L`interpersonal Cognitive Problem Solving

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Cognitivismo clinico (2006) 3, 2, 108-127
L’INTERPERSONAL COGNITIVE PROBLEM SOLVING (ICPS): UNO STRUMENTO DI
PREVENZIONE PRIMARIA E SECONDARIA DEI PROBLEMI DI AGGRESSIVITÀ E DI
CONDOTTA IN AMBITO SCOLASTICO
Rosario Capo*, Giuseppe Romano*, Lorenza Isola**
*Psicologo, Psicoterapeuta, Docente APC ed SPC. Equipe per l’Età Evolutiva SPC, Unità Operativa Disturbi
d’Ansia e dell’Umore, APC - SPC Roma
**A.S.T.I.A. Asl RM-E, Didatta APC, SPC, SITCC. Responsabile Equipe per l’Età Evolutiva SPC Roma
Riassunto
I disturbi di aggressività e di condotta costituiscono un problema rilevante e in crescente diffusione nel
contesto scolastico italiano. Tali disturbi sono caratterizzati da particolare scopi, bias e meccanismi cognitivi
che tendono a stabilizzarsi e cronicizzarsi con molta facilità se non vengono attuati efficaci interventi di
prevenzione. Nel presente lavoro viene descritto un protocollo strutturato di prevenzione primaria e secondaria dei disturbi di aggressività e condotta: l’ICPS - Interpersonal Cognitive Problem Solving di Shure e
Spivack (1979, 1981; Shure 1992; Ricci et al. 2003)
Parole chiave: problemi di aggressività e di condotta, abilità sociali, problem solving interpersonale, prevenzione, scuola
INTERPERSONAL COGNITIVE PROBLEM SOLVING (ICPS): A PROTOCOL OF PRIMARY
AND SECONDARY PREVENTION FOR AGGRESSION AND CONDUCT PROBLEMS IN
SCHOLASTIC CONTEXT
Summary
Aggression and conduct disorders are among the most common problems for which children are brought
for treatment, and they pose a difficult challenge for everyone involved. These problems are in growing
spread in the Italian scholastic context. At the basis of aggression and conduct disorders peculiar aims, bias
and cognitive mechanisms can be found, which tend to become stable and chronic, unless effective prevention
is done. In this work a protocol of primary and secondary prevention for aggression and conduct problems is
described. The protocol is the ICPS- Interpersonal Cognitive Problem Solving by Shure and Spivack (1979;
1981; Shure, 1992; Ricci et al. 2003).
Key Words: aggression and conduct problems, social skills, interpersonal problem solving, prevention,
school
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L’Interpersonal Cognitive Problem Solving (ICPS)
Introduzione
Un recente documento del Dipartimento della Salute e dei Servizi Umani degli Stati Uniti
(U.S. Department of Healt and Human Services, 2001) ha segnalato con urgenza l’aumento di
problemi di condotta e di aggressività in età evolutiva. Anche se nel contesto italiano non si
raggiunge la stessa gravità epidemiologica, il fenomeno dei problemi di condotta e di aggressività è in evidente aumento anche nel nostro Paese, come drammaticamente messo i luce anche dai
fatti di cronaca dell’ultimo periodo.
Tale tema è di particolare rilevanza soprattutto perché i bambini che presentano queste
difficoltà sono a rischio per lo sviluppo futuro di comportamenti violenti, problemi di salute
mentale, drop-out scolastico, abuso di sostanze, difficoltà occupazionali, problemi familiari e
di coppia nonché di mettere in atto azioni criminose in età adolescenziale e adulta (Aguilar et
al. 2000).
Per diversi autori, il fenomeno dovrebbe essere considerato una problematica di salute pubblica di uguale o maggiore rilevanza rispetto al fumo, all’abuso di droga, alle gravidanze precoci
e agli stili di vita a rischio (Bloomquist e Schnell 2002): notevoli sono, infatti, le sue ricadute nel
sociale sia dirette che indirette, considerato il costo finanziario richiesto dal trattamento e dalla
riabilitazione in tale ambito, nel contesto degli interventi di salute mentale, educativi, correttivi,
medici e di assistenza sociale.
Nel corso del lavoro verrà presentato uno strumento di prevenzione primaria e secondaria
dei problemi di aggressività e condotta: l’Interpersonal Cognitive Problem Solving (ICPS) di
Shure e Spivack (1979, 1981; Ricci et al. 2003). L’ICPS è un programma strutturati di intervento
nel contesto scolastico per la promozione delle abilità sociali e prosociali e per la riduzione della
frequenza e della gravità dei problemi di aggressività. L’efficacia del programma in oggetto è
stata confermata in numerose ricerche (per una rassegna si veda Ricci et al. 2003) ma, nonostante
questo, nel contesto italiano è scarsamente conosciuto ed utilizzato. Viene da pensare che all’interno del nostro ambito culturale ci sia la tendenza a preferire la novità e l’originalità piuttosto
che gli strumenti e le conoscenze validate e sperimentate da lunga data.
Problemi di condotta e di aggressività: esigenza di interventi precoci
I bambini che evidenziano nella prima infanzia problemi di aggressività e condotta vengono
definiti come “esordienti precoci” (Patterson et al. 1991), “persistenti lungo tutto l’arco di vita”
(Moffitt 1993) o “soggetti a esordio precoce/persistenti” (Aguilar et al. 2000), dal momento che
tali individui sviluppano comportamenti disadattivi che non di rado sono caratterizzati da
un’escalation progressiva e, soprattutto, che tendono a permanere nel tempo. Numerosi studi
longitudinali hanno documentato tale persistenza cronica dei sintomi nei soggetti con problemi di
aggressività e condotta e le modalità con le quali gli stessi possono peggiorare nell’arco di vita
(Frick e Loney 1999; Kazdin 1995; Patterson et al. 1991).
La prima infanzia sembra il periodo di esordio più frequente per tali problemi (dalla nascita
ai 2 anni) (Bloomquist e Schnell 2002). I bambini a quest’età possono manifestare un temperamento difficile e appaiono irritabili, non collaborativi, arrabbiati e facilmente frustrati; presentano spesso precoci sintomi di oppositività e accessi d’ira (idem).
Il periodo prescolare (3-5 anni) è una fase di accelerazione, nella quale i problemi diventano
più eclatanti: la rabbia, l’oppositività e la provocatorietà persistono, ma spesso appaiono anche
comportamenti aggressivi più palesi.
I primi anni delle scuole elementari (6-8 anni) costituiscono una fase di stabilizzazione del
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Rosario Capo et al.
problema. Persistono l’aggressività aperta e l’oppositività. I bambini che manifestano comportamenti aggressivi ad esordio precoce sono a rischio di sviluppo di comportamenti antisociali covert,
quali mentire, rubare, raggirare; in alcuni casi, esibiscono sintomi di aggressività sia aperta (overt)
che mascherata (covert). Si mantengono le interazioni coercitive tra il bambino e i genitori e
anche le relazioni con gli insegnanti possono assumere le stesse caratteristiche. È in questo periodo che i bambini con aggressività ad esordio precoce possono fare esperienza del rifiuto sociale
da parte dei compagni e iniziare ad affiliarsi a gruppi antisociali e aggressivi; sono anche frequenti esperienze di fallimento scolastico e conseguente demotivazione all’impegno nelle attività di
studio. Nel caso di manifestazioni di aggressività coperta, si evidenziano bias e deficit più gravi
nell’elaborazione delle informazioni (idem).
