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LA DEMOCRAZIA REALIZZATA: Thomas Marshall (1893 – 1981) nel 1949 discute dell’immediato
dopoguerra in Europa occidentale e negli Stati Uniti. Vittorioso sul nazifascismo e già coinvolto in un duro
scontro ideologico e strategico con il blocco sovietico, il mondo libero guardava tutto sommato con sicurezza
la futuro, e si apprestata a vivere una fase di espansione economica senza precedenti, che avrebbe posto le
basi materiali per il consolidamento dello Stato sociale. Venne sviluppato anche il concetto di Cittadinanza:
una forma di uguaglianza umana fondamentale connessa con il concetto di piena appartenenza a una
comunità. Si caratterizza dall’azzeramento delle molteplici differenze di status, dove per Status si intende il
“contrassegno di classe e misura della disuguaglianza”.
La cittadinanza si divide, secondo Marshall, in Civile, Politica e Sociale. I Diritti civili erano la libertà di
pensiero e di parola, il diritto di proprietà, di giustizia. I Diritti politici erano invece una concessione di vecchi
diritti a nuovi strati della popolazione (universalizzazione del suffragio, democratizzazione dei Parlamenti).
Infine, i Diritti sociali, come la scuola, i servizi sociali, la sicurezza. Il vero simbolo della cittadinanza
contemporanea finisce per essere la fabbrica, pensata come luogo originario della Cooperazione tra le
classi, anche se in realtà la cittadinanza e la classe capitalistica sono in guerra tra loro, lungi dall’acquietarsi.
Nonostante tutto, il sociologo tedesco Ralph Dahrendorf (1929 – 2009) continuava a sostenere che nella
società contemporanea continuassero a giocare un ruolo decisivo associazioni coordinate da norme
imperative, secondo un modello coercitivo. Il conflitto di classe, che si veniva a creare con la società
capitalistica, era regolato e Istituzionalizzato. Privato dei suoi tratti più minacciosi, il conflitto di classe poteva
così essere valorizzato come vero e proprio motore dialettico dello sviluppo, contrassegno delle società
libere.
HAYEK: Friedrich August von Hayek (1899 – 1992), psicologo ed economista austriaco, descriveva un
nuovo tipo di schiavitù in democrazia. Quella a cui si riferisce Hayek non è altro che la nuova schiavitù che
Tocqueville aveva già analizzato, che consisteva nel trionfo del collettivismo sull’individualismo, cioè negli
esiti totalitari del socialismo. Hayek parlava poi delle nozioni di “Bene comune” o “interesse generale”: egli
poneva in rilievo che l’attribuzione allo Stato di compiti di intervento nell’ordine socioeconomico allo scopo di
realizzare ideali di giustizia, tendeva a creare un insieme molto vasto di norme su cui non poteva esistere
unanime accordo. Dietro al “bene comune” promesso dallo Stato venivano celati ben precisi interessi
particolari, volti a conservare posizioni di privilegio.
Centrale, in Hayek, è il presupposto della superiorità del mercato su ogni altro meccanismo di regolazione
sociale. Il suo funzionamento produce ineguaglianza, una catena ingiusta che colpisce a caso strati della
società. È anche per questo che nell’immediato dopoguerra nacquero alcune correnti di pensiero dette
“neoconservatrici”, che criticavano apertamente i valori cancellati dalla società industriale e dallo Stato
sociale.
TECNOCRAZIA: Soprattutto in Germania occidentale, negli anni 50 si diffuse un’interpretazione
conservatrice della cosiddetta Tecnocrazia: secondo tale interpretazione (sviluppata anche da Heidegger), la
razionalità tecnico-scientifica (tecnica) aveva ormai colonizzato con i propri automatismi e con le proprie
coercizioni indiscutibili lo spazio sociale e politico, con la presunzione di essere legittimata dal consenso dei
cittadini e giudicando nello stesso tempo l’inefficacia di qualsiasi espressione di dissenso.
