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Appunti lezione 14 ottobre 2013: i metodi di recitazione
Konstantin Sergeevic Stanislavskij: Anche in Russia, fino dagli ultimi decenni dell’Ottocento,
prende corpo l’esigenza di uno spettacolo che nei suoi molteplici elementi, dalla scenografia alla
musica, dall’illuminazione alla recitazione, risponda ai caratteri e alle esigenze del testo
rappresentato.
Alla mancanza di professionalità, al limitato numero di prove, all’incontrollata tendenza degli attori
a proporre una recitazione enfatica e eccessiva, all’uso di scenografie raffazzonate e logore e a un
repertorio drammaturgico ormai antiquato, si oppongono per primi Konstantin Sergeevic
Stanislavskij (1863-1938) e Vladimir Nemirovic-Dàncenko (1858-1943), i quali, constatate le
condizioni di arretratezza in cui versa la scena russa, costituiscono a Mosca il Teatro d’Arte,
inaugurandolo nel 1898.
Desiderosi di riformare il teatro, Stanislavskij e Dàncenko si occupano sia dell’aspetto artistico,
sia di quello organizzativo, il primo concentrando la sua attenzione sulla recitazione e sui problemi
della regia, in veste di attore e direttore delle produzioni, il secondo operando soprattutto come
drammaturgo e consulente letterario.
Il punto di riferimento nazionale sul cui magistero si fonda Stanislavskij è l’attore Michail Scepkin,
impegnato nel corso della sua carriera a introdurre nella prassi attorica coeva un approccio più
realistico al personaggio, raggiungibile mediante un processo di immedesimazione conforme a una
concezione alta, quasi religiosa, della funzione sociale del teatro.
Solo in un secondo momento, Stanislavskij manifesterà l’intenzione di superare i limiti dell’estremo
rigore realistico per inoltrarsi nei meandri della psicologia e dell’interiorità dell’individuo.
Il programma operativo di Stanislavskij e Dàncenko consiste anzitutto nel mantenere una rigida
disciplina fra gli attori ammessi a fare parte della compagnia al fine di creare un gruppo artistico
omogeneo.
In tale compagine attorale, composta da una quarantina di elementi, si provvede all’abolizione dei
ruoli, ora sostituiti da un criterio di rotazione, e all’instaurazione di una pratica di allestimento degli
spettacoli fondata sul rigore e su un’insolita attenzione per i dettagli realistici.
L’attore, tenuto lontano dalla buca del suggeritore, si muove con naturalezza, recitando anche
con le spalle rivolte alla platea, all’interno di uno spettacolo orchestrato collegialmente dal lavoro
del regista, dello scenografo, del drammaturgo e degli stessi interpreti.
I primi allestimenti sono accolti dal pubblico con entusiasmo, ma la consacrazione della formazione
teatrale moscovita avviene nel 1898 con la rappresentazione del Gabbiano di Cechov (vedi e studia
le pagine dedicate a cechov sul MANUALE), in cui la regia di Stanislavskij esalta la più autentica
dimensione psicologica dei rapporti fra i personaggi.
Con Čechov, Stanislavskij muove dal realismo esteriore verso quello più interiore, capace di
evocare le atmosfere di cui si nutre la pagina del grande drammaturgo, costruita non più su una
solida azione esteriore, bensì sulla captazione degli stati d’animo più profondi, mai espressamente
dichiarati, dei personaggi.
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Negli anni che seguono, il Teatro d’Arte diviene un’istituzione nazionale, con una compagnia
stabile costituita da oltre trecento persone, fra attori e tecnici, e affiancata da una scuola d’arte
drammatica destinata a sviluppare le capacità espressive degli interpreti.
Producendo lavori di grande interesse, mettendo in scena le opere dei più importanti drammaturghi
internazionali, compiendo numerose tournées all’estero, in particolare negli Stati Uniti (19221924), e avvalendosi della collaborazione di personalità artistiche del rilievo di Craig e
Mejerchol’d, Stanislavskij, nel corso della sua carriera, ha modo di mettere a punto un metodo di
recitazione.
IL METODO DI RECITAZIONE
Pur essendo scaturito dalla prassi quotidiana di palcoscenico e non discendendo da una
formulazione a priori, trova nei di lui scritti – La mia vita nell’arte (1924) e, principalmente, Il
lavoro dell’attore su se stesso (1936) e Il lavoro dell’attore sul personaggio, (edito postumo) nel
1961 – un’ampia e dettagliata trattazione teorica.
Al fine di sviluppare le proprie capacità artistiche e creative, gli interpreti devono superare –
secondo Stanislavskij – il semplice processo imitativo, facendo riferimento costante alla propria
personalità.