Gli ultimi anni delle scuole elementari (9-14 anni) rappresentano un periodo nel quale i
problemi di condotta e di aggressività sono in continua evoluzione. Solitamente la frequenza
dell’aggressività aperta diminuisce durante questa fase evolutiva, nonostante rimanga comunque
alta rispetto alla norma. I comportamenti aggressivi covert tendono invece ad aumentare, esprimendosi in atti vandalici, assenze frequenti da scuola, innesco di incendi, uso e abuso di sostanze,
ecc. I compagni appartenenti ai gruppi devianti tendono a rinforzarsi vicendevolmente, rispetto
all’utilizzo di condotte aggressive aperte e covert, specialmente durante l’età adolescenziale.
Possono persistere le interazioni coercitive con i genitori e con gli insegnanti. Il soggetto richiede
spesso supervisione e monitoraggio durante questo periodo, mentre i loro genitori sembrano
mancare in tale compito, particolarmente rilevante. Il permanere del problema esacerba spesso i
conflitti nel contesto familiare.
Durante la fase adolescenziale (dai 15 anni in poi) spesso i problemi di condotta e di aggressività tendono a cristallizzarsi. I bambini di solito manifestano più comportamenti antisociali
coperti che espliciti, ma alcuni commettono anche atti criminosi e violenze efferate. Spesso,
questi ragazzi si inseriscono o danno vita a bande devianti.
I comportamenti aggressivi covert assumono spesso la forma di crimini seri e non sono
infrequenti anche atti aggressivi di natura sessuale quali lo stupro.
Di solito i soggetti con problemi di aggressività e condotta sono coinvolti in relazioni sessuali con notevole anticipo e molto più spesso rispetto ai loro coetanei ed è particolarmente elevato il numero delle gravidanze indesiderate.
Le esperienze precoci con l’uso di sostanze favoriscono di solito in questo periodo abuso di
droga e di alcol.
È stato stimato che circa un terzo dei bambini con problemi di aggressività e condotta ad
esordio precoce sviluppino un disturbo di personalità antisociale in età adulta (idem). La percentuale restante mantiene gravi problemi nel funzionamento sociale e lavorativo, quali difficoltà di
coppia, violenza, psicopatologia, criminalità e disoccupazione.
Data l’escalation e il pesante rischio di cronicizzazione dei problemi di aggressività e
condotta risulta opportuno predisporre interventi precoci e su ampia scala (non solo individuali) per contrastare la diffusione del problema. Tali interventi dovrebbero essere basati su una
corretta comprensione dei meccanismi che spiegano la natura e la permanenza di questi problemi comportamentali. A tal proposito, riportiamo nel paragrafo successivo, in forma estremamente sintetica, alcune osservazioni sulle caratteristiche del funzionamento cognitivo di tali
soggetti.
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L’Interpersonal Cognitive Problem Solving (ICPS)
Caratteristiche cognitive dei bambini con problemi di condotta e aggressività
Oltre alla conoscenza dei fattori di rischio che hanno a che fare con le condizioni predisponenti l’esordio dei problemi di aggressività e condotta1 , evidentemente è necessario per un clinico possedere un modello schematico degli elementi che spiegano la costellazione dei sintomi
propri di un dato disturbo psicologico e la permanenza nel tempo degli stessi, a dispetto dei costi
che questi possono comportare per il soggetto stesso e/o per il suo ambiente sociale.
In generale, due modelli hanno ricevuto particolare credito in letteratura per la comprensione e per il trattamento dei problemi di aggressività e di condotta in età evolutiva: (a) il modello
socio-cognitivo dell’elaborazione dell’informazione (Crick e Dodge 1994, Lochman et al. 2000),
e (b) il modello del funzionamento esecutivo (Pennington e Ozonoff 1996). Entrambe le teorie
esplicative si focalizzano sulla sequenza di abilità e di operazioni che sono necessarie per gestire
varie situazioni interpersonali e analizzano accuratamente le difficoltà che i bambini con problemi di aggressività e condotta incontrano in ognuna delle fasi del processo. Questi modelli non
sono antitetici ma, viceversa, alcuni elementi di un quadro teorico possono essere inclusi nell’altro; mentre la prima prospettiva deriva dal lavoro con bambini con Disturbo della Condotta, il
secondo si applica con maggiori risultati ai bambini con problemi simili al Disturbo da Deficit di
Attenzione ed Iperattività.
I modelli sociali di elaborazione dell’informazione identificano i problemi che i bambini
aggressivi hanno nel valutare le situazioni interpersonali, nel selezionare una strategia che risolva
efficacemente i potenziali conflitti e, di conseguenza, nell’implementare tale strategia e valutarne
l’efficacia (Kendall 2000). Il modello di funzionamento esecutivo pone l’accento, invece, sui
processi cognitivi di pianificazione, organizzazione e modulazione del proprio comportamento.
Una sintesi delle caratteristiche cognitive dei soggetti con problemi di aggressività e di condotta, desunte da entrambi i modelli teorici, è riportata nella Tabella 1.
Come si può notare dalla tabella 1, i problemi di aggressività e di condotta sono determinati
da un’ampia classe di meccanismi cognitivi, che tendono a stabilizzarsi e ad incrementarsi reciprocamente a cascata. A partire da tipiche esperienze di apprendimento (trascuratezza, abuso
fisico e psicologico, arbitrarietà ed incoerenza nella disciplina da parte dei genitori, imposizioni
e/o eccesso di direzionalità da parte delle figure di accadimento accompagnati da insufficiente
considerazione dei desideri e delle avversioni del bambino, ecc.) e di attaccamento (Bloomquist
e Schnell 2002; Isola 2003) vengono innescati particolari scopi/investimenti (evitamento di condizioni indesiderabili/avversive e/o ottenimento di condizioni desiderabili), regole, aspettative,
bias cognitivi e strategie comportamentali (Lochman et al. 1993; Lochman et al. 2000). Generalmente esperienze di trascuratezza e/o maltrattamento da parte delle figure di riferimento, associati a disciplina debole e/o incoerente (comandi e minacce; punizione fisica episodica e spesso
imprevedibile; interazioni coercitive) (Patterson et al. 1998), innescano e stabilizzano un bias
attributivo ostile (aspettativa che l’altro non mi rispetti, non si occupi adeguatamente di me, che
applichi regole arbitrariamente e/o sia pericoloso) (Lochman 1987; Dodge 1993; Lochman e
Dodge 1994) e il complementare scopo di non trovarsi nella condizione di subordinazione alle
regole e al controllo da parte dell’autorità, percepita come ingiusta, arbitraria, imprevedibile/
incoerente e/o inaffidabile (Mancini, 2006a): ne consegue che gli atteggiamenti e i comportamenti oppositivi, aggressivi e provocatori ricevono rinforzo negativo in quanto risultano funzionali
per sottrarsi a condizioni avversive/indesiderabili, nel qual caso, il controllo di e/o la subordinazione
a siffatta autorità. La condizione di affrancamento dal controllo delle imposizioni esterne può,
1
Per una rassegna si veda Capo (2003).
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Rosario Capo et al.
