propria dell’Occidente tra il corpo, da una parte, l’anima o lo
spirito, dall’altra.... Bisogna al contrario comprendere questa opposizione così come è stata fabbricata in Europa ...
come una variante locale di un sistema più generale di contrasti elementari ... contrariamente ad un’opinione molto in
voga, le opposizioni binarie non sono invenzioni dell’Occidente o finzioni dell’antropologia strutturale, poiché esse
sono largamente utilizzate presso tutte le popolazioni in
molte circostanze26.
26
Descola, P., Par-delà nature et culture, Gallimard, Paris,
2005, pp. 174-175.
49
L’apprendimento delle emozioni
La vita sociale, di relazione, dunque la cultura di
cui parlano gli antropologi, è “quella disposizione ad
affrontare la realtà che si costituisce negli individui in
quanto membri di una società storicamente determinatasi e determinantesi. Cultura cioè designa quel
patrimonio sociale dei gruppi umani che comprende
conoscenze, credenze, fantasie, ideologie, simboli,
norme, valori, nonché le disposizioni all’azione che da
questo patrimonio derivano e che si concretizzano in
schemi e tecniche d’attività tipici in ogni società”1. Il
processo di acquisizione della cultura da parte
dell’individuo è chiamato dagli antropologi inculturazione o socializzazione e, come ben si comprende,
costituisce un processo fondamentale che si sviluppa
durante tutta la vita dell’individuo.
La fase più importante del processo inculturativo è, però,
quella che si attua nei primi anni di esistenza dell’individuo,
anni durante i quali si struttura la personalità di base e si
interiorizzano i valori fondamentali della cultura. Per distinguere tale fase dalle restanti, alcuni Autori propongono
di riservare ad essa soltanto i termini di ‘inculturazione’ o
‘socializzazione’ e di indicare come ‘integrazione sociale
dell’individuo’ l’intero svolgimento del processo che si realizza nella rete di rapporti dinamici che l’individuo contrae
con il proprio ambiente sociale ed ecologico e in virtù dei
quali struttura il proprio ‘patrimonio culturale e individuale’. Nel rapporto integrativo di questo patrimonio con
quello biopsichico dell’individuo si articola la ‘personalità’2.
I modi socialmente accettabili di esprimere le
emozioni, dunque, come qualunque altro elemento
della cultura, vengono insegnati e trasmessi, perciò,
soprattutto nel primo periodo della vita umana.
13.
1
Tentori, T., Antropologia culturale, Studium, Roma, 1976, p.
2
Tentori, T., op. cit., p. 142.
51
L’espressione obbligatoria dei sentimenti
Come sottolinea Lévi-Strauss, “non va mai dimenticato che se all’origine dell’umanità l’evoluzione
biologica ha potuto selezionare caratteri preculturali
quali la stazione eretta, l’abilità manuale, la tendenza
alla vita associata, il pensiero simbolico, l’attitudine a
focalizzare ed a comunicare, molto presto il determinismo ha cominciato a funzionare in senso inverso...
Non è il gene (se pure esiste) che conferisce resistenza
alle temperature polari ad aver donato agli Inuit la
loro cultura: al contrario, è stata questa cultura che ha
avvantaggiato i più resistenti al freddo, sfavorendo gli
altri”3. Perché una scelta di vita possa mantenersi nel
tempo, però, ha bisogno di includere e accogliere
pratiche e credenze attraverso le quali i suoi modelli
di adattamento possano essere trasmessi alle nuove
generazioni. Così, se possiamo anche ammettere che
le emozioni possano essere innate e che si manifestino
in modo comune nelle diverse società, bisogna, però,
differenziarle dagli stati affettivi che le liberano.
Se io sono più commosso per la presa in ostaggio di un
concittadino che da quella di uno straniero, ciò è dovuto
sicuramente al fatto che faccio una differenza tra gli uni e gli
altri e che apprendo ad associare delle emozioni a questa
categorizzazione. Se sono indignato per la trasgressione di
questa regola, ciò è dapprima perché la regola esiste ed è
stata trasgredita: la regola è anteriore all’emozione ed è essa
che determina a quale proposito si può (o no), si deve (o
no) provare e manifestare delle emozioni e quali. Il processo
di trasmissione, sebbene più intenso nei primi anni di vita,
prosegue lungo tutta l’esistenza, particolarmente nelle società in cui la divisione sociale del lavoro è complessa e i
cambiamenti rapidi in tutti i settori dei costumi. Se si aggiunge che, in queste società, trasmettere l’eredità vuol dire
anche, almeno parzialmente, essere capace di rimetterla in
discussione e modificarla, si comprende la complessità del
problema di fronte al quale ci si trova4.
3
Lévi-Strauss, C., op. cit., 1984, p. 41.
Héraux, P., “Modes de socialisation et d’éducation”, in Poirier J. (sous la dir.), Histoire des moeurs II vol. I, Modes et modèles,
Gallimard, Paris, 1991, p. 310.
4
52
L’espressione obbligatoria dei sentimenti
Così, ogni società non solo crea e fabbrica i ‘suoi’
sentimenti nel momento in cui sceglie il proprio stile
di vita – così come ogni cultura effettua una selezione
tra il complesso delle potenzialità umane e ne sviluppa solo alcune a scapito di altre –, ma li rielabora e li
trasforma continuamente in seguito a cambiamenti di
ordine sociale, economico o politico.
Si comprende, quindi, come, per le popolazioni
etnologiche, la persona sia prima di tutto, come già
sosteneva Van Gennep, una creatura sociale: il piccolo infatti “verrà considerato appartenente alla categoria ‘persona’ solo quando acquisirà – grazie al contatto con gli altri e attraverso un lungo cammino di
formazione e costruzione – caratteristiche, competenze e comportamenti sociali”5. Pertanto il bambino,
crescendo e interiorizzando i modelli culturali, viene
sottoposto, come sostengono molti antropologi, ad
un processo di specializzazione emozionale diretto dal
gruppo.
Come già sappiamo, il termine infante viene dal
latino in-fans, cioè senza parola, quindi senza una capacità di simbolizzare il mondo che lo circonda. Si è
già visto come nelle società etnologiche, durante i
primi mesi della sua esistenza, in generale, il neonato
abbia una relazione quasi simbiotica con la madre,
dalla quale non si distacca quasi mai. La presenza di
questa figura è continua e il contatto corporeo diretto
con il neonato particolarmente intenso. Parlare,
quindi, significa imparare la ‘buona distanza’ e, non a
caso, i sentimenti sociali come la vergogna, il senso di
colpa, l’imbarazzo appaiono verso i tre anni circa,
quando il sé comincia a fissarsi in modo ormai stabile.
“In mille modi la parola o il gesto formalizzano
l’affettività del bambino e confermano ciò che egli
sente vedendo vivere il suo prossimo. In un primo
momento il bambino in collera, per esempio, urla,
batte i piedi per terra, piange ecc. ma diventando più
adulto apprende a ritualizzare la sua emozione, a con5
Pussetti, C., op. cit., p. 59.
53
L’espressione obbligatoria dei sentimenti
tenerla nelle norme espressive”6. Inoltre “Condon segnala che la sincronia dell’interazione è un dato rilevante della condizione umana. Egli ha potuto mostrare come i neonati armonizzino i loro movimenti con
le voci che sentono intorno a loro, qualunque sia la
lingua. Egli suggerisce inoltre che questa sincronia si
ritrovi già nell’utero”7. In questo modo, il rapporto
intenso e continuo con la madre permette al neonato
di apprendere semplicemente attraverso gli innumerevoli stimoli sensoriali di ogni tipo mentre, secondo
alcune teorie, le emozioni dei neonati sono ancora
non definite e senza controllo poiché la corteccia cerebrale non si è pienamente sviluppata a contatto con
l’ambiente. Del resto, l’accrescimento continua per
lunghi anni completandosi solo verso il periodo che
noi definiamo adolescenza. Sempre tra i Bijagó, si sottolinea appunto come le donne considerino in modo
molto diverso il neonato, il bambino molto piccolo e
quello che oramai è arrivato ad avere tra i quattro e i
sette anni. Secondo queste teorie, i bambini piccoli
possono provare solo sensazioni simili a quelle degli
animali – fame, sete, dolore, sonno – in quanto non
hanno ancora acquisito una personalità sociale8. Ciò
che è importante rilevare è il fatto che per le culture
etnologiche i sentimenti non sono elementi ‘innati’,
ma si formano gradualmente in seguito alla crescita e
soprattutto in seguito all’educazione. Ecco perché la
morte di un bambino è sempre un evento piuttosto
privato. Si diventa un essere umano quando si condividono le regole e per condividere le regole in primo
luogo bisogna conoscere, usare e comprendere,
quindi, una lingua. La parola è ciò che ci fa entrare
direttamente in un gruppo: essa è molto potente, è
energia, creazione poiché produce trasformazioni
profonde. Ascoltare e parlare, infatti, non sono equivalenti al semplice sentire dei suoni, capacità che
possiedono già i bambini piccoli.
6
Le Breton, D., op. cit., p. 141.
Le Breton, op. cit., p. 88.
8
Cfr. Pussetti, C., op. cit., p. 56 sgg.
7
54
L’espressione obbligatoria dei sentimenti
A Giava, per esempio, nei primi anni di vita, il
bambino “è considerato come non ancora giavanese”.
La stessa frase si applica a persone che hanno difficoltà mentali o ad adulti che si mostrano irrispettosi nei
confronti degli anziani ... Ciò implica che la persona
non è ancora civilizzata, non è ancora capace di controllare le sue emozioni o di esprimersi con il rispetto
richiesto dalle differenti situazioni sociali. Alla fine
del processo educativo, il bambino diventa un uomo
o una donna interamente, partner dello scambio sociale”9.
Come commenta Pussetti
i neonati e i bambini piccoli, che ancora non sono socializzati ... certamente piangono, ma si tratta di lacrime senza
una relazione con gli eventi sociali, il pianto di chi “non
comprende l’importanza delle cose”. Per questo il pianto
dei neonati è considerato in qualche modo paragonabile a
un verso animale: è un lamento del tutto dipendente da necessità fisiologiche, da fame, sete o disagio fisico. “È un pianto come quello di chi ha qualcosa in un occhio – mi spiega
Koka – non come quello di chi soffre per la morte di qualcuno, e quindi non è veramente umano” ... Infatti, quando
un bambino piange urlando in modo incontrollato – mi
dicono alcune donne parlando dell’educazione dei loro figli
– dev’essere immediatamente ripreso e pubblicamente biasimato, in modo che acquisisca in fretta a livello corporeo
un habitus, inteso come disposizione a piangere nel modo
appropriato in qualsiasi circostanza... il pianto dei bambini
deve presentare al più presto un suono tipicamente
‘umano’10.
Interessante, perciò, notare come il suono, pensato come ‘naturale’, per essere parte del sociale, e
quindi ‘compreso’, debba essere sempre modellato
culturalmente.
Si comprende meglio il discorso sul pianto dei
bambini se si tiene presente che, sempre presso i Bijagó, già verso i cinque anni, il pianto avviene secondo
un modello culturale preciso, modulato su due note
9
Le Breton, op. cit., p. 143.
Pussetti, C., op. cit., p. 164.
10
55
L’espressione obbligatoria dei sentimenti
separate da un intervallo di quinta aumentata e nonostante la lingua “possieda un unico termine ... per indicare sia il piangere, sia il verso di alcuni animali (i
più rappresentativi sono gli uccelli, i bovini e i gatti), i
Bijagó ci tengono a specificare sempre se si tratta di...
‘pianto dei neonati’, ... ‘pianto degli adulti’ ... o
‘verso/pianto degli animali’ ... forse uno degli aspetti
più sorprendenti era proprio il sentire piangere in
questo modo melodico sia per esempio una ragazzina
in lacrime dopo una severa punizione, sia una donna
che si era ferita al braccio, sia una madre per la morte
di suo figlio”11.
L’espressione del dolore è perciò un aspetto fondamentale sul quale riflettere perché il pianto culturalmente appreso è il modo, l’unico modo secondo il
quale l’individuo esprime in maniera ‘comprensibile’
e quindi condivisa il suo dolore. Proprio per questo,
le distinzioni tra pianto ‘naturale’ o istintivo e pianto
‘convenzionale’ o simulato, cioè quel pianto inteso
come espressione formale e quindi priva di sincerità
dei sentimenti, non hanno significato. Il particolare
urlo delle donne, caratterizzato da brevi grida ripetute in falsetto, di cui parla Pussetti, piuttosto che il
pianto lungo e forte con stile melodico ritmico dei
Gusii dell’Africa occidentale o il lamento studiato da
De Martino nelle società mediterranee sono modi
diversi di esprimere in maniera spontanea la sofferenza. Se la vita è innanzitutto relazione sociale, piangere
o ridere in modo ‘appropriato’ significa in primo luogo mostrare la propria umanità.
De Martino, nelle sue analisi sul pianto rituale
antico, parte dalla constatazione che il lamento funebre è per prima cosa una tecnica del piangere specifica
nata dall’esigenza di umanizzare la pura scarica meccanica di energia psichica data dall’urlo o dal grido
disperato.
Così, nel rito della lamentazione, il cordoglio accoglie il pianto, ma lo sottopone alla regola di gesti
11
56
Pussetti, C., op. cit., p. 165.
L’espressione obbligatoria dei sentimenti
ritmici già stabiliti dalla tradizione poiché ‘si piange
così’ e solo così. “Operata questa prima selezione ordinatrice sul numero e sulla qualità dei gesti, il lamento rituale lucano riplasma il gridato e l’ululato in ritornelli emotivi da iterare periodicamente, in modo
che fra ritornello e ritornello sia dato orizzonte al discorso individuale”12. Quindi, il lamento funebre prevede un tema melodico dato da “una linea melodica
con cui ciascun versetto è cantilenato, e dalla strofa
melodica nel suo complesso”13. Inoltre, come nel caso
di un lamento registrato a Ferrandina, in Basilicata,
“ogni versetto è cantato su una linea melodica che in
Ferrandina è tradizionale per lamentare il morto: essa
è formata da una scala pentatonica discendente dal fa
al si: ne nasce, per ogni versetto, un senso di caduta o
addirittura di scarica, accentuata dal fatto che spesso
appare un portamento del fa, cioè una breve salita
iniziale, come un librarsi prima di precipitare. Un secondo carattere che domina la melodia del lamento è
il vuoto sonoro determinato in ogni versetto dalla costante mancanza del re. Tale vuoto non ha luogo a
caso rispetto alla struttura letteraria del testo, poiché
cade sempre prima del ritornello emotivo invocante il
fratello [cioè il morto]”14.
Lamentarsi diventa, dunque, un atto complesso
giacché significa “innanzitutto ricordarsi dei moduli
letterari adatti scegliendoli fra quelli che stanno a disposizione della memoria culturale di ciascuna lamentatrice, e che tendono per così dire ad esaurire i tipi
fondamentali delle possibili situazioni luttuose. Ma
alla memoria culturale di ciascuna lamentatrice appartengono non soltanto questi moduli, ma anche –
in organica connessione unitaria – la mimica che li
deve accompagnare e la melodia con cui vanno cantati”15.
12
De Martino, E., op. cit., p. 85.
De Martino, E., op. cit., p. 97.
14
De Martino, E., op. cit., p. 100.
15
De Martino, E., op. cit., p. 136.
13
57
L’espressione obbligatoria dei sentimenti
Pussetti poi sottolinea un altro aspetto molto interessante del pianto che andrebbe approfondito ulteriormente, cioè la sua associazione al mondo degli
uccelli. Infatti “il pianto umano opportunamente
modulato è inoltre associato a un altro ‘pianto’ considerato armonioso ed esteticamente appagante: quello
degli uccelli. Il canto degli uccelli non è infatti considerato solo un piangere ..., ma anche un cantare ...,
che, secondo i miei informatori, evoca in modo particolarmente appropriato sentimenti che hanno a che
vedere con la perdita, l’abbandono, la partenza...
‘diventare o essere come un uccello’ o ‘piangere come
un uccello’ sono espressioni tipiche per rappresentare
colei che piange per la perdita di una persona cara”16.
Del resto, come sostiene Lévi-Strauss, il mondo
degli uccelli è concepito nelle mitologie e nel folclore
come una società umana metaforica, cioè a noi simile
e in alcuni casi persino letteralmente parallela17.
Ora, si è potuto osservare come gli esseri umani
possano imparare praticamente tutto: emblematico a
questo riguardo è il caso dei bambini ‘selvaggi’. Noti
agli studiosi sono, per esempio, gli studi di Margaret
Mead sulla personalità e le differenze tra i sessi e in
particolare sull’inesistenza del concetto di ‘maternità
naturale’ da noi spesso invocato. Infatti la forza del
condizionamento sociale è tale che, come puntualizza
la grande antropologa americana, “si è costretti a
concludere che la natura umana è incredibilmente
malleabile, tale da adattarsi infallantemente, con
aspetti contrastanti, a condizioni culturali in contrasto. Le differenze tra individui appartenenti a culture
diverse, come le differenze fra individui della stessa
cultura, sono da attribuirsi quasi interamente a differenze di condizionamento, soprattutto durante
l’infanzia; un condizionamento la cui forma è determinata culturalmente”18.
16
Pussetti, C., op. cit., pp. 165-166.
Cfr. Lévi-Strauss, C., Il pensiero selvaggio, EST, Milano,
1996, p. 223.
18
Mead, M., op. cit., p. 296.
17
58
L’espressione obbligatoria dei sentimenti
Altrettanto interessanti sono gli studi in cui si
analizza il modo in cui molte popolazioni educano i
loro bambini alla non aggressività e al rifiuto della
competitività. L’aggressività cui ci si riferisce è quel
comportamento finalizzato ad infliggere sofferenza
fisica o psichica ad altri e noi sappiamo che vi sono
degli studiosi quali Konrad Lorenz o Desmond Morris i quali sostengono la tesi innato-aggressivista secondo la quale l’aggressività sia innata e universale.
Ora, però, la costituzione genetica umana e le potenzialità aggressive, qualunque esse siano, non sono sufficienti a creare un comportamento aggressivo che,
invece, dipende, in ogni sua fase, da una complessa
interazione tra geni e ambiente.
Il comportamento aggressivo non è determinato da elementi innati più di quanto lo sia quel comportamento che
chiamiamo linguaggio. Senza le potenzialità innate per il
linguaggio non impareremmo mai a parlare, per quanto
stimolante fosse l’ambiente, in termini di linguaggio per
l’appunto. Ma senza un ambiente di “parlanti” non impareremmo mai a parlare poiché, per quanto se ne abbiano le
potenzialità innate, perché si parli bisogna che ci si parli e
che si viva in un ambiente di linguaggio ... Quello che la
realtà conosciuta sembra indicare è che non ci sono modelli
operativi prefissati, non ci sono “istinti”che determinano la
spontanea comparsa dell’aggressività oppure il suo scatenarsi a partire da un determinato stimolo. Ciò che può
sembrare una reazione “scatenata”, “automatica”, “prefissata”, “stereotipata” ad uno stimolo può essere in realtà
qualcosa di assai diverso19.
Tra i Fore della Nuova Guinea, per esempio, la
comunicazione tattile e la libertà nelle attività esplorative del piccolo, insieme ad altre forme di insegnamento che vengono attuate sin dalla prima infanzia,
contribuiscono a plasmare un carattere cooperativo e
non conflittuale, come ben specifica il ricercatore
il modo culturalmente peculiare di trattare il bambino ... fa
sì che non si instaurino comportamenti tipo ‘fuggire o fare a
19
Montagu, A., op. cit., pp. 12-13.
59
L’espressione obbligatoria dei sentimenti
botte’. E, ‘vendicarsi’, ‘fargliela pagare’ o analoghi impulsi
distruttivi rivolti contro la famiglia, le persone care e il loro
modo di vita non entrano a far parte del repertorio comportamentale dei Fore. Tra i Fore non si presentano problemi
assai comuni nelle società occidentali come il ‘gap generazionale’, la rivalità tra fratelli, la prepotenza sociale, la rivolta adolescenziale ed atteggiamenti aggressivi simili. Vi sono
atti aggressivi sperimentali ed accidentali da parte dei più
piccini che, tuttavia, vengono considerati conseguenza naturale dell’immaturità di chi non si rende ancora conto
dell’impatto di simili azioni. Vengono perciò giudicati divertenti. Non viene fatto alcun tentativo di castigare né viene esibita normalmente alcuna espressione di ira o di disapprovazione. Piuttosto, la reazione tipica dei bambini più
grandi e degli adulti fatti oggetto di azioni aggressive od
ostili dei più piccoli è di interessato ed affettuoso divertimento. Se l’attacco diventa doloroso, chi ne è oggetto se ne
va oppure cerca di distrarre il piccino con affettuosa scherzosità o proponendogli altri interessi. Quando l’“aggressione” è rivolta verso coetanei viene scoraggiata ma, di nuovo, non con rimbrotti o punizioni bensì tramite giochi diversivi. Il comportamento aggressivo sperimentale e accidentale dei più piccini non dura; le loro azioni aggressive
casuali od embrionali non riescono a trovare uno spazio
nello stile di vita quotidiana. Nella loro vita l’ira, il litigio, la
lotta non diventano ‘naturali’. Espressioni momentanee
d’ira – ad esempio in caso di ‘incidenti’ durante giochi rudi,
si disperdono rapidamente. Il conflitto riguardante il possesso o l’uso di ‘cose’ viene tipicamente sviato tramite costumi comportamentali di rispetto reciproco o di sintonia
cooperativa20.
Allo stesso modo si può educare a provare qualunque sentimento e però questi comportamenti sono prodotti e controllati da un insieme di influenze,
da valori dominanti che vanno cercati altrove, e più
precisamente nei modelli di adattamento socioambientale scelto dalla cultura di riferimento. Così,
per esempio, la nota gentilezza nella società tahitiana
è un comportamento adattativo essenziale, da intendersi come un tratto del comportamento che dà buo20
60
Sorenson, E., R., op. cit., pp. 27-28.
L’espressione obbligatoria dei sentimenti
ne possibilità di successo nell’ambiente polinesiano,
come la competitività nelle nostre società in trasformazione dopo la rivoluzione industriale.
Se, perciò, in una società viene enfatizzato un tratto particolare, quale, per esempio, la gentilezza, ciò
che la caratterizza non è tanto la tecnica educativa
quanto il modello dei controlli di quel comportamento che potrebbe essere definito di superficie. Esso, infatti, implica una invisibile, ma forte struttura di fondo che incide profondamente sulla personalità, enfatizzando, per esempio, determinati comportamenti,
come quelli citati da Levy
si ritiene che l’ostilità cronica sia molto pericolosa anche
perché porta a conseguenze magiche, all’attivazione di spiriti ancestrali che spesso determinano, in una complicata
teoria della ritorsione, la morte della persona arrabbiata... La
dottrina tahitiana dell’ira dice che tutto ciò che va oltre la
breve espressione verbale è sbagliato, che indica una mancanza di autocontrollo ed immaturità. È perciò cosa di cui
vergognarsi. La gente che, nonostante le numerose e formidabili forme di controllo, provano [sic] sentimenti ostili,
non li esprimono, se vogliono essere considerati cittadini
responsabili e se vogliono evitare quel senso di vergogna che
per varie ragioni turba profondamente il carattere tahitiano
tradizionale... L’ira che non viene trattata e dominata in
questo modo viene considerata una mancanza di controllo
regressiva, e se gli altri si accorgono dell’incapacità di un
individuo a padroneggiare l’ira lo svergognano. Un individuo su cui hanno operato tutte queste influenze culturali ...
non s’arrabbierà spesso e quando gli succede ne proverà disagio e timore e tenderà a liquidare l’ira il più presto possibile21.
Ora, in ogni società si possono vedere all’opera
una serie di dispositivi tecnologici e sociali e una serie
di credenze che favoriscono l’accettazione di un valore ritenuto essenziale ad una pacifica convivenza. Nel
caso del carattere gentile dei tahitiani, ciò non signifi-
21
Levy, R., I., “Gentilezza tahitiana e controlli ridondanti”, in
Montagu A.(ed.), op. cit., pp. 262-263.
61
L’espressione obbligatoria dei sentimenti
ca che in questa società non ci siano segni di ostilità e
di controllo dell’ostilità. Anzi,
all’ostilità ci si deve preparare, le frustrazioni debbono essere ridotte e debbono essere istituiti controlli su quei processi emozionali e comportamentali che minacciano di
evolversi in senso distruttivo. Ma questo viene fatto in
modo tale che l’ostilità come patologia, come forza disgregante dell’organizzazione personale ed interpersonale, viene
tenuta ad un livello minimo in forma garbata e con un
“costo” minimo. Non sono necessari complessi controlli
secondari (cioè sanzioni sociali severe, come la prigione, o
un duro autocontrollo personale)... Per esempio, è opinione
corrente che gli individui abbiano scarso controllo sulla natura e sul comportamento degli altri; che, anzi, se qualcuno
si dà troppo da fare, se cerca di forzare la realtà in nuovi
modelli, quella realtà (Dio, la natura, gli altri) inevitabilmente reagirà distruggendo il trasgressore. Viceversa, se uno
non si agita troppo per forzare le cose, la realtà inevitabilmente si prenderà cura dell’individuo. La gente impara così
ad essere “passivamente ottimista”. Questa opinione generale, prodotta dalle condizioni della socializzazione, viene rafforzata da leggende, pratiche guaritorie dei medici – stregoni e da valori consciamente e universalmente manifestati22.
In questo modo, i controlli non saranno solo abbondanti, ma quasi gerarchizzati nel senso che quelli
acquisiti molto precocemente entreranno a far parte
dell’io e diventeranno ‘naturali’ o ‘istintivi’; saranno,
quindi, molto più potenti perché inconsci e riguardanti il corpo. “Così, se l’opinione, universalmente
accettata, secondo cui l’ambiente sociale e fisico è refrattario all’aggressione non è sufficiente a trattenere
un individuo dal pensare o iniziare un’azione aggressiva, proverà comunque vergogna per la sua “devianza” e la vergogna terrà sotto controllo il suo agire”23. In conclusione, “da un lato, i tahitiani presentano potenzialità aggressive. Dall’altro hanno imparato
a strutturarsi in modo tale da non essere
22
23
62
Levy, R., I., op. cit., pp. 257-258.
Levy, R., I., op. cit., p. 264.
L’espressione obbligatoria dei sentimenti
“fondamentalmente aggressivi”. Essi in genere non
hanno alcun bisogno di reprimere l’ostilità dentro di
loro; sono strutturati in modo tale da minimizzare il
problema”24.
Per comprendere l’importanza di questi controlli,
si pensi, per esempio, come, in molte società etnologiche, il rispetto nei confronti di un anziano sia principio fondamentale che ispira continuamente il comportamento di ciascuno e i rapporti interpersonali.