Attraverso un metodo fondato sulla psicotecnica, oltre che sulla conoscenza delle tradizionali
norme della recitazione, dunque, l’attore deve cercare entro se stesso, nel profondo dell’animo e
della sua esperienza biografica, la molla per dare vita ai personaggi, secondo un atto di procreazione.
Partendo dalla conoscenza del proprio io privato, l’attore deve giungere a sviluppare l’io creativo
che, a sua volta, produca l’io personaggio.
Ciò può avvenire solo a patto che l’attore riesca a delimitare sulla scena, carica di elementi
fuorvianti (pubblico, tecnici, macchinari), un proprio spazio interiore che gli consenta di esperire la
«solitudine in pubblico» e di concentrarsi sul proprio lavoro.
La piena identificazione con un personaggio non conduce a recitare, bensì a vivere la parte,
cosicché l’espressione mimica e gestuale dell’interprete si rivelerà vera e credibile, manifestazione
di emozioni interiori da lui provate in prima persona.
Per Stanislavskij il concetto di verità è essenziale. L’attore non deve recitare bene o male, ma vero.
La sua verità è interiore, vissuta e sofferta. Per questo non si può partire né dalla finzione né
dall’imitazione. L’attore non deve sembrare o fingere, ma essere il personaggio, deve cioè viverlo.
Non si tratta di ricopiare la vita reale; non è un eccesso di naturalismo come potrebbe sembrare e
come viene alimentato dai luoghi comuni sul metodo Stanislavskij.
Lo scopo è sempre quello di una creazione organica, efficace, credibile e più vera della realtà. La
situazione dell’attore è difficile: deve essere vero, mentre tutto è falso intorno a lui (scene, costumi,
trucco, luci, pubblico). Nonostante tutto deve creare la sua verità e crederci fino in fondo.
Il testo drammaturgico dato (t), dopo avere sollecitato l’attività immaginativa dell’attore (i), deve
essere, per dir così, congelato.
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Dall’attività immaginativa, prima particolare (ip), e, in un secondo tempo, generale (ig), ossia
proiettata verso l’esterno, nasce il sottotesto (st), vale a dire ciò che si può supporre stia prima e
dopo la vita scenica del personaggio stesso illustrata dal testo, che comprende e motiva il vissuto
all’origine della parola scritta.
Per ricostruire la vita del personaggio, l’attore dovrà, dunque, ripercorrere il processo che
l’autore ha seguito per crearlo e utilizzare la propria memoria emotiva, stabilendo analogie tra la
sua personale sensibilità e quella del personaggio entro un continuo scambio vitale.
Per imprimere vita al personaggio l’attore deve QUINDI sempre partire da sé stesso, per non
recitare dall’esterno la parte e ricorre quindi alla memoria emotiva, che è l’aspetto fondamentale
del metodo Stanislavskij.
Per esprimere emozioni che appartengono ad un’altra persona (il personaggio) l’attore deve trovare
dei punti di contatto tra la sua vita e quella del personaggio. Deve cioè andare a ritroso e ricercare
quei momenti della sua vita che hanno provocato sentimenti analoghi a quelli del personaggio. La
vita reale dell’attore viene innestata in quella fantastica del personaggio che assumerà quindi
l’apparenza di una vita vissuta.
Naturalmente l’esperienza non può essere la stessa, l’importante è che si ponga in un rapporto di
analogia tale da provocare simili emozioni. Il personaggio sarà così dotato di esperienze realmente
vissute. Per fare ciò, il metodo Stanislavskij fornisce all’attore due strumenti fondamentali per
creare questa verità: le circostanze date e il magico sé.
Le circostanze date sono l’insieme dei fatti e delle situazioni che si possono ricostruire a partire dal
testo e riguardano l’epoca, l’ambientazione, il passato e il futuro del personaggio. Si tratta cioè di
ricostruite nei minimi dettagli la vita del personaggio, anche ciò che non viene detto nel testo.
Una volta ricostruito questo sottotesto (st) l’attore ricorre al magico sé: L’attore deve mettere se
stesso nei panni del personaggio e farsi la domanda “Se io mi trovassi nelle sue condizioni, come mi
comporterei?”.
Partire da sé stessi è anche un’accettazione di certi limiti: nessuno può fare di più di ciò che è,
quindi è sbagliato partire da ciò che non si è. Ma attenzione ancora! Il proprio io non è un punto di
arrivo ma un punto di partenza.
Non si tratta di riversare se stessi nel personaggio. È solo l’inizio di un lungo percorso che serve
alla creazione di un altro sé stesso.
Queste operazioni sono poi costantemente arricchite dall’immaginazione dell’attore che aggiunge
particolari e dettagli al sottotesto st che si viene man mano creando.
Il personaggio comincia così a prendere vita. L’attività immaginativa, ricadendo sul testo, si
specifica, si precisa, eliminando ciò che è inutile e che non trova verifica nel testo stesso.