In generale, il boom economico degli anni 50 fu gestito da governi conservatori moderati. La persistenza di
disuguaglianze e squilibri fu elemento di costante denuncia da parte della Sinistra intellettuale e politica. La
formula Keynesiana dell’intervento statale nell’economia costituiva ancora l’orizzonte all’interno del quale
sindacati e partiti socialisti si schieravano. Importante è il pensiero di Paul Sartre, che descrive l’esistenza e
la psicologia dell’uomo medio sottoposto al grande meccanismo economico industriale: si parla dunque di
Reificazione, ossia l'influenza del modo di produzione capitalistico sulla vita delle persone e sulla loro
capacità di reagire a tale potere. L’uomo è quindi sempre esposto al rischio di cedere alla cattiva fede,
al’inautenticità, è smarrito e ha paura.
L’OPERAIO: Nel corso degli anni 60, il tentativo di ricostruire dinamicamente la fenomenologia dei
comportamenti operai fu svolto dal cosiddetto Operaismo italiano. L’analisi delle condizioni tecniche
(taylorismo e fordismo) e politiche (keynesismo) di tale nuova forma è condotta dal punto di vista operaio,
con l’obiettivo di individuare la nuova composizione di classe a essa corrispondente. Lo Stato sociale è la
mediazione politica che serve a far funzionare pacificamente il contenuto della forza produttiva operaia
dentro le forme del rapporto di produzione capitalistico. Insomma, secondo gli operaisti, il proletariato
industriale stava assumendo le forme di un soggetto autonomo di classe, capace di rompere ogni
mediazione con il capitale e di porsi come base della transizione al comunismo.
LA GEOPOLITICA DEL SECONDO DOPOGUERRA: La conclusione della guerra segnò l’inizio
della ricerca dell’equilibrio europeo, sottolineato dalla nascita di organismi internazionali come ONU, e l’inizio
del mondo bipolare. Non sono mancati autori che hanno tentato di interpretare positivamente la nuova
situazione, ideando un Movimento federalista europeo. Non a caso si è soliti riferirsi al periodo tra le due
guerre come “europeismo”, in quanto furono spesso formulate proposte di complessiva riorganizzazione
confederale dell’Europa centrale, attorno all’egemonia tedesca. Ma fu proprio nel secondo dopoguerra che
l’Europa si rese conto dei suoi limiti in politica estera, in quanto non possedeva un’organizzazione generale
di governo e una milizia “europea” (ma tanti governi e tanti eserciti, uno per ogni stato): gli Stati Uniti, che
invece di organizzazione ne avevano eccome, giocavano dunque un ruolo fondamentale e di “guida” per
l’Europa.
Raymond Aron (1905 – 1983), intellettuale liberale francese, sosteneva che il dominio delle armi nucleari da
parte degli Stati fosse l’unica chance per realizzare una limitazione della guerra, in quanto si era a
conoscenza che entrambe le parti sarebbero andate in contro a una distruzione reciproca assicurata in caso
di conflitto. Per questo Aron si muove attorno al problema Machiavelliano (mezzi legittimi – quindi le armi - a
disposizione dei singoli attori del sistema internazionale) e a quello Kantiano (la pace universale che
sostituisce la morale della battaglia). Detto questo, è comunque vero che la minaccia dell’apocalisse
nucleare caricò di toni drammatici gli anni 50 e 60, in modo particolare sul tema dei danni che essa avrebbe
apportato alla società mondiale e all’ecologia. Nell’aprile del 1963, pochi mesi dopo l’apertura del Concilio
Vaticano II (riunione di tutti i vescovi del mondo), fu pubblicata l’enciclica di Giovanni XXIII, Pacem in Terris,
contribuendo a consolidare l’impressione che una nuova età di progresso e di pace potesse finalmente
liberare il Novecento dagli incubi che lo avevano fin lì accompagnato.