Tabella 1 - Caratteristiche cognitive dei bambini aggressivi
Processi di valutazione degli eventi
Eccessiva sensibilità/attenzione verso stimoli ostili
Bias nell’attribuzione di intenzioni ostili da parte degli altri
Sottostima della propria aggressività
Problem Solving interpersonale
Repertorio limitato di soluzioni
Basso repertorio di soluzioni assertive verbali e eccesso di soluzioni orientate all’azione diretta
Poche soluzioni cooperative
Soluzioni di riserva di tipo aggressivo
Funzioni cognitive
Difficoltà nel sostenere l’attenzione
Produzione di soluzioni disfunzionali quando queste vengono rievocate dalla memoria a lungo
termine (memoria selettiva frutto di esperienze precoci gravose)
Bassi livelli di empatia
Schemi cognitivi di base
Alto valore attribuito a scopi sociali quali dominanza e rivincita piuttosto che affiliazione
Basso valore attribuito a conseguenze come sofferenza delle vittime, rappresaglia della vittima o
rifiuto da parte dei pari
Aspettative che i comportamenti aggressivi produrranno ricompense tangibili e ridurranno le
reazioni avversive altrui
Bassa stima di sé nel periodo preadolescenziale
TRATTO ED ADATTATO DA: Lochman J.E., Whidby J.M. e FitzGerald D.P. (2000), Cognitive-behavioral
assessment and treatment with aggressive children. In P.C. Kendall (Ed.), Child and adolescent therapy:
Cognitive-behavioral procedures. New York, Guilford Press.
successivamente, acquisire ulteriori “rinforzi” (con conseguente aumento del coefficiente di valore scopistico) che ne stabilizzano il potere attrattivo, quali: senso di libertà e autonomia; ruolo
sociale come individuo forte e temuto (rango elevato ottenuto attraverso la prevaricazione, la
rivalsa/vendetta e le provocazioni all’autorità) seppur non amato (conseguenza del rifiuto sociale
a causa dei comportamenti aggressivi) (Boldizar et al. 1989; Hart et al. 1990; Lochman et al.
1993); percezione di diversità/specialità (anche se negativa) rispetto al gruppo generale dei pari
(Mosticoni 2006); rifiuto e svilimento da parte degli insegnanti, dei genitori e/o dei compagni
(circolo vizioso di rinforzo della rabbia e del risentimento e della necessità percepita di sottrarsi
alle imposizioni); ecc.
L’aspettativa di ricevere dagli altri ostilità, trascuratezza, scarsa considerazione dei propri
bisogni e l’avversione per il controllo da parte delle figure con ruolo di autorità favoriscono una
sistematica disattenzione e una scarsa considerazione (generalmente non voluta e non intesa) per
la sofferenza e le emozioni altrui. L’empatia deficitaria rilevata di solito in questi soggetti può
essere spiegata, quindi, non tanto come l’effetto di deficit stabili nelle funzioni cognitive di base
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L’Interpersonal Cognitive Problem Solving (ICPS)
(es. teoria della mente, attenzione, ecc.), come avviene per alcune sottocategorie caratterizzate da
inabilità a base organica (es. DDAI, ecc.), ma come l’effetto di meccanismi di focalizzazione e
disattenzione selettive determinate dallo stato intenzionale del soggetto, attivo in un dato momento (evitamento di danni e/o ottenimento di condizioni desiderabili) e funzionali al
raggiungimento/mantenimento dei suoi scopi (Mancini e Gangemi 2002; Mancini 2006a, 2006b;
Capo 2006). Dato lo stato di minaccia percepita (controllo maltrattante e/o trascurante da parte
delle figure di riferimento, rifiuto/svilimento da parte dei pari) e l’attitudine di questi soggetti a
prevenire le eventualità temute, infatti, la loro attenzione si orienta in senso iper-prudenziale (si
preoccupano solo di evitare l’eventualità peggiore e cercano i segni che ne confermino il sopraggiungere) producendo dei tunnel mentali che possono avere l’effetto involontario di trascurare
informazioni rilevanti quali le emozioni e le esigenze altrui (idem). In altre parole, considerato
che i soggetti con problemi di aggressività e di condotta esitano frequentemente in uno stato
mentale di minaccia imminente e grave (abuso, maltrattamento, trascuratezza, svilimento, riduzione ingiustificata della loro libertà, ecc.), allora, risulta “funzionalmente giustificato” il ricorso
ad un atteggiamento iper-reattivo e fondato su giudizi intuitivi (bias ed euristiche), che ha però il
costo di trascurare stimoli rilevanti dell’interazione sociale in corso, con il conseguente rischio di
procurarsi svantaggi importanti, quali il rifiuto da parte degli altri (idem).
Le suddette caratteristiche cognitive dei bambini con problemi di aggressività e di condotta
tendono con molta facilità a cronicizzarsi attraverso circoli viziosi di varia natura: insuccesso
scolastico, rifiuto da parte dei compagni, aggregazione a gruppi di coetanei devianti, condotte
delinquenziali, possibile sviluppo di personalità antisociale (Patterson et al. 1998)
A tale riguardo, dal momento che l’aggressività risulta essere la condotta più efficace che il
soggetto è stato in grado di sviluppare, date le proprie esperienze di apprendimento, per garantirsi
condizioni desiderabili (scopi) e per evitare condizioni avversive (anti-goal), è stata suggerita
l’opportunità di operare su tali disturbi comportamentali attraverso l’intervento sulle competenze
di soluzione dei problemi, al fine di allargare il ventaglio delle strategie a disposizione del soggetto, funzionali ad ottenere gli stessi scopi ma con minori costi personali e sociali, e con l’obiettivo
di “frenare” l’eccessiva reattività ed impulsività di questi soggetti (cfr. Ricci et al. 2003). A tal
proposito, si ritiene opportuna l’attuazione di interventi psicopedagogici e clinici, il più precocemente possibile, al fine di bloccare l’escalation e impedire la stabilizzazione di tali disturbi.
Tra i protocolli di intervento in ambito scolastico, l’ICPS di Shure e Spivack (1979; 1981) è
uno di quelli che ha meglio dimostrato la sua efficacia e la facile replicabilità.
Prima però di addentrarci nella presentazione del protocollo di Shure e Spivack (idem),
l’Interpersonal Cognitive Problem Solving (ICPS), esaminiamo le componenti e le caratteristiche delle abilità di soluzione dei problemi.
La soluzione dei problemi: una competenza complessa
Un considerevole corpo di ricerche è stato condotto negli ultimi decenni per giungere alla
comprensione delle strutture e dei processi implicati nella soluzione dei problemi (D’Zurilla e
Goldfried 1971; Newell e Simon 1972; Nezu e D’Zurilla 1981; Ohlsson 1992; Mayer 1992).
Molte di queste ricerche hanno studiato però il comportamento di soluzione dei problemi utilizzando dilemmi neutri e astratti che richiedono soluzioni esclusivamente (o in gran parte) cognitive,
o comunque soluzioni non sociali.
Per questo motivo, le abilità individuate nei modelli appena citati sono soprattutto di ordine
cognitivo. Osservando diversi individui nel risolvere problemi proposti in condizioni controllate,
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Rosario Capo et al.
tali autori hanno cercato di formulare un modello del funzionamento della mente umana in tali
condizioni.