Nella riattivazione tra luogo dell’immagine e luogo testuale si innesca il processo di invenzione del
sottotesto st, sul quale si fondano le ragioni interpretative dell’attore.
Solo a tale punto del processo si potrà ritornare al testo, che non sarà più estraneo ma
personalizzato, attraverso il percorso circolare
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t > i > ip > ig > st > t
Stanislavskij non esige dal suo attore una spontaneità assoluta, bensì controllata. La razionalità
deve sempre agire da stimolo e da sentinella nei confronti della sensibilità emotiva, in modo che
l’attore abbia in ogni momento un pieno controllo sulla propria creazione, e che il suo essere
razionale, in una sorta di sdoppiamento, provveda a vegliare sull’essere emotivo, che continua a
vivere e agire sulla scena, per preservarlo da eventuali errori o intervenire a correggerli.
La tecnica specifica introdotta da Stanislavskij, impegnando l’attore e il regista che lo guida in un
lavoro che va ben oltre il tempo e l’occasione della prova tradizionale fino a invadere nel
profondo la vita stessa degli artisti, comporti una rivoluzione dei modi e delle consuetudini propri
della prassi teatrale ottocentesca.
Come avverte Stanislavskij:
“L’attore può rivivere solo le sue emozioni personali [...] perciò per quanto tu reciti, devi sempre,
senza eccezione, ricorrere ai tuoi sentimenti personali. Trasgredire questa legge equivale, per
l’attore, a uccidere il personaggio, privarlo del vivo spirito umano che, solo, può dar vita a una
parte inerte.”
Nei suoi colloqui con gli attori Stanislavskij asserisce:
“Ad ogni istante passato in scena, l'attore deve vedere quello che accade fuori di lui, sul
palcoscenico, e quello che succede dentro di lui, cioè le immagini che illustrano la data circostanza
che si sta rappresentando. E' come un film che si prolunga per tutta la durata della creazione,
proiettando le circostanze illustrate dalla parte che l'interprete vive sulla scena. Per creare un film,
oltre ai "se", sono necessari molti altri interrogativi: "Quando? Come? Perché? Dove?". Questi
interrogativi aiutano l'attore a distinguere il profilo della nuova vita finora sconosciuta,
rappresentata nella parte, lo introducono nell'azione e nelle nuove emozionanti fantasie della
immaginazione. Ormai avete dimenticata la vostra personalità, e potete entrare in qualsiasi
situazione prevista dalla parte, con tanta facilità, che voi stessi non vi accorgerete che il vostro Io e i
personaggi si sono fusi nell'Io-personaggio. Tutto quanto può fare l'attore per esercitare la sua
immaginazione deve insegnargli a creare non fantasie generiche, ma materiale e immagini per un
determinato film.”
E’ facilmente comprensibile come la tecnica specifica introdotta da Stanislavskij, impegnando
l'attore e il regista che lo guida in un arduo e prolungato lavoro che va ben oltre il tempo e
l'occasione della prova tradizionale fino a invadere nel profondo la vita stessa degli artisti, comporti
una rivoluzione dei modi e delle consuetudini propri della prassi teatrale ottocentesca, destinata a
lasciare un segno profondo nella storia delle scene del mondo intero.
Trucco e parrucco. Importanza della ricostruzione della scena che deve aiutare l’attore nella
immedesimazione.
The Actors Studio: Fondato nel 1947 da Elia Kazan, Cheryl Crawford e Robert Lewis, provenienti
dal Group Theatre, improntarono gli insegnamenti basandosi sul famoso Metodo Stanislavskij,
insegnatogli negli anni trenta dal regista Richard Boleslavski, appartenente a un gruppo di emigranti
russi, facenti parte dell'American Laboratory Theatre, che sostenevano la tecnica recitativa
improntata al massimo di realismo psicologico.
Nel 1950 Lee Strasberg (1901 - 1982) ne assunse la direzione, carica che mantenne fino alla sua
morte nel 1982; divenne maestro di molti aspiranti attori, divenuti successivamente "star del
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cinema", tra cui: Anne Bancroft, Marlon Brando, James Dean, Marilyn Monroe, Paul Newman, Al
Pacino, Lauren Bacall, Robert De Niro, Meryl Streep, Steve McQueen, Nastassja Kinski e altri.
Il lavoro sull’attore guarda il video in questo sito
BRECHT
Verso la metà degli anni '20, le acquisizioni espressionistiche si preciseranno in senso sociale e
politico nel teatro epico di cui fu interprete il giovane drammaturgo Bertolt Brecht (1898-1956)
La lettura di Marx impose una trasformazione generale del suo lavoro: Brecht infatti trovò nel
marxismo un metodo scientifico con il quale poter analizzare gli oggetti che come drammaturgo gli
interessavano per poterli poi mettere in scena. Proprio in tale sede Brecht fissa schematicamente le
differenze tra il teatro drammatico tradizionale, di derivazione aristotelica, e quello moderno, o
epico.