LA CRISI DELLO STATO SOCIALE: Gli ultimi anni del 900 registrarono trasformazioni radicali che
avrebbero poi caratterizzato l’inizio del XXI secolo. Uno dei processi cruciali fu la cosiddetta
Decolonizzazione: mentre il Primo e il Secondo mondo sembravano avviarsi sulla via della coesistenza
pacifica, quello che si definì Terzo mondo (Conferenza internazionale di Bandung, 1955)si rivelò un focolaio
inesauribile di tensioni. Si calcola che tra il 1945 e il 1983 circa 20 milioni di persone persero la vita nei più
conflitti che si svolsero. Tali conflitti ebbero origine da sviluppi storici che portarono anche nel terzo mondo il
Capitalismo. Il sistema coloniale, che si legittimava ideologicamente attraverso la propria missione
civilizzatrice, esplose con violenza proprio negli anni 60.
FRANTZ FANON: Ed è proprio negli anni 60 che spicca il francese Frantz Fanon con la sua opera “I dannati
della terra”, in cui troviamo un teoria della Liberazione attraverso la violenza: vengono criticati principalmente
il dominio coloniale e l’insieme di stereotipi a sfavore dei colonizzati. Quel che manca nel nuovo mondo
coloniale è la reciprocità della relazione, che consente l’avvio della dialettica del riconoscimento: qui il
signore se ne infischia della coscienza del servo. Non ne vuole il riconoscimento ma il lavoro. La Situazione
coloniale (descritta da Fanon) trova il proprio elemento costitutivo in una strutturale asimmetria, in cui le
espressioni centrali sono razzismo e apartheid.
È la scoperta dell’uguaglianza ciò che fa saltare il sistema coloniale: quando il colonizzato si accorge che la
sua vita vale quanto quella del colono, avviene una scossa nel mondo. Ogni sfida portata al regime coloniale
consolida l’impressione della sua vulnerabilità. Per Fanon esisteva dunque la possibilità dell’avvenimento di
un processo di Decolonizzazione. Nel frattempo, all’interno del Terzo mondo, sembrava valorizzarsi a poco a
poco il concetto di Popolo: tale sviluppo ha improntato diverse varianti del populismo, di cui la più importante
è quella di Ho Chi Minh (1890 – 1969) leader vietnamita. La sua dottrina del comunismo popolare e della
liberazione attraverso la guerra di popolo, esercitò infatti un’enorme influenza in diversi luoghi e in diverse
fasi della storia. Analoghe problematiche i trovavano al centro del pensiero e dell’azione di Ernesto Guevara
(1928 – 1967), il teorico sudamericano della guerra di guerriglia che divenne il mito del guerrigliero eroico
dopo il 68. Egli sintetizzò in tre princìpi fondamentali le sue linee di pensiero: la forze popolari possono
vincere una guerra contro l’esercito; non è sempre necessario aspettare che i diano tutte le condizioni per la
rivoluzione; il terreno della lotta armata deve essere fondamentalmente la campagna.
IL 1968 NEL MONDO: Il conflitto del Vietnam giocò un ruolo decisivo che colpì l’opinione pubblica,
sollevando interrogativi sulla stessa qualità di quella democrazia che aveva preteso di porsi come sintesi dei
moderni ideali di libertà, uguaglianza e progresso. L’opposizione alla guerra in Vietnam fu un tratto
essenziale dei movimenti che in tutto il mondo occidentale si svilupparono alla fine degli anni 60. Ciò vale in
primo luogo per gli Usa, dove le grandi manifestazioni antimilitariste, insieme alle rivolte dei neri, alla
contestazione universitaria, al femminismo, contribuirono a incrinare l’immagine di una metropoli imperiale
totalmente pacificata: ma ben presto le rivolte infiammarono tutto il mondo.
Proprio in questa dimensione globale deve essere individuato il primo elemento qualificante del Sessantotto,
il primo movimento antisistemico a diffusione mondiale. Si diede vita ad una aperta critica radicale del
bipolarismo, dei muri che dividevano il mondo. Entrarono in crisi anche quegli equilibri su cui era stato
edificato lo Stato sociale democratico, ponendo al tempo stesso in discussione alcuni dei concetti
fondamentali del pensiero politico moderno: da quello di potere a quello di soggetto. L’insoddisfazione
radicale per gli sviluppi culturali, economici, sociali e politici delle società capitalistiche del dopoguerra fu il
tratto unificante delle diverse dimensioni su cui i movimenti si svilupparono in occidente.