Tra i Bijagó, per esempio, avere un comportamento
sociale corretto significa accettare i legami con gli altri
e rispettare le posizioni gerarchiche. Così la condotta
che si deve avere nei confronti degli anziani viene assimilata lentamente attraverso la pratica, l’abitudine e
una serie continua di collegamenti apparentemente
arbitrari con situazioni sempre apparentemente molto diverse. Come riferisce Pussetti,
aiutata dalle loro indicazioni ho imparato a non guardare
mai un anziano negli occhi, a salutarlo inchinandomi leggermente e prendendogli la mano in modo da fargli capire
la mia posizione nel percorso iniziatico, a non sovrastarlo
fisicamente, cercando di scegliere sempre posizioni composte e inferiori in altezza. Ho compreso l’importanza del
mantenere un atteggiamento corporeo compito e pacato,
del controllare l’irrequietezza e gli sguardi, del dominare la
parola, non conversando mai oltre misura, a voce troppo
alta, impulsivamente o interrompere un anziano. Ho preso
a servire da bere nel giusto ordine e modo, ad attendere il
mio turno per mangiare o parlare, ad anticipare i desideri
per non infliggere l’umiliazione di chiedere, ad accettare
sempre le offerte o le richieste, sapendo di poterle in ogni
caso passare a qualcuno a me inferiore d’età, costretto dalla
stessa regola a non rifiutare. Tutti questi atteggiamenti ai
quali si viene educati fin da ragazzini costituiscono un codice morale tacito che viene incorporato visceralmente e che
mette in relazione i concetti di rispetto, pazienza, ordine,
compostezza e controllo... senza l’abitudine, il rispetto sarà
solo un’apparenza, un’ostentazione, che non reggerà a lungo di fronte alle situazioni più difficili, come per esempio il
ritiro iniziatico in foresta, in cui i giovani dovranno sotto24
Levy, R., I., op. cit., p. 266.
63
L’espressione obbligatoria dei sentimenti
stare umilmente alle angherie degli anziani. Il legame tra il
rispetto per gli anziani e un atteggiamento calmo e misurato
è indicato a livello semantico e concettuale. Le espressioni
di rispetto più frequenti nei consigli e nei commenti che ho
registrato sono ... avere testa, ma anche dare un senso, un
significato alle cose ... essere testa, ma anche essere consapevole e riflessivo ... essere ordinato, fare pulizia, essere buono
ad agire lentamente25.
E così presso gli Oglala, gruppo della nazione
Sioux, alla comparsa dei primi denti, al piccolo era
impedito l’allattamento al seno attraverso piccoli
colpi sulla testa. “Un trattamento così inabituale provoca violente collere. Lo si fascia allora sino al collo, lo
si attacca sulla culla e lo si lascia urlare sino all’esaurimento (più grida forte e più, si crede, sarà un buon
cacciatore), rendendo così impossibile l’esteriorizzazione della sua rabbia se non attraverso la voce”26.
Questo comportamento apparentemente di poca importanza, in realtà è uno dei molteplici modi in cui il
bambino impara per esempio a “riorientare una parte
dell’aggressività in autoaggressione, nell’obbligo di
sopportare il dolore con impassibilità, e anche a ricercarlo in alcuni momenti di determinate occasioni rituali”27. Oppure, ancora presso molte popolazioni
africane, per esempio, i giochi dei bambini, che pure
occupano la maggior parte del loro tempo, sono facilmente
interrotti: gli adulti o i primogeniti utilizzano i bambini per
effettuare tutti i lavori che questi ultimi possono sostenere e
che sono compatibili con le loro forze e le loro capacità. Il
giovane deve prendere presto l’abitudine di aiutare le persone che lo circondano. Egli ne trae in compenso la convinzione, giustificata, che è a tutti gli effetti un membro del
gruppo ed è utile ad esso. Egli è anche necessario per tenere
certi ruoli rituali: simbolizzando il rinnovamento, è insostituibile quando bisogna maneggiare le sementi, festeggiare le
primizie28.
25
Pussetti, C., op. cit., p. 75.
Héraux, P., op. cit., p. 342.
27
Ibidem
28
Héraux, P., op. cit., p. 349.
26
64
L’espressione obbligatoria dei sentimenti
Insomma, comportamenti, credenze, teorie, abitudini apparentemente strane o assolutamente arbitrarie possono essere comprese solo se inserite in un
contesto. Esse, infatti, assumono significato analogo
nell’acquisizione di un corretto comportamento, in
quanto forme diverse in cui si sottolinea lo stesso
concetto di base e si educa ad applicarlo con naturalezza in tutte le circostanze.
65
La cultura come controllo
dei sentimenti
In nessuna società, quindi, i sentimenti vengono
mai espressi liberamente poiché il controllo di sé è il
valore fondante della propria umanità. Si potrebbe,
anzi, dire che la società è controllo delle emozioni,
controllo che viene attuato attraverso quella che
Mauss denomina “l’espressione obbligatoria dei sentimenti”, cioè la mancanza di spontaneità assoluta
nell’espressione di un sentimento1. Questa espressione, infatti, non è mai un fatto puramente individuale
tanto è vero che è sempre manifestata in gruppo, in
tempi, luoghi e persone ben determinate. Questo carattere collettivo non esclude affatto la sincerità delle
emozioni, ma “tutte queste espressioni collettive, simultanee, con valore morale e con forza obbligatoria
dei sentimenti dell’individuo e del gruppo, sono qualcosa di più che semplici manifestazioni; sono segni,
espressioni capite, ossia un linguaggio. Questi gridi
sono come frasi e parole. Bisogna emetterli, ma se bisogna emetterli è perché li capisca tutto il gruppo.
Dunque è più che un manifestare i propri sentimenti;
è un manifestarli agli altri, perché si deve manifestarglieli. Li si manifesta a se stessi esprimendoli agli
altri e per conto degli altri. Si tratta, essenzialmente,
di una simbolica”2.
Allo stesso modo Granet, nel suo saggio molto
famoso sul linguaggio del dolore nel rituale funerario
della Cina classica, sottolinea come nell’espressione
dei sentimenti
1
Cfr. Mauss, M., “L’espressione obbligatoria dei sentimenti”,
in Granet, M., Mauss, M., Il linguaggio dei sentimenti, Adelphi,
Milano, 1975, p. 3 sgg.
2
Mauss, M., op. cit., p. 13.
67
L’espressione obbligatoria dei sentimenti
la spontaneità non appare che al termine di una evoluzione:
per reazione contro il formalismo iniziale e il ritualismo
sviluppato del linguaggio sentimentale, e solo quando la
società è abbastanza instabile perché l’individuo percepisca
una dissonanza tra il proprio ideale e l’organizzazione sociale. Ma in una società stabile e che tiene alla propria stabilità
non sono certo l’originalità dell’individuo né le tradizioni di
famiglia a governare il sentimento e la sua espressione. Per
cui tutti gli avvenimenti che danno materia a una emozione
che conta veramente nella vita personale, riguardano nello
stesso tempo l’individuo e tutta la società. Nel momento in
cui l’amore, il dolore penetrano in un’anima umana, il corpo sociale è testimone dell’unione sessuale o della morte che
ne sono l’occasione, e partecipa attivamente al matrimonio
e al lutto che modificano la sua propria composizione e il
suo ordinamento. A ogni grave crisi della vita affettiva corrisponde una rottura di equilibrio della vita sociale3.
Non a caso, la tradizione orientale è molto chiara
in tema di cortesia, come si può leggere in questo
brano: “In Vietnam è tradizione che marito e moglie
si trattino l’un l’altro come ospiti di riguardo. Ci si
rispetta davvero a vicenda: quando ci si cambia
d’abito non lo si fa davanti all’altro; ci si comporta
con reverenza. Se non c’è più il rispetto dell’altro, il
vero amore non può durare a lungo. Rispettarsi l’un
l’altro, trattarsi a vicenda come ospiti è una tradizione
della società asiatica... Senza questa sorta di mutuo
rispetto... la rabbia e le altre energie negative cominciano a prendere il sopravvento... gli sposi si inchinano l’uno all’altro in segno di rispetto”4. La cultura,
infatti, è controllo ferreo delle emozioni: le buone
maniere, la cortesia, dunque ciò che viene ritenuto
forma è, invece, sostanza. Del resto, senza questo controllo, non potrebbe esistere alcuna società, cioè una
comunità che decide di fare insieme il viaggio della
vita giacché le emozioni, sia positive sia negative, se
3
Granet, M., “Il linguaggio del dolore nel rituale funerario
della Cina classica”, in Granet, M., Mauss, M., op. cit., pp. 37-38.
4
Thich Nhat Hanh, Spegni il fuoco della rabbia Governare le
emozioni, vivere il nirvana, Mondadori, Milano, 2002, pp. 49-50.
68
L’espressione obbligatoria dei sentimenti
lasciate libere, la distruggerebbero. Come sostiene Nitobe, in Giappone
Il fine di qualsiasi norma di cortesia è coltivare la mente in
modo che persino quando siete seduti tranquillamente nessuno oserà assaltarvi, nemmeno il più rozzo dei ribaldi. Ciò
significa che, esercitandosi costantemente nelle buone maniere, si portano tutte le parti e le facoltà del corpo a funzionare secondo un ordine perfetto, e si arriva a una tale
armonia con se stessi e con il proprio ambiente da esprimere
la padronanza dello spirito sulla carne. La cortesia è una
grande conquista della cultura umana ... per esempio, siete
sotto un sole cocente e abbagliante, senza ombra intorno a
voi. Un conoscente giapponese vi passa accanto; vi accostate
a lui, e istantaneamente questi si toglie il cappello: bene,
questo è perfettamente normale, ma... mentre parla con voi,
tiene il parasole chiuso e anch’egli rimane esposto al sole
cocente... La motivazione che si cela dietro questo gesto è:
“sei sotto il sole e io simpatizzo con te; ti prenderei volentieri sotto il mio parasole, se fosse abbastanza grande o se
fossimo amici intimi; dunque, poiché non posso farti ombra, condividerò il tuo disagio”. La disciplina da un lato, con
lo sviluppo di una forza d’animo tale da sopportare tutto
senza un lamento, e l’insegnamento della cortesia dall’altro,
con l’imposizione di non guastare il piacere o la serenità
degli altri esprimendo loro il dolore o la sofferenza personali, si sono combinati nel generare l’orientamento apparentemente stoico del nostro carattere nazionale5.
E sempre Nitobe, quando deve spiegare il dominio di sé e il controllo ferreo delle emozioni nella società giapponese che non permette alcuna espressione
del dolore, così scrive
Era considerato indegno di un samurai tradire le proprie
emozioni lasciandole trapelare sul volto. La frase “non mostra segni di gioia o di collera” era usata per descrivere un
uomo di grande carattere. Persino l’espressione degli affetti
più naturali era tenuta sotto controllo. Un padre poteva
abbracciare suo figlio solo a spese della propria dignità; un
marito non avrebbe baciato sua moglie in presenza di altre
persone ... Se andate a trovare un amico giapponese in un
5
Nitobe, I., Bushido L’anima del Giappone, Luni, Milano,
2003, pp. 42-68.
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L’espressione obbligatoria dei sentimenti
momento di profondo dolore, egli vi riceverà invariabilmente ridendo, con gli occhi rossi o le guance bagnate. Di
primo acchito, potreste pensare che è un isterico. Se premete affinché vi dia delle spiegazioni, non pronuncerà che
qualche luogo comune senza senso: “La vita dell’uomo
comporta dei dolori”; “coloro che si incontrano devono
separarsi”; “colui che nasce deve morire” ... In realtà, i giapponesi ricorrono al riso ogni volta che la fragilità della natura umana è messa a dura prova6.
In maniera magistrale, Granet aveva chiarito la
questione con queste acute riflessioni:
“il dolore erompe davanti alle condoglianze recate – chi le
reca rende sensibile l’obbligo di tale dolore – e si esprime
sullo schema di temi tradizionali, per mezzo di manifestazioni convenzionali e obbligatorie, imposte a ciascuno e
comuni a tutti, – perché esso è efficace solo se la sua espressione, rituale, chiara come un segno, immediatamente accessibile, mette in gioco automaticamente la simpatia. Un
dolore, se fosse possibile, che volesse restare assolutamente
intimo o che riuscisse a tradursi in termini liberi e spontanei, in un momento di propria scelta e secondo una formula
personale, che, in una parola, non si accordasse subito ai
voti del pubblico, non comporterebbe da parte di questo
alcuna partecipazione e non recherebbe alcun conforto.
Anzi, arresterebbe il proprio sviluppo e, limitato alle forme
più passive dell’angoscia, non manifestandosi convenientemente, perderebbe i benefici di un esercizio attivo per mezzo del quale può essere regolato, disciplinato, espulso. Per
questo i gesti del dolore si sono ordinati in una successione
di riti che sono anche un sistema di segni. Essi costituiscono
una tecnica e una simbolica; formano un linguaggio pratico
che ha le sue necessità di ordine, di correttezza, di chiarezza;
che ha la sua grammatica, la sua sintassi, la sua filosofia e,
direi, anche la sua morale”7.
Propria di gran parte delle società etnologiche è la
creazione dell’istituzione iniziatica, essenziale per
comprendere la vita e il pensiero di queste popolazioni, come illustra Servier a proposito delle culture
6
7
70
Nitobe, I., op. cit., pp. 68-70.
Granet, M., op. cit., p. 39.
L’espressione obbligatoria dei sentimenti
aborigene australiane: “i miti [in queste popolazioni]
sono come una rivelazione. Essi rivelano all’uomo la
natura dell’umanità e del mondo nel quale vive, indicano il modo di pervenire alla redenzione ... la nascita
e la morte sono cose relativamente minori, pochi rituali le accompagnano. In tutti e due i casi, le potenze
divine sono considerate agire in modo arbitrario e gli
esseri umani, a questo riguardo, hanno ben poco da
dire. Fondamentali sono, invece, le serie interminabili
dei riti di iniziazione con i quali l’individuo afferma il
suo controllo dei miti, dei riti e dei postulati sui quali
è fondata la vita della comunità”8.
L’istituzione iniziatica ha, tra le altre, la funzione
di insegnare ad affrontare in maniera corretta le proprie emozioni e soprattutto le proprie paure una volta
per tutte. Appunto per questo motivo entra in gioco
il corpo, in quanto, attraverso lo strumento del dolore, si rafforza in maniera decisiva e ‘definitiva’ questa
entrata nel mondo degli uomini.
Il corpo dell’iniziando, infatti, è un corpo non
socializzato, simile a quello di un animale feroce e
quindi va ‘umanizzato’. Non a caso, dei bambini si
dice che hanno emozioni ancora incontrollate e che
per questo le loro reazioni assomigliano a quelle degli
animali: i bambini, cioè, non sono ancora stati modellati completamente dalla ‘cultura’ e reagiscono, perciò, secondo ‘natura’, appunto come gli animali.
L’atteggiamento selvaggio esprime in modo simbolico
la mancanza di ‘cultura’, cioè di pensieri-sentimenti
‘umani’. Del resto, solo i bambini, i folli o coloro che
sono ai margini della società esprimono i loro sentimenti in modo incontrollato o perché non hanno ancora acquisito o hanno perso la propria energia vitale
oppure non hanno ancora le caratteristiche specificamente umane e una posizione sociale certa. Come
rilevano i bijagó, “tutto ciò che può provare un bambino piccolo sono le sensazioni che provano gli ani8
Servier, J., “Histoire de la pensée symbolique”, in Poirier J.
(sous la dir.), Histoire des moeurs II vol. 2 Modes et Modèles, Gallimard, Paris, 1991, p. 704.
71
L’espressione obbligatoria dei sentimenti
mali: il neonato avverte solo fame e sete, dolore fisico
e sonno... prima di nascere il bambino non può avere
pensieri – sentimenti, perché non riceve stimoli, non
fa esperienze, non intesse relazioni”9.
La cultura è, invece, legge, ordine, regola, come
racconta questa donna bijagó
La gente un tempo viveva come gli animali, tutti volevano
comandare. Se eri in grado di picchiare .... qualcuno, lo picchiavi. Se volevi una cosa di qualcun altro e lui rifiutava di
dartela, lo picchiavi e rubavi la cosa che era sua: la gente si
picchiava gli uni con gli altri. Ci si comportava come banditi e ciò non aveva nessuna conseguenza. Quello che aveva
forza fisica comandava ‘sulla testa di tutti’: tutti facevano
ciò che volevano, senza mai curarsi degli altri. Un giorno un
figlio del clan padrone della terra, ... pensò nella sua testa
che ciò non poteva essere, che questo comportamento era
pericoloso ... e minaccioso ... Chiamò suo padre e parlò con
lui. Il padre chiamò tutti i più anziani, uomini e donne:
parlò con loro dell’idea del figlio. Tutti gli diedero ragione e
decisero di discutere per sedere il villaggio nella legge ... affinché se qualcuno avesse fatto qualcosa lo si castigasse. Inventarono anche il n’obitr kusina,[ciclo dei doni agli anziani] per trasmettere la legge ... e aiutare gli anziani che non
possono più lavorare. Tutto ciò è l’origine del manras
[iniziazione]10.
Colui che decide di non entrare nella società
tramite l’iniziazione naturalmente non sarà mai considerato un uomo completo e potrà sempre, proprio
per questo, rappresentare un pericolo per il gruppo
come racconta questo adulto
Kariá non ha fatto il manras [iniziazione], non conosce la
legge. La responsabilità-legge non è scritta sul suo ventre, né
nei suoi pensieri-sentimenti. Non ha dimostrato controllo,
né rispetto e ha offeso gli anziani. In foresta dovrà scontare
tutto questo con dolore. Attenzione a chi non si comporta
bene con gli anziani: il castigo dipenderà dagli errori commessi. In foresta si impara a controllarsi e ad avere coraggio.
Questo è ciò che ci si aspetta da un uomo bijagó, che sappia
9
Pussetti, C., op. cit., p. 63.
Pussetti, C., op. cit., pp. 84-85.
10
72
L’espressione obbligatoria dei sentimenti
riconoscere il cammino indicato dagli antenati e ascoltarecomprendere il consiglio degli anziani. I pensieri-sentimenti
possono muovere un uomo come fa il vento con gli alberi, o
la tempesta con le piroghe: possono travolgere chi non è
forte o non sa governare le onde. Sono come il fuoco, che è
indispensabile per vivere, ma può trasformarsi in incendio.
Chi non sa resistere alla forza dei pensieri-sentimenti può
ammalarsi e fare ammalare il villaggio. La disciplina e il controllo ... si imparano dagli anziani ogni giorno e dagli antenati in foresta11.
Molto acutamente Pussetti sottolinea che “l’istituzione della legge rappresenta quindi il termine di
questa condizione primeva, caratterizzata da un’illimitata libertà individuale e da un mondo di pensieri-sentimenti totalmente egoistici, in favore di esigenze sociali più ampie. La creazione della società
coincide con l’assunzione individuale della responsabilità, che viene rappresentata simbolicamente dalle
scarificazioni incise sul petto degli uomini iniziati... la
responsabilità sociale e l’etica iniziatica del controllo
appartengono invece decisamente a un processo che
potremmo definire di androgenesi, destinato cioè a
stabilire ciò che l’uomo ha da essere in quanto individuo maschile. Gli uomini infatti hanno bisogno di
maggiore controllo perché i loro n’atriba [pensierisentimenti] sono più pericolosi e violenti: sono stati
educati a provare emozioni adatte a un guerriero destinato a difendere il villaggio”12. Naturalmente anche
le donne avranno la loro iniziazione rappresentata
anche in maniera corporea, ma le iniziazioni femminili sono dappertutto, quando ci sono, molto meno rilevanti di quelle maschili perché le donne sono
ritenute già ‘complete’, espressione perfetta e compiuta della ‘natura’, data la loro capacità di generare come la Terra. La ‘cultura’, quindi l’umanità, cioè la facoltà di vivere insieme – espressione propria dell’essere maschile – è, invece, in continua costruzione e
11
Pussetti, C., op. cit., p. 93.
Pussetti, C., op. cit., p. 85.
1212
73
L’espressione obbligatoria dei sentimenti
trasformazione in quanto dato che non ci viene dalla
natura.
Come si è già accennato, i sentimenti pericolosi o
difficili da dominare possono essere, così, espressi in
modo conveniente e sicuro solo attraverso i veli protettivi della forma poetica, attraverso una forma convenzionale – quale il lamento funebre, il canto o la
danza – e all’interno di uno spazio e di un tempo rigidamente definiti. Per fare un solo esempio, si potrebbe citare il cosiddetto duello canoro degli Eschimesi centrali e orientali così descritto da Harris
Accade spesso che un uomo ne accusi un altro di avergli
rubato la moglie. La controquerela sostiene che la donna
non è stata portata via ma che se n’è andata volontariamente perché suo marito “non era abbastanza uomo” per prendersi cura di lei. La controversia viene risolta di fronte ad un
numeroso pubblico lì convenuto che potrebbe essere paragonato ad un tribunale, ma non viene prodotta alcuna testimonianza a sostegno di una delle due versioni sui motivi
dell’abbandono del marito da parte della moglie. Piuttosto,
le “due parti” si scambiano, a turno, insulti in musica, sotto
forma di canzoni. Il “tribunale” reagisce ad ogni esibizione
con risate più o meno fragorose. Alla fine, uno dei due cantanti viene sopraffatto e le urla e le grida lanciate contro di
lui diventano generali – perfino i suoi parenti fanno fatica a
non ridere:
Si va sussurrando qualcosa/ su di un uomo e sua moglie/ che
non riuscivano ad intendersi/ di che si trattava, in sostanza?/
di una moglie che, giustamente in collera,/ strappò le pellicce
del marito/ prese la loro imbarcazione/ e remò via con suo
figlio./ Ay-ay, tutti voi che ascoltate/ cosa pensate di lui,/ possente nella sua collera/ ma privo di forza,/ a balbettare debolmente?/ ha avuto quello che meritava/ poiché è stato lui
che, con protervia,/ ha dato inizio a questa disputa con stupide parole./ ... Gli eschimesi non hanno nessun tipo di specialisti poliziesco-militari che si occupino di imporre il
“verdetto”. Tuttavia, è possibile che lo sconfitto nel duello
canoro lasci perdere, poiché non può più fare affidamento
sul sostegno di nessuno se decide di esasperare il conflitto.
74
L’espressione obbligatoria dei sentimenti
D’altra parte, il perdente può anche decidere di continuare
da solo13.
O ancora, in molte società vi sono alcuni individui che possono essere equiparati ai bambini e visti,
perciò, come ‘selvaggi’ e sono coloro che costituiscono
il gruppo degli iniziandi o di coloro che affronteranno le cerimonie relative al passaggio da un grado di
età ad un altro. Nella cultura bijagó, per esempio,
proprio agli individui che ancora non fanno a pieno
titolo parte del gruppo, come coloro che ancora non
sono iniziati e quindi anche alle ragazze non sposate,
o a personaggi speciali quali il musicista, vengono
permesse canzoni definite della ‘miseria-sventura
umana’. Essi possono, quindi, cantare liberamente il
tormento, la sofferenza, il dolore, l’amore, il tradimento, il desiderio, cioè quei sentimenti dolorosi o
difficili che pure fanno parte dell’esistenza umana e
che in qualche modo devono trovare sfogo, devono
essere liberati. La liberazione, però, non può che avvenire attraverso figure che hanno uno status sociale
ancora incerto o che non hanno acquisito quel senso
d’onore e di dignità dell’essere umano completo.
Come sottolinea sempre Pussetti, l’ammissione
pubblica di debolezza è molto significativa perché dà
sfogo, sempre in modo pubblico, a tutte quelle cariche
dolorose e potenzialmente negative della società rispetto alla fragilità che l’esistenza umana comporta,
ma sotto il velo protettivo della forma poetica e comunque sempre da individui che non rappresentano
la comunità nella sua pienezza: “il cantante si dichiara
ad alta voce vinto, soggiace suo malgrado all’intensità
dei suoi n’atriba [pensieri-sentimenti], esponendo se
stesso e gli altri ai rischi del suo mancato controllo.
Gli uomini, la cui condotta dovrebbe essere di esempio per i più giovani, confessano la loro debolezza; i
ragazzi, che devono affrontare il manras, svelano i loro timori e le loro perplessità; le donne, che dovreb13
Harris, M., Antropologia culturale, Zanichelli, Bologna,
1990, pp. 174-175.
75
L’espressione obbligatoria dei sentimenti
bero preoccuparsi dell’armonia familiare, cantano la
loro gelosia, il desiderio e la rabbia per il tradimento.
E il pubblico, coinvolto, si lascia conquistare: rapito,
si arrende al contagio del dolore”14.
La persona, l’essere umano nella sua piena realizzazione è prima di tutto individuo, essere sociale che
ha acquisito caratteristiche e comportamenti sociali.
Il concetto di persona, come si è già notato, si riferisce
sempre al modello culturale della società di riferimento. Esso va visto, dunque, “come una “finzione legale”, vale a dire una costruzione fondata su valori solidali dell’organizzazione sociale. Ma tali valori, o almeno alcuni, non si assorbono se non attraverso le
usanze che ad essi si ispirano o li mettono in pratica...”15. Tra gli Yoruba, per esempio, le loro idee sulla
dipendenza dell’individuo dalla famiglia o dalla comunità, che raggruppa i vivi e i morti cosicché gli antenati si perpetuano nei discendenti, comportano anche un concetto di persona originale che rinvia sempre ad una eredità insieme cosmica e familiare. La testa, infatti, sede dell’intelligenza, ritorna nella famiglia, mentre il ritorno del principio vitale, o spirito, è
libero. “La testa rimane per qualche tempo nel paese
dei morti prima di tornare sulla terra, di modo che
normalmente sono i nipoti ad essere considerati la
reincarnazione del nonno o della nonna recentemente scomparsi”16. Al fondo di simile concezione vi è
l’idea che il mondo dei morti e quello dei vivi siano in
contatto continuo tra loro e che vi sia un passaggio e
uno scambio continuo tra le due realtà.
Tuttavia la nozione di persona non è un dato acquisito una volta per tutte: l’insieme dei destini, infatti, non sempre è completamente determinato dalla
discendenza e dalla nascita: tra gli Jivaro, per esempio,
un individuo adulto maschio può cumulare diverse
anime e l’anima più importante, quella denominata
14
Pussetti, C., op. cit., p. 219.
Augé, M., “Persona”, in Enciclopedia Einaudi, vol. 10°, Einaudi, Milano, 1980, p. 655.
16
Augé, M., op. cit., p. 656.
15
76
L’espressione obbligatoria dei sentimenti
arutam, si acquisisce. Come sostiene molto efficacemente Augé, “la nozione di individuo è sempre sul
punto di dissolversi per eccesso o per difetto di significato”17. L’identità si può perciò acquisire, conquistare o trasformare come nel caso di quelle che avvengono in seguito all’iniziazione o alle successive iniziazioni così come la successione del nome spesso si collega al concetto di reincarnazione, anche se solo parziale, degli individui.
Per prima cosa, però, come sostengono i Mossi
dell’Alto Volta, “bisogna parlare per vivere”: le parole
sono la parte centrale del pensiero poiché senza parole non c’è pensiero. Per di più ogni parola richiede
una risposta: la forma elementare della vita sociale è
in realtà il dialogo. Il dramma della morte è proprio
quello di non poter comunicare “tanto che in molte
regioni il morto è denominato ‘colui che non ha più
aria’ o ‘colui che ha terminato di parlare’18. Infatti il
soliloquio, in tutte le culture provoca sconcerto e
sgomento e viene sempre ricollegato a disturbi nel
rapporto sociale, quali la follia o l’ubriachezza. Come
le piante, anche le parole maturano e ciò è proprio dei
saggi la cui parola, matura per eccellenza, può essere
indirizzata verso le divinità ed è l’unica capace di proteggerci dalla morte o di provocarla, come nel caso
degli stregoni. La parola è, secondo i Mochica
dell’antico Messico “il segno più evidente dell’esistenza individuale e sociale della persona”19.