Inizialmente tali studi si sono mossi nell’ambito della ricerca sull’intelligenza e sulla sua
natura. Le ricerche di Guilford (1977), mettendo in luce come l’intelligenza non fosse solo il
frutto di un fattore generale in gran parte frutto dell’ereditarietà, mostrano come il possesso di
abilità di soluzione dei problemi correli con il comportamento creativo che costituisce una dimensione rilevante delle capacità intellettive di un individuo. Tra queste abilità ritroviamo: fluidità
associativa e ideazionale, flessibilità adattiva e spontanea, originalità, sensibilità ai problemi.
Partendo da queste conclusioni Guilford (idem) sviluppò un modello denominato “Struttura dell’intelligenza” nel quale incluse le abilità per la soluzione dei problemi da lui operativizzate
insieme alle capacità tradizionalmente individuate per definire il quoziente intellettivo.
Tra i numerosi lavori in ambito cognitivista che hanno fatto seguito alle osservazioni di
Guilford (cfr. Anderson 1983; Sternberg 1987) il modello più rappresentativo e giustamente famoso è quello di Newell e Simon (1972). Partendo da una concezione della mente umana come
un elaboratore di informazioni che segue una serie di leggi fisse nell’esecuzione delle sue funzioni (così come un computer esegue dei programmi), gli autori ipotizzano la possibilità di individuare un insieme finito di procedure di soluzione dei problemi applicabili a qualsiasi processo
risolutivo indipendentemente dal dominio (interpersonale, cognitivo, ecc.) in cui esso si dispiega
(idem). Ritenendo che i processi e le abilità richieste per giungere ad una soluzione di un problema siano sempre gli stessi, indipendentemente dalla complessità e dalla tipologia della situazione, Newell e Simon (idem) utilizzano nel loro studio problemi semplici e ben definiti e ritengono
ugualmente applicabili anche a situazioni più complesse le procedure osservate nella soluzione di
tali quesiti.
Il processo di soluzione dei problemi evidenziato da questi autori può essere sintetizzato in
tre fasi (Newell e Simon 1972):
a) confronto tra lo “stato attuale” e lo “stato meta” e identificazione delle differenze;
b) selezione di una serie di procedure («operatori») per ridurre la discrepanza principale;
c) applicazione della procedura selezionata.
L’abilità centrale per l’attuazione adeguata di questo processo è costituita, secondo gli autori, dalla capacità di analisi mezzi-fini attraverso la quale l’individuo seleziona da un ventaglio di
strategie possibili quelle che offrono la probabilità più elevata di condurre all’obiettivo desiderato.
Da quanto detto si può notare come, pur evidenziando abilità e strategie cognitive generali,
i modelli sviluppati nel contesto della ricerca cognitivista si sono focalizzati esclusivamente sulle
procedure e sulle abilità di ordine cognitivo trascurando altri aspetti di natura emozionale e
comportamentale implicati nella soluzione dei problemi reali dell’esistenza.
Pur essendoci molte similarità nelle procedure e nelle abilità di base, la differenza critica tra
questi due tipi di soluzione dei problemi è costituita dal fatto che gli inconvenienti e le difficoltà
della vita, dal momento che mettono in gioco (minaccia, opportunità, ecc.) gli obiettivi, gli scopi
e gli elementi del dominio personale dell’individuo, sono accompagnati da emozioni che spesso
indeboliscono la capacità del soggetto di rispondere “razionalmente”, creano dubbi sulle decisioni da prendere, implicano spesso conflitti tra scopi personali ed esigenze di altre persone ed
elicitano intensi sentimenti di minaccia (Forgatch e Patterson 1989).
I modelli esclusivamente focalizzati sulle procedure cognitive non risultano quindi sufficienti a spiegare e prevedere la qualità del processo di fronteggiamento dei problemi e delle sfide
esistenziali nell’ambito delle situazioni reali.
Di conseguenza, nel campo della psicologia clinica, della consulenza psicologica e della
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L’Interpersonal Cognitive Problem Solving (ICPS)
promozione di abilità nei soggetti in via di sviluppo, diversi autori (Shure e Spivack 1981; D’Zurilla
1986) hanno cercato di integrare le conclusioni delle ricerche scientifiche con le conoscenze
tratte dall’osservazione e dalla pratica clinica ed educativa così da formulare dei modelli per
l’ottimizzazione delle capacità individuali di fronteggiare i problemi, maggiormente applicabili
al contesto personale e sociale.
La soluzione dei problemi nell’ambito della vita reale ha assunto differenti denominazioni
ed attualmente è nota come Problem Solving Sociale (D’Zurilla e Nezu 1982; D’Zurilla 1986),
Problem Solving Cognitivo Interpersonale (Shure e Spivack 1979; Shure e Spivack 1981; Shure
1992), Problem Solving Produttivo (Carkhuff 1985) e Problem Solving Personale (Mahoney 1984;
Heppner e Petersen 1982).
Diversamente dal problem solving applicato a situazioni impersonali, nel contesto della vita
reale, la soluzione dei problemi consiste in “un processo cognitivo, emotivo e comportamentale
attraverso il quale un individuo o un gruppo identifica efficaci mezzi per fronteggiare i problemi
incontrati nella vita di tutti i giorni” (D’Zurilla 1986). Tale processo include sia la produzione di
soluzioni alternative che la scelta del comportamento e la sua attuazione. In questo senso, un
processo di soluzione dei problemi quotidiani non implica solo ed esclusivamente il ragionare
sulle diverse possibilità atte a superare la discrepanza tra la situazione attuale e quella desiderata
dal soggetto, ma allo stesso tempo richiede la gestione delle proprie emozioni (ansia, minaccia,
abbattimento, impazienza, ecc.), il contrasto delle eventuali distorsioni cognitive attuate nel momento valutativo, l’acquisizione e l’utilizzo di specifiche abilità e conoscenze procedurali per
l’esecuzione della soluzione prescelta.
Il modello di Shure e Spivack
Shure e Spivack (Shure e Spivack 1979; Shure e Spivack 1981; Shure 1992) individuano sei
abilità di base che, a loro avviso, è necessario possedere per poter attuare un efficace processo di
soluzione dei problemi in un contesto sociale come è quello della vita quotidiana. Gli autori
focalizzano la loro attenzione non solo su abilità di ordine cognitivo per l’individuazione di soluzioni efficaci ai problemi incontrati dal soggetto ma, considerando che gli eventi problematici si
verificano solitamente in un contesto interpersonale, ritengono utile mettere in luce anche le
abilità sociali richieste per una adeguata gestione dei problemi dell’esistenza. Le sei abilità individuate da Shure e Spivack (1979) si riferiscono a: (1) sensibilità ai problemi, (2) pensiero alternativo, (3) pensiero mezzo-fine, (4) pensiero consequenziale, (5) pensiero causale (o di confronto
e valutazione di più catene consequenziali) e (6) apprezzamento e considerazione dei sentimenti
altrui.
1.
2.
3.
La sensibilità al problema implica la possibilità di riconoscere prontamente i segnali dell’insorgenza di un problema e di sviluppare motivazione e interesse per la sua risoluzione (in
alte parole, non rinunciare precocemente).