La grande rivolta studentesca che dai campus americani investì le università di tutta Europa, diede per parte
sua espressione a una spaccatura generazionale. Ciò venne sottolineato ancor di più da Marcuse, che
espresse la formula del “Grande Rifiuto”, con cui erano designate le forme di azione rivoluzionaria dei
soggetti rimasti esterni (socialmente o perché abitanti nel Terzo mondo) alla macchina della società
industriale avanzata, che aveva neutralizzato le forze della trasformazione (la classe operaia). Il pensiero di
Marcuse esercitò una grande influenza sul Sessantotto. Focault invece vedeva nella politica la “guerra
continuata con altri mezzi”: ai concetti di Sovranità, Consenso, Obbedienza, egli proponeva di sostituire
quelli di Dominazione e Assoggettamento. Ma ancora più centrale era per Focault il concetto di Resistenza,
inteso come il necessario antagonista delle stesse relazioni di potere. Le resistenze avevano trovato nelle
lotte degli anni 60 e 70 forme di espressione che tendevano tutte alla destabilizzazione dei meccanismi di
potere.
FEMMINISMO: Dagli anni 70, sono i movimenti femministi (di cui Betty Friedan, in Usa, e Carla Lonzi, in
Italia, sono due importanti sostenitrici) a criticare la struttura patriarcale della società, mettendo in
discussione l’idea che i confini della politica possano essere stabiliti una volta per tutte. Il movimento
femminista rivoluziona il modo di guardare alla vita quotidiana: la dominazione dell’uomo sulla donna non
era più razionalmente giustificabile. Ma esistono più tipologie di femminismo:
- Femminismo Liberale: pone l’attenzione sui singoli fattori che contribuiscono alle disuguaglianze tra
uomini e donne, come la discriminazione nel lavoro, nella scuola ecc. Questo approccio tende a concentrarsi
sulla difesa e sulla promozione delle pari opportunità. Le femministe liberali lavorano all’interno del sistema
esistente per riformarlo in maniera graduale.
- Femminismo Radicale: l’idea di base è che gli uomini siano responsabili dello sfruttamento delle donne e
ne traggano benefici. Si pongono quindi l’analisi del potere patriarcale (dominazione sulle donne da parte
degli uomini). Le femministe radicali puntano a un rovesciamento totale dell’intero sistema attuale. I mezzi di
comunicazione, la moda e la pubblicità, infatti, ridurrebbero le donne a oggetti sessuali, il cui ruolo primario è
quello di intrattenere gli uomini.
- Femminismo Nero: le divisioni etniche tra donne non sono prese in considerazione dalle principali scuole
di pensiero femministe, che si concentrano sulle donne bianche. Questa insoddisfazione ha portato alla
nascita di un femminismo nero, che si interessa delle donne di colore.
MOVIMENTI AFROAMERICANI: Uno degli elementi fondamentali che contraddistinsero il Sessantotto
statunitense fu l’inasprirsi della protesta afroamericana. Soprattutto dopo l’omicidio in quell’anno di Martin
Luther King (1929 – 1968) le insurrezioni nere si diffusero a macchia d’olio in tutto il paese, concludendosi
con decine di morti e migliaia di arresti. Negli anni 50, negli Stati del Sud, la segregazioni sociale e spaziale
dei neri era totale, e le proteste non violente dovevano comunque scontrarsi con una reazione durissima da
parte delle istituzioni locali e dei razzisti bianchi. Martin Luther King, premio nobel per la pace nel 1964,
denunciò l’intervento americano in Vietnam, ma la sua leadership stava decadendo a causa di una nuova
generazione di militanti, che si rivolgeva direttamente ai giovani neri dei ghetti metropolitani del nord,
interpretandone la rabbia, la disillusione e la disponibilità allo scontro diretto con le istituzioni.