E così, in molte regioni dell’Africa, il saggio, “colui
che possiede la conoscenza, si esprime con misura,
ponderazione, lentezza (ciò che i Dogon definiscono
“la parola solida “)... L’uomo che sa tacere è l’essere
sociale per eccellenza. Egli dà prova di pazienza, trattiene le parole quando è necessario e evita anche le
liti. Un tale uomo è molto apprezzato nel villaggio ...
17
Augé, M., op. cit., p. 658.
Calame-Griaule, G., “La parole et le discours”, in Poirier, J.
(sous la dir.), Histoire des moeurs II vol. 1 Modes et modèles, Gallimard, Paris, 1991, pp. 39-40.
19
Calame-Griaule, G., op. cit., p. 41.
18
77
L’espressione obbligatoria dei sentimenti
presso i Bambara, il silenzio è ancora più valorizzato
della parola, perché è la prova del controllo di sé, del
dominio del proprio sé; da ciò la sua importanza
nell’iniziazione... Il proverbio francese “la parola è
d’argento, il silenzio è d’oro” si ritrova in tuareg. Questo silenzio tuttavia, non deve arrivare sino all’assenza
di comunicazione, perché “il mutismo è assimilato
all’isolamento, o addirittura alla solitudine”... il silenzio di cui si parla è piuttosto fatto di ritegno e implica
che si sappia ascoltare”20.
Il linguaggio e dunque la parola sono la condizione necessaria per essere considerati uomini in qualunque società e per tale motivo hanno acquisito un
valore sacro in tutte le culture. Nella tradizione europea, per esempio, quando si parla degli animali domestici spesso gli intervistati dicono: “sembra una persona, gli manca solo la parola”. Sempre presso i Dogon del Mali, l’uomo è stato creato senza parola: prima della nascita gli esseri umani sono dei ‘pesci’ e
all’arrivo sulla terra conoscono una specie di ‘infanzia’
che consiste nell’esprimersi con gesti o versi inarticolati, di abitare in caverne e nutrirsi solo dei frutti della
terra. Solo in seguito all’arrivo del dio Nommo, la
civiltà comparve ed egli rivelò la parola e il linguaggio
agli uomini21. Una delle domande costanti nelle diverse culture, quindi, è quella relativa all’origine della
lingua, alla sua natura e alle sue funzioni. Per molte
civiltà, all’origine del mondo vi è la Parola di una divinità che ‘nominando le cose’ ha dato loro realtà. La
parola, quindi, ha una grande forza creatrice e perciò
va usata con cautela e sobrietà.
Così, la persona ideale, tra Bijagó come in molte
altre popolazioni, è colei che ha “il dominio di sé, la
sobrietà nell’espressione delle proprie emozioni, il
controllo dei propri bisogni fisiologici. Il comportamento privo di pudore e ritegno, assolutamente dipendente dalle necessità fisiologiche dei bambini vie20
21
78
Calame-Griaule, G., op. cit., p. 45.
Cfr. Calame-Griaule, G., op. cit., p. 21.
L’espressione obbligatoria dei sentimenti
ne associato in senso denigratorio a quello degli animali”22.
La forma fisica in cui si esprime questo controllo
è, appunto, la lentezza, la calma, la moderazione nella
parola. Del resto, l’eccesso nella parola, non a caso parolaccia, è per esempio tollerato in molte società, ma il
giudizio della comunità è comunque negativo per
colui che non riesce a mantenere il controllo delle situazioni dimostrando collera. Ora, come osserva sempre Pussetti, il valore di un essere umano non risiede
nell’individualismo, ma nel senso comunitario dell’esistenza. “La vera indipendenza, l’autonomia, non
sono quindi il prodotto di una volontà privata, di un
atteggiamento individualistico, ma il risultato della
relazione con gli anziani: non diventa adultocompleto chi è solo, ma chi siede insieme agli altri. La
dipendenza sociale che i ragazzi criticano è infatti il
fondamento stesso del loro essere-nel-mondo e della
loro personalità: essi devono infatti agli altri la loro
vita, il loro nutrimento, la loro educazione e la crescita dei loro pensieri-sentimenti, che li renderà un
giorno persone complete”23. Questo senso comunitario della vita nell’universo proprio della specie umana
è dato da “un’invenzione umana, un patto segreto, un
accordo, un ‘giuramento’ ... l’iniziazione viene infatti
definita anche manras, ossia ‘il patto originario’, ‘il
giuramento’”24.
Così, per esempio, tra i Senufo dell’Alto Volta,
l’iniziazione è un congegno molto complesso: presso i
Kiembara e i Nafara essa è ripartita in tre fasi di una
durata di sette anni ciascuna cosicché il ciclo si estende su ventuno anni. Si può comprendere dunque come le attività riguardanti l’iniziazione dirigano tutta
la vita sociale della comunità e le numerose tappe o
stadi intermedi dei rituali permettano solo nell’età
adulta di arrivare alla vera e propria conoscenza delle
leggi e conoscenze del gruppo. Essa è da intendersi
22
Pussetti, C., op. cit., p. 63.
Pussetti, C., op. cit., pp. 82-83.
24
Ibidem
23
79
L’espressione obbligatoria dei sentimenti
come una ‘università’ nella quale ogni membro riceve
gradualmente un’istruzione completa il cui fine è
quello di renderlo uomo a tutti gli effetti. “... l’uomo
nasce nell’animalità e vi resterebbe se non ricevesse
un’‘illuminazione’ data dal poro [iniziazione] che, rivelandogli il senso dell’universo, la natura e la concatenazione delle cose, gli rivela il suo carattere divino”25.
La dignità, il rispetto, l’onore nascono quindi
dagli antenati che hanno creato la legge e dagli anziani che la fondano nel villaggio. La dignità degli
anziani, dunque, “non deriva esclusivamente dal fatto
che sanno dirigere i loro pensieri-sentimenti in base a
un principio morale che impone il dominio di sé per
il bene della società, ma dipende soprattutto dal fatto
che sono gli autori di questo principio morale. Senza
gli anziani che la creano, proclamano, simboleggiano
fisicamente, la legge sarebbe un’astrazione inesistente,
priva di vigore e di efficacia”26. Essi sono, dunque, la
rappresentazione fisica e sociale di un pensiero profondo e insieme di una necessità della vita in gruppo
così che il rispetto verso l’autorità che gli anziani rappresentano in pieno ha un valore fondamentale, essendo quasi un indice di ‘umanità’.
Inoltre la lentezza di cui parlano i Bijagó e che è
propria degli anziani non è altro che una espressione
corporea della necessità di non rispondere alla veemenza del sentimento. “Come l’ubriachezza, anche
un eccesso di energia non controllato può travolgere
una persona, lasciandola in balia della furia della
tempesta e dell’impeto delle onde, disorientata, confusa, incapace di riconoscere e seguire la direzione, il
senso e lo scopo indicati dagli anziani”27. Per chi non
rispetta le regole, per colui che si pone fuori dalla comunità rimane perciò la vita propria di ogni essere
vivente – animale, pianta, montagna, fiume ecc. – e
25
Holas, B., Les Senoufo (y compris les Minianka),
L’Harmattan, Paris, 2006, p. 153.
26
Pussetti, C., op. cit., p. 83.
27
Pussetti, C., op. cit., p. 86.
80
L’espressione obbligatoria dei sentimenti
non certo quella, speciale, con un destino specifico
proprio della specie umana. La vita umana, si vuole
sottolineare, è vita di relazione e non vita solitaria o in
branco.
Anche in Europa, come ripetono incessantemente
nei loro studi storici e antropologi, nel Mediterraneo
la scelta fondamentale è sempre stata nei millenni
passati quella della vita insieme agli altri. “Dove vivere? Mai da soli, ma in gruppo, quali che siano le dimensioni e la ricchezza di quest’ultimo. Un migliaio
di uomini che vivano poveramente del lavoro della
terra e dello scambio dei suoi prodotti è sufficiente,
nel Mediterraneo, a costituire una città, a ricrearne la
solidarietà e le contrapposizioni fondamentali: altrove, anche due volte più numerosi, essi formerebbero a
malapena un villaggio”28.
Proprio per questo motivo, i pastori vengono
considerati quasi una categoria di uomini al di fuori
delle regole o della legge:
La gente di pianura, agricoltori e arboricoltori, li vede passare con timore e ostilità. Per loro e per gli abitanti della città
si tratta di barbari, quasi di selvaggi. Proprietari e commercianti astuti, che li attendono quando scendono a valle, sono d’accordo per imbrogliarli. Fa scandalo la sola idea che
una bella ragazza possa innamorarsi di uno di loro, come in
questa canzone: Tu ti pigghij nu picurare,/ Nenna mia,
n’ha proprio boni:/ jetta nu pezzu de fiatuni,/ dint’a li piattu nun ce sa magnà./Nenna mia, muta pensiere,/muterai
sorte e fortuna:/’nnanze pigghiate nu cafoni/ca è ommi de
società./”29
Come osserva Braudel, quando sottolinea il sogno
di coloro che vivono nelle masserie di stare nel paese
perché si possono frequentare i caffè, il cinema e soprattutto gli altri esseri umani – in quanto la loro
stessa presenza istruisce –, essere un uomo significa
28
Braudel, F. (a cura di), Il Mediterraneo lo spazio e la storiagli uomini e la tradizione, Bompiani, Milano, 1987, p. 126.
29
Braudel, F. (a cura di), op. cit., p. 24.
81
L’espressione obbligatoria dei sentimenti
vivere tra gli uomini e non tra gli animali. E, a questo
proposito, cita un bel brano di Rocco Scotellaro:
“Quando sto così che guardo le bufale penso a tanti che
vanno camminando alla spasso ... quelli che stanno assettati
avanti al bar, si accattano l’aranciata, il caffè, tante cose, e
quelli che vanno al cinema tutte le sere, loro possono ... e
poi vorrei tante cose, come per esempio io vorrei più zappare, uccidermi di fatica e non guardare le bufale, mettere mano a faticare alle sette e alle cinque levar mano ed essere a
libertà ... e la sera vorrei stare al paese: anche se uno non ci
ha i soldi, pure che guarda nel paese già si spratichisce, si
istruisce”. Il suo sogno, paradossale ai nostri occhi per un
uomo che beneficia di un lavoro per tutto l’anno, mentre la
regola è l’impiego temporaneo o la disoccupazione, è quello
di diventare un semplice giornaliero: “lo zappatore, come
vorrei fare io, quando è il sabato sera piglia la settimana di
paga e la porta a casa... se avessi i soldi mi farei la casa” ... e
“vorrei un po’ di terra per fare un orto”... Si tratta di sogni
simbolici, e non di semplici rivendicazioni materiali. Una
casa: l’indipendenza. Un orto: un posto da lavorare per sé, e
non per un padrone, e un certo livello di autonomia... lavorare, certo: ma un lavoro che non dia alla terra e al padrone
più tempo di quanto ne meritino, e lasci liberi di partecipare alla vita del gruppo. “Istruirsi”: non essere uno zotico, un
“cafone”. E soprattutto, vivere tra gli uomini e non tra le
bestie: è il solo modo di essere uomo e di sentirsi tale30.
Come è stato già rilevato, l’onore e la dignità, cioè
i sentimenti con i quali ciascuno può esprimere il suo
‘essere’ nel mondo – fondamentali in tutte le società
in quanto espressione emozionale della preoccupazione fortissima per la salvaguardia dell’individuo e
della comunità – forse possono essere considerati
come i sentimenti centrali del controllo del sé. A questo proposito, possono essere molto utili, per esempio, gli studi di un grande sociologo, Erving Goffman,
il quale ha analizzato in modo approfondito il sé con
acute microanalisi sui comportamenti dell’individuo
nelle società occidentali e così Bourdieu in uno studio
sull’onore tra i Cabili veramente penetrante e illumi30
82
Braudel, F. (a cura di), op. cit., pp. 130-131.
L’espressione obbligatoria dei sentimenti
nante31. I concetti di dignità e onore, però, presuppongono in genere una marcata differenza tra la
donna e l’uomo e molte sono le società nelle quali le
distinzioni fondamentali non sono quelle relative alle
classi sociali o alle etnie, ma quelle che si riferiscono
alla categoria maschile/ femminile. In numerose culture, gli uomini maturi non possono manifestare liberamente qualunque sentimento in quanto essi sono
l’espressione della comunità nel suo pieno vigore ed
equilibrio, quella parte del gruppo che rappresenta
simbolicamente, anche dal punto di vista corporeo, la
Parola e quindi la Ragione, la Cultura. Alle donne,
pura Natura, per dirla con Lévi-Strauss, spetta, proprio per questa loro caratteristica, il compito di mettere in scena le emozioni dei momenti collettivi fondamentali, come, per esempio, il matrimonio o in
particolare la morte. Non solo, ma, visto che in ogni
caso sarebbe contrario alla natura della specie umana
impedire qualunque manifestazione di emozioni, gli
uomini e le donne sono educati ad esternare emozioni specifiche al loro genere: i primi imparano a
proiettare il loro corpo verso l’esterno, verso il gruppo
cosicché devono esprimere sempre emozioni attive
che dimostrino continuamente la loro abilità e che
permettano loro di essere sempre in competizione. La
bravata, così, permette all’uomo di mantenere l’onore
e il prestigio sociale che riposa soprattutto sulla capacità di essere ‘uomo’. L’aggressività di molti comportamenti e le molteplici forme di aggressione verbale o
gestuale di questi uomini, perciò, sembrano essere determinate soprattutto dalla continua paura di perdere
l’onore e dunque la caratteristica di uomini di fronte
agli altri. Come si può leggere in un articolo lucido e
profondo sulle emozioni in rima presso un villaggio
del sud del Portogallo, “la mascolinità deve essere costruita e affermata in continuazione, mentre la femminilità è considerata come stabile. Quando si è pic31
Per lo studio sui Cabili si veda Bourdieu, Pierre, Per una
teoria della pratica con Tre studi di etnologia cabila, Cortina, Milano, 2003.
83
L’espressione obbligatoria dei sentimenti
colo, non si è ‘uomo’ nel senso di ‘maschio’. Per arrivarci è necessario rompere l’intimità con la madre ... il
servizio militare segna il completamento di questo
processo, affermando attraverso l’irreggimentazione
del corpo l’identificazione tra la categoria del
‘maschile’ e i valori del ‘militare’ e del ‘nazionale’”32.
Questa condizione deve essere continuamente riaffermata poiché essa è sostanzialmente una relazione
di dominio, di potere, quindi ‘culturale’, e non una
situazione ‘naturale’ come quella femminile. La mascolinità è in sostanza continuamente in bilico anche
perché il ‘valore’ è qualcosa che dà forma al sé, ma è
anche e comunque qualcosa che è conferito dagli altri.
Onore e famiglia sono le due parole-chiave per comprendere, per esempio, le società mediterranee, come
viene ben analizzato anche in un breve saggio sulla
Grecia egea: “onore è il sentimento che l’individuo ha
del proprio valore, un sentimento profondamente
ancorato in colui che è al suo ‘posto’. Ciascuno, uomo
o donna, nasce in un luogo, una famiglia, una comunità, una nazione; da ciò, un primo segno: il nome.
Con il tempo, si formano dei legami e si sviluppano,
delle prospettive future cambiano, ma il sé rimane
sempre parte integrante di un insieme sociale più vasto, determinato dalle cittadinanze che compongono
la sua identità relazionale”33. Dunque, il sentimento
dell’onore è l’emanazione affettiva della struttura sociale tanto è vero che “perdere il proprio posto equivale a perdere il proprio ‘valore’. La persona ‘fuori posto’, colui o colei che non si comporta secondo le esigenze del suo ‘posto’, perde il suo statuto morale ma,
fatto ancora più rilevante, perde il sentimento intimo
del proprio onore; uno spostamento effettivo è socialmente rivelatore di una grave colpa morale, di una
colpa che tocca il sostrato emozionale dell’individuo:
che rivela la sua incapacità di riconoscere il suo posto
32
Vale de Almeida, M., “Émotions rimées Poétique et politique des émotions dans un village du sud du Portugal”, TERRAIN,
22, mars 1994, p. 25.
33
Papataxiarchis, E., op. cit., p. 7.
84
L’espressione obbligatoria dei sentimenti
e di agire di conseguenza. Ma il senso che si ha del
proprio posto è anche funzione del sesso; uomini e
donne provano in maniera diversa il sentimento di
timi [onore]. Degli uomini, si dice che sono ‘per natura’ dotati di andrismos (di ‘virilità’): un carattere
forte, coraggioso, nobile che li autorizza a possedere
dei beni, ad avere dei ruoli (a rappresentare), a difendere i doveri di vassallaggio, a governare un sé territorializzato. Le donne, essendo ‘per natura’ la parte
debole dell’umanità, ritengono nel tessuto della loro
identità sociale qualcosa della loro vulnerabilità natia.
Per proteggersi e per proteggere coloro che dipendono da loro, bisogna dar prova di ritegno e voltarsi verso l’interno, provare e manifestare della ‘vergogna’...
Se, per l’uomo, la nozione di posto si identifica con
l’affermazione del suo diritto al primo posto, per la
donna, essa suggerisce il ritiro nella sfera del privato”34. Quindi i due sentimenti collegati ad una visione
così precisa del mondo sembrano essere per l’uomo,
l’audacia e la baldanza, e per la donna, la vergogna.
I modi in cui viene reso operante il controllo delle
emozioni nelle società sono naturalmente molto numerosi: un esempio tra i tanti, lo possiamo leggere in
un classico di un grande antropologo, Malinowski,
che in questo modo descrive una scena luttuosa nelle
isole Trobriand
Scegliamo come esempio la morte di un uomo dovuta all’età
ormai avanzata, che lascia una vedova, parecchi figli e fratelli. A partire dal momento della sua morte, la distinzione
fra i suoi parenti veri, ovvero quelli matrilineari, da una parte, e i suoi figli, parenti acquisiti e amici dall’altra, assume
una forma precisa e persino visibile dall’esterno. I parenti
del defunto cadono sotto un tabù: devono stare lontani dal
cadavere... Inoltre i parenti non possono esibire alcun segno
esteriore di lutto nel loro abbigliamento o nei loro ornamenti, anche se è lecito che mostrino il loro dolore e vi diano sfogo piangendo. Qui, il concetto che sta alla base di
questa consuetudine è che i parenti materni sono colpiti
nella loro stessa persona; che ognuno di loro soffre perché
34
Papataxiarchis, E., op. cit., pp. 8-9.
85
L’espressione obbligatoria dei sentimenti
tutto il sottoclan al quale appartengono è stato minato dalla
perdita di uno dei suoi membri. “Come se fosse stato tagliato un membro della propria persona, o un ramo da un albero”. Ma anche se non devono nascondere il proprio dolore, non
possono però ostentarlo. Questa astensione da qualsiasi dimostrazione pubblica del lutto si estende non solo ai membri
del sottoclan oltre che ai veri parenti, ma a tutti i membri
del clan al quale apparteneva il defunto. D’altra parte il tabù
che impedisce di toccare il cadavere vale in primo luogo per
i membri del sottoclan e in particolare per i parenti veri per
i quali evidentemente la tentazione di toccare il cadavere,
come espressione d’affetto, è più forte che per gli altri. Molto diversa è invece la concezione degli indigeni riguardo al
rapporto tra la vedova, i figli e i parenti acquisiti e il defunto
e il suo cadavere. Secondo il codice morale questi devono
soffrire e sentirsi privati della persona amata. Ma sentendosi
privati della persona amata non soffrono direttamente, non
sono afflitti per una perdita che colpisce il loro sottoclan e
dunque la loro stessa persona. Il loro dolore non è spontaneo come quello dei parenti materni, ma è piuttosto un dovere quasi artificiale derivante dagli obblighi acquisiti. Per
questo essi devono ostentatamente esprimere il loro cordoglio, dimostrarlo, e portarne su di sé i segni esteriori. Se
non lo facessero, offenderebbero i membri ancora in vita del
sottoclan del defunto. Tutto questo dà luogo a una situazione interessante e a uno stranissimo spettacolo: poche ore
dopo la morte di una persona importante il villaggio si
riempie di persone con la testa rasata, il corpo tutto unto
con uno spesso strato di fuliggine, che urlano come demoni
disperati. Sono le persone che non fanno parte dei parenti
del defunto, coloro che non sono effettivamente colpiti dal
lutto. Poi, in contrasto con queste, se ne vedono altre vestite
come al solito, esteriormente calme, che si comportano come se non fosse successo nulla. Queste appartengono al sottoclan e al clan del defunto, e sono i veri dolenti... Quando
la morte sta per sopraggiungere, la moglie e i figli, i congiurati e i parenti acquisiti si affollano attorno al letto, riempiendo completamente la capanna. Il momento della morte
viene accolto con un frenetico scoppio di pianto. La vedova,
che generalmente sta in piedi vicino al capo dell’uomo morente, emette il primo grido acuto, al quale rispondono immediatamente le altre donne fino a quando in tutto il vil-
86
L’espressione obbligatoria dei sentimenti
laggio risuona la strana armonia del melodioso lamento funebre35.
La strategia del controllo è qui molto chiara: i parenti stretti, che potrebbero perdere il controllo, sono
tenuti a nascondere il dolore, mentre coloro che sicuramente non potranno subire conseguenze dalla negatività della situazione, sono tenuti a manifestare il
dolore in maniera plateale, a ‘metterlo in scena’, dunque ad esprimere l’intensità e la profondità della
perdita. Mauss aveva appunto sottolineato questo
aspetto importante quando aveva scritto che non sono le parentele di fatto, cioè quelle prossime, ma
quelle di diritto, e spesso i semplici congiunti imparentati, a guidare le manifestazioni del lutto, a dimostrazione proprio dell’obbligatorietà dell’espressione
dei sentimenti.
Un altro esempio, sempre piuttosto noto, potrebbe riguardare le società indonesiane e comunque
quelle comprese nell’area del Sud-est asiatico e del
Pacifico: gli studi antropologici hanno messo in rilievo sin dall’inizio l’assenza di un’espressione diretta
dei sentimenti nel comportamento quotidiano delle
popolazioni esaminate. Vorrei ricordare, a mo’
d’esempio, gli studi su Bali di Margaret Mead, la
quale rileva l’equilibrio e la compostezza nella postura, in qualunque gesto o atteggiamento del Balinese.
Sull’educazione dei bambini poi ella osserva che ai
piccoli non viene mai permesso di litigare, né di bisticciare anche semplicemente per i giocattoli o tanto
meno di picchiare o essere picchiati. Negli anni trascorsi in un villaggio balinese, la Mead infatti dichiara
di non aver mai visto litigare bambini o ragazzi. Per
Geertz questa posa nasce dalla “paura del palcoscenico” e comunque per tutti gli studiosi essa è il frutto di
35
I corsivi sono miei.
Malinowski, B., La vita sessuale dei selvaggi nella Melanesia
nord-occidentale Resoconto etnografico sul corteggiamento, sul matrimonio e sulla vita familiare fra gli indigeni delle Isole Trobriand,
nella Nuova Guinea Britannica, Feltrinelli, Milano, 1968, pp. 148151.
87
L’espressione obbligatoria dei sentimenti
un duro e costante lavoro sull’emozione determinato
da una concezione del mondo riguardante la moralità
e la salute molto specifica. L’imperturbabilità delle
persone e delle espressioni dei loro volti nasce
dall’idea secondo la quale i turbamenti provocano
uno squilibrio corporeo e quindi favoriscono
l’insorgere di una malattia. Come sostiene un indigeno toradja dell’Indonesia, “uno sempre arrabbiato,
non ci piace uno così. Perché una persona del genere
non fa altro che dire cose cattive così che anche noi
finiamo per diventare infastiditi e arrabbiati... uno
irascibile è uno che butta (tutto) fuori (uno che
esprime la sua rabbia), ma uno paziente e tollerante è
uno che la tiene per sé ... se tu reagisci alla rabbia di
qualcun altro (diventando a tua volta arrabbiato) non
va bene ... se la si butta sempre fuori (la rabbia), ci sono sempre difficoltà. È meglio rimanere pazienti/
tolleranti”36. Presso i Toradja, dunque, i regimi emozionali fondamentali sono due e opposti l’uno
all’altro: il primo, quello della rabbia, cioè
dell’eccesso, della mancanza di controllo, l’altro,
quello della pazienza, proprio di chi non si lascia coinvolgere dal punto di vista emozionale e mantiene il
controllo di se stesso.
Una volta per esempio, durante il periodo che trascorsi sul
campo, cadendo da un motorino mi graffiai un ginocchio.
La ferita seppur leggera si infettò rapidamente e divenne
dolorosa. Poiché in pochi giorni mi salì la febbre e
l’infezione mi fece gonfiare le ghiandole della parte sinistra
del corpo, cominciai a preoccuparmi. Ero sorpresa che una
ferita tanto piccola potesse farmi stare così male. Non c’era
nessun ospedale o dottore nel villaggio e mi sentivo troppo
male per andare a Makale a cercarne uno. Quando una
mattina mi svegliai e scoprii che l’infezione era ulteriormente peggiorata, cominciai a piangere sommessamente. Una
donna allora mi rimproverò con delicatezza dicendomi che
sarei dovuta essere ‘sa’bara’ [paziente]. Poiché in quel mo36
Donzelli, A., Hollan, D., “La disciplina delle emozioni tra
introspezione e performance: pratiche e discorsi del controllo a
Toraja (Indonesia)”, in Antropologia, n. 6, a. 5, 2005, p. 49.
88
L’espressione obbligatoria dei sentimenti
mento non stavo facendo nulla che potesse sembrare impaziente e nervoso, non riuscii a comprendere completamente
l’invito della donna a essere ‘paziente’. Il suggerimento, tuttavia, non era un invito a essere ‘calma’, ma piuttosto un
ammonimento a non esternare le mie emozioni, a sopportare il dolore senza lamentarmi37.
Così in un’altra situazione
Un giorno mi svegliai e venni a sapere ... che una delle figlie
del nostro vicino era improvvisamente morta durante la
notte... la donna che mi riferì dell’accaduto mi chiese se volessi andare con lei a casa ... quel pomeriggio dove si sarebbe
tenuta una piccola cerimonia islamica prima di procedere
alla sepoltura del cadavere della bambina. Quando arrivammo fummo invitati a prendere posto nella stanza più
grande della casa dove si erano già radunate molte persone
provenienti dal villaggio e dai dintorni. Ci vennero offerti
caffè e biscotti mentre i familiari ultimavano i preparativi
della salma per il funerale... mentre stavo seduta nella sala
insieme agli altri abitanti del villaggio, al cospetto
dell’improvvisa morte di una giovane ragazza, la tristezza e
la compassione presero il sopravvento e si trasformarono in
lacrime irrefrenabili. La vista degli altri che stavano tranquillamente seduti senza emettere un solo sospiro rese ancora più acuto il mio dolore e cominciai a piangere ancora
più forte. Ero l’unica a piangere in un gruppo di almeno
cinquanta persone. Dopo che l’imam insieme a un gruppo
di rappresentanti religiosi locali ebbero recitato alcune preghiere islamiche, i partecipanti lasciarono la casa mentre un
gruppo di membri della famiglia si diresse con il piccolo
cadavere al luogo della sepoltura. Fu soltanto quando me e
me ne stavo tornando a casa insieme agli altri che udii dei
lamenti disperati provenire dalla casa che ci stavamo lasciando alle spalle. Quando tornai al villaggio nel 2004 appresi che i genitori della bambina si erano spostati in
un’altra casa. Nonostante la compostezza che, ai miei occhi,
avevano dimostrato al funerale della figlia, quando ci rincontrammo dopo più di un anno dalla sua scomparsa, la
madre mi disse immediatamente che avevano deciso di lasciare la vecchia casa perché dopo la sua morte “l’atmosfera
era troppo triste e svuotata” e perché lei si sentiva troppo
37
Donzelli, A., Hollan, D., op. cit., pp. 49-50.