Il pensiero alternativo si riferisce alla capacità dell’individuo di fornire differenti opzioni
potenzialmente utili a risolvere un problema indipendentemente dalla loro rispondenza alla
morale comune, al proprio modo di fare abituale, alle aspettative altrui, ecc. Gli autori hanno
verificato in alcuni loro studi che la presenza o l’assenza di questa capacità è l’indicatore
predittivo maggiormente significativo per quanto riguarda l’adattamento o il disadattamento
sociale.
Il pensiero mezzo-fine definisce l’abilità di elaborare una strategia d’azione suddividendola in passaggi graduali e fissando obiettivi e standard di valutazione realistici.
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Rosario Capo et al.
4.
5.
6.
L’abilità di pensiero consequenziale è definita come la capacità di considerare gli effetti
delle proprie azioni su se stessi e sugli altri, valutando nel contempo, le reazioni che il
comportamento scelto instaura nell’ambiente. In altre parole questa abilità si manifesta nella
capacità di inferire le possibili conseguenze di una determinata azione sia a breve che a
lungo termine.
L’abilità di pensiero causale costituisce la possibilità di cogliere nessi causa-effetto e distinguere la collocazione temporale di alcune cause e la loro adeguata attribuzione (a sé o
agli altri, alle persone o alle situazioni). Questa è un’abilità essenziale per la soluzione dei
problemi di ordine sociale in quanto implica la capacità di assumere il punto di vista dell’altro e di spiegarne il comportamento alla luce delle proprie azioni. In altre parole questa
abilità si riferisce anche alla capacità di tenere conto dell’impatto che le proprie azioni hanno sulle altre persone coinvolte nel problema.
L’abilità di assunzione della prospettiva dell’interlocutore e di apprezzamento dei sentimenti altrui si riferisce alla possibilità da parte dell’individuo di percepire che un problema interpersonale esiste e alla capacità di riconoscere e di prevedere i sentimenti delle persone con cui si interagisce così da comprendere ed essere solleciti nei confronti delle esigenze e dei bisogni dei propri interlocutori.
Tale modello concettuale ha originato un programma d’intervento per la promozione delle
abilità di problem solving che ha ottenuto ottimi risultati nell’incremento dell’adattamento generale degli individui (bambini) sottoposti al trattamento, nonché nella riduzione di comportamenti
disfunzionali come l’aggressività in eccesso e l’iper-attività (per una rassegna si veda Ricci et al.
2003).
Il programma “Interpersonal Cognitive Problem Solving” di Shure e Spivak
L’ICPS si focalizza in modo particolare sull’analisi e la gestione di problemi di ordine
interpersonale e sull’apprendimento di una procedura utile alla loro soluzione.
Il presupposto dal quale si muove questo programma promozionale è che l’abilità di soluzione dei problemi, insieme ad un adeguato livello di controllo delle emozioni, siano i fattori che
maggiormente concorrono all’adattamento sociale della persona. Si assume inoltre che le persone socialmente inabili “sono caratterizzate da un elevato coinvolgimento emozionale
nell’interazione sociale. Tale coinvolgimento determina strategie di comportamento non attentamente pianificazione come risultato di una carente elaborazione cognitiva delle situazioni sociali” (Corao e Micheluz 1984, 55).
Essendo l’ICPS finalizzato ad insegnare le abilità di problem solving all’interno di un contesto sociale (ossia la soluzione dei problemi quotidiani), non si focalizza esclusivamente su
fattori cognitivi ma prende in esame anche quelli di natura emozionale ed interpersonale come il
riconoscimento e l’apprezzamento delle proprie ed altrui emozioni e l’assunzione della prospettiva dell’interlocutore coinvolto nel problema.
a)
Destinatari
I destinatari dell’intervento sono bambini di età compresa tra i quattro ed i sei anni.
b) Scopi
L’ICPS si propone di raggiungere due scopi principali:
- insegnare ai bambini quelle abilità utili a risolvere e a prevenire i problemi di natura
interpersonale;
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L’Interpersonal Cognitive Problem Solving (ICPS)
- far acquisire ai bambini la capacità di pensare autonomamente, di valutare la validità delle
proprie idee e di ricercare soluzioni alternative ad uno stesso problema.
Al termine del programma ci si aspetta che i bambini siano in grado di:
- identificare la presenza di un problema;
- generare soluzioni alternative;
- esplorare le conseguenze di ogni alternativa;
- scegliere la soluzione che anticipa i maggiori benefici e i minori costi.
c) Metodologia
Le lezioni vengono condotte dall’insegnante utilizzando un metodo interattivo (dialoghi di
soluzione dei problemi) e ludico (gioco, narrazione di storie, gioco di ruolo, teatro). Gli autori
sottolineano l’importanza dei dialoghi di soluzione dei problemi, attraverso i quali l’insegnante
stimola l’alunno ad applicare i concetti appresi alla risoluzione di problemi interpersonali.
Un dialogo di soluzione dei problemi può essere esemplificato nel seguente modo (Shure
1992):
Passo 1: Definire il problema.
«Cosa è successo? Qual è la difficoltà?».
Passo 2: Elicitare i sentimenti.
«Cosa senti? Cosa hai provato?».
Passo 3: Elicitare le conseguenze.
«Cosa è accaduto quando hai reagito in quel modo?».
Passo 4: Elicitare i sentimenti conseguenti.
«Cosa hai sentito quando hai reagito in quel modo?».
Passo 5: Incoraggiare a pensare a soluzioni alternative.
«Potresti pensare un altro modo rispetto a quello da te usato per risolvere il problema?».
Passo 6: Valutare la validità delle alternative.
«Una di queste alternative ti sembra una buona idea?».
Se la risposta è affermativa: «Prova a realizzare l’idea che ti sembra migliore».
Se la risposta è negativa: «Prova a pensare a qualcosa di diverso».
Passo 7: L’insegnante valuta il processo di soluzione messo in atto dal bambino e sottolinea positivamente il suo impegno a cercare modalità più funzionali per risolvere il problema.
d) Articolazione del programma
Il programma consta di 83 unità suddivise in due grandi categorie. Le prime quarantasette
lezioni sono finalizzate alla trasmissione delle abilità e delle conoscenze pre-requisite necessarie
alla soluzione di un problema (abilità pre-problem solving).
A questo riguardo, gli autori ritengono che il bambino debba padroneggiare alcune abilità e
conoscenze linguistiche di base per poter comprendere le proposte inserite nel programma e
poterle utilizzare adeguatamente. In particolare, questa parte del programma permette al bambino
di acquisire il significato di termini e concetti che verranno ampiamente utilizzati nel corso del
lavoro. Inoltre questa sezione si propone di insegnare ai bambini ad identificare i propri sentimenti, a considerare il punto di vista dell’altro e a saper attribuire adeguatamente le cause all’origine di certi eventi.
Le restanti lezioni abilitano i bambini a fronteggiare i problemi formulando diverse alternative risolutive, considerando le conseguenze legate ad una certa azione e scegliendo la soluzione
più efficace ed efficiente rispetto alla situazione problematica.
La tabella 2 riporta una sintesi delle lezioni contenute nel programma. Lo svolgimento di
117
Rosario Capo et al.
