Università Commerciale Luigi Bocconi Econpubblica Centre for Research on the Public Sector WORKING PAPER SERIES Sulla nozione di giustizia sociale Roberto Artoni Working Paper n. 161 May 2012 www.econpubblica.unibocconi.it Sulla nozione di giustizia sociale (Roberto Artoni) Introduzione Al fine di inquadrare le tematiche della giustizia sociale è utile fare riferimento alla definizione di John Rawls, che identifica questo concetto con le modalità con cui «le più rilevanti istituzioni sociali distribuiscono i diritti e i doveri fondamentali e determinano la distribuzione dei benefici derivanti dalla cooperazione sociale. Con il termine istituzioni più rilevanti faccio riferimento alla costituzione politica e alle principali strutture economiche e sociali» (Rawls, 1999, p.6, trad. nostra) Data la definizione, devono essere delineati i criteri ai quali deve ispirarsi l’azione politica perché si possa affermare che la società giusta o la giustizia sociale sia effettivamente realizzata. In quest’ambito si può fare riferimento in primo luogo ad impostazioni filosofiche di portata generale. Per la tradizione utilitaristica, scopo dell’azione pubblica deve essere la massimizzazione della somma delle utilità individuali (o di analoghe formulazioni); gli interventi saranno più o meno incisivi (in termini di redistribuzione delle risorse) a seconda che si ammetta o meno la possibilità di comparazione interpersonale delle utilità. La seconda impostazione, di derivazione kantiana (per la quale ciò che è giusto deve avere priorità rispetto a ciò che è bene o utile), ritiene giusta una società che adotti criteri che sarebbero scelti da tutti gli individui in condizioni d’ignoranza. Infine, in una visione che ritiene privo di significato lo stesso concetto di giustizia sociale e improprie tutte le politiche redistributive che ne possono discendere, una società è giusta quando sono rispettati i diritti individuali, ivi compreso quello di proprietà. In un contesto attinente alla storia e alla teoria economiche, il concetto di giustizia sociale ha trovato riferimenti concreti nell’analisi del funzionamento del sistema capitalistico. L’esigenza di interventi che attenuassero gli effetti della prima rivoluzione industriale è già sostenuta da Stuart Mill. In Germania i socialisti della cattedra, in un periodo successivo, hanno cercato di razionalizzare