89
L’espressione obbligatoria dei sentimenti
“stordita” e “confusa/ disorientata”, al punto che non potevano più sopportare di vivere là”38.
L’utilizzo di termini come “confusa” e “stordita”
non è casuale, ma allude alle credenze locali sulla consapevolezza continua necessaria nelle azioni, sul distacco dagli eventi e sull’importante concezione
dell’energia vitale che ricorda quella orientale dei centri di energia corporei detti chakra. Bisogna, infatti,
essere sempre all’erta, sempre attento, lucido e
“consapevole delle implicazioni delle proprie azioni.
Ma quando uno è emozionalmente eccitato o turbato
... egli diventa confuso e stordito e quindi perde ... la
consapevolezza delle proprie azioni”39 e a lui può succedere qualunque cosa anche molto spiacevole o pericolosa. Inoltre la pazienza e la calma non servono solamente a dominare le proprie emozioni: l’effetto negativo prodotto dal turbamento emotivo, infatti, si
riflette anche sugli altri e può provocare danni a persone e cose poiché l’energia circola liberamente e non
conosce barriere.
38
39
90
Donzelli, A., Hollan, D., op. cit., pp. 50-51.
Donzelli, A., Hollan, D., op. cit., p. 55.
“Almeno le mie lacrime
la terranno legata a me”: la
perdita del controllo e l’eccesso
dei sentimenti
Gli studi di Lévi-Strauss hanno indicato oramai
con grande chiarezza l’importanza che ogni cultura
attribuisce all’equilibrio e alla ‘giusta distanza’ come
scelta fondamentale della vita sociale. Come rileva il
grande antropologo, “alle due prospettive, che potrebbero entrambe sedurre la sua immaginazione, di
un’estate o di un inverno eterni, ma che sarebbero,
l’una licenziosa sino alla corruzione, l’altro puro sino
alla sterilità, l’uomo deve risolversi a preferire
l’equilibrio e la periodicità del ritmo stagionale.
Nell’ordine naturale, quest’ ultimo risponde alla stessa funzione cui, sul piano sociale, soddisfa lo scambio
delle donne nel matrimonio e lo scambio delle parole
nella conversazione, purché l’uno e l’altra siano praticati con la franca intenzione di comunicare; cioè, senza astuzie né perversità e, soprattutto, senza secondi
fini”1.
Il buon uso della comunicazione, dunque, è
preoccupazione essenziale di ogni gruppo giacché,
senza una corretta comunicazione, nessuna società è
possibile. La comunicazione è una forma di socialità,
anzi è socialità pura e semplice, in quanto opposta
all’ostilità e alla guerra2. A questo proposito LéviStrauss illustra, in altri scritti, l’importanza dell’oblio
o della dimenticanza nel pensiero mitico di molte popolazioni e sostiene che l’oblio formerebbe un sistema
assieme al malinteso, l’indiscrezione e la nostalgia:
1
Lévi-Strauss, C., Antropologia strutturale due, il Saggiatore,
Milano, 1990, p. 59.
2
Cfr. Lévi-Strauss, C., L’uomo nudo Mitologica 4, il Saggiatore, Milano, 1974, p. 652.
91
L’espressione obbligatoria dei sentimenti
... che cosa vi è di comune e che cosa vi è di diverso tra la
dimenticanza, il malinteso e l’indiscrezione? ... Definiamo
l’indiscrezione, consistente nel rivelare a qualcuno qualcosa
che non gli si sarebbe dovuto dire, un eccesso di comunicazione con l’altro. Ne risulta che il malinteso, consistente nel
comprendere in ciò che qualcuno ha detto un’altra cosa
rispetto a quella che egli ha voluto dire, può essere definito
un difetto di comunicazione anch’esso con l’altro. Vediamo
allora quale posto è da attribuire all’oblio in questo sistema:
esso consiste in un difetto di comunicazione, non più con
l’altro, ma con se stesso. Infatti, dimenticare significa non
dire a se stessi ciò che avremmo dovuto poterci dire3.
Il motivo dell’oblio nei miti greci, per esempio,
serve a fondare delle prescrizioni rituali, dei divieti,
come quelli di pronunciare dei nomi di persone o di
divinità in luoghi speciali o di entrare in determinati
luoghi sacri o ancora a istituire dei rituali. In realtà, la
funzione specifica e quindi la più rilevante della pratica rituale è senza dubbio quella di “preservare la
continuità del vissuto. Infatti, proprio questa continuità è quella che viene rotta dall’oblio nell’ordine
mentale: lo riconosciamo ogni volta che parliamo di
“vuoti di memoria”. E sovente, in America e altrove, i
miti stessi lo riconoscono, al loro modo, quando fanno derivare l’oblio da un passo falso: l’eroe perde la
memoria quando barcolla, perché ha messo il piede in
una depressione del terreno che è una discontinuità
d’ordine fisico”4. In queste forme simboliche, dunque,
viene espressa una preoccupazione essenziale per ogni
gruppo, cioè la perdita di memoria di sé, della società
cui si appartiene e delle regole a cui ciascuno deve sottostare. Allo stesso modo, nelle gesta di Asdiwal, un
mito indigeno della costa canadese del Pacifico, l’eroe
muore a causa della “nostalgia provata sia per la terra
sia per il mare, dunque per non aver saputo realizzare
un equilibrio tra i due elementi”5. La nostalgia,
quindi, può essere definita come un eccesso di co3
Lévi-Strauss, C., op. cit., 1990, pp. 231-232.
Lévi-Strauss, C., op. cit., 1984, p. 231.
5
Lévi-Strauss, C., op. cit., 1990, p. 230.
4
92
L’espressione obbligatoria dei sentimenti
municazione con se stesso. Trattandosi naturalmente
di una mancanza di equilibrio, cioè di un elemento
insufficiente o sovrabbondante, esso può essere
espresso solo dai membri della comunità ancora non
maturi, da stranieri, emarginati o individui in condizioni economico-sociali di inferiorità, come in questo
racconto che riguarda i Toradja dell’Indonesia
Quando ritornai sul campo dopo più di un anno di assenza
passato a scrivere la mia tesi, rimasi colpita da un commento
che mi venne fatto diverse volte quando rincontrai alcuni
dei miei amici. Durante le visite che feci alle famiglie a cui
ero più affezionata, notai che gli adulti generalmente attribuivano ai bambini sentimenti di nostalgia nei miei confronti. Trovavo strano sentire il mio amico Daud dire che
Kalambe’(il suo bambino di due anni che era un infante
quando lo avevo conosciuto) aveva sempre chiesto di me
durante la mia assenza. Il mio vicino di casa... mi disse la
prima volta che ci rincontrammo: “Songgo (il figlio di otto
anni di suo fratello) continuava a chiedermi: “quando tornerà Aurora?” Nura mi rimproverò bonariamente dicendo:
“Iutten (il suo figlio più piccolo) chiedeva sempre: “perché
Aurora non ci ha mai mandato una cartolina per il Lebaran’
(la fine del periodo di Ramadan)?” Mi resi conto che questi
commenti costituivano un modo abbastanza comune di
rendere l’idea del “ci sei mancata” o del “ci chiedevamo
quando saresti tornata”, frasi che invece nessuno mi ha mai
detto... le persone di rango inferiore o i bambini sono in
qualche modo incaricati di un’espressione vicaria delle
emozioni di nostalgia6.
Insomma, gli studi antropologici insegnano che
l’eccesso danneggia non solo l’individuo, ma la società
e quindi deve essere trattato con estrema cautela. Uno
dei modi adottati è quello di inserire in categorie sociali speciali le persone che non riescono a risolvere o
comunque a ‘controllare’ i loro sentimenti: la follia è,
infatti, sempre in agguato e con ciò i rischi di disgregazione sociale. Gli stregoni o i guaritori-divinatori,
per esempio, in molte culture sono ritenute persone
che ‘non si sanno dominare’, “possedute da pensieri –
6
Donzelli A., Hollan, D., op. cit., pp. 57-58.
93
L’espressione obbligatoria dei sentimenti
sentimenti che non controllano, i quali secondo i casi
possono essere gelosia, invidia, rancori o ambizioni
divoranti, appetiti incontrollabili, sete di potere, desiderio eccessivo di denaro, profitto e successo. Sono
le persone che hanno perso di vista la direzione indicata dagli anziani, costituendo una minaccia per il
benessere del gruppo o addirittura per la loro famiglia”7. Un altro modo di trattare l’eccesso è quello di
contrapporlo ad un eccesso opposto, ricreando con
ciò un nuovo equilibrio e riducendo al minimo i rischi di conflitto sociale o di pericolo come in questo
caso: “il trattamento del cadavere di un suicida sarà
lasciato alle donne che sono in quel momento in stato
di possessione, in quanto ... “non c’è alcun pericolo se
il contatto avviene tra iarebok”[anime, spiriti vitali]8.
In questo caso, il suicidio è proprio di chi non ha saputo controllarsi, non ‘ha resistito sotto le cose’,
quindi di un debole: a questo deficit di vitalità deve
corrispondere perciò un eccesso di energia, come nel
caso di una donna posseduta da uno spirito.
Un altro esempio di eccesso socialmente previsto
riguarda una istituzione particolare relativa ai linguaggi d´etichetta, cioè la cosiddetta parentela per
scherzo. Ad un eccesso di riserbo e di vergogna nei
confronti di parenti stretti – quali la suocera, i fratelli
o le sorelle – spesso espresso, per esempio, in forma di
tabu di evitazione (non si può guardare, parlare ecc.
con il parente oggetto di tabu) si risponde con un eccesso opposto, cioè l’insulto, l’angheria, la sfacciataggine obbligatoria nei confronti di un altro gruppo di
parenti: “al dovere senza limiti e senza contropartita,
possono esserci diritti senza limiti e, in certi casi, anche senza reciprocità”9. Sono numerose, infatti, le popolazioni nelle quali alle parentele implicanti il rispetto si contrappongono quelle implicanti lo scherzo, le
7
Pussetti, C., op. cit., p. 122.
Pussetti, C., op. cit., p. 153.
9
Mauss, M., “Parentele implicanti lo scherzo”, in Granet, M.,
Mauss, M., Il linguaggio dei sentimenti, Adelphi, Milano, 1975, p.
84.
8
94
L’espressione obbligatoria dei sentimenti
cosiddette parentele per scherzo. Mauss, studiando
queste usanze, cita il saggio di Radin sui Winnebago,
una tribu Sioux tra i quali “un uomo è estremamente
riservato e educato con tutta la gente della propria
parentela e del proprio gruppo imparentato. Invece,
non smette di prendersi gioco di parenti e congiunti
quali: figli di sorelle di padri, di fratelli di madri, ...
fratelli di madri, cognate e cognati. “Egli lo fa
[scherza] ogni volta che ne ha l’occasione, senza che
l’altro possa offendersi”... la loro ragion d’essere può
consistere nel fatto “che permettevano di allentare
quella “etichetta costante che impediva rapporti disinvolti e senza disagio con tutti i parenti prossimi”10.
Inoltre, questa usanza serve a minimizzare stati
d’animo che possono presentare dei pericoli stabilendo “un ritmo che fa sì che si succedano senza pericolo
stati d’animo opposti. Il ritegno, nella vita corrente,
cerca una contropartita e la trova nell’indecenza e
nella grossolanità. Noi stessi abbiamo ancora dei mutamenti d’umore di questo genere: soldati che abbandonano la posizione comandata; studenti che si sparpagliano nel cortile dei licei; signori che si rilassano
nel fumoir dopo le cortesie troppo a lungo prodigate
alle signore”11. Infine, questo sistema presenta senza
dubbio una rilevante utilità sociale nell’eliminazione
di eventuali rivalità tra parenti stretti, quali i suoceri o
i generi e le nuore, o nell’eliminazione di eventuali
rischi di incesto, per esempio tra fratelli.
Il controllo, come elemento fondante dell’umanità e per questo tenacemente cercato in ogni società,
è però sempre estremamente fragile: la malattia, la
morte, il dolore, la sofferenza sono contraddizioni
insanabili dell’esistenza. L’eccesso, pur inevitabile,
comporta, però, uno stato di disequilibrio tra le componenti del corpo e quindi è sicuramente fonte di
malattie che possono portare anche alla morte. Come
giustamente nota Pussetti, le emozioni che più facil10
11
Mauss, M., op. cit., 1975, p. 87.
Mauss, M., op. cit., 1975, pp. 90-91.
95
L’espressione obbligatoria dei sentimenti
mente agiscono in maniera molto pericolosa sono la
paura, il desiderio, il dolore per la perdita di un essere
caro e l’angoscia di colui che pensa di essere vittima di
un maleficio. Per questo, in molte società è considerato estremamente pericoloso essere individualisti e ribelli e non orientare secondo uno scopo socialmente
utile le proprie emozioni poiché un eccesso di sentimenti “può travolgere una persona, lasciandola in balia della furia della tempesta e dell’impeto delle onde,
disorientata, confusa, incapace di riconoscere e seguire
la direzione, il senso dello scopo indicati dagli anziani”12. Qualunque malattia, infatti, nasce dalla perdita di equilibrio dei propri sentimenti e dalla frattura del legame tra le varie componenti del corpo e dello
spirito. Questa convinzione che la forza vitale possa
essere perduta nelle situazioni di sconvolgimento
emotivo o catturata dagli stregoni i quali vogliono
assorbirne l’energia è diffusa in molti contesti etnografici.
In questo racconto riguardante i Toradja, si spiega
molto efficacemente questa concezione
Una volta ... ero seduta sul sedile anteriore di ... una specie
di taxi collettivo con la mia amica Nura con cui stavo andando a fare compere al mercato ... la macchina, come al
solito, si fermava spesso lungo la strada per permettere ai
passeggeri di scendere dove volevano e per farne salire altri...
durante una di queste fermate lungo la strada scoscesa e a
quel tempo non ancora asfaltata che scendeva dalla montagna con strette curve, il guidatore scese per prendere qualche cosa da una casa nelle vicinanze, dimenticando di tirare
il freno a mano. La macchina cominciò quindi a muoversi
verso il ciglio della strada che dava su uno strapiombo. Trasalii. Non urlai, ma trasalii, tirando un profondo e udibile
sospiro. Fortunatamente, un uomo che sedeva vicino al volante ebbe la prontezza di tirare il freno impedendo così che
la macchina precipitasse nel dirupo. Con mia grande sorpresa, Nura, che mi sedeva accanto, mi rimproverò severamente per la mia reazione di paura e per avere dimostrato
mancanza di controllo. Per molti giorni dopo l’incidente
12
96
Pussetti, C., op. cit., p. 86.
L’espressione obbligatoria dei sentimenti
continuò a sgridarmi per avere trasalito con tanta facilità. Io
allora protestai che i suoi rimproveri erano troppo severi
poiché dopo tutto avevo solo sospirato per la paura. Ma
Nura continuava a insistere che si trattava di una cosa grave.
Fu così che capii che la mia amica stava alludendo a una
credenza locale secondo cui gli spaventi improvvisi possono
seriamente nuocere alla salute. Secondo l’opinione di Nura,
trascurando di mantenere vigilanza su me stessa, avevo corso seri rischi. Non sapevo che trasalire per uno spavento
(kaget) era pericoloso? Come appresi poi ... è importante
evitare spaventi improvvisi, per quanto piccoli essi possano
essere13.
E ancora questa donna ormai anziana della Guinea Bissau esprime con parole chiarissime la fragilità
della vita e la difficoltà di riuscire a risanare le sofferenze della condizione umana
Io già avevo dimenticato gli altri quattro morti da bambini,
perché lei faceva tutto. Proprio tutto, aggiustava le cose,
cucinava, era rispettosa, non sbagliava in niente. Si chiamava Kanimisia. È di lei che canto e della malattia ... che mi ha
causato Kanimisia, la figlia che ho perduto. Gli altri sono
morti così piccoli, non hanno avuto importanza, non facevano niente, non sapevano niente. Ma per le sofferenze causate da Kanimisia ho perso il controllo ... tutto il mio dolore-malattia è per Kanimisia. Se tu perdi un figlio piccolo,
non ha importanza, ne partorirai un altro. Ma se perdi un
figlio grande perdi tutto, e perdi il controllo... io non volevo
lasciarla andare, ho puntato i piedi per la morte di mia figlia,
e così ho perso il controllo e sono rimasta con questo dolore
incollato al corpo. Se indosso un abito, quando penso a mia
figlia l’abito stringe il mio corpo. E mi soffoca, tutto ciò che
indosso si strappa, per la forza del mio dolore che esce dal
mio corpo... la sorella di mio marito ... mi dice di limitare le
mie lacrime, di smettere di piangere, perché se non smetterò
di piangere mia figlia mi ammalerò. Ma io non voglio smettere di piangere, perché perdendo mia figlia sono rimasta
senza niente. Se fosse stata una bambina piccola, allora non
l’avrei pianta perché sarebbe ritornata presto. Ma era una
13
Donzelli, A., Hollan, D., op. cit., pp. 52-53.
97
L’espressione obbligatoria dei sentimenti
figlia grande, che cosa mi resta ora? Almeno le mie lacrime
la terranno legata a me14.
Questo attaccamento, però, non può che risultare
nocivo e autodistruttivo, così Pussetti nota che “i
dolori permangono e ritornano per mantenere vivo e
straziante il ricordo di ciò che non può essere dimenticato. Più questi sintomi diventano intensi, gravi e
minacciosi, consumando le loro energie, più le due
donne vengono spinte ai margini dell’umanità (non
camminano, non parlano, non capiscono, non mangiano, non dormono). Se nessuno intervenisse a salvarle, il peso dei loro pensieri-sentimenti le trascinerebbe in un baratro”15.
Anche sentimenti che sicuramente hanno un valore positivo per la società, come l’amore, devono essere vissuti con equilibrio e seguendo la norma fondamentale della ‘giusta distanza’. Un’eventuale sovrabbondanza di tali sensazioni è vista, quindi, con
timore e giudicata negativamente, come in questa riflessione di Lanternari sull’amore
Un caso illustrato da Nicole Echard, è dato dal criterio col
quale gli Hausa dell’Ader [Niger] valutano la ‘passione
d’amore’. Se nel nostro linguaggio la dizione ‘folle passione’,
‘follia d’amore’ riveste un significato candidamente convenzionale e al più ironico, gli Hausa vedono, nella
‘passione’, una manifestazione di vera follia, contrassegnata
da valenza negativa in senso per nulla affatto convenzionale,
bensì istituzionale. La ‘passione d’amore’ è da loro socialmente misconosciuta e condannata come base e movente di
legami matrimoniali. Si riconosce in essa una ovvia forma
con la quale si esprime una nuova relazione amorosa fra
uomo e donna; ma si esclude che possa essere assunta come
fondamento di un rapporto socialmente valido e cioè di un
legame matrimoniale. Certo, per gli Hausa la ‘follia
d’amore’ può coinvolgere uomini e donne in rapporti erotici, ma tali rapporti restano privi di valore sociale. Inoltre la
stessa ‘follia d’amore’ caratterizza un diverso livello di rapporti, cioè quello che si instaura nella religione Bori, fra un
14
15
98
Pussetti, C., op. cit., pp. 183-184.
Pussetti, C., op. cit., pp. 142-143.
L’espressione obbligatoria dei sentimenti
genio o spirito sovrannaturale e l’individuo-uomo o donnasu cui lo spirito incombe e che esso attacca. Infatti la credenza sita alla base del culto Bori è che lo spirito in certo
modo si ‘innamori’ follemente di un individuo, e che perciò
vuole conquistarlo, lo perseguita selvaggiamente per farsene
un ‘amante’. Lo spirito sovrannaturale identificantesi con
un essere del bosco – dunque selvaggio – attacca infatti il
soggetto del quale si innamora, spinto da desiderio incontenibile, da folle passione... Una volta regolata, secondo la
norma del culto, la relazione con lo spirito suo persecutoreamante, quest’ ultimo perderà la sua natura selvaggia. Così
la persona ‘attaccata’, per innanzi soggetta a crisi psichiche
sconvolgenti e incontrollabili, troverà nella partecipazione
al culto l’occasione rituale di risolvere in modi controllati,
anzi carichi di alto valore simbolico e sociale, la sua attitudine a manifestazioni psichiche di carattere sovra-ordinario.
Si dirà, allora, che il seguace del culto è ‘cavalcato’ dallo spirito che lo possiede. Come si vede, in questa cultura è importante il fatto che una violenta esplosione di passione
d’amore, sia nei rapporti interindividuali, sia nei rapporti
fra persone e spiriti sovrannaturali, si configuri come
‘pazzia’, e richieda terapie adeguate per superarla... il colpo
di fulmine, tipico di una repentina passione amorosa fra
giovani, non può essere assunto a motivo e base di un matrimonio. L’assunto è socialmente ‘illecito’... Come in numerosi contesti di società a livello tecnologico, il matrimonio funge da alleanza fra gruppi familiari o lignaggi, e deve
fondarsi su condizioni di equilibrio intergruppo16.
Presso molte popolazioni, come i Pomak della
Tracia, la gelosia è pur sempre un eccesso rispetto
all’immagine della persona ideale, che, invece, deve
essere generosa e può nascere anche per motivi
esterni, quali la penuria, l’invidia di beni materiali o la
malattia. Insomma l’eccesso si compensa con un altro
eccesso, come appunto la povertà, la cattiva salute o la
mancanza di felicità. Anche in queste comunità, la
potenza dello sguardo può provocare il malocchio
sempre se associata alla privazione della gioia. Infatti a
16
Lanternari, Vittorio, Medicina, Magia, Religione. Dalla
cultura popolare alle società tradizionali, Libreria Internazionale
Esedra, Roma, 1987, p. 115-116.
99
L’espressione obbligatoria dei sentimenti
provocare il malocchio vi sono i malati, gli ‘strani’, i
molto credenti, le vedove e le persone che non sorridono facilmente. Nella montagna pistoiese” ... Rina
intravedeva la causa del malocchio (soprattutto di
quello che colpisce i bambini) non solo nell’invidia
ma anche nel troppo amore. Come è possibile che
l’amore porti malocchio? Allora Rina, per farmi capire, ha sottolineato la parola ‘troppo’. È la ‘sproporzione’ del sentimento, è il ‘troppo’ che può generare un malessere nell’altro; anche involontariamente
una madre può ‘ammaldocchiare’ suo figlio”17.
Allo stesso modo, nella Persia orientale si dice che
“l’occhio amoroso è più pericoloso del malocchio.
Questa considerazione mette in guardia, per esempio,
dai pericoli dell’occhiata adorante di una madre... sono incline a interpretare tutto questo come un’estensione del concetto di malocchio. Chi è fuori della
comunità invidia, chi è dentro adora. Entrambi gli
atteggiamenti sono forme di attenzione indebita”,
quindi di eccessi di rapporto e di comunicazione18.
Anche l’esuberanza o l’esaltazione sono forme esagerate di espressione della felicità o della vitalità che
vanno tenute a bada così come l’eccesso di lacrime nel
caso di una morte di un neonato farebbe “per un verso ‘morire di dolore’ la madre, per l’altro impedirebbe
al bambino-spirito di compiere un’altra volta il percorso tra i due mondi, rendendogli la strada difficile
al punto che potrebbe perdere la direzione”19. In questo caso, qualunque manifestazione di dolore verrà
senz’altro condannata perché valutata come inopportuna. Nella tradizione antropologica europea, per
esempio, sussiste la credenza nella sopravvivenza
temporanea del defunto durante un breve periodo
17
Cecconi, A., L’acqua della paura Il sistema di protezione
magico di Piteglio e della montagna pistoiese, B. Mondadori, Milano, 2003, p. 68.
18
Spooner, B., “Il malocchio in Medio Oriente”, in Douglas,
M. (a cura di), La stregoneria Confessioni e accuse nell’analisi di
storici e antropologi, Einaudi, Torino, 1980, p. 382.
19
Pussetti, C., op. cit., p. 156.
100
L’espressione obbligatoria dei sentimenti
immediatamente dopo il decesso: “il cadavere ... vede
ed ode, soffre e partecipa sino alla sepoltura, ma non
può parlare... gira per la casa e osserva le reazioni e il
lutto dei superstiti. Per questi motivi ricerca la pace e
disdegna gli eccessi di pianto”20. Spesso, le pratiche
rituali del lutto possono presentare elementi che appaiono eccessivi e di difficile comprensione, come appunto nel caso della veglia del cadavere, cioè di
quell’istituto culturale, “soprattutto popolare, attraverso il quale familiari, parenti ed amici, secondo
forme rituali spesso rigorose, sono tenuti ad assistere
il defunto dal momento del decesso al momento del
trasporto dalla casa al cimitero”21. Si pensi alla nota
tradizione irlandese della veglia funebre che tante
critiche e commenti negativi ha suscitato soprattutto
da parte del clero cattolico a causa degli eccessi
nell’uso di bevande alcoliche e per i comportamenti
licenziosi o i divertimenti esagerati. Tuttavia questi
eccessi di cibo, di bevande, di vitalità che si traducono, per esempio, nei giochi sfrenati o nello stare svegli
per tre giorni vegliando il cadavere ininterrottamente
soprattutto durante la notte, cioè nel non chiudere
‘occhio’ come il morto, diventano forme simboliche
importanti perché solo una sovrabbondanza di vitalità può aiutare ad allontanare la morte che, al contrario, è sovrabbondanza di inattività. Come sottolinea
Sorlin, “ci si diverte e si ride parecchio, di quelle risate
che assordino colui che veglia, vicino alla morte sorda.
Di questa morte ci si burla, la si prende in giro, le si
fanno subire mille tormenti, ci si fa beffe ... Questi
giochi, che hanno la loro ragion d’essere in un contesto rituale, talvolta termineranno molto male, conducendo al punto ultimo di saturazione, in un ambiente
20
Di Nola, A.M., La nera signora Antropologia della morte,
Newton & Compton, Roma, 1995, p. 202.
21
Di Nola, A.M., La morte trionfata Antropologia del lutto,
Newton & Compton, Roma, 1995, pp. 237-238.
101
L’espressione obbligatoria dei sentimenti
di follia organizzata che deve regnare nel corso della
veglia”22.