Tabella 2 - Strutturazione del programma ICPS (Shure e Spivack 1985; Ricci et al. 2003)
LEZIONI
DECRIZIONE
Serie dalla 1 alla 14
Il bambino apprende a distinguere i seguenti termini ed i concetti ad essi
connessi: essere - non essere; oppure - e; alcuni - tutti; se – allora; uguale diverso; prima - dopo; ora - più tardi.
Serie dalla 15 alla 19
Il bambino apprende ad identificare i propri sentimenti (felice, triste, arrabbiato) e a considerare che non tutte le persone provano la stessa cosa
nella stessa situazione. Inoltre, viene aiutato a formulare ipotesi relative al
comportamento e ai sentimenti dell’altra persona.
Serie dalla 20 alla 21
In queste due lezioni si intende abilitare il bambino ad ascoltare e a prestare attenzione all’altro.
Serie dalla 22 alla 26
Il bambino viene aiutato a individuare le preferenze delle altre persone e
ad acquisire la consapevolezza che i comportamenti e i sentimenti hanno
origine in rapporto agli eventi vissuti e ai pensieri fatti sugli eventi.
Serie dalla 27 alla 39
In queste lezioni si insegna ad identificare e ad esprimere i sentimenti di
paura, di orgoglio e di frustrazione. Inoltre si insegna a considerare la sequenza temporale di successione degli eventi per stabilire il momento più
adatto all’azione.
Serie dalla 40 alla 42
In queste lezioni si cerca di distinguere il concetto di giusto da quello di
non giusto per indirizzare l’azione verso le soluzioni più adeguate sia per il
soggetto agente che per le altre persone.
Serie dalla 43 alla 45
Il bambino apprende il significato del termine impazienza e acquisisce la
capacità di affrontare la frustrazione derivata dal posticipare la gratificazione di un’azione desiderata.
Serie dalla 46 alla 47
Si trasmette il concetto di mitigazione dell’ansia e si incoraggia ad essere
sensibili nei confronti delle altre persone.
Serie dalla 48 alla 60
Il bambino apprende a parcellizzare il problema (scomporlo) e a generare
soluzioni alternative.
Serie dalla 61 alla 74
Il bambino viene abilitato al pensiero consequenziale che costituisce il prerequisito essenziale per la comprensione della relazione esistente tra causa
ed effetto. Lo scopo principale è di insegnare ai bambini che certe soluzioni sono più funzionali di altre per produrre gli effetti desiderati (sia per il
soggetto agente che per le persone attorno a lui).
Serie dalla 75 alla 83
Queste ultime lezioni sono finalizzate all’acquisizione delle abilità di collegare un’azione (soluzione) alle sue possibili conseguenze e quindi ad
insegnare a scegliere la soluzione che anticipa i maggiori benefici (per sé e
per gli altri) e i minori costi.
118
L’Interpersonal Cognitive Problem Solving (ICPS)
un’unità al giorno permette di ultimare il programma entro quattro mesi dall’inizio. Ogni lezione
dovrebbe durare all’incirca venti minuti.
Esempio di due unità del programma ICPS
Unità sul Pensiero Alternativo (Ricci et al. 2003, 84-92)
La prima unità scelta riguarda una lezione sul pensiero alternativo ed ha come obiettivo
fondamentale quello di promuovere l’acquisizione di nuove soluzioni da aggiungere a quelle già
possedute nel proprio repertorio personale. I bambini possono scoprire che se un modo di risolvere i problemi non ha successo è sempre possibile ricercarne un altro.
Scopo
Lo scopo perseguito attraverso le attività proposte è quello di insegnare al bambino a pensare in termini di alternative, applicando ai problemi enunciati le abilità acquisite nel corso delle
lezioni svolte in precedenza (abilità di pre-problem solving). Durante la lezione si porrà l’attenzione sulla domanda: “Cos’altro posso fare quando mi trovo di fronte a un tipico problema
interpersonale?”.
Tecniche
All’inizio della lezione l’insegnante mostra una figura stimolo e la dispone in un luogo ben
visibile a tutti i bambini (ad esempio in un angolo alla lavagna). Successivamente viene descritto
un problema e viene chiesto ai bambini di ripetere in cosa consiste il problema. A questo punto
l’insegnante presenta lo scopo della lezione, possibilmente usando frasi come questa: “L’idea
principale di questo gioco è pensare a molti modi differenti di risolvere [a questo punto l’insegnante enuncia il problema]”.
Il docente comunica ai bambini che trascriverà sulla lavagna le idee che proporranno. Secondo gli autori, questa tecnica risulta molto utile anche quando i bambini sono molto piccoli.
Non appena viene proposta una prima soluzione, l’insegnante invita i bambini a proporne di
nuove, ricordando in cosa consiste il problema. Dopo che sono state suggerite dagli alunni diverse idee, l’insegnante le conta e stimola la produzione di nuove soluzioni.
In alcuni casi può accadere che un bambino indichi la conseguenza di una soluzione proposta o si limiti ad enumerare classi equivalenti di soluzioni. In queste circostanze, l’insegnante può
limitarsi ad evidenziarne l’importanza e, nel secondo caso, procedere di tanto in tanto alla classificazione delle singole numerazioni in categorie più ampie, quali ad esempio: il dare qualcosa, il
dire a qualcuno qualcosa, il colpire qualcuno, ecc.
È importante, inoltre, soffermarsi sulle preferenze individuali. A volte, infatti, può accadere
che i bambini propongano soluzioni come sicuramente valide per tutti. L’insegnante, in tali casi,
potrà stimolare una riflessione sul fatto che non tutti i bambini hanno le stesse preferenze e che è
opportuno, prima di considerare come sicuramente valida un’alternativa, interrogarsi sulla preferenza dell’altro.
Qualora i bambini dovessero presentare risposte indesiderabili in termini sociali o morali,
l’insegnante dovrà limitarsi a catalogarle invitando gli altri bambini a produrre nuove soluzioni.
Lo scopo dell’unità, infatti, è quello di generare soluzioni e non quello di trovare i modi giusti o
sbagliati di rispondere ad un problema.
In alcuni casi possono essere presentate risposte irrilevanti o poco pertinenti rispetto al quesito posto. Se ciò dovesse accadere, il docente può richiedere al bambino di spiegare meglio la
propria idea o spiegare come mai la ritiene una buona idea.
119
Rosario Capo et al.
Un’ultima circostanza, abbastanza frequente, riguarda la presenza all’interno della classe, di
bambini che non propongono idee o si limitano a ripetere quelle proposte dagli altri. In tali casi è
preferibile che l’insegnante rinforzi il comportamento (il fatto di aver parlato) e non l’idea proposta (il contenuto).
Materiali
Disegno raffigurante una bambina che vuole comprata una scatola di biscotti da un adulto
Problema:
L’insegnate espone il disegno e propone il seguente problema “una bambina vuole che la
madre le compri una scatola di biscotti”.
Insegnante:
“Dunque, questa bambina vuole che la mamma le compri una scatola di biscotti. Cosa vuole
la bambina che la madre faccia?”
Bambini:
“Che le compri i biscotti”
Insegnante:
“Cosa può fare la bambina in modo che la madre le compri i biscotti?”
Bambini:
Producono delle risposte, ad esempio: “glielo dice”, “li prende e li mette nel carrello” “piange”, “li prende di nascosto”, “gli da un calcio”, “la spinge”
Insegnante:
Ripete le risposte fornite dai bambini man mano che vengono proposte e le numera. Saltuariamente ricorda ai bambini: “Qual è l’idea di questo gioco?”