Tra questi emerse in particolare la carismatica figura di Malcolm X (1925 – 1965) il quale pubblicò la sua
Autobiografia nel 1964, un anno prima di essere assassinato: nel libro raccontava la sua esperienza
quotidiana, nelle strade e nelle prigioni. Negli ultimi mesi della sua vita analizzò il rapporto tra capitalismo e
razzismo, e assunse un punto di vista socialista, qualificandosi come Afroamericanismo, o nazionalismo
nero. Il suo cognome, Little, fu sostituito con una X, in quanto il primo rimandava all’esperienza della
schiavitù. La critica radicale al potere bianco iniziata da Malcolm X fu proseguita dal Black Power, parola
coniata nel 1966 da Carmicheal. Il Black Power entrò a far parte del Partito della Pantera Nera, e l’idea di
fondo era trasformare il movimento dei neri d’America in un movimento capace di acquisire ed esercitare un
potere autonomo, anche con l’uso di armi, all’interno delle comunità. Il Governo federale reagì duramente, e
il movimento cadde.
SINISTRA E DESTRA: La crisi petrolifera del 1973 pone simbolicamente fine al grande ciclo
espansivo delle economie occidentali del dopoguerra. L’economista marxista statunitense James O’Connor,
nel suo libro “La crisi fiscale dello Stato (1973)”, postulò una contraddizione tra le istanze di accumulazione
sociale e le istanze di legittimazione dello Stato capitalistico. Egli proponeva delle alternative in ogni aspetto
della società capitalistica, la quale invece di creare una crescita complessiva del settore pubblico,
avvantaggiava le industrie private. La discussione marxista sullo Stato nel corso degli anni 70 ebbe una
curvatura particolare in Italia, dove il cosiddetto “autunno caldo” (lotte di fabbrica nel 1969) pose le condizioni
per l’incontro fra il radicalismo studentesco e il nuovo radicalismo operaio, che nutrì un decennio di
conflittualità sociale.
Durante il lungo 68 italiano nacquero, all’interno della sinistra extraparlamentare, gruppi armati come le
Brigate rosse. I Partiti comunisti d’Europa stavano dando vita all’eurocomunismo. Se gli anni intorno al 68
registrarono effettivamente una sostanziale egemonia della cultura di sinistra nel discorso pubblico dei paesi
occidentali, l’inizio del decennio successivo fu contraddistinto da una vigorosa ripresa del pensiero
neoliberale e neoconservatore, che fin per investire Usa e Europa. Neoliberali e Neoconservatori si
trovarono uniti nel contestare le pretese di regolazione sociale dello Stato, gli uni in nome di una
riproposizione dei princìpi del libero mercato, e gli altri verso la difesa di valori e tradizioni che ritenevano
minacciati dal potere politico e da i movimenti sociali.
CRISI DELLA DEMOCRAZIA: A metà degli anni 70 fu pubblicato un rapporto sulla governabilità delle
democrazie, redatto da Crozier, Huntington, e Watanuki, con il nome di “La crisi della democrazia”. Secondo
l’analisi da essi proposta, la democrazia degli anni 70 aveva finito per generare una serie di squilibri da cui
era derivata una vera e propria spirale del’ingovernabilità. L’aumento della partecipazione democratica
aveva condotto il popolo ad aspettarsi dallo Stato molto di più di quanto quest’ultimo potesse fare. Le
possibilità di intervento e le capacità di direzione dello Stato venivano considerate troppo scarse per far
fronte alle crescenti aspettative sociali, provocando una contrazione della legittimità dei governi. La terapia
proposta si fondava sulla riduzione dello Stato sociale, attuando un decentramento politico-amministrativo
che avrebbe esonerato il sistema politico da tutte le richieste che andavano oltre i suoi limiti.