L’elaborazione normale del lutto, però, subisce
delle forti variazioni quando ci si trova di fronte ad
una morte violenta, non ‘naturale’, cioè di fronte ad
una malamorte. Nelle società etnologiche europee,
per esempio, muore di malamorte colui o colei che
compie atti contrari alla coesione sociale o che si pone,
sempre a causa dei suoi atti, al di fuori della società. In
questo caso la sua morte provocherà paura e smarrimento23. Anche in molti paesi asiatici, la malamorte è
il risultato di una violenza, come l’uccisione, il suicidio o una malattia sospetta24. Questa interruzione
brutale di un’esistenza prima della sua scadenza naturale fa sì che si crei una rimanenza di vita non vissuta
la quale induce lo spirito di quell’essere all’erranza.
Nelle società in cui è presente il culto degli antenati,
questo essere è posto fuori del sistema genealogico
perché non può diventare un antenato e non può essere oggetto delle pratiche ritualizzate. Queste anime
sono dunque bloccate, non possono avere pace o reincarnarsi, e neppure scomparire. Esse sono come
“sospese”. Inoltre, non avendo diritto alla nascita in
un nuovo stato, esse possono appropriarsi provvisoriamente del corpo di un vivo per ‘agire’ in lui. Ora,
colui che muore in modo violento, dunque ‘eccessivo’, è proprio per questo un ‘cattivo nato’, un ‘nato
male’ perché ha ereditato sicuramente un karma negativo che porta avanti oltre la morte. I buoni morti,
invece, sono gli antenati, cioè coloro che hanno accettato serenamente la vita sociale con le sue regole e sono rimasti legati alla parentela, quindi sono i ‘morti
senza viso’.
22
Sorlin, E., Cris de vie cris de mort Les Fées du destin dans les
pays celtiques, Academia Scientiarum Finnica, Helsinki, 1991, p.
141.
23
Cfr. Di Nola, A.M., La morte trionfata, cit., pp. 237-238.
24
Cfr. Baptandier, B., “Introduction De la malemort en quelques pays d’Asie”, in Baptandier, B. (sous la dir.), De la malemort
en quelques pays d’Asie, KARTHALA, Paris, 2001, p. 10 sgg.
102
L’espressione obbligatoria dei sentimenti
Qualunque società, però, ha bisogno di lasciare liberi gli individui di dare sfogo ad emozioni forti e così
prevede periodicamente dei periodi in cui certe esigenze possano essere espresse senza prevedere punizioni o ritorsioni. Gli unici eccessi previsti, obbligatori, ma anche strettamente codificati e ritualizzati,
sono inseriti nei tempi considerati ‘straordinari’, cioè
festivi. I più noti sono quelli che riguardano il Carnevale, ciclo dell’anno connesso con le attività agricole e
con le stagioni denominato propriamente dagli etnologi come ciclo della fine dell’inverno o di Carnevale
appunto. Come sostengono gli storici, il carnevale,
periodo in cui si esaltano il corpo, il riso e la gozzoviglia, è un’innovazione della città medievale e nasce
circa nel XII secolo in contrapposizione alla quaresima. Allo stesso modo, in Europa nascono, sempre in
ambiente urbano, a partire dal XIII secolo, le feste dei
folli con le relative sfilate del giorno di Capodanno25.
Ora, una delle caratteristiche degli eccessi di rilevanza
sociale è quella di essere manifestazione obbligatoria,
alla quale nessuno si può sottrarre.
Sull’obbligatorietà della risata e dello scherzo, e
sulla frenesia gioiosa del carnevale, Toschi scrive pagine acute e in questo modo riflette: “anche se questa
frenesia gioiosa può avere la funzione psicologica, etica e sociale di un momentaneo allentamento nei vincoli di una rigida morale, e di sfogo a un represso
oscuro fondo di istinti e di passioni, il suo carattere
fondamentale è invece puramente e sacralmente
propiziatorio. I riti, nei quali viene a configurarsi e ad
atteggiarsi questo principio magico, sono dunque
ispirati al tripudio... Con un linguaggio un po’ paradossale si potrebbe dire così: mentre nei teatri di oggi
è la commedia che provoca il riso degli spettatori, qui
invece è il riso degli spettatori che produce la commedia. E, prolungando il paradosso, si può aggiungere
che se la commedia non facesse ridere ... andrebbero
25
Schmitt, J.-C., Medioevo “superstizioso”, Laterza, Bari, 2004,
p. 143 sgg.
103
L’espressione obbligatoria dei sentimenti
male i raccolti, ci sarebbe il pericolo di una cattiva
annata. Così, lo scherzo, la satira, la burla sono
d’obbligo: e tanto più gli scherzi sono arditi e sguaiati,
le satire pungenti, e le burle atroci, tanto più riescono
a far ridere la collettività e tanto più hanno valore.
Perciò “per Carnevale ogni scherzo vale”; ognuno ha
il diritto di fare lo scherzo e il dovere di subirlo”26.
Altri periodi in cui si può constatare, per esempio,
un’eccezionale sfrenatezza sessuale, anche se ritualizzata, sono quelli in rapporto con i riti di passaggio,
come nel caso di molte popolazioni australiane che
chiudono i riti di pubertà femminile con cerimoniali
di carattere sessuale27.
In uno studio noto, Evans-Pritchard riflette sulle
espressioni collettive e quindi rituali di ‘oscenità’ in
Africa, cioè sulle espressioni di carattere erotico che
nella vita quotidiana non vengono ammesse, anzi costituiscono un vero e proprio tabu, ma che hanno
molta importanza, anzi sono persino obbligatorie in
alcune particolari situazioni. Secondo le analisi di
questo antropologo, le cerimonie in cui l’oscenità è
ammessa sono di due gruppi: 1) cerimonie di iniziazione; cerimonie funebri; feste in onore delle anime
degli antenati di rilievo; cerimonie per ottenere la
pioggia; cerimonia per la protezione dei raccolti dagli
insetti nocivi; furto fatto al fratello della madre; società segrete; cerimonie relative ai gemelli; matrimonio e malattie dei bambini; cerimonie per proteggere i
raccolti; danza della semina. Il secondo gruppo è
quello che riguarda i lavori difficili e di lunga durata
eseguiti insieme, come quelli relativi alla costruzione
di una nuova abitazione, alla semina, alla fonditura,
alla pesca, al trasporto dei tetti delle capanne, al falciare e trasportare l’erba e così via. Come rileva
Evans-Pritchard: “tutte queste cerimonie costituisco26
Toschi, P., Le origini del teatro italiano, Boringhieri, Torino, 1976, pp. 9-10.
27
A questo proposito, si può vedere, per citare un solo esempio, il libro di Lanternari V., La grande Festa, Dedalo, Bari, 1976,
p. 512.
104
L’espressione obbligatoria dei sentimenti
no altrettante occasioni di stress emotivo, e sono gravide di pericoli sia per l’individuo che le sperimenta
che per la società in genere. Tutte le emozioni che si
sono accumulate, l’ira, la paura, il dispiacere, il dolore,
raggiungono un punto tale d’intensità che un’attività
si rende in qualche modo necessaria; d’altra parte, se
tale attività non fosse imbrigliata entro canali inoffensivi, finirebbe per dimostrarsi fatale all’individuo e
distruttiva per la società. È appunto in tali occasioni
che la società ammette o addirittura prescrive azioni
che ordinariamente proibirebbe e punirebbe...
l’oscenità fa parte di un gran numero di usanze, che
hanno tutte la stessa funzione sociale, quella di canalizzare in forme di dispendio inoffensivo le tensioni
emotive altamente pericolose per l’individuo e distruttive per la società”28. Nello stesso tempo,
l’oscenità collettiva e obbligatoria dà forte rilievo al
valore sociale dell’attività ad essa connessa. Infatti la
sospensione da parte della società dei normali divieti
viene attuata in due occasioni importanti nella vita di
una comunità, quali le cerimonie religiose e le attività
economiche eseguite in comune. Anche un saggio di
Di Nola su un rituale della tradizione meridionale,
quello dell’incanata, che prevede un comportamento
piuttosto licenzioso e aggressivo collegato soprattutto
alle due attività rurali della vendemmia e della mietitura, mette in evidenza gli stessi elementi simbolici
studiati da Evans-Pritchard29.
Insomma, come si è potuto notare, gli eccessi individuali vengono considerati sempre in modo negativo, mentre quelli socialmente controllati hanno
sempre rilevanza e forte utilità sociale.
28
Evans-Pritchard, E.E., La donna nelle società primitive e altri
saggi di antropologia sociale, Laterza, Bari, 1973, pp. 92-93.
29
Cfr. Di Nola, A.M., L’arco di rovo Impotenza e aggressività
in due rituali del sud, Boringhieri, Torino, 1983.
105
La trasformazione dei sentimenti
in comportamenti e istituzioni
La parola è il mezzo verbale con il quale si entra in
relazione con le persone o le cose, perciò essa è sempre
segno di umanità. L’assenza della parola, quindi, è
una caratteristica di colui che non è inserito a pieno
titolo nella comunità, come il demente, il muto o anche il neonato che, anonimo, non sa che vagire. Per
tale motivo, dare e ricevere un nome significa poter
parlare di un essere semplicemente denominandolo e
quindi togliendolo dal pericoloso silenzio relativo alla
sua persona a cui lo avrebbe costretto l’anonimato
iniziale. “Creare significa porre dei limiti ad un pensiero, cioè ‘dargli un nome’”1. In mancanza del nome,
infatti, la comunicazione di qualunque cosa sarebbe
impensabile e quindi socialmente inesistente. Come
dicono gli orientali, nel momento in cui vi è una forma è pronto il nome: per questo motivo nell’Egitto
classico esso viene considerato il più sottile e il più
immateriale tra i principi che compongono l’individuo ed anche il più segreto e quello che determina
l’esistenza dell’individuo. Esso è il modo in cui noi
possiamo rappresentarci in maniera concreta una
forma visibile e quindi la pronuncia del nome costituiva già nei più importanti testi liturgici egizi l’elemento fondamentale di qualunque operazione che
dovesse mettere in moto ‘l’Invisibile’.
Dare un nome, così, significa anche determinare il
destino di una persona, come racconta questa donna
bijagó
quando ero bambina ... una sera, al crepuscolo, quando mia
sorella era piccola e la mamma l’allattava ancora, siamo an1
Servier, J., “Histoire de la pensée symbolique”, in Poirier
Jean (sous la dir.), Histoire des moeurs II vol. 2 Modes et Modèles,
Gallimard, Paris, 1991, p. 1108.
107
L’espressione obbligatoria dei sentimenti
dati al pozzo ... mi ricordo che era quasi tramontato il sole;
all’improvviso comparve di fronte a mia mamma un’ombra,
scivolata giù dal grande albero come un pitone. Ricordo un
volto trasparente, dai tratti delicati, ma allora non capii,
perché non sapevo nulla. L’ombra le girava intorno, alzando
un gran vento e impedendole il cammino. Mia mamma mi
prese la mano e mi mise dietro di lei per proteggermi con il
suo corpo. Io non capivo bene cosa stava succedendo, ma
sapevo che lei era spaventata. Quella cosa continua a volare
intorno a mia mamma, due, tre, quattro volte; sembrava
non vedere nemmeno me e mia sorella. Mia madre all’inizio
era come paralizzata, ma poi si fece forza e riuscì a portarci
in salvo al villaggio, dove l’ombra non poteva entrare. Da
quel momento però mia madre divenne sempre più debole
e malata: non riusciva più a camminare, non poteva uscire,
stava solamente sdraiata, fino al giorno in cui è morta. È
morta e io non ho capito cosa le era successo, nemmeno me
ne sono accorta. Dormivo contro la sua schiena e pensavo
dormisse... mi sono svegliata e le ho parlato, lei non rispondeva, credevo dormisse e sono rimasta in silenzio. Dopo
alcuni minuti è entrata una zia di mia madre, che veniva a
salutare e a vedere come stava. Ricordo ancora le sue grida e
i lamenti delle donne: ... povera, povera bambina! Provo
pena per te ..., tua madre è morta. Io ascoltavo, ma non capivo l’importanza... Koká, ‘poverina’ quello è rimasto il mio
nome ed è anche il mio castigo. Da allora tutto ciò che mi è
capitato è legato al mio nome e la gente mi vede per strada e
dice ‘Koká’ chiamando il mio nome. Stai attenta a come
chiamerai tuo figlio, perché scegliendone il nome deciderai
il suo destino2.
Bisogna, infatti, tenere sempre presente che non
esiste propriamente un destino individuale, giacché
esso è il frutto di molti elementi di ordine sociale,
quali l’acquisizione di un vincolo di parentela, di una
relazione di alleanza, il raggiungimento di una condizione sociale o l’appartenenza ad una classe d’età e
così via. Tutto nell’esistenza ha un significato: “è in
quanto nipote, figlio, membro della stessa classe d’età,
marito, padre o zio, che un individuo (secondo
l’opinione del gruppo o che si forma egli stesso) può
2
108
Pussetti, C., op. cit., pp. 112-113.
L’espressione obbligatoria dei sentimenti
essere colpito nel fisico, nell’equilibrio psichico o
nella vita; al contrario, il progredire dell’individuo
nella vita, la sua resistenza alle prove, il benessere o la
sventura dei congiunti sono ogni giorno di più la testimonianza di una forza che non si potrebbe qualificare rigorosamente se non dopo molto tempo, dopo
aver prodotto i suoi effetti. Nessun vincolo sociale si
tesse impunemente. Nessuna malattia si affronta innocentemente. La longevità, come la sventura e la
morte, non è mai priva di significato”3. Del resto, l’io
esiste solo quando riconosce l’altro, sia quello esterno
a sé sia quello interno poiché pensare alla persona significa sempre pensarla in relazione con un altro.
Così, se noi non possiamo scegliere di essere soli, a
prezzo, altrimenti, di rinunce essenziali, ma solo di
essere ‘noi’ – quindi una comunità – il nostro destino
è segnato dalla società nella quale siamo nati e
l’iniziazione definisce il nostro destino sociale e la nostra trasformazione da esseri viventi in esseri umani.
Pertanto il rifiuto dell’iniziazione da parte di un
componente della comunità è sempre indice di alterazione dell’ordine e dell’equilibrio nelle relazioni sociali. Così tra i Bijagó, la storia di Abas è molto indicativa: il suo atteggiamento negativo nei confronti
dell’iniziazione si collega a segni di squilibrio mentale
sempre più gravi così che nel villaggio si sostiene che:
“Abas va senza destino. La gente dice che non ha fatto
le cerimonie (non sta bene ...), egli è passato in un
luogo sacro, ma non si è fermato”... dopo essere fuggito in foresta ... verrà trovato morto dopo tre giorni”4.
Allora, in quale modo le parole possono agire e fare agire persone o gruppi o, come sosteneva Marx,
come le idee, impadronendosi delle masse, possono
diventare o meno delle forze materiali? Uno dei modi
è sicuramente quello della creazione di un’istituzione
corrispondente tanto è vero che una parola che non
crea una sua istituzione è destinata a scomparire,
3
4
Augé, M., op. cit., p. 666.
Pussetti, C., op. cit., pp. 91-92.
109
L’espressione obbligatoria dei sentimenti
spazzata via da altre nel corso del tempo. Debray cita
l’esempio del simbolo monetario. “Esso non si accredita da solo. Un biglietto non ha valore di per sé.
Anch’esso è come una parola, leggera, soffice, maneggevole. Materialmente adatto a passare di mano in
mano, come l’altra di bocca in bocca, per circolare
veramente ha bisogno di essere garantito da un punto
fisso, un apparato di potere pesante, una potenza organizzata, suscettibile all’occorrenza di punire (sino
alla reclusione a vita) i falsificatori, ossia, al di là di
una banca centrale, di uno Stato o un gruppo di Stati... Curiosamente, qui, il leggero fa sparire il pesante.
La parola si presenta a noi senza la sua infrastruttura
... Questa è la regola: il sostegno è ciò che si vede meno e che conta di più ... la parola, mobile, ci nasconde
l’istituzione, motrice”5.
Le emozioni, come si è già potuto osservare, sono
componenti attive della struttura sociale, vere e proprie strategie che servono a favorire l’armonia sociale
o a rafforzare e indebolire differenze di status o di sesso. Ogni società ha i ‘suoi’ sentimenti, nel senso che
ogni comunità elabora le emozioni che vanno considerate socialmente appropriate e quelle ritenute pericolose. Così, a partire dal concetto che si ha del proprio essere nel mondo, cioè del modo migliore di
porsi sulla Terra, ogni gruppo elabora la propria idea
di dignità e onore, e crea istituzioni che le controllino, come il pettegolezzo, e figure appropriate attraverso le quali tenere a bada i sistemi emozionali, quali
il vicino, lo psicologo, la polizia, il tribunale ecc. Sappiamo, infatti, che il giudizio altrui opera come prevenzione molto efficace contro i tentativi di sfuggire
alle norme del gruppo.
I sentimenti sono manifestazioni di partecipazione alla vita del gruppo, oltre che strumento di coesione e quindi l’assenza di emozioni viene vissuta dalla
comunità come un’offesa. La società esercita in ogni
5
Debray R., “Le mot et son institution”, Ethnologie française,
XXIX, 4, 1999, pp. 579-580.
110
L’espressione obbligatoria dei sentimenti
momento una forte pressione perché i sentimenti
degli individui siano sempre in armonia con la situazione e quindi provare indifferenza denota disinteresse e rifiuto del gruppo6. Già Durkheim aveva spiegato
con parole molto efficaci che “una famiglia che tollera
che uno dei suoi possa morire senza essere pianto testimonia di mancanza di unità morale e di coesione:
essa abdica; rinuncia ad essere. Da parte sua,
l’individuo, quando è fortemente attaccato alla società di cui fa parte, si sente moralmente tenuto a partecipare alle sue tristezze e gioie; disinteressarsene significherebbe rompere i legami che lo uniscono alla
collettività”7.
Infatti il lutto, come osserva acutamente Durkheim, non è semplicemente un avvenimento che riguarda la sensibilità strettamente individuale, ma è
“un dovere imposto dal gruppo. Ci si lamenta, non
semplicemente perché si è tristi, ma perché ci si deve
lamentare. Si tratta di un’attitudine rituale che si è
obbligati ad adottare per rispetto all’uso, ma che è in
larga misura indipendente dallo stato affettivo degli
individui”8. La stessa estrema convenzionalità o obbligatorietà dell’espressione del lamento potrebbe
sembrare semplice recita mentre è semplicemente
l’espressione di adesione al gruppo e anche una strategia molto efficace di contenimento di emozioni
molto intense.
Dunque, se l’esibizione dei sentimenti è ritenuta
necessaria, l’assenza di emozioni, però, è considerata
come moralmente inaccettabile quando l’emozione
diventa una delle forme in cui la società esprime la
propria ‘umanità’. Solo in questo caso, essa viene
sanzionata giacché, come nota Paperman, “se un atto
che ci pare coraggioso, lascia un altro indifferente, ciò
6
Cfr. Paperman, P., “L’absence d’émotion comme offense”, in
Paperman P. et Ruwen O. (sous la dir.), La couleur des pensées
Sentiments, émotions, intentions, EHESS, Paris, 1995, p. 177 sgg.
7
Durkheim, É., Les formes élémentaires de la vie religieuse,
Alcan, Paris, 1912, p. 571.
8
Le Breton, D., op. cit., p. 105.
111
L’espressione obbligatoria dei sentimenti
significa che egli non condivide le ragioni che inducono a pensarlo come coraggioso e quindi c’è un disaccordo, una divergenza morale. Riconoscere una
divergenza morale, però, non significa riconoscere
una incapacità morale che poi va sanzionata”9. Non
provare emozioni, per esempio, per un omicidio eseguito, un atto di stupro o di violenza verso un handicappato denota forte distacco dai principi fondamentali della nostra società e quindi la riprovazione non è
più sufficiente. Pertanto, la sanzione deve essere considerata come una cristallizzazione di un’emozione e
le sanzioni hanno sempre carattere emozionale sia
quando sono organizzate socialmente attraverso corpi
definiti e costituiti sia quando sono regolate da ciascun individuo o da tutti in modo indifferenziato.
Dunque, la vera ed essenziale funzione delle reazioni
passionali, come sostiene Durkheim, è quella di mantenere intatta la coesione sociale.
Il sentimento fondamentale con il quale noi
esprimiamo naturalmente il legame sociale è l’affetto,
forma emozionale di attaccamento al gruppo e
l’affetto di cui parliamo è quello che noi manifestiamo per tutti coloro che appartengono al nostro gruppo e in particolare per coloro che fanno parte della
nostra famiglia.
Si pensi, per esempio, ai sistemi di parentela delle
società del Mar Mediterraneo e in particolare agli abitanti dell’isola greca di Karphatos nell’Egeo tra i quali
vige un sistema di parentela basato sui primogeniti e i
cadetti e su linee di discendenza maschili e femminili
nettamente separate. Il primo nato, infatti, eredita
l’intero patrimonio paterno e la prima nata quello
materno cosicché tutti gli altri figli maschi in genere
erano costretti all’emigrazione mentre le altre donne
spesso rimanevano nubili e continuavano a vivere in
famiglia come lavoratrici agricole o come donne di
casa per la coppia dei primogeniti. In questi casi, per
ciò che riguarda l’investimento affettivo, esso natu9
112
Paperman, P. op. cit., p. 190.
L’espressione obbligatoria dei sentimenti
ralmente privilegiava in modo assoluto la famiglia dei
primogeniti, quindi la famiglia di appartenenza. Del
resto, come rileva Vernier, “lo studio degli scambi affettivi deve sempre essere articolato su quello degli
scambi economici e simbolici e su quello dei rapporti
di forza intra-familiari”10. In questi gruppi, lo stesso
nome di battesimo ha già un suo valore nell’elaborazione di un sentimento di affinità tanto che l’autore
parla quasi di ‘feticismo’ del nome. Nelle relazioni
amorose, per esempio, i giovani ci tengono a sottolineare alle loro amate di avere lo stesso nome del padre
o della madre della ragazza. O ancora un adolescente
racconta che la sua vicina lo adora semplicemente
perché ha il nome di un figlio marinaio. In queste società, dunque, si tende ad avere una naturale simpatia
per i parenti che hanno il nome di un altro parente
particolarmente amato.
Insomma, qualunque società pretende moltissimo
dall’individuo, impone sacrifici veramente notevoli,
però, la grande forza della comunità, della parentela,
del vicinato e comunque dei rapporti sociali stretti è
quella di creare un sistema di protezione estremamente efficace e concreto, e non solo nei momenti di pericolo. Infatti, la solitudine è la minaccia peggiore per
chiunque poiché essa è sentita come molto vicina alla
morte, anzi come sottolinea Pussetti, essa è “la peggiore e più miserabile condizione possibile ... la morte
dei propri familiari ha come tragico esito proprio la
perdita di ogni supporto economico e affettivo: specialmente per le persone anziane, ... questa situazione
si traduce in un totale isolamento sociale”11.
Non a caso, le sofferenze più profonde sono quelle
che si collegano a rotture sociali, come appunto sostiene sempre Pussetti: “Il dolore che lascia il segno,
che “si incolla al corpo”, è quello causato da perdite
che spezzano i legami sociali rilevanti”12. In alcuni
10
Vernier, B., La gènese sociale des sentiments Aînés et cadets
dans l’île grecque de Karpathos, EHESS, Paris, 1991, p. 16.
11
Pussetti, C., op. cit., p. 209.
12
Pussetti, C., op. cit., p. 161.
113
L’espressione obbligatoria dei sentimenti
canti bijagó viene rappresentata questa condizione
con parole commoventi: “io vado da solo a casa, chi
mi riceverà? / Guardate come sono sfortunato;/ già
non ho più nessuno e/ ogni anno piango qualcuno./ I
tamburi sacri del villaggio/ guardate cosa hanno
mandato per me:/ i tamburi sacri del villaggio mi
hanno fatto rimanere nella veranda da solo;/ nessuno
parla più con me nella veranda./ I tamburi sacri, primo segnale di un lutto al villaggio, vengono utilizzati
come metafore della morte stessa ... la veranda, luogo
privilegiato di riunione della famiglia, di incontri, visite e chiacchiere, è ora silenziosa, muta”13.
A questo proposito, basti pensare all’importanza
presso numerose culture dei rituali che riguardano la
veglia funebre e di tutti i comportamenti del vicinato
e della famiglia durante il periodo del lutto in quanto
essi sono un esempio molto interessante di come la
comunità possa sostenere in maniera profonda
l’individuo e la famiglia nei momenti più difficili.
Inoltre il lavoro della cultura nasce dal tentativo
di trasformare tutto ciò che è doloroso o pericoloso in
‘discorso’ possibile. Come precisa Pussetti riguardo al
lamento funebre, esso “non è soltanto indice di un
sentimento di perdita, ma suggerisce un desiderio di
socialità, di unione, di supporto sociale all’individuo
ferito”14. I lamenti, i canti, le danze, le poesie e qualunque forma di espressione artistica o letteraria diventano, così, una maniera di comunicare e partecipare emozioni comuni. In questo senso, si può affermare che i sentimenti sono delle pratiche discorsive
attraverso le quali è possibile esprimere ciò che i codici sociali altrimenti non autorizzerebbero.
E sempre per questi motivi, in molte società coloro che sono stati colpiti da un grave lutto evitano di
parlare in pubblico di questo argomento. Come osserva molto bene Pussetti, “di fronte a perdite personali, gli individui in genere esprimono ostilità, rabbia,
13
14
114
Pussetti, C., op. cit., p. 209.
Pussetti, C., op. cit., p. 171.
L’espressione obbligatoria dei sentimenti
sospetto, piuttosto che dolore, oppure semplicemente
non parlano di ciò che provano, rispondendo alla
morte come a un affronto o a un attacco personale
piuttosto che come a una tragedia. Al contempo, il
dolore è considerato il pensiero-sentimento più rappresentativo, al punto che l’espressione che generalmente viene utilizzata per indicare quello che noi definiremmo ‘coinvolgimento emotivo’ è ... ‘soffrire nel
cuore’”15.
Certo, il dolore rappresenta in tutte le società il
sentimento che più è stato oggetto di riflessioni e forse quello che più ha determinato stili di vita e comportamenti sociali.
Pensiamo, per esempio, di trovarci di fronte ad
adulti che di fronte alla sofferenza di un bambino o di
un parente adulto reagiscano con serenità e compostezza, con il silenzio o quasi con indifferenza, e comunque senza il senso di dramma che circonda il
dolore nelle nostre società. Cosa penseremmo di tutto ciò e come valuteremmo la situazione? E, ancora
oltre, cosa in realtà noi stiamo ‘vedendo’ di queste
persone? Nelle società occidentali, gli individui hanno una paura terribile della sofferenza e cercano in
tutti i modi di eliminare questo aspetto dalla vita
quotidiana. Non così avviene in altre società nelle
quali, invece, il dolore va sperimentato e vissuto intensamente poiché, come sostiene un africano, chi
non conosce la sofferenza è un uomo a metà:
“Attraverso il dolore, i ragazzi della montagna imparano a dare senso alla loro vita. Può un uomo, dicono
gli anziani, vivere senza affrontare in modo cosciente
e consapevole il dolore fisico o morale? Nella nostra
terra chi non ha conosciuto il dolore è un uomo incompleto perché vive con il senso di colpa e
l’umiliazione di essere diventato vecchio senza mai
essere stato adulto”16. Nelle filosofie orientali, questa
posizione riguardante il dolore viene teorizzata in
15
Pussetti, C., op. cit., p. 137.