Bambini:
Rispondono ricordando l’obiettivo, ossia, pensare a molti modi diversi di risolvere il problema proposto
Insegnante:
Quando sono state prodotte diverse soluzioni: “Allora la bambina potrebbe dirglielo, potrebbe prenderli e metterli nel carrello, piangere [indica le diverse soluzioni scritte alla
lavagna leggendo il numero con cui sono state catalogate]. Bene, cos’altro potrebbe dire?
Cos’altro potrebbe fare?”
Continua ripetendo tutte le risposte, rinforzando e stimolando la produzione di nuove alternative: “Cos’altro ancora?”
Se i bambini iniziano a enumerare soluzioni della stessa classe, l’insegnante prosegue in
questo modo: “Ok, dare un calcio, spingere sono tutti colpire. C’è qualcos’altro che può
fare, diverso dal colpire?”
120
L’Interpersonal Cognitive Problem Solving (ICPS)
Unità sul Pensiero Consequenziale
La seconda unità scelta riguarda una lezione-gioco sul pensiero consequenziale. Data la
scelta metodologica degli autori di utilizzare situazioni sociali per l’insegnamento delle abilità di
problem solving, il problema presentato riguarderà un conflitto tra alcuni bambini. Va ricordato
che l’obiettivo di questo lavoro non è quello di insegnare ai partecipanti dei criteri generali tipo
giusto o sbagliato ma consiste invece nell’aiutarli a valutare, tra tutte le soluzioni possibili, quella
che anticipa le conseguenze maggiormente desiderabili per sé e per gli altri. La possibilità che tra
le opzioni possibili vengano in seguito preferite quelle che implicano maggiore rispetto per le
altre persone è una conseguenza indotta dalla capacità di apprezzare i sentimenti altrui e di valutare le conseguenze indesiderabili di certi comportamenti.
Scopo
Lo scopo perseguito, attraverso la discussione del problema proposto all’inizio della lezione, è quello di indurre i bambini a considerare le possibili conseguenze di una soluzione da
loro adottata per fronteggiare un problema. A tal fine, per tutto l’arco del lavoro, l’insegnante utilizzerà ampiamente la frase: “Che cosa può succedere dopo se…”.
Tecniche
La lezione inizia con la presentazione del problema sotto forma di una storiella alla quale
bisognerà trovare un seguito. La storia viene raffigurata attraverso un disegno che ne esemplifichi le condizioni.
In primo luogo l’insegnante chiede ai bambini di produrre soluzioni alternative alla situazione proposta. In seguito, individuata una soluzione che permetta di lavorare agevolmente
sulla rilevazione delle conseguenze (nel caso specifico potrebbe essere spingere, picchiare,
ecc.), introduce il lavoro inducendo i bambini a pensare ad una continuazione della storia in
linea con la soluzione prescelta.
È opportuno non solo individuare una prima conseguenza al comportamento proposto dai
bambini, ma anche le possibili catene di conseguenze, ossia le risposte più probabili che
l’azione attuata può produrre in seguito sul soggetto agente o sulle altre persone coinvolte
(Es: “Se A fa… a B, come potrebbe sentirsi B? E cosa potrebbe fare B in seguito ad A?”).
Materiali
Utilizzare un disegno che rappresenti un bambino e una bambina che stanno giocando assieme e un altro soggetto con un’automobilina in mano che li sta osservando.
Problema:
Un bambino vuole che gli altri bambini lo facciano giocare insieme a loro.
Insegnante:
“Bene, adesso vediamo un altro tipo di storia, la storia su: che cosa può succedere dopo?
Facciamo finta che il bambino che sta’ da solo (scegliere la soluzione proposta dal gruppo)
dia una spinta alla bambina per cacciarla via. Questo è quello che il bambino potrebbe fare.
Adesso lo scriviamo qui sopra”.
Tracciare una linea verticale sulla lavagna in modo da dividerla a metà e scrivere la soluzione sulla parte sinistra.
121
Rosario Capo et al.
“Ora ascoltate con molta attenzione perché vi faccio una nuova domanda. SE il bambino
spinge la bambina, che cosa POTREBBE succedere dopo in questa storia?”.
Bambini:
………
Insegnante:
“Bene Luciano (a titolo esemplificativo), la bambina POTREBBE (ripete la risposta dell’allievo). Adesso io scriverò sulla lavagna tutte le cose che potrebbero succedere dopo”.
Scrivere la risposta sulla parte destra della lavagna.
Insegnante:
“Ora proviamo a pensare a tante cose che potrebbero succedere dopo se… (es: il bambino
spinge via la bambina)”.
Bambini:
………
Insegnante:
“Bene Stefania ci hai detto che cosa potrebbe succedere… la bambina potrebbe piangere”.
Scrivere anche questa risposta sulla lavagna e tracciare delle fecce che uniscano la soluzione
proposta alle due conseguenze finora ipotizzate così da mostrare come cause ed effetti possano concatenarsi.
La bambina potrebbe spingere via il bambino
Il bambino potrebbe
spingere la bambina
La bambina potrebbe piangere
………………………………..
Insegnante:
“Se il bambino spinge via la bambina (indicare la bambina della figura), lei POTREBBE
restituirgli la spinta (tracciare la freccia di unione in modo marcato ed enfatizzare con incisività
l’azione del disegnare la freccia) OPPURE lei potrebbe piangere, O CHE COS’ALTRO
POTREBBE succedere dopo se il bambino (indicarlo nel disegno) spinge via la bambina
(indicarla)?”.
Quando i bambini non sono più in grado di ipotizzare delle conseguenze, cambiare la domanda nel seguente modo:
Insegnante:
“Che cosa potrebbe FARE questa bambina (indicarla) se questo bambino… (la spinge via?)”.
Bambini:
………
Insegnante:
“Bene Marco, questo è qualcosa che la bambina potrebbe fare (es: potrebbe dirlo alla sua
mamma)”.
Aggiungere questa conseguenza all’elenco.
122
L’Interpersonal Cognitive Problem Solving (ICPS)
Il bambino potrebbe
spingere la bambina
La bambina potrebbe spingere via il bambino
La bambina potrebbe piangere
La bambina potrebbe dirlo alla sua mamma
Insegnante:
“Chi sa pensare a qualcosa di diverso che la bambina potrebbe fare?”
Quando il gruppo ha esaurito l’elencazione delle possibili conseguenze, continuare con:
“FORSE QUALCUNO DI NOI pensa che (es: spingere via la bambina) è una buona idea.
FORSE QUALCUNO DI NOI pensa che (spingere via la bambina) NON è una buona idea.
Chi pensa che spingere via la bambina è una buona idea, alzi la mano”.
Bambini:
………
Insegnante:
“Elisa, perché pensi che è una buona idea?”
Bambini:
Ragioni di Elisa.
Insegnante:
“Bene, forse è una buona idea perché (ripetere le ragioni addotte da Elisa)”.
“Chi pensa che (spingere via la bambina) non è una buona idea, alzi la mano”.
Bambini:
………
Insegnante:
“Bene, potrebbe non essere una buona idea perché (ripetere le ragioni addotte da Enrico)”.