Stava ritornando a galla l’idea del Costituzionalismo, secondo cui dovrebbero essere posti dei limiti
all’esercizio di ogni forma di potere, anche di quello democratico. James M. Buchanan (economista
statunitense) parlava infatti dell’invadenza del potere pubblico nello sviluppo delle politiche sociali: lo Stato
doveva abbandonare, secondo Buchanan, la configurazione produttiva assunta nel secondo dopoguerra,
recuperando la propria originaria funzione di Stato protettivo, in grado di far rispettare i diritti e le regole.
IL NUOVO LIBERALISMO: RAWLS, NOZICK, DWORKIN.
RAWLS: All’inizio degli anni 70, John Rawls pubblicò “Una teoria della giustizia”, in cui tentava di analizzare
la crisi generale che aveva colpito lo Stato, e si impegnava a formulare e a comprendere l’ideale di giustizia
sociale che il Welfare State doveva seguire. Rawls espone nel suo libro un esperimento simile: immaginiamo
che un gruppo di individui, privati di qualsiasi conoscenza circa il proprio ruolo nella società, i propri talenti, il
proprio livello intellettuale e culturale, le proprie caratteristiche psicologiche e i propri valori, dovesse
scegliere secondo quali principi di fondo deve essere gestita la società in cui vivono. Tali individui sarebbero
in una posizione originaria e sotto un velo d'ignoranza. Potendo conoscere soltanto fatti generali, le parti
erano così in grado di formulare princìpi distributivi giusti e razionali, quindi equi, a cui si sarebbero attenute
una volta rientrate in società. Egli, dunque, intendeva la Giustizia come Equità.
Nella giustizia Rawls faceva rientrare i diritti fondamentali classici difesi dalla tradizione liberale (diritti di
libertà civili e politici). Egli rifiutava di ritenere irrilevanti le disparità nella distribuzione della ricchezza sociale:
la sua idea era quella di massimizzare il valore che ha per i meno avvantaggiati lo schema globale
dell’eguale libertà condivisa da tutti, definendo il fine della giustizia sociale. Secondo il Principio di differenza,
le ineguaglianze tra i membri della società sono giustificate solo se comportano un beneficio, anche per i
meno avvantaggiati. Ciò porterebbe ad un risultato equo: nella società nessuno avrebbe né troppo, né
troppo poco.
DWORKIN: Dworkin modifica leggermente la teoria di Rawls improntandola più verso il sostegno di politiche
volte a mitigare le disuguaglianze sociali. Si tratta di includere esplicitamente la posizione occupata dagli
individui nella distribuzione dei talenti naturali e il rischio corso da ciascuno di essere colpito dai vari
svantaggi naturali (handicap). La soluzione è per Dworkin l’investimento in una polizza assicurativa di una
parte delle risorse a disposizione di ciascuno: le imposte sul reddito di ciascuno consentono di finanziare i
sussidi sociali, sanitari e di disoccupazione con cui lo Stato sociale interviene a favore degli svantaggiati.
NOZICK: Acuto critico di Rawls, pur riprendendo gli aspetti anti-utilitaristici, Nozick osservava nel 1974, nel
suo lavoro “Anarchia, Stato e Utopia”, che l’opera di Rawls era di filosofia politica e morale vigorosa. Ma
Nozick è importante per la formulazione dei princìpi fondamentali dello Stato minimo che al Welfare State
sarebbe stato contrapposto negli anni successivi dai teorici neoliberali di cui si è parlato. Uno Stato minimo è
ridotto strettamente alle funzioni di protezioni contro la forza, il furto, la frode, di esecuzione dei contratti e
così via: qualsiasi stato più esteso viola i diritti delle persone. Lo Stato non può usare il suo apparato
coercitivo allo scopo di far sì che alcuni cittadini ne aiutino altri, o per proibire alla gente attività per il suo
proprio bene o per la sua propria protezione: in tal caso, lo Stato non è giustificabile. Nozick espone anche
una teoria sull’Autoappartenenza degli individui, ossia che ciascuno di noi, in quanto individuo autonomo, è
proprietario di sé, e lo Stato non deve intromettersi con le sue propaggini nell’ambito dei diritti dell’individuo.
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