Kpan Teagbeu S., Il condottiero, EMI, Bologna, 2003,
p. 115.
16
115
L’espressione obbligatoria dei sentimenti
modo forte quando si sostiene che la via della felicità
non può essere raggiunta finché non si entra in contatto con la sofferenza, e non se ne comprende la natura. Il dolore, sia fisico sia morale, è una realtà
dell’esistenza di tutti gli esseri che vivono
nell’universo ed è errato negarlo. Da questa constatazione, come sappiamo, ha avuto origine la meditazione del Buddha e l’analisi delle quattro Nobili Verità,
fondamento di tutto l’insegnamento buddhista: 1) la
vita è sofferenza; 2) la comprensione delle radici o
cause della sofferenza; 3) la possibilità di liberazione
dalla sofferenza; 4) i mezzi e i modi per raggiungere la
liberazione dalla sofferenza. Il lavorio dello spirito, lo
studio, la conoscenza e la meditazione servono appunto a trasformare la sofferenza in felicità poiché
dalla sofferenza si può e si deve imparare se si vuole
migliorare la propria vita e non si vuole rimanerne
imprigionati quando la si vede solo come elemento
negativo. Si tenga presente che il dolore è inevitabile,
in quanto sensazione corporea, mentre la sofferenza è
uno stato della mente: dunque il dolore e la sofferenza sono due cose diverse e possono essere trattate ed
avere ciascuno la propria risposta, ma tutte e due costituiscono delle occasioni di liberazione. La maggior
parte degli esseri umani spende molte delle sue energie a inventare dei mezzi per aumentare il piacere e
diminuire il dolore mentre le teorie orientali e le concezioni di vita delle popolazioni etnologiche ci suggeriscono di investire una parte del nostro tempo e delle
nostre energie a fare fronte ai dispiaceri poiché un
certo grado di dolore è inevitabile e quindi l’unico
modo di trattare la sofferenza è quello di essere sempre pronti ad affrontarne le conseguenze. Se osserviamo in profondità, vedremmo che la felicità non
può esistere se non si accompagna a quella che chiamiamo sofferenza, proprio come non ci sono rifiuti e
scarti organici che non possano trasformarsi in fiore
né fiori che non si trasformino in rifiuti. Solo se si accetta e si comprende la natura della sofferenza, si può
coltivare la comprensione e la felicità, mentre colui
116
L’espressione obbligatoria dei sentimenti
che non riflette e che non cerca di conoscere in profondità la vita dell’uomo non può imparare e rimarrà
intrappolato nel dolore.
Il buddhismo ci insegna, come del resto tutte le
religioni, che sempre la sofferenza può essere trasformata in felicità, e anche la morte può diventare occasione generatrice di speranza in un mondo migliore,
come in questa magnifica riflessione di Manfredi
Borsellino: “Sono orgoglioso e onorato di aver avuto
un padre simile e spero che altri figli possano dire la
stessa cosa dei loro padri”. Il ricordo in questo caso
diventa fonte energetica continua, carica spirituale
positiva, oasi fresca e ricca di acqua nei momenti di
scoraggiamento, di paura, di sconforto. Ecco come la
morte può essere trasformata in elemento positivo,
quindi in speranza, memoria, ricordo, rispetto per gli
anziani, e di conseguenza in pratiche relative ai morti
o culto degli antenati, quindi sentimenti collegati ad
istituzioni precise capaci di legare in modo forte ed
efficace un gruppo.
I sentimenti di gioia e di vitalità, invece, sono
espressi soprattutto nella creazione dei tempi festivi,
non ordinari e quindi nell’invenzione di festività o
periodi di divertimento, anch’esse strutturate molto
rigidamente e secondo sequenze rituali e comportamenti precisi e già stabiliti. Per fare solo un esempio,
l’opera eccellente di Toschi sulle origini del teatro
italiano offre a questo proposito un’analisi chiarissima e molto lucida del modo in cui in Europa si sono
lentamente organizzate le grandi feste che noi oramai
riteniamo tradizionali, quali il Capodanno, il Carnevale, la Pasqua e ne mette in rilievo i significati profondi di eliminazione del male, rinnovamento e propiziazione. La più importante fra queste feste è stata
per noi il Carnevale: in essa “centro propulsore del
tripudio, che dà anima e carattere a tutta la festa, è il
principio magico secondo il quale l’intensa manifestazione della gioia da parte di tutta la comunità, provoca e assicura il prospero svolgersi degli avvenimenti,
117
L’espressione obbligatoria dei sentimenti
l’abbondanza dei prodotti, il maggiore benessere per
il nuovo anno che sorge”17.
Ed ecco come alcune emozioni, elaborate e controllate socialmente secondo le scelte culturali del
gruppo, diventano comportamenti e istituzioni sociali.
La paura
C’era una volta Corbezzi un paese arroccato sopra una
montagna. Qui vivevano un fratello e una sorella. Si chiamavano Giovannino e Ninetta, erano orfani e abitavano da
soli in una grande casa, appena fuori dal paese. D’inverno a
Corbezzi faceva molto freddo e la strada che raggiungeva il
paese era spesso interrotta dalla neve, si restava isolati anche
per giorni interi. Giovannino faceva il falegname e ogni sera,
appena ritornava a casa dal lavoro, scendeva in cantina a
prendere la legna per accendere il fuoco. Una sera che era
particolarmente stanco chiese alla sorella di andare in cantina a prendere la legna, ma non aveva fatto ancora tre scalini che la ragazza gridò “ho pauraaaa...” Paura? Che cosa
diavolo significa? Dato che non aveva mai avuto paura di
nulla, Giovannino non conosceva il significato di questa
parola. La stessa cosa accadde la sera dopo e stavolta Giovannino disse alla sorella “se lo dirai un’altra volta, giuro che
me ne vado”. La sera dopo chiese alla sorella di andare in
cantina, e la ragazza dopo due scalini non riuscì a trattenersi
e gridò ancora “ho pauraaaa ...”. “Hai paura? Bene, domani
partirò”. E infatti il mattino dopo si svegliò, preparò il suo
fagotto, se lo mise in spalla e se ne andò per la sua strada:
voleva scoprire cosa fosse la paura. Giovannino cominciò a
girare per il mondo in cerca di questa cosa chiamata paura.
In un paese della Calabria scoprì che alla gente veniva
“l’assustu”, in Sicilia incontrò chi aveva lo “spantu”, arrivò
persino sulle Ande dove c’era chi provava il “susto”. Riempì
il suo sacco di tanti racconti, di modi diversi di chiamare la
paura, ma restavano soltanto parole parlate, parole guscio
che non riusciva a succhiare. Cos’è questa cosa che gli uomini chiamano paura? Dove si trova? Viaggiò in lungo e in
largo ma la paura non la riusciva a trovare. Una mattina
17
118
Toschi, P., op. cit., p. 9.
L’espressione obbligatoria dei sentimenti
d’aprile quasi senza accorgersene si ritrovò a Corbezzi, davanti alla porta della sua casa. Non sapeva quanto tempo era
stato via, tutto sembrava rimasto uguale, ogni oggetto era al
solito posto. Cominciò a guardarsi intorno e sarebbe stato
senz’altro travolto da una folata gelida di ricordi se non fosse arrivata prima una stanchezza lunga come tutto il viaggio
che aveva fatto. Non fece in tempo ad appoggiare a terra lo
zaino pieno di paure che ci si addormentò sopra. La casa era
vuota, Ninetta dopo la partenza del fratello era andata ad
abitare da una zia, solo un merlo, che durante l’inverno si
era rifugiato nella cantina, gli si avvicinò incuriosito e gli
picchiettò la spalla. Giovannino si svegliò di soprassalto, che
cosa era stato? Si guardò intorno e non vide niente. Si sdraiò
di nuovo e chiuse gli occhi ma mentre cercava di riaddormentarsi si accorse che una strana sensazione gli era entrata
nel corpo. A poco a poco l’immobilità e il silenzio della casa
cominciarono a diventare insopportabili. Il suo cuore decise
di battere più forte, la sua faccia di impallidire, e la sua pancia di stringersi. I suoi sensi, i suoi occhi, le sue orecchie
sembravano abbandonarlo e mescolarsi faticosamente alla
sua immaginazione, giocando ad amplificare rumori impercettibili, e prendendosi gioco di lui nel materializzare improvvise apparizioni. Cosa gli stava succedendo? Si alzò in
piedi per guardarla, non sapeva ancora se era “lei” perché era
la prima volta, ma forse senza più cercarla aveva incontrato
la paura18.
La paura è un’emozione essenziale nello sviluppo
di una personalità equilibrata: essa è necessaria in
quanto aiuta a muoversi nel mondo senza subire
traumi anche gravi o irreversibili ed è una delle forme
in cui si esprime il nostro istinto di sopravvivenza.
Come sostengono gli studiosi, senza la paura nessuna
specie potrebbe sopravvivere poiché essa rappresenta
un riflesso necessario per sfuggire all’annientamento.
Questa emozione, però, presenta anche un aspetto
pericoloso poiché, non controllata adeguatamente,
potrebbe prendere il sopravvento ed impedirci qualunque azione o cambiamento, come nel caso della
morte per paura o della paralisi di fronte ad essa.
18
Cecconi, A., op. cit., pp. 72-73.
119
L’espressione obbligatoria dei sentimenti
Secondo Delumeau, la paura è “un’emozionechoc, spesso preceduta da sorpresa, provocata dalla
presa di coscienza di un pericolo presente ed imminente che avvertiamo come atto a minacciare la nostra incolumità”19 e quindi è un’abitudine, culturalmente creata, “posseduta da un gruppo umano di temere questa o quella minaccia (reale o immaginaria)”20.
Allora siamo andati alla spiaggia dove c’è quell’uomo anziano che conosce Serafinte [spirito in forma di serpente] e gli
abbiamo portato due galline e del vino di palma, perché ce
la facesse incontrare. Il vecchio ha accettato i doni e poi ci
ha detto che se fossimo riusciti a guardare senza avere paura,
rimanendo fermi con sguardo sicuro, Serafinte non ci
avrebbe fatto del male: solo in quel caso ci avrebbe ascoltato. Se ci fossimo spaventati, invece, correndo via con gli occhi chiusi, si sarebbe vendicata e ci avrebbe fatto morire.
Chi ha paura, ci ha detto il vecchio, non c’è niente che lo
possa salvare: Serafinte non sopporta i vigliacchi e li uccide21.
La paura è stata considerata in genere la più naturale fra le emozioni ed è stata contrapposta spesso alla
colpa o alla vergogna, due emozioni considerate invece come sicuramente culturali. Questa concezione
nasce sicuramente dall’idea che essa derivi sostanzialmente dall’istinto di sopravvivenza. Come sostiene, però, Pussetti “questa prospettiva riflette l’idea
che percezione e valutazione del pericolo, dalle quali
deriva l’emozione della paura, siano esclusivamente
determinate dall’istinto di sopravvivenza. É stato in
seguito sostenuto che la cultura non ha meno rilevanza per la paura di quanto non l’abbia per la colpa:
questa affermazione è supportata da diverse ricerche
sul campo, che hanno messo in luce come le società
possano variare nella percezione e definizione di ri19
Delumeau, J., La paura in Occidente (secoli XIV-XVIII) La
città assediata, SEI, Torino, 1978, p. 27.
20
Delumeau, J., op. cit., p. 26.
21
Pussetti, C., op. cit., pp. 107-108.
120
L’espressione obbligatoria dei sentimenti
schio e pericolo”22. Infatti, si può arrivare sino alla
perdita del principio vitale a causa della paura e le
vittime tipiche sono i bambini e le donne. In molte
società, da quelle tribali alla nostra contadina europea, una delle cause di perdita del principio vitale o di
grave malattia che in genere porta alla morte è data
dall’apparizione di una entità soprannaturale o di un
morto. L’etnologo De Martino ha svolto al riguardo
lavori eccellenti nei quali, tra l’altro, si mette in evidenza come il mondo dei morti che, dappertutto, è da
intendersi come ‘altro’ rispetto alla società dei viventi,
non possa essere visto impunemente e che quindi deve sempre fare paura. Come si può notare, la paura di
cui qui si parla e che spesso sarà all’origine della morte
fisica di colui che ha avuto la visione è, dopotutto,
una paura culturale innestata su una capacità fisica di
provare un’emozione di tal genere, come in questo
racconto della tradizione meridionale e più specificamente pugliese:
Quello era un uomo bestemmiatore, però era un uomo che
andava alla messa. Poi quest’uomo è morto. Una volta la
moglie, era tempo d’estate, andò in campagna per raccogliere la spiga ed era quasi mezzogiorno, quasi le dodici e mezzo
e stava per finire. La campagna era attaccata al cimitero.
Edda si chiamava Carmela e lu maritu lu chiamavano lu
mirduddu. Quando, a un certo punto, si sentì chiamare:
“Carme’, Carme’..”. Lei sentì che era il marito che la chiamava, ma si prese paura e non rispondeva. Allora lui disse di
nuovo: “Carme’, non mi conosci? Sono tuo marito”. Lei
risposi: “Sì, ti sto conoscendo” – “Sono venuto per dirti che
devi dire ai nostri figli, quando vai a casa, di vedersi la messa
perché io per mezzo della messa sono stato salvato, ci no lu
Signori m’era condannatu”. Questa donna fu tanto lo sgomento di sentire quest’uomo parlare vivo che prese tutta la
sua roba e se ne andò a casa. Per tornare a Latiano doveva
attraversare un ponte che passava sotto alla stazione.
[questo ponte faceva da limite tra il cimitero e il paese] Nel
traversare stu ponti, quest’anima le disse: “Sai, Carme’, fino
a qua ti pozzu accompagnari, non ti pozzu accompagnari
22
Pussetti, C., op. cit., p. 109.
121
L’espressione obbligatoria dei sentimenti
nel paese”. Sta cristiana tanta paura ca si prese, tantu sgomentu ca ebbi ca gli venne freddo e febbre e di dda moríu.
Come sottolinea Delumeau, “il timore, lo spavento, il terrore appartengono più alla sfera della paura;
l’inquietudine, l’ansietà, la depressione a quella
dell’angoscia. La prima si riferisce all’ambito di ciò
che è conosciuto, la seconda a quello dell’ignoto. La
paura ha un oggetto determinato, a cui si può far
fronte; l’angoscia non ne ha ed è vissuta come attesa
dolorosa di fronte a un pericolo tanto più temibile in
quanto non è chiaramente identificato: si tratta di un
sentimento di insicurezza globale. Perciò l’angoscia è
più difficile da sopportare della paura”23. Ed è per
questo motivo che abbiamo bisogno di ‘dare’ un nome alla paura così che essa diventi paura di ‘qualcosa’,
paura con un ‘nome’.
“Dal momento che è impossibile conservare il
proprio equilibrio interno affrontando per lungo
tempo un’angoscia fluttuante, infinita e indefinibile,
è necessario per l’uomo trasformarla e frammentarla
in paure precise di qualcosa o di qualcuno”. Lo spirito
umano fabbrica in permanenza la paura “per evitare
un’angoscia a livello di malattia che sfocerebbe
nell’abolizione dell’io. Si tratta di un processo che
possiamo ritrovare al primo stadio di una civiltà.
Mediante una lunga serie di traumi collettivi,
l’Occidente ha vinto l’angoscia ‘denominando’ cioè
identificando, e perfino ‘fabbricando’ paure particolari”24. La stessa paura della morte, perciò, può in ogni
cultura essere frazionata in paure altrettanto terribili,
ma in ogni caso ‘nominate’ e spiegate cosicché possano diventare accettabili: si pensi, per esempio, alla
paura del demonio, del peccato e quindi della perdita
dell’anima come testimoniano questa poesia insegnata ai bambini e la riflessione conseguente di una donna contadina pugliese
23
24
122
Delumeau, J., op. cit., p. 27.
Delumeau, J., op. cit., p. 29.
L’espressione obbligatoria dei sentimenti
Vita breve/ morte certa./ Del morire l’ora è incerta/
un’anima sola si ha/ se si perde che sarà./ Dio mi veti/ Diu
mi giudicherà/ o paradiso o inferno mi toccherà./ Finisci
tutto/ e finisci presto/ eternità non finisci mai./
“La signora D’Ippolito mi diceva sempre: ‘Ma signora,
guarda un po’: quando mi vede, mi dice sempre di pregare
per la salvezza dell’anima dei suoi figli. Mi piace che per lei
prima viene l’anima poi tutto il resto’. Ma scusa, a che vale il
lavoro, i soldi se poi non si salvano l’anima. Prima di ogni
cosa bisogna pensare all’anima”.
O ancora si pensi alla paura della notte e dell’oscurità giacché, come sostiene una donna africana,
“Dio ha fatto la notte, ma l’uomo l’oscurità ed è
dall’oscurità che devi difenderti e non dalla notte”25.
Così, la notte è stata riempita, nella lunga storia delle
culture, da figure immaginarie che tramano contro
l’uomo: lupi mannari, fantasmi, malefici stregoneschi,
spiriti di ogni genere nel passato hanno affollato questa parte della giornata come oggi i criminali di qualunque tipo.
Alla distinzione fondamentale tra paura e angoscia, Delumeau fa seguire un’altra teoria estremamente interessante per comprendere i meccanismi del
pensiero, cioè quella dell’‘attaccamento’, ovvero di
una tendenza originaria e stabile tesa a ricercare la
relazione con l’altro. Come sottolinea lo storico, la
natura sociale dell’uomo si presenta come vero e proprio fatto biologico, tanto che proprio in questo sostrato è possibile ricercare le radici della sua affettività. Così, il bambino rifiutato dalla madre o l’individuo che non ha avuto sin dall’inizio della sua esistenza legami normali con il gruppo rischia gravi
forme di disadattamento le quali produrranno in
primo luogo un senso profondo di insicurezza derivante da questa mancata realizzazione del bisogno di
relazione. E questo senso di insicurezza, per esempio,
diventa quasi sempre causa di aggressività per
l’individuo o per la collettività cosicché “la tendenza
25
Kpan Teagbeu S. op. cit., p. 46.
123
L’espressione obbligatoria dei sentimenti
da parte di un gruppo dominante di relegare in una
situazione di disagio materiale e psichico una categoria di dominati costituisce perciò, a più o meno lunga
scadenza, un atteggiamento suicida. Un tale rifiuto
dell’amore e della ‘relazione’ genera inevitabilmente
paura ed odio. I vagabondi dell’Ancien Régime, che
erano degli ‘spostati’, respinti dai quadri sociali, provocarono nel 1789 la ‘Grande Paura’ dei possidenti,
anche modesti e, con una conseguenza inattesa, il
crollo dei privilegi giuridici su cui era fondata la monarchia... Come conseguenza, si verifica anche a livello collettivo ciò che risulta evidente sul piano individuale: si realizza cioè un legame tra paura e angoscia
da un lato e aggressività dall’altro”26.
Le riflessioni dello storico francese, che seguono
l’opera sull’angoscia del filosofo Kierkegaard, permettono un’analisi più profonda quando sottolineano
che l’angoscia può anche essere intesa in modo positivo come “vertigine del nulla ed esperienza di una pienezza: è ad un tempo tema e desiderio... per noi, uomini del ventesimo secolo, essa è diventata la contropartita della libertà, l’emozione del possibile. Infatti,
liberarsi significa abbandonare uno stato di sicurezza,
affrontare un rischio. L’angoscia è insomma la caratteristica della condizione umana, l’aspetto specifico di
un essere che si crea incessantemente”27. Non a caso,
essa sembra essere uno dei sentimenti importanti del
nostro periodo e delle nostre società sempre tese verso
il futuro e verso quella che potrebbe essere definita
quasi un’ossessione del nuovo come della creatività.
Nelle società etnologiche, inoltre, alla paura è collegato il periodo fondamentale della formazione
dell’individuo, cioè quello dell’iniziazione. Una delle
grandi lezioni dei riti di iniziazione in fondo sta
semplicemente nel confronto con la paura al fine di
poter entrare in contatto con la forza interiore che
esiste in ciascuno di noi. Confrontarsi con la paura
26
27
124
Delumeau, J., op. cit., p. 30.
Delumeau, J., op. cit., p. 28.
L’espressione obbligatoria dei sentimenti
significa giocare con metà della vita poiché solo sperimentando se stessi si può vedere se si può essere vincenti o perdenti. Nella vita di molte comunità tradizionali, infatti, non conta il denaro, il possesso materiale, ma il rispetto degli altri, l’onore, l’esperienza,
risultato, tutto ciò, di anni di duro lavoro e di duro
allenamento. La conoscenza della sapienza del gruppo
è senza dubbio obiettivo fondamentale del periodo
iniziatico, ma il cammino dei riti diventa oltremodo
necessario semplicemente per misurarsi con se stessi,
per dimostrare di essere un vero essere umano e come
tale farsi rispettare.
La vita è piena di sfide e noi esseri umani ci mettiamo alla
prova accettandole. Anche se si soffre ne vale la pena, perché ci arricchiamo, diventiamo più maturi, più intelligenti e
più adulti... Nella lotta quotidiana uno può vincere o essere
vinto, l’importante è lottare e continuare a farlo: anche
graffiando, pieni di ferite, bisogna sempre andare avanti.
Superare gli ostacoli ci fortifica perché ci spinge a confrontarci con le nostre paure, a usare una buona dose di coraggio, e l’azione, per affrontarle e vincerle. Solo chi ha combattuto, usando l’immaginazione e l’intelligenza, armato del
coraggio, della volontà, ed è sopravvissuto, può considerarsi
un trionfatore... Tutti abbiamo paura, la paura è umana,
affrontarla vuol dire andare verso l’ignoto. C’è bisogno di
coraggio e di volontà per agire e affrontare la paura”28.
Allora, come fronteggiare questo sentimento così
rilevante e insieme sfuggente nella vita di tutti i
giorni? La tradizione antropologica europea, per
esempio, ci propone diversi modi in cui è possibile
affrontare questi momenti difficili in maniera protetta culturalmente. Cecconi, in un bel libro sul sistema
di protezione messo in atto nella montagna pistoiese
per affrontare l’imprevedibilità della natura e della
vita umana, così riflette
La Paura è invisibile, sta fuori e a un certo punto entra dentro, può arrivare in qualsiasi momento, non dà preavvisi e
28
Mamani, H.H., La donna dalla coda d’argento, Mondadori,
Milano, 2005, p. 284.
125
L’espressione obbligatoria dei sentimenti
spesso non ha nemmeno un perché, arriva e basta. Ma da
dove entra? Dalla testa, dalle orecchie, dagli occhi? E poi
dove sta? C’è chi la sente nelle spalle, chi nella pancia, chi
nei pensieri, chi nel cuore, chi nella gola. Ognuno ha la sua
geografia della paura, ognuno la descrive con parole diverse,
ma cosa si può fare davanti alla paura?... Quando la paura
assale l’uomo gli impedisce di dormire e mangiare, si va allora da chi sa fronteggiarla e manipolarla. In ogni paese c’era
qualcuno che sapeva “lavare la paura” ... È come se nel pensiero “magico” avvenisse una solidificazione degli stati
d’animo: la paura, l’invidia, l’odio, l’amore diventano
“cose”, e proprio questa solidificazione permette di elaborare delle strategie concrete ... se la paura è senza forma, senza
nome, invisibile, senza contorno, si attorciglia intorno
all’uomo, gli paralizza le gambe, gli impedisce ogni azione,
lo immobilizza. Solo se la paura diventa qualcosa di concreto, l’uomo la può “guardare”, “toccare”e “lavare via”. Il rituale cresciuto sulla Montagna pistoiese, per liberarsi dalla paura, consiste proprio nel “lavarla” con un’erba magica chiamata erba lavandaia o erba di paura... Si lavano prima gli
occhi e il viso, poi si passa con la mano tutto intorno alla
persona, per quattro volte, e in ultimo si lavano le mani e
piedi. Il rito va ripetuto per tre giorni, e se l’ultimo giorno
l’acqua è ancora densa vuol dire che la paura non è ancora
scomparsa del tutto e la persona dovrà essere lavata finché
l’acqua nella bacinella non resterà limpida29.
Un altro modo che permette di fronteggiare la
paura è quello di personificarla in luoghi o situazioni
ma la paura non è solo un “qualcosa” che sta dentro l’uomo,
la paura è una vera e propria presenza: “la paura ce lo dicevano i vecchi, c’era in tal posto e se uno passava di lì, anche
se non ce l’aveva, gli montava”. Antonio si ricorda bene del
suo incontro con la paura: “io e un altro che è morto, s’era a
fare il carbone nel bosco, e c’era un seccatoio dove seccavano le castagne, e dicevano che c’era la paura lì dentro. Un
po’ che si fosse impressionati noi, ma inverso le 11.30, mezzanotte, si sente suonare la fisarmonica, un valzer. È verità,
si prese la roba e si venne a casa. Erano le due di notte quando si venne a casa. Non ci si dormì mica più lì, c’erano gli
spiriti ... “Lassù, sul Toricella, c’era una paura” racconta El29
126
Cecconi, A., op. cit., pp. 74-75.
L’espressione obbligatoria dei sentimenti
sa, e indica il luogo dalle finestre di casa sua. Lei questa cosa
l’ha sempre sentita dire, ma di persona non si è mai azzardata a verificare30.
Le considerazioni più rilevanti e commoventi per
la profondità dello sguardo si possono leggere, però,
nel momento in cui la ricercatrice illustra la filosofia
che muove esseri umani di culture diverse a trovare
dei modi sempre efficaci con i quali superare la paura
In Perù il malato di “susto”, dopo essere stato curato dal
guaritore, finalmente si addormenta, e accanto al suo letto i
famigliari staranno svegli una notte intera. Lo guarderanno
dormire, in cerchio intorno a lui vigileranno che il suo respiro resti regolare, e impediranno al “susto” di entrare ancora nel suo corpo, approfittando della solitudine notturna.
Questa “veglia” e questa protezione collettiva rappresentano la fine rituale della cura iniziata dal guaritore. La paura si
supera con il calore dell’altro, con la carezza di una mano
che ti lava, una voce che scaccia gli incubi che tagliano il
respiro. La paura va condivisa, ascoltata, e visto che il corpo
è il primo a sentirla arrivare, è lui che può fare da guida... Se
per alcuni è terapeutico il “flusso di parole” consigliato dalla
psicanalisi, per altri sarà un “flusso d’acqua ed erba lavandaia” a lavare via quella paura che non fa più dormire e
mangiare: c’è chi parla della paura e chi si fa lavare31.
Ed ecco anche perché nelle società etnologiche
questo sentimento viene affrontato nei riti di iniziazione, vissuti in gruppo e guidati dagli anziani.
In conclusione, ogni società costruisce le sue paure e quindi i suoi sistemi di sicurezza che perciò si riferiscono sempre a oggetti ed esseri specifici, ben diversi a seconda del periodo storico e della situazione
sociale. Come sostiene Febvre, la paura e il bisogno di
sicurezza, – l’uno negativo e l’altro positivo – sono
due sentimenti che alla fine si incontrano, ma certamente bisogna intendersi bene sui termini32. L’aiuto
reciproco, per esempio, non è certamente la sicurezza
30
Cecconi, A., op. cit., pp. 75-76.