Chiedere a ciascun bambino di alzare la mano se è d’accordo con questa soluzione e chiedere il motivo.
Il razionale dell’intervento tramite l’ICPS
Numerosi studi controllati hanno evidenziato l’efficacia dell’ICPS di Shure e Spivack (1979;
1981) nel ridurre frequenza e intensità dei comportamenti aggressivi e nel promuovere il ricorso
più sistematico a comportamenti interpersonali di natura prosociale. Questi studi mettono in luce
il punto di partenza (presenza massiccia di condotte e meccanismi disfunzionali) e il punto di
arrivo (riduzione di frequenza e intensità dei meccanismi disfunzionali e incremento del bagaglio
comportamentale del soggetto) in seguito all’applicazione del programma, rispetto al funzionamento dei soggetti con problemi di aggressività e di condotta, tralasciando però di approfondire i
meccanismi di azione dell’ICPS.
Il programma ICPS è un intervento strutturato, finalizzato alla promozione, all’esercizio e
alla generalizzazione delle abilità di soluzione di problemi. Appare controfattuale l’uso di una
123
Rosario Capo et al.
simile procedura di intervento visto che si è suggerito che solo raramente i problemi di aggressività e condotta sono spiegati dalla presenza di un deficit di abilità e funzioni cognitive. Se questo
è vero, in che modo, quindi, l’ICPS è in grado di modificare l’insieme dei bias, degli scopi e delle
strategie comportamentali caratterizzanti i problemi di aggressività e di condotta?
A nostro avviso, l’ICPS interviene sull’iper-attenzione agli stimoli potenzialmente minacciosi e sull’over-interpretazione di tali stimoli come ostili, meccanismi caratterizzanti tali problemi comportamentali, incoraggiando in maniera sistematica i bambini sottoposti al programma a
considerare più ipotesi alternative prima di decidere di passare all’azione senza una sufficiente
elaborazione degli stimoli. Tale funzione viene svolta sia attraverso la sistematica ripetizione
delle unità esercitative previste nel programma, sia dall’insegnante ogniqualvolta se ne presenti
l’occasione.
Attraverso l’ICPS è possibile incoraggiare, inoltre, l’allargamento del repertorio di strategie
comportamentali a disposizione del soggetto, in grado di garantire a quest’ultimo gli stessi scopi
che otteneva con i comportamenti aggressivi (evitare il rifiuto, il maltrattamento e l’esclusione da
parte degli altri; ottenere rispetto e considerazione dei propri bisogni; libertà/autonomia ma con
minori costi, personali e sociali.
Il fatto che il programma si svolga in gruppo rende disponibile un numero maggiore di
alternative di interpretazione degli stimoli e di strategie risolutive, facilita il modellamento reciproco e il rinforzo interpersonale delle attitudini non impulsive e prosociali.
Lungo tutto l’arco del programma, inoltre, l’aggressività viene rappresentata esplicitamente
come una delle tante strategie possibili che le persone sono state in grado di sviluppare per risolvere i problemi interpersonali (probabilmente la migliore che hanno saputo trovare) e si incoraggia i bambini a trovare ulteriori modalità sempre più raffinate ed efficaci. Tale atteggiamento
evita di innescare e/o rinforzare i problemi secondari, spesso associati ai disturbi di aggressività
e condotta, che rendono più probabile la cronicizzazione del disturbo (cfr. Capo 2003). I bambini
che vengono etichettati come “cattivi”, “insensibili”, “indesiderabili” a causa della loro aggressività, infatti, tendono facilmente a rassegnarsi a tale “identità” e “destino” approdando con grande
facilità a gruppi devianti e marginalizzati (idem).
All’interno delle unità didattiche dell’ICPS vengono sistematicamente validate e rinforzate
le strategie comportamentali di natura prosociale e non aggressiva (cfr. Ricci et al. 2003), favorendone la permanenza attraverso rinforzi sociali quali: accoglienza, considerazione, affiliazione,
amicalità e affetto.
Diversamente dall’intervento clinico in setting individuale, l’ICPS offre un ulteriore vantaggio, essendo attuato in un contesto naturale (la classe), ossia, previene e/o riduce la
marginalizzazione e la stigmatizzazione sociale (Patterson et al. 1998; Regoliosi 1994) che spesso sopraggiunge a peggiorare e cronicizzare i problemi di aggressività e di condotta in età evolutiva.
In ultimo va sottolineato che il programma viene generalmente implementato dagli insegnanti (opportunamente formati) e non da personale specialistico. Tale condizione favorisce l’assunzione da parte dei docenti di atteggiamenti educativi positivi (coerenza; assenza di coercizione;
interesse per i problemi dell’alunno; ecc.) che costituisce un fattore specifico di riduzione dei
comportamenti aggressivi ed oppositivi: il bambino, infatti, ha meno bisogno di opporsi e provocare l’insegnante se percepisce che i propri bisogni vengono rispettati e si rappresenta l’autorità
come non arbitraria, prevedibile e coerente (Mancini, 2006a).
Generalizzare le abilità di problem solving alle situazioni quotidiane
Perché l’abilità di soluzione dei problemi interpersonali possa costituirsi come una compe124
L’Interpersonal Cognitive Problem Solving (ICPS)
tenza che viene utilizzata con consuetudine dai soggetti in età evolutiva, è opportuno generalizzare l’applicazione delle abilità di problem solving al maggior numero possibile di situazioni quotidiane.
A tale riguardo, si può consigliare ai genitori di utilizzare sistematicamente strategie di soluzione dei problemi per negoziare le decisioni nel contesto familiare e per gestire le difficoltà
interpersonali (Forgatch e Patterson 1989). Inoltre, così facendo, il bambino può facilmente percepire che le decisioni vengono prese in modo non arbitrario e senza un’imposizione a priori e, di
conseguenza, possono risultare meno necessari ai suoi occhi i comportamenti oppositivi e provocatori (non ha bisogno di sottrarsi al controllo).
Anche l’insegnante può contribuire significativamente a generalizzare le abilità di problem
solving, rappresentando agli occhi degli alunni l’apprendimento come una soluzione di problemi,
dove il raggiungimento di una meta comporta ostacoli e richiede pianificazione adeguata di strategie per il suo conseguimento.
Conclusioni
I disturbi di aggressività e condotta costituiscono un problema rilevante nella scuola italiana. Se non vengono attuati efficaci interventi di prevenzione primaria e secondaria, tali
problematiche comportamentali possono tendere a stabilizzarsi in forme sempre più gravi e croniche.
Nel presente lavoro si è suggerita la possibilità di utilizzare l’ICPS di Shure e Spivack (1979;
1981) al fine di ridurre lo sviluppo e/o la stabilizzazione dei meccanismi cognitivi tipicamente
implicati nei disturbi da comportamento oppositivo, provocatorio ed aggressivo.
Attraverso tale strumento è possibile: indurre i bambini a considerare l’aggressività come
soltanto una delle possibili strategie di soluzione di un problema interpersonale (e non la migliore), allargare il bagaglio dei comportamenti con funzione equivalente ma con minori costi personali e sociali, ridurre l’iper-reattività nel giudicare e rispondere alle situazioni problematiche e
conflittuali quotidiane, promuovere una maggiore considerazione ed attenzione per le emozioni e
la sofferenza altrui.
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