Mentre nel primo prevale la forma attiva, nel secondo predomina quella narrativa; al
coinvolgimento emotivo e sentimentale del pubblico il teatro epico oppone quello razionale,
critico, distaccato; alla continuità logica delle azioni, disposte secondo un andamento lineare,
fanno riscontro le scene a sé stanti del teatro moderno, il salto, il brusco cambiamento; alla
tensione dell'interesse del pubblico verso lo scioglimento del finale si contrappone l'attenzione nei
confronti dello svolgimento di ciò che viene mostrato in scena, inducendo a riflettere sulla realtà.
Brecht teorizza, infatti, che “nessun aspetto della rappresentazione doveva più consentire allo
spettatore di abbandonarsi, attraverso la semplice immedesimazione, a emozioni incontrollate (e
praticamente inconcludenti)”.
Per tale via Brecht perviene alla formulazione della teoria dello straniamento. Nel termine di
straniamento (Verfremdung) si concentra tutta una serie di indicazioni per la scena e per la
recitazione in cui consiste l'oggettivazione dell'indirizzo teorico del teatro epico.
L'effetto di straniamento, perseguito nel teatro epico, consiste nel mostrare ciò che è noto in una
forma che lo renda inedito, generando sorpresa, stimolando il pubblico a porsi interrogativi.
Brecht annota: “Straniare una vicenda o un carattere di un personaggio significa in primo luogo
togliere semplicemente ai personaggi o alla vicenda qualsiasi elemento sottinteso, noto, lampante e
farne oggetto di stupore e curiosità.” Le frecce vettoriali irradiate da tale nucleo teorico vanno a
colpire tutti gli aspetti della messinscena. La recitazione straniata comporta, per l'attore, il
categorico rifiuto dell'immedesimazione e della memoria delle emozioni volute da Stanislavskij.
L'attore brechtiano, invece, deve sapere entrare e uscire dal personaggio, deve saperlo far vivere
dall’interno e, contemporaneamente, guardarlo dall'esterno, giudicandolo e immettendo
nell'interpretazione anche le proprie riserve o il consenso nei confronti delle di lui scelte. La
recitazione delle battute deve piuttosto sembrare una citazione, come cioè se si dovessero
riportare le parole di un altro anziché esprimere il proprio pensiero di personaggio in presa diretta.
Brecht suggerisce agli attori alcuni espedienti per raggiungere tale risultato, fra i quali, ad esempio,
aggiungere mentalmente prima della battuta "egli disse" e poi continuare a recitare in terza persona
e al tempo passato, oppure recitare le didascalie mentre si compie il gesto o si assume l'espressione
da esse indicata.
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Quanto alla codificazione scenica, Brecht rigetta l'illusionismo verista come pure la dimensione
onirica, metafisica e simbolica suggerita dalle avanguardie storiche.
La scenografia brechtiana, mostrandosi contemporaneamente familiare e estranea, rivela con
consapevole evidenza i propri artifizi: è costruita con strutture modificabili a vista nel corso
dell'azione e con oggetti che non leghino con l'insieme, sottolineando, per contrasto, la propria
identità. si serve, inoltre, con sobrietà, delle tecnologie, quali proiezioni filmiche o fotografiche e
registrazioni sonore, per illustrare documentariamente brani di realtà che integrino criticamente la
rappresentazione.
Cartelli, recanti il tema problematico, sono mostrati al pubblico per introdurre didascalicamente
l'episodio recitato. L'illuminazione, a alto potenziale, con proiettori a vista, sancisce il complesso
della codificazione scenografica tesa a annullare qualsiasi coinvolgimento del pubblico che non sia
di ordine razionale e critico. L'esecuzione dal vivo dei brani musicali da parte di un piccolo
ensemble di musicisti collocato in scena e la frequente frammentazione dell'intreccio in tanti episodi
in sé conclusi contribuiscono a interrompere il flusso d'attenzione degli spettatori scongiurando il
pericolo dell'immedesimazione.
L'identificazione deve essere ostacolata perché produce passività: lo spettatore deve giudicare con
distacco, confrontando l'azione scenica con la sua esperienza di vita.
L'emozione deve sussistere al solo scopo strumentale di sottolineare le contraddizioni che emergono
dalla rappresentazione. Ciò non significa che il teatro, per essere didattico e formativo, deva essere
necessariamente “noioso”: Brecht, infatti, concepisce la conoscenza come gioia del conoscere e
dell’agire.
GUARDA: il prologo del film Dogville (2003) in questo sito
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