Cecconi, A., op. cit., p. 82.
32
Febvre L., “Pour l’histoire d’un sentiment: le besoin de sécurité” in ANNALES, 2, 1956, p. 246 sgg.
31
127
L’espressione obbligatoria dei sentimenti
quale noi la intendiamo. La domanda che allora si
pone lo storico è estremamente importante poiché
chiarisce l’importanza sociale del bisogno di sicurezza: quando nasce questo bisogno? È vero infatti che,
sino a quando nella cultura occidentale ci si è abbandonati alla volontà di Dio, anche se imperscrutabile,
sicurezza è stato un vocabolo con un significato molto diverso da quello che noi gli attribuiamo. Il termine, invece, acquisisce un nuovo valore quando ad esso
associamo una organizzazione umana, l’uso del denaro, e una risposta immediata, automatica ed efficace
di fronte ad una qualunque catastrofe o a ciò che noi
riteniamo catastrofico. Dunque il bisogno di sicurezza nasce con il capitalismo, quando cioè l’intervento
divino non appare più necessario agli uomini per
spiegare gli avvenimenti che, invece, diventano, dal
quel periodo in poi, di ordine puramente umano,
come testimonia questo affascinante racconto di
Delumeau
Nel XVI secolo, non è facile entrare di notte ad Augusta.
Montaigne, che visita la città nel 1580, rimane stupito di
fronte alla “porta segreta” che, per opera di due custodi, filtra i viaggiatori che arrivano dopo il calar del sole. Essi si
imbattono dapprima in una postierla di ferro che il primo
guardiano, la cui camera dista più di cento passi, apre dal
proprio alloggio mediante una catena di ferro, la quale
“dopo un lungo percorso e molteplici giri” tira un paletto,
anche esso di ferro. Una volta superato questo ostacolo, la
porta si richiude di colpo. Il visitatore oltrepassa quindi un
ponte coperto sopra un fossato della città e arriva su un piccolo spiazzo, dove declina le proprie generalità e indica
l’indirizzo a cui intende alloggiare ad Augusta. Il guardiano
avverte allora con un colpo di campanella un compagno,
che aziona un congegno situato in una galleria vicino alla
sua camera. Questo congegno apre dapprima una barriera –
sempre di ferro – poi, mediante una grande ruota, comanda
il ponte levatoio senza che si possa vedere nulla di tutti questi movimenti, “ché avvengono nello spessore del muro e
delle porte” e “di improvviso ogni cosa si richiude con gran
fracasso”. Al di là del ponte levatoio si apre una grande porta, “di legno molto spesso e rinforzata con parecchie grandi
piastre di ferro”. Attraverso questa porta lo straniero accede
128
L’espressione obbligatoria dei sentimenti
a una sala, dove si ritrova chiuso, solo e senza luce. Ma
un’altra porta simile alla prima gli permette di entrare in
una seconda sala, stavolta “illuminata” e dove si imbatte in
un vaso di bronzo appeso a una catena: il forestiero vi deve
depositare il denaro del pedaggio. Tirando la catena il secondo portiere recupera il vaso e verifica la somma depositatavi dal visitatore; se questa non è conforme alla tariffa, il
portiere lo lascerà “marcire fino al giorno dopo”; se invece è
soddisfatto “gli apre, allo stesso modo, una grossa porta
simile alle altre, che si chiude dietro di lui, ed eccolo in città”. Un particolare importante completa questo dispositivo
ad un tempo macchinoso ed ingegnoso: sotto le sale e le
porte è sistemato un grande scantinato capace di alloggiare
cinquecento armati con i propri cavalli, per fare fronte ad
ogni eventualità. In caso di emergenza, essi vengono impiegati in azioni di guerra “all’insaputa dei cittadini qualunque”. Si tratta di precauzioni singolarmente rivelatrici di un
clima di insicurezza: quattro grosse porte che si susseguono
l’un l’altra, un ponte sul fossato, un ponte levatoio e una
barriera di ferro non sembrano troppo per proteggere contro ogni sorpresa una città di 60.000 abitanti che è, a
quell’epoca, la più popolosa e ricca della Germania. In un
paese in preda alle contese religiose, e mentre i turchi premono alle frontiere dell’Impero, ogni straniero è sospetto,
soprattutto di notte. Nello stesso tempo viene nutrita diffidenza verso i “cittadini qualunque” i cui “turbamenti” sono
imprevedibili e pericolosi; perciò si provvede a che essi non
si accorgano dell’assenza dei soldati abitualmente di stanza
sotto il complicato dispositivo della “porta segreta”.
All’interno di quest’ ultima sono stati messi in opera gli ultimi perfezionamenti dell’arte metallurgica tedesca di quel
tempo. Grazie a queste precauzioni, una città il cui possesso
è particolarmente bramato arriva, se non a respingere completamente la paura fuori dalle proprie mura, almeno ad
attutirla in misura sufficiente per potervi convivere33.
L’invidia
Come è facile comprendere, l’invidia è un sentimento molto pericoloso che non può essere tollerato
33
Delumeau, J., op. cit., pp. 7-8.
129
L’espressione obbligatoria dei sentimenti
in nessuna società e quindi ha dato origine a strutture
sociali che costituiscono veri e propri mezzi di controllo sociale, i più diffusi dei quali sono la stregoneria, con la relativa creazione di specialisti a tempo
parziale di religione come gli stregoni, e il malocchio.
Il grande antropologo americano Marvin Harris
presenta questo fenomeno culturale in maniera mirabile e, come al solito, estremamente chiara e molto
piacevole da leggere.
Ciò che più colpisce nella stregoneria intesa come un mezzo
di controllo sociale è che coloro che la praticano, ammesso
che esistano, raramente possono essere individuati. Con
ogni probabilità, il numero delle persone ingiustamente
accusate di stregoneria supera di gran lunga quello dei veri
colpevoli. È chiaro, quindi, che l’astenersi dal praticare incantesimi non basta a proteggersi dall’accusa. E allora, come
evitare di essere ingiustamente incolpati? Comportandosi
in un modo amabile, aperto e generoso, evitando le dispute
e facendo quanto possibile per non perdere l’appoggio dei
propri parenti. Insomma, l’occasionale uccisione di un presupposto stregone rappresenta qualche cosa di molto più
importante della semplice eliminazione di pochi individui
effettivamente o potenzialmente antisociali. Questi incidenti violenti convincono tutti dell’importanza di non essere scambiati per dei malfattori. Ne risulta, come presso i
Kuikuru [indios del Brasile], che la gente diventa molto più
amabile, cordiale, generosa e disponibile a collaborare: “la
regola che prescrive di essere gentili trattiene gli individui
dall’accusarsi reciprocamente di delitti e quindi, in assenza
di un reale controllo o politico o da parte di un gruppo di
parenti, le relazioni interpersonali sono diventate una specie
di gara in cui forse l’unica regola restrittiva è quella di non
mostrare ostilità reciproca per paura di essere sospettati di
stregoneria”. Questo metodo non è “a prova di bomba”.
Sono noti molti casi di sistemi fondati sulla stregoneria che
sono crollati, trascinando la comunità in una serie distruttiva di accuse e omicidi di ritorsione. Tuttavia tali casi
(specialmente in situazioni di forte contatto coloniale, come in Africa e in Melanesia) devono essere correttamente
messi in relazione con le condizioni di base della vita collettiva. In generale, la frequenza delle accuse di stregoneria
varia a seconda dell’intensità del dissenso e della frustrazio130
L’espressione obbligatoria dei sentimenti
ne della collettività... Quando una cultura tradizionale è
sconvolta dal contatto con nuove malattie, da una accresciuta competitività per accaparrarsi la terra e
dall’assunzione di persone per il lavoro salariato, bisogna
aspettarsi un periodo di più marcati dissensi e frustrazioni.
Esso sarà anche caratterizzato da una frenetica attività da
parte di coloro che sono in grado di individuare e rendere
manifesti i malvagi effetti delle streghe, come nel caso della
frammentazione della società feudale in Europa e della
grande ossessione per la stregoneria dal XV al XVII secolo34.
Secondo Di Nola, la stregoneria potrebbe essere
definita come “uno statuto mitico-rituale nel quale,
all’interno di ogni cultura, viene ad esprimersi la reazione aggressiva di gruppi e di ‘margini sociali’ che,
per motivi vari, non sono integrati (o sono parzialmente integrati) nei modelli propri della cultura dalla
quale dipendono, o anche che respingono tali modelli”35. In alcune culture, per esempio, questo statuto
viene attribuito a gruppi che la maggioranza respinge
o emargina, come i Rom e i Sinti nelle nostre società, i
Falascià nella cultura etiopica o i Fabbri in molte culture etnologiche. O ancora, si riversa su aree emarginate anche interne alla società il proprio malessere e si
cerca di riacquisire una sicurezza di essere nel mondo
combattendo simili individui o categorie. Si pensi,
per esempio, ad un periodo storico della stregoneria,
quello dei secoli XV-XVIII in Europa, come momento di culmine di un lungo processo di emarginazione
della donna nella figura della strega e in piccola parte
dello stregone nelle società cristiane. Malinowski sosteneva che in fondo la stregoneria costituisce un
modo di spiegare il male e le crisi fondamentali
dell’esistenza, quasi una delle forme in cui si esprime
la teoria del capro espiatorio, secondo cui all’origine
di tutto ciò che noi riteniamo inaccettabile o negativo
vi sia un’azione o dei personaggi potenti che appartengono ad un mondo molto lontano da quello reli34
Harris, M., op. cit, pp. 177-178.
Di Nola, A.M., “Stregoneria”, in Enciclopedia delle religioni,
v. 5°, Vallecchi, Firenze, 1973, p. 1413.
35
131
L’espressione obbligatoria dei sentimenti
gioso. Si pensi, per esempio, all’universo culturale
delle fatture, dei filtri, degli operatori di malefici e
quindi degli stregoni. In questo senso, Di Nola ritiene
che la stregoneria vada considerata un fenomeno areligioso, “nella misura in cui si contrappone, negandoli, ai modelli religiosi del gruppo culturale in cui
emerge”36. Essa sembrerebbe quasi una creazione culturale con la quale rendere visibili e personificare le
pulsioni negative estreme, le forze oscure dell’agire
degli uomini che pure sono parte integrante della nostra umanità. Anche la pratica dell’interrogazione del
morto, cioè della ricerca del colpevole, molto comune
in Africa, è una rappresentazione, quindi un dramma
carico di tensione che aiuta a dare ampio sfogo alle
cariche aggressive, invidiose o rancorose del gruppo.
In Sud e magia, De Martino ricorda appunto questa riflessione dello studioso Strehlow sugli Aranda
centro-australiani: “l’arte dello stregone consiste specialmente nel rendere innocua l’influenza di uomini
ostili o di esseri maligni. Egli è chiamato in casi gravi,
o che la malattia sia causata da persone ostili, o che
invece la causa di essa sia una entità demoniaca ... tutte le malattie sono ricondotte dagli indigeni a influenze esterne, e cioè ad uomini che con l’aiuto della
magia nera asseriscono di poter causare la morte di un
altro individuo, ovvero a demoni che in forma animale o nei fenomeni naturali (per esempio nei venti maligni) si avvicinano all’uomo e gli recano danno”37.
Naturalmente gli individui accusati di stregoneria
non vengono scelti a caso, ma secondo dei criteri ben
definiti orientati sempre socialmente che, per esempio, tra i Kuikuru del Brasile, erano i seguenti: “1)
una storia di litigi e contese all’interno del villaggio,
2) un motivo per continuare a nuocere (il fidanzamento rotto) e 3) un debole sostegno parentale”38.
Come sottolineano gli studiosi, gli sciamani, specialisti religiosi i quali svolgono un ruolo essenziale
36
Di Nola, A.M., op. cit., 1973, p. 1416.
De Martino, E., Sud e magia, Feltrinelli, Milano, 1959, p. 81.
38
Harris, M., op. cit., p. 177.
37
132
L’espressione obbligatoria dei sentimenti
nell’eliminazione delle fonti di conflitto, sono senza
dubbio delle autorità, ma non sono onnipotenti, anzi
sono fortemente vincolati dall’opinione pubblica.
Essi devono essere sempre molto attenti a non accusare di stregoneria “persone benvolute e che godono
dell’appoggio di un forte gruppo parentale” poiché se
persistono nelle loro accuse rischiano l’espulsione o
l’uccisione39. Quindi stregone è sostanzialmente colui
che è emarginato all’interno del gruppo e che rappresenta e incarna i forti pensieri-sentimenti individualisti, antisociali, violenti degli esseri umani. Presso i
Bijagó, “ogni male, sofferenza e sfortuna dipendono
dall’azione di una persona che ci è vicina. L’origine
del male è dunque sempre sociale; non solo, ma nasce
spesso proprio all’interno della comunità familiare e
per questo costituisce una minaccia contro i legami di
solidarietà interni di un clan, contro la compattezza
di un villaggio, cui è difficile sfuggire... la stregoneria
... in questa interpretazione è il ‘lato oscuro’ della parentela, la consapevolezza del fatto che le gelosie, i
rancori e le invidie più intense e violente nascano
proprio all’interno della famiglia, dove non dovrebbero regnare che fiducia e solidarietà. Tutte le relazioni
umane, soprattutto quelle di grande prossimità sociale e affettiva, implicano interdipendenze troppo strette per non essere intensamente caricate di sentimenti
di ambivalenza. Questo discorso è soprattutto vero
per le società di piccole dimensioni, le comunità dalle
interazioni ‘faccia a faccia’, e a maggior ragione per il
più ristretto, intimo e coeso gruppo familiare”40.
La stregoneria è quindi l’espressione visibile e
drammatica della paura della solitudine, della frattura
dei rapporti con la famiglia e la messa in scena dei
sentimenti di invidia, gelosia e rancore esistenti in
ogni gruppo familiare.
Il ruolo del malocchio nell’organizzazione sociale,
invece, non è così ben “definito e evidente (o meglio,
39
40
Ibidem
Pussetti, C., op. cit., p. 133.
133
L’espressione obbligatoria dei sentimenti
così ben studiato) come quello della stregoneria. Ad
esempio non esistono pubbliche accuse riguardo al
malocchio. In alcuni casi, esso può essere persino liquidato come una superstizione. Generalmente, tuttavia, rappresenta il reale timore di un’influenza malefica attuata per mezzo di altre persone... secondo
alcune testimonianze, si tratta di un potere malefico
autonomo, che agisce attraverso certe persone e in
certe situazioni: secondo altre, si tratta semplicemente di individui il cui sguardo è malefico”41. Come si
può notare, le credenze presentano delle differenze,
anche se non particolarmente rilevanti. Secondo
Spooner, per esempio, in Persia, “colui che possiede il
malocchio può sapere o no di avere questa facoltà.
Egli può essere nato con il malocchio. Quest’ultimo
ha diversi gradi di efficacia in persone diverse”42.
Questa credenza, però, può essere anche intesa
come capacità che l’essere umano ha di credere in una
forza negativa che può colpire quando non si ha la
forza di reagire positivamente alle disavventure della
vita, come in questa testimonianza di una donna della
provincia di Pistoia: “il malocchio te lo puoi dare anche da te, è l’energia negativa che hai quando stai
male, sei triste. Infatti è vero che te lo puoi dare anche
da te, se ti metti in una visione negativa per cui tu
pensi di stare male quando invece potresti anche stare
bene”43.
In generale, la vittima privilegiata del malocchio è
il bambino piccolo che è visto da tutte le culture come
un essere molto vulnerabile dal punto di vista fisico.
In Africa, per esempio, è considerato come molle e
bianco, e proprio questa penetrabilità del corpo
“rende i piccoli estremamente fragili, esposti alle malattie, al vento malvagio e alla possessione da parte di
esseri extraumani. I bambini hanno inoltre bisogno di
essere protetti dai n’atribá violenti o malvagi, che possono assorbire in primo luogo nel latte materno e che
41
Spooner, B., op. cit., pp. 379-380.
Ibidem
43
Cecconi, A., op. cit., p. 168.
42
134
L’espressione obbligatoria dei sentimenti
possono farli ammalare o addirittura morire... per lo
stesso motivo i bambini non vengono mai lasciati soli;
anzi in questo periodo di maggiore labilità dei confini
corporei sono tenuti sempre a stretto contatto con il
corpo della madre”44. Essere esposti al vento naturalmente si riferisce al ‘malocchio’ che potrebbe essere
‘soffiato’ sulla madre e sul bambino o che potrebbe
essere trasmesso attraverso uno sguardo tagliente, anche in questo caso, quasi sempre da un amico o ancor
più da un parente. Come sottolinea Le Breton, la
credenza nel malocchio è semplicemente una cristallizzazione sociale dell’idea che lo sguardo abbia un
forte potere sull’altro sino a metterne in discussione
l’identità e a farlo sentire sotto una forte influenza.
Non c’è scambio senza lo sguardo, attraverso il quale
ogni distanza viene eliminata. Come nota Le Breton
quando analizza i rituali di seduzione, si pensi
all’adescamento e allo sguardo insistente dell’uomo
sulla donna che finge all’inizio di ignorarlo, mentre lo
stesso sguardo fatto da parte della donna mette quasi
sempre in imbarazzo l’uomo45. In un noto libro sulla
visione dell’harem nell’Occidente, la sociologa Fatema Mernissi così si esprime: “gli arabi pensano che
siano gli occhi a tradire. “Gli occhi sono una porta
aperta sull’anima ... scrutano i suoi segreti, comunicano i suoi più intimi pensieri”. Questo è il motivo per
cui mi hanno insegnato che è buona tattica, per una
donna, tenere gli occhi bassi, così che gli uomini non
possano indovinare i suoi pensieri. La cosiddetta modestia delle donne arabe è in realtà una tattica di
guerra”46.
Uno dei testi fondamentali di un grande etnologo
italiano, De Martino, appunto ci presenta il tema,
importante nel sud d’Italia, ma diffuso presso numerosissime altre popolazioni, del fascino o fascinazione.
44
Pussetti, C., op. cit., pp. 64-65.
Cfr. Le Breton, D., op. cit., p. 179.
46
Mernissi, F., L’harem e l’Occidente, Giunti, Firenze-Milano,
2006, p. 13.
45
135
L’espressione obbligatoria dei sentimenti
Con questo termine si indica una condizione psichica di
impedimento e di inibizione, e al tempo stesso un senso di
dominazione, un essere agito da una forza altrettanto potente quanto occulta, che lascia senza margine l’autonomia
della persona, la sua capacità di decisione e di scelta. Col
termine affascino si designa anche la forza ostile che circola
nell’aria, e che insidia inibendo o costringendo... cefalgia,
sonnolenza, spossatezza, rilassamento, ipocondria accompagnano spesso la fascinazione: ma l’esperienza di una forza
indomabile e funesta resta il tratto caratteristico. La fascinazione comporta un agente fascinatore e una vittima, e
quando l’agente è configurato in forma umana, la fascinazione si determina come malocchio, cioè come influenza
maligna che procede dallo sguardo invidioso (onde il malocchio è anche chiamato invidia), con varie sfumature che
vanno dall’influenza più o meno involontaria alla fattura
deliberatamente ordita con un cerimoniale definito, e che
può essere – ed è allora particolarmente temibile – fattura a
morte. L’esperienza di dominazione può spingersi sino al
punto che una personalità aberrante, e in contrasto con le
norme accettate dalla comunità, invade più o meno completamente il comportamento: il soggetto non sarà più allora
semplicemente un fascinato, ma uno spiritato, cioè un posseduto o un ossesso, da esorcizzare ... il trattamento della
fascinatura ... si fonda sull’esecuzione di un particolare cerimoniale da parte di operatori magici specializzati47.
I possibili mezzi con cui può essere esercitata la fascinatura sono l’occhio, cioè lo sguardo, la mente,
quindi il pensiero negativo o la volontà invidiosa di
fare del male. Gli scongiuri servono a cancellare il fascino tentando di istituire una barriera dall’energia
maligna che trama contro persone o beni (infatti anche gli animali possono essere oggetto di invidia e
quindi avere il malocchio cosicché quando un maiale,
per esempio, dimagrisce o non ingrassa a sufficienza
sarà oggetto anch’esso di una pratica guaritoria) mentre gli incantesimi d’amore vengono usati per legare
chi si ama in modo irresistibile e in certi casi sono
impiegati dall’innamorato per far morire colui o colei
che per esempio ha rifiutato il matrimonio.
47
136
De Martino, E., op. cit., 1959, p. 13.
L’espressione obbligatoria dei sentimenti
L’ideologia della fascinazione, secondo De Martino,
costituisce l’elemento fondamentale della concezione
del male e della malattia nel sud come in molte altre
regioni del mondo. L’infanzia naturalmente è particolarmente esposta al rischio della fascinazione e, già
prima della nascita, il destino del bambino è legato ai
comportamenti della madre durante la gravidanza (si
pensi semplicemente alle voglie ecc.). La gravidanza,
perciò, è un momento critico dell’esistenza, un periodo molto pericoloso per la madre e per il neonato anche a causa di una condizione organico/psichica di
fragilità e quindi di propensione alla malattia. Così la
madre deve preoccuparsi di nascondere il suo stato e
di evitare incontri pericolosi che potrebbero trasmettere energie negative per l’uno o per l’altra.
“I bambini colpiti dal malocchio piangono, vomitano, diventano pallidi; e per malocchio possono anche scattare cioè ‘crepare’. Proprio quando stanno
bene, e sono floridi, occorre stare attenti, perché sono
esposti all’incontenibile moto d’invidia delle altre
madri. Se si va a far visita in una casa dove ci sono
bambini, è bene entrando render loro un ostentato
saluto rituale: ‘cresci, san Martino,’ cioè ‘cresci in
nome di San Martino,’ che è il santo dell’abbondanza
e della vigoria. Questo saluto è reso ai piccoli al duplice scopo di difendersi dai propri incontrollati impulsi
invidiosi e al tempo stesso per rassicurare la mamma
che non nutra sospetti in proposito... lo stesso tema
del neonato da confermare e proteggere magicamente
si manifesta in altre costumanze ... in genere, il manifestarsi del fatto ‘crescita’ rivela un trapasso, un movimento, un mutamento di stato: e quindi anche
l’accentuazione del rischio magico, perché ciò che è
labile, problematicamente inserito nell’esistenza, può
annullarsi (crepare o schiattare) o non passare in
modo giusto nel nuovo stato. La dentizione, la crescita delle unghie e dei capelli, lo svezzamento, la prima
uscita costituiscono appunto fatti rivelatori di una
condizione che muta, di una vita che avanza nell’esistenza; pertanto ciascuno di questi fatti riaccende
137
L’espressione obbligatoria dei sentimenti
l’agone magico, nella sua vicenda di rischi, di annullamenti e di contromisure di confermazione”48.
Le forze maligne, se i piccoli non sono protetti,
possono essere estremamente contagiose poiché il
corpo, come abbiamo già sottolineato, è aperto energeticamente al mondo. Questo modo di rappresentazione del male e della malattia naturalmente è una
delle maniere possibili di fronteggiare le crisi dell’esistenza e di dare una risposta sicura alle incertezze
della vita. Il corpo è la forma in cui si può esprimere
in modo concreto la sofferenza, la malattia, il non
adattamento alla propria società in forma di pazzia
cosicché la cura deve essere finalizzata al ristabilimento dell’ordine e dell’armonia.
Il malocchio, dunque, è un linguaggio “psicologico istituzionalizzato, per personalizzare o semplicemente personificare la sventura, ed è particolarmente efficace quando la sventura o la paura di essa
può essere messa in relazione con la paura di estranei
e della loro invidia. Si è parlato anche dell’idea parallela della malalingua: oltre a essa, troviamo un’ulteriore idea connessa alle precedenti, quella di “malanimo”, cioè qualcosa di malefico che emana attraverso
il respiro”49. È interessante notare come questi concetti abbiano un organo di riferimento, quale l’occhio
per il malocchio, la lingua e quindi la parola per la
malalingua o pettegolezzo, il cuore e il respiro per il
malanimo. Per di più, questi concetti vengono immediatamente collegati alla figura femminile, che è
colei che è destinata in molte società a rappresentare
gli aspetti negativi dei sentimenti50.
In genere è gente singolare – persone che per una ragione o
per l’altra non appartengono pienamente alla comunità basata su forti legami interni, o perché sono straniere, o perché hanno qualche difetto fisico o qualche anormalità, non
48
De Martino, E., op. cit., 1959, pp. 33-34.
Spooner, B., op. cit., p. 383.
50
Su queste problematiche, può essere molto utile, per esempio, il saggio di Pierre Bourdieu, Il dominio maschile, Feltrinelli,
Milano, 1998.
49
138
L’espressione obbligatoria dei sentimenti
necessariamente dell’occhio o della vista – che è sospettata
di essere veicolo del malocchio. Uno straniero è considerato
un veicolo temporaneo, mentre un uomo con un difetto
fisico è probabilmente sospettato di essere nato con il malocchio. Presso alcune comunità si trova anche la concezione parallela della malalingua, e un detto turcomanno afferma che l’occhio da solo non nuoce, se l’agente non pronuncia anche parole invidiose... le donne sono particolarmente sospettabili. Poiché il loro ruolo sociale è definito più
rigidamente di quello degli uomini e poiché, tanto per cominciare, sono in svantaggio fisico e sociale, qualunque portamento inconsueto o ogni elemento che impedisca loro di
assolvere completamente alla loro funzione di donne, può
renderle sospette: per esempio la sterilità, la sfacciataggine,
le visite inspiegate... i mendicanti [in quanto stranieri o comunque emarginati dalla comunità] sono generalmente
sospetti e devono proprio a questo sentimento molti dei
loro guadagni. L’usanza di donare a un ospite un oggetto
che egli ammira è molto probabilmente connessa in origine
con il malocchio51.
Questa concezione che tende a personificare e
personalizzare la sventura è evidente, inoltre, in un
altro originale istituto culturale proprio della cultura
meridionale del Settecento, avente una sua letteratura
e credenze specifiche, quale la jettatura, oggetto di
uno studio famoso di De Martino.
La collera
La collera, come già si è potuto osservare, è un
impulso che va sempre controllato e in qualunque
ambito tribale o di società più complesse uno dei
compiti importanti degli anziani è sempre stato
quello di limitare tutte le pulsioni violente all’interno
della comunità ed eventualmente di rivolgerle deliberatamente all’esterno.
La morte, come si è visto, provoca in molte società
sentimenti di dolore e insieme di rabbia che a loro
volta fanno emergere tensioni e angosce all’interno
51
Spooner, B., op. cit., pp. 382-384.
139
L’espressione obbligatoria dei sentimenti
della comunità. Secondo i Bijagó, “in quel tempo antico nel quale gli uomini non avevano la legge, quando moriva qualcuno la rabbia, che nasceva dal dolore
non controllato, veniva sfogata in omicidi e atti di
violenza tra famiglie, che davano origine a lunghissime faide. Oggi invece le cose non stanno più così: con
la legge non si può uccidere quando si ha desiderio di
farlo”.Ciò nonostante, i giorni immediatamente successivi alla morte sono carichi di ostilità, inquietudini,
risentimenti e sospetti. Spesso, nonostante tutte le
regole e il biasimo morale, mi è capitato di assistere a
cerimonie di divinazione e rituali di interrogazione
del morto, che si sono trasformati in violenti litigi”52.
Già Ruth Benedict aveva parlato del sentimento di
collera come di una compensazione attuata mettendo
in lutto un’altra famiglia e poi Durkheim aveva sottolineato come presso i Kurnai dell’Australia i parenti
del defunto provassero un sentimento complesso e
confuso di dolore e insieme collera così che sentivano
il bisogno di vendicare questa morte magari pensando
di andare ad uccidere dei nemici. Per tali motivi, il
dolore può essere considerato il sentimento più difficile da affrontare sia per l’individuo sia per il gruppo
e sempre per questi motivi, “in numerose culture africane l’espressione della collera è vietata e non si manifesta mai. Se però traspare, essa è associata
all’immaturità, alla stregoneria. La chiacchiera è il
solo modo di disattivare un conflitto”53. Allo stesso
modo, presso gli eschimesi Utka, la collera sembra
non esistere nella vita quotidiana. “Non soltanto essi
non la esprimono, ma non la provano, e non dispongono di alcun termine per nominarla. Delle circostanze che nelle nostre società la provocherebbero,
non suscitano alcuna battuta di quest’ordine. Nessun
termine del lessico utka evoca neppure lontanamente
un equivalente della collera. Questa attitudine è tuttavia ben percepita tra i bambini o presso gli stranieri,
52
53
140
Pussetti, C., op. cit., pp. 171-172.
Le Breton, D., op. cit., p. 132.
L’espressione obbligatoria dei sentimenti
e uno stesso termine la qualifica come infantile”54. La
collera, però, può anche esprimere sentimenti relativi
al senso di pericolo per la nostra sopravvivenza.
L’antropologo Henry fa considerazioni molto interessanti per comprendere a fondo questo collegamento piuttosto diffuso tra emozioni apparentemente
diverse quali la collera e la paura attraverso la narrazione di questo evento presso i Kaingang del Brasile
Quando Patkle morì, Kangdadn eresse per lui una pira e
tentò di bruciarlo, ma Patkle cadde giù dalla pira quando il
fuoco aveva solo consumato i suoi piedi e le sue mani, mostrando così di possedere una pericolosità sovrannaturale e
di costituire una terribile minaccia per chiunque. A causa di
ciò, prosegue la storia, “essi [i suoi parenti] si arrabbiarono e
se ne andarono. Quattro giorni dopo, andai a seppellire le
sue ossa [è l’informatore che parla]. I parenti lo temevano e
per questa ragione se n’erano andati. Patkle era vai
[pericoloso in senso soprannaturale] per loro e potevano
morire. Aveva mostrato loro che stavano per morire proprio lì. Per questo era caduto in direzione del posto in cui
essi stavano per morire. Perciò essi si arrabbiarono. “Per noi
è pericoloso (vai)”, dissero”... Quindi la paura-rabbia è
un’emozione dall’aspetto duplice e la stessa espressione
‘essere arrabbiato’ significa anche ‘essere pericoloso nei tuoi
confronti’. Come sottolinea Henry, “i congiurati in un
complotto omicida non dicono ‘uccidiamoli’, ma
‘adiriamoci con loro’. Quando Thuli chiede a suo suocero
di ‘essere in collera’, gli sta chiedendo di commettere un
omicidio... Se dite ad A “sono in collera con te”, la sua reazione non è di contrizione o di pentimento o qualche altra
sorta di sentimento negativo verso se stesso, ma di rabbia.
Questo avviene perché, anche se costui può sapere che voi
non avete alcuna intenzione di nuocere fisicamente, un’aura
di pericolo circonda la collera e il pericolo genera paura la
quale, a sua volta, porta con sé l’ira55.
Inoltre, sono molto interessanti le riflessioni della
Pussetti, quando rileva che i principi etici che guidano il comportamento sottolineano la necessità di
inibire la manifestazione di n’atribá negativi quali
54
55
Le Breton, D., op. cit., p. 130.
Henry, J., op. cit., pp. 24-30.
141
L’espressione obbligatoria dei sentimenti
‘collera’ o ‘gelosia’: è meglio essere d’accordo piuttosto che in disaccordo quando si parla con qualcuno,
anche se il consenso raggiunto è solo superficiale.
Nella psicologia bijagó, dunque, non è tanto pericoloso per la salute e per le relazioni sociali reprimere le
proprie emozioni quanto piuttosto esprimerle apertamente: “se si provano n’atribá pericolosi è sempre
meglio non manifestarli, mi suggerisce Tcharte, per
non apparire ridicoli e non avere problemi di salute e
con la gente del villaggio”. In particolare la ‘collera’ va
sempre controllata: non è bene farsi vedere arrabbiati
con qualcuno al villaggio, si diventa infatti il capro
espiatorio per qualsiasi cosa capiti a lui o alla sua famiglia. La strategia più solidamente adottata è agire
in modo indiretto, attraverso sortilegi, incantesimi o
pozioni mortali. L’arte dei veleni è infatti molto diffusa in tutto l’arcipelago ... Per questo una delle prime
regole di sopravvivenza nelle isole è non bere mai senza che prima abbia bevuto il tuo ospite e comunque
prestare sempre attenzione ai suoi movimenti nel passaggio del bicchiere. Come è il caso delle accuse di
‘stregoneria’, che vengono spesso utilizzate per mantenere ai margini certi settori della collettività, anche
lo spettro dell’avvelenamento è un linguaggio velato
del potere, che per un verso ha una grande efficacia
normativa e di controllo, per l’altro rivela i contrasti
politici tra villaggi o gruppi di individui. D’altra parte
... [la collera e l’aggressività] se ben diretti e padroneggiati, sono n’atribá che hanno anche un valore
positivo, per esempio qualora si debba difendere il
villaggio. Ciò che è pericoloso è non saperli gestire,
come quando si accende un fuoco per cuocere la carne e, non sapendolo dominare, si finisce per dar fuoco
alla casa o al villaggio”, come sostengono gli indigeni
con un’espressione proverbiale molto diffusa56.
Anche in società fortemente competitive e nelle
quali vige il diritto del più forte, come quella somala
in cui c’è una continua oscillazione tra guerra e paci56
142
Pussetti, C., op. cit., pp. 92-93.
L’espressione obbligatoria dei sentimenti
ficazione, le dispute all’interno del clan o dei lignaggi
vengono rapidamente conciliate in quanto minacciano gli interessi comuni legati per esempio allo sfruttamento di una sorgente d’acqua o all’accesso al pascolo ed intaccano il sistema di solidarietà del lignaggio. Lewis racconta a questo proposito un caso di disputa interessante
Un noto anziano ... litigò con un figlio avuto dalla sua prima moglie... l’anziano aveva la schiena dolorante ed aveva
chiesto alla prima moglie se poteva dargli da bere un po’ di
ghi come medicina. Lei aveva risposto di non averne. Poi il
marito le aveva chiesto se poteva uccidere per lui una pecora
del gregge di lei. La moglie aveva risposto acidamente, consigliandolo di andarsene a comprare una. Il marito aveva
perso le staffe ed aveva chiesto al figlio della donna ... di
dargli un po’ di ghi. Il giovane aveva risposto che avrebbe
visto cosa si poteva fare. A quel punto, la madre era andata
dal marito dichiarandogli che non gli sarebbe stato dato il
suo ghi e che la pecora se la sarebbe dovuta comprare. Lo
rimproverava di trascurarla, favorendo la sua moglie nuova.
“Non hai bisogno di noi, non hai bisogno dei nostri animali” – aveva urlato rabbiosamente. Poi si era lanciata in
una lunga invettiva contro il marito ... il marito aveva afferrato un bastone e aveva cominciato a batterla. Il figlio, che
aveva una ventina d’anni, aveva perso le staffe anche lui, ma
saggiamente aveva preferito andarsene via. Erano accorsi dei
parenti stretti del marito, che lo avevano afferrato cercando
di impedirgli di colpire la moglie. Alla fine, la coppia era
stata separata e l’uomo se n’era tornato al lavoro nei campi.
La sera, rientrato nella capanna della moglie ultima, l’uomo
avvampò di nuovo d’ira. Afferrò un lungo coltello e andò
nello stazzo della prima moglie. Uccise una grossa pecora di
quattro anni, minacciando di ucciderne altre. Ma giunsero
dei suoi parenti, che gli impedirono di fare altri danni... il
mattino successivo, gli anziani ... si dedicarono all’esame di
quella che tutti ritenevano una gravissima violazione della
tranquillità collettiva. Alla discussione parteciparono parecchi uomini che si trovavano in luogo per motivi non inerenti al caso... il procedimento si svolse tutto in modo abbastanza informale. Non ci fu alcuna dichiarazione formale di
giudizio contro l’uomo o il figlio, e nessuno dei due contestò di essersi comportato male. Tutti diedero per certo che i
fatti si erano svolti nel modo che io ho riferito e non furono
143
L’espressione obbligatoria dei sentimenti
citati testimoni. In effetti, gli anziani si limitarono ad ammonire padre e figlio, e quasi tutti i presenti condannarono
il loro comportamento. Era chiaro che la preoccupazione
prioritaria di tutti era quella di riconciliare i due uomini e le
due co-mogli57.
Infine, anche la collera può essere trasformata in
elemento positivo, tanto da diventare un segno di
maturità: solo chi la prova, infatti, dimostra di aver
superato la fase infantile e di essere inserito a pieno
titolo nella vita sociale. Essa, quindi, è utilizzata a
vantaggio della comunità e vissuta senza conflitti e
paure, come tra gli Ilongot delle Filippine. In una nota ricerca di Rosaldo, è stato mostrato il carattere
specificamente culturale del liget, una emozione che
si avvicina alla collera degli europei, ma è differente
nei modi di scatenamento e di espressione. “Liget ... è
un termine associato al caos, alla separazione, al disordine, alla fuoriuscita di una forma affettiva non
controllata dall’individuo, una “collera” che nasce
dalla rabbia o dal successo di un altro. Un tale stato,
però, viene connotato positivamente perché conferisce potenza al cacciatore, esso rappresenta una via
d’entrata simbolica nell’età adulta. Bisogna averla vissuta per avere il diritto di sposarsi e assumere le proprie responsabilità di adulto... “sono carico di liget
quando caccio”, dice un uomo, perché non temo la
foresta” ... liget orientato su un oggetto desiderabile
supera la diffidenza e l’irritazione che è all’origine... lo
stesso termine vernacolare ingloba ciò che, ai nostri
occhi, dipenderebbe da esperienze diverse come
quelle della collera e dell’invidia”58.
57
Lewis, I.M., Una democrazia pastorale Modo di produzione
pastorale e relazioni politiche tra i Somali settentrionali del Corno
d’Africa, F. Angeli, Milano, 1983, pp. 269-271.
58
Le Breton, D., op. cit., p. 129.
144
Da una mancanza di
comunicazione ad una categoria:
il silenzio
Nelle società occidentali, la Parola rappresenta il
veicolo simbolico per eccellenza della Ragione, mito
fondamentale delle culture contemporanee: giornali,
libri, televisione, radio, e mail, telefonini ci inondano
continuamente in modo diverso di parole; siamo circondati dalle parole e quasi loro prigionieri. La nostra
è stata più volte soprannominata la ‘società della
chiacchiera’ nella quale non solo non viene riconosciuto il valore sacro della parola, ma colui o colei che
ha una comunicazione scarna mette imbarazzo. Il silenzio crea tensione e impaurisce.
Tuttavia anche l’assenza apparente di comunicazione è un modo di espressione che viene scelto da
molte società ed è legato al concetto di parola come di
un atto creatore, quindi estremamente potente e pericoloso. Il silenzio implica, pertanto, un altro modo
di vedere il mondo, essenziale e non gestito dalla ragione. Esso ha una forte rilevanza nella gestione delle
emozioni ed è un altro elemento fondamentale che
qualifica la morte e che, per tale motivo, viene elaborato in tanti modi dalle società etnologiche. Sono, infatti, numerose le culture nelle quali vige il silenzio sui
morti che può essere espresso, per esempio, in forma
di tabu. Ne aveva già parlato, tra gli altri, Frazer nelle
sue opere, ma senz’altro un caso particolarmente indicativo riguarda il popolo nomade dei Rom e in
particolare i Ma\nuš del Massiccio Centrale francese.
Nei mesi successivi alla morte, i parenti stretti non
pronunciano il nome del defunto e cessano di parlare
di lui. Durante il tempo del lutto e talvolta per tutta
la vita, per rispetto nei confronti del defunto, essi cessano di consumare ciò che al morto piaceva: “Si smet145
L’espressione obbligatoria dei sentimenti
te di mangiare o di bere quello che il morto preferiva,
ma si può anche smettere di cantare la canzone che
egli aveva l’abitudine di cantare nelle feste, di raccontare le sue storie favorite, di ascoltare le musiche che
gli piacevano, di frequentare i luoghi in cui andava a
divertirsi ... oppure si può rinunciare a quella che era
la sua attività prediletta (la pesca alla trota, il gioco a
carte della belote...) ... la rinuncia a un certo cibo o a
una certa attività non è accompagnata da nessuna dichiarazione. Non si dice niente. Ognuno sceglie e rispetta le proibizioni che si è scelto e non ne deve parlare con nessuno. Non ho mai sentito nessuno rifiutare un certo piatto o un bicchiere spiegando che era
‘per rispetto’ per il tale defunto”1.
Il rispetto nei confronti del morto non permette
di fare domande o di commentare i propri atti cosicché tutti si osservano continuamente, ma questo silenzio sembra quasi rafforzare la comunicazione tra i
vivi, come in questo racconto: “una sera, un giovane,
Pope, litiga con un uomo maturo, Xitâri, che ha la
reputazione di essere particolarmente vendicativo. Il
tono sale, minacce, ed ecco Pope che salta nella sua
roulotte e ne ridiscende armato di un fucile. Xitâri
esita un istante, smette di sbraitare, si crede che vada a
gettarsi sul suo avversario, poi bruscamente si rigira e
si allontana; la disputa è finita. L’indomani, Xitâri mi
spiega che il fucile era ... “un fucile di un morto”,
quello del padre di Pope deceduto due anni prima;
non ha voluto insultare il fucile di un morto. Certo, è
solo a me che lo spiega, tutti gli altri hanno capito
perché si era tirato indietro – possedevano tutto il
contesto –, nessuno può pensare che Xitâri abbia
avuto paura di affrontare Pope”2.
Il silenzio può essere inteso, inoltre, come una
strategia estrema per tenere a bada i sentimenti o anche un modo in cui esprimere con forza ciò che le parole non possono comunicare, per esempio la pro1
Williams, P., Noi, non ne parliamo. I vivi e i morti tra i
Mânuð, CISU, Roma, 1997, p. 10.
2
Williams, P., op. cit., p. 26.
146
L’espressione obbligatoria dei sentimenti
fondità di un dolore o di una gioia. Questa scelta è
possibile in tutte quelle società che hanno privilegiato
il potere dell’affetto rispetto a quello della ragione.
Per esempio, in uno studio socio-antropologico di
grande acutezza e profondità sulla Corsica, Giudici
sostiene che in questa società il concetto di philos greco è essenziale per comprendere i meccanismi profondi dell’agire corso, ma anche delle società del Mediterraneo in genere. Qui il primato dell’istanza affettiva si impone a uomini e divinità nel senso che il
sistema di parentela è al contempo regola di vita in
comunità e senso della vita sociale. Il rapporto affettivo non è mai affare privato, ma centro attorno al
quale gravita la comunità, “la sua memoria, il suo
fondamento, il suo tesoro”3. Affetto e solidarietà di
clan sono le forze che cementano la vita dei gruppi e
la sopravvalutazione dei rapporti familiari imprigiona
l’individuo con i suoi divieti e con le emozioni che
diventano regole di comportamento. La filosofia dell’Illuminismo e la conseguente distinzione tra civile,
quindi pubblico, e privato non fanno parte della concezione di queste comunità le quali, invece, riconoscono valore solo alle solidarietà di clan. Questo
mondo, però, presuppone la valorizzazione del silenzio, del buon comportamento sociale come quello
dettato dalla morale dell’onore – anch’essa silenziosa,
‘idea muta’. Del resto, come afferma Giudici, “l’ossessione dell’onorabilità è la costante più ambigua del
mezzogiorno” ed è una chiave fondamentale per
comprendere soprattutto i silenzi e i segreti che circondano questo sistema di vita il quale non riconosce
il potere contrattuale, laico e della libera circolazione
delle idee e dei beni proprio delle società capitalistiche4.
Così, in molte culture, parlare è un atto che va
compiuto con prudenza e circospezione, in modo
parsimonioso, senza mai abbandonarsi alla collera,
3
Giudici, N., Le crépuscule des Corses Clientélisme, identité et
vendetta, Grasset, Paris, 1997, p. 204.
4
Cfr. Giudici, N., op. cit., p. 170.
147
L’espressione obbligatoria dei sentimenti
sentimento che comporta un uso eccessivo della parola. Per un Tuareg, per esempio, le espressioni ‘portare
il velo’ e parlare in modo misurato esprimono lo stesso concetto: per un uomo adulto, il velo serve a sottolineare la sobrietà nell’espressione, la misura ed essere
uomini significa appunto avere un contegno e un
comportamento sempre controllato.
E allo stesso modo, secondo uno studio molto interessante di Larsen sulla cultura della Norvegia, il
norvegese non è homo ludens ed è fortemente antiritualista tanto che per lui dire ‘buongiorno’ non ha
alcun significato. Egli è abituato a parlare pochissimo
e a scambiare solo le parole necessarie. Così anche
confessare di amare un altro diventa cosa molto difficile e tutte le parole e le situazioni riguardanti le
manifestazioni d’affetto sono percepite come ambigue. In questo saggio, per esempio, si racconta come,
dopo una discussione tra padre e figlia su un paio di
scarpe, il padre cerca di calmarsi tagliando legna mentre la figlia, colta dai rimorsi, porta bracciate di legna
senza parlare, lava il pavimento e poi va a dormire
sempre in silenzio. Il padre rimane seduto accanto al
camino e si commuove perché lei, con questi suoi atti,
le aveva manifestato tutto il suo affetto. L’autore ricorda anche un episodio relativo alla vita di due
grandi attori, Liv Ullman e il marito Max von Sidow.
Durante un film, l’attrice si ammala e così è costretta
a letto. Il marito le è accanto e ad un certo punto le
accarezza i capelli. Per giustificare questo gesto affettuoso, le dice: “siamo buoni amici noi”. Non ‘ti amo’
o ‘mi dispiace che tu stia male’, ma semplicemente
una frase più neutra e meno imbarazzante5.
Quando si hanno forti emozioni, del resto, la regola è quasi sempre quella del silenzio poiché la parola
non riesce ad esprimere in pieno ciò che si prova.
Tra i Pomak dellaTracia greca, il silenzio è l’elemento fondamentale della vita quotidiana ed è ciò
5
Cfr. Larsen, T., “Des paysans en ville”, in Klausen, A.M.
(sous la dir.), Le savoir-être norvégien Regards anthropologiques sur
la culture norvegienne, L’Harmattan, Paris, 1991, p. 63 sgg.
148
L’espressione obbligatoria dei sentimenti
che colpisce in particolare il visitatore giacché è quasi
assoluto6. Nei momenti importanti, come il matrimonio o la morte, ma anche nella vita quotidiana esso
domina incontrastato: nel caffè, per esempio, gli
uomini seduti qualche volta parlano a voce bassa al
loro vicino, ma spesso hanno una espressione sonnolenta. Tutte le pratiche funebri, dal lavaggio alla sepoltura, si fanno in silenzio e non si ode alcun lamento né tra i giovani né tra gli adulti. Certamente si
piange, ma le lacrime sono sempre silenziose. E poiché il diritto islamico vieta alle donne di partecipare
alla sepoltura, esse danno l’addio al morto sulla soglia
di casa sempre in silenzio. Solo nei momenti di crisi o
di emergenza il silenzio viene spezzato, come nel caso
dell’apparizione di un serpente, e allora viene invocato il genio perché possa fungere da protettore. Insomma, il silenzio costituisce un vero e proprio ordine culturale tanto che solamente coloro i quali vengono ritenuti non pienamente inseriti nella comunità, come i folli, gli stranieri, i giovani, gli anormali
come i posseduti, non sono silenziosi e allo stesso
modo la voce e il rumore sono segni di disordine.
Ora, se si ritiene che la parola sia il mezzo d’espressione migliore della ragione, in questa società ciò che,
invece, domina è lo sguardo, quindi un sistema che si
basa sull’affetto e i sentimenti. E anche qui i racconti,
le leggende, cioè la cosiddetta tradizione orale diventa
un pilastro nella costruzione dell’immaginario anche
perché essa è uno dei pochi modi in cui si possono
esprimere i sentimenti individuali.
Allo stesso modo in Giappone, il silenzio rimane
la modalità più importante di espressione, come si
legge in questo racconto
Ricordo quando, durante l’ultima guerra con la Cina, un
reggimento lasciò una certa città e una gran folla di gente
invase la stazione per salutare il generale della sua armata. In
6
Cfr. Tsibiridou, F., Les Pomak dans la Thrace grecque Discours ethnique et pratiques socioculturelles, L’Harmattan, Paris,
2000, pp. 211 sgg.
149
L’espressione obbligatoria dei sentimenti
quell’occasione un americano residente in Giappone si recò
sul posto, aspettandosi di essere il testimone di grandi dimostrazioni d’affetto, dal momento che la nazione intera
era coinvolta nella guerra incombente e c’erano padri, madri, mogli e fidanzate dei soldati tra la folla. L’americano
rimase deluso: quando il treno cominciò a muoversi, migliaia di persone si tolsero silenziosamente il cappello, e le
loro teste si abbassarono in un reverente addio; non ci fu
alcuno sventolare di fazzoletti, non venne pronunciata alcuna parola; ci fu solo un profondo silenzio7.
E così anche presso gli eschimesi, una donna non
deve mai mostrare le sue emozioni, soprattutto verso
un uomo che non appartiene alla propria tribu. Ecco
come una donna Inuit racconta l’abbandono della
propria casa e i due trasferimenti in un altro paese
senza un gesto di addio, senza uno sguardo al villaggio e ai
suoi abitanti che ci avevano lungamente osservato, ci siamo
diretti verso il Nord addentrandoci nella tundra ancora ricoperta di neve e di ghiaccio... l’indifferenza delle persone
alla nostra partenza era uguale alla nostra. Per gli Inuit,
spesso l’espressione dei sentimenti non è visibile, sono i gesti che rivelano le emozioni.... Il giorno della mia partenza
fu molto commovente. Tutti gli abitanti erano venuti sulla
scogliera circostante la piccola baia per salutarmi. Questi
uomini e queste donne che conducono una vita dura non
hanno per abitudine quella di esprimere i loro sentimenti.
Era in silenzio dunque che essi mi guardavano partire. La
loro sola presenza testimoniava che erano stati segnati da
ciò che era passato, e in fin dei conti, si dispiacevano di vedermi partire. Anch’io, come loro, dissimulavo la mia emozione. Molto tristemente, mi imbarcai sulla piccola zattera
che doveva condurmi a bordo del grande battello. Non potei impedirmi di abbozzare un gesto di arrivederci a tutti,
sapendo bene che questo genere di manifestazione non appartiene al nostro popolo. Gesto al quale rispose fortemente
con brevi parole l’uomo più anziano [non a caso risponde
solo il più anziano] del villaggio: “niente sarà più come prima!”8
7
Nitobe, I., op. cit., pp. 68-69.
Pouget, D., L’esprit de l’ours Croyances et magie inuit,
Présence Image, s.l., 2004, pp. 153-154.
8
150
L’espressione obbligatoria dei sentimenti
Anche presso i Rom, la modalità del silenzio rimane una costante nell’espressione quotidiana delle
emozioni, come sostiene Williams: “È vero che i
Ma\nuš appaiono molto laconici. Il pudore (i lací, la
“vergogna”) è tra di loro un valore sociale cardinale.
Esprimere i propri sentimenti è una cosa che non si
fa. Se si vuole interrompere uno scambio (non solo
tra Ma\nuš e Gage [non zingari]), il mezzo migliore è
quello di mettersi a far domande. La risposta allora ...
è ... la scomparsa dell’interlocutore... Il silenzio ... è ciò
che lega i Ma\nuš tra loro. Quando ci si separa, non ci
si dice arrivederci, ci si dice – e la formula è divenuta
così abituale che appare equivalente a una formula di
congedo – ... “ci diciamo niente”9.
Emblematico, infine, del silenzio come di un elemento che ha in sé una forte tensione spirituale è
questo emozionante racconto di Carmelo Bene
A Mosca, Carmelo Bene arriva per uno spettacolo teatrale
ed è accolto dalla stampa come lo ‘zar del teatro italiano’.
Così egli racconta la sua esperienza: “alla ‘prima’, ma anche
nelle repliche successive, non volava una mosca a teatro. Si
chiude il sipario nel silenzio assoluto. Sembrava un cimitero. Penso a un ‘fiasco’ straordinario, una sorta di choc collettivo. Trascorsi parecchi minuti, mi raggiunge Shadrin [il
sovrintendente del teatro] in camerino. Mi abbraccia commosso, raggiante. “Un trionfo!” Quel silenzio raggelante
testimoniava l’apoteosi. “Devo ringraziare, allora?” “Un vero zar non s’inchina mai”, mi esime Shadrin. Sbircio dal
sipario chiuso. Qualcuno in platea è genuflesso su un solo
ginocchio, come in preghiera ... La sera della terza recita,
presente l’elite culturale moscovita, alcuni poeti chiedono
di vedermi ... torno in camerino. Mi avvisano che era il caso
di mostrarsi ancora, sorta di bis urlati da tanto silenzio10.
9
Williams, P., op. cit., pp. 77-78.
Bene C., Dotto, G., Vita di Carmelo Bene, Bompiani, Milano, 1998, pp. 380-381.
10
151
Infine...
Insomma, perché si piange, si ride, si scherza, ci si
arrabbia, si ha paura?
In fondo, la risposta degli studiosi è molto semplice: ciò succede soltanto perché pensiamo, e questo ci
permette di percepire il mondo e di valutarne gli
eventi.
Che cos’è dunque un’emozione? È semplicemente
una maniera di essere nel mondo, un modo di dare un
senso e di agire nel mondo. Come sostiene Michelle
Rosaldo, l’emozione è un ‘pensiero incorporato’, situato in quella zona di confine tra individuo, corpo e
società. “Parlare di emozioni significa dunque discutere questioni che hanno a che fare con il potere, la
politica, la parentela, i cambiamenti storici, le differenze di genere, i concetti di normalità e devianza.
Significa anche ... studiare “il modo in cui le persone
concettualizzano, orientano e discutono i processi
mentali e i comportamenti propri e altrui”1.
1
Pussetti, C., op. cit., pp. 48-51.
153
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finito di stampare
nel mese di luglio 2007
presso la LITOGRAFIA SOLARI
Peschiera Borromeo (MI)
Pubblicazioni dell’I.S.U. Università Cattolica
http://www.unicatt.it/librario
ISBN: 978-88-8311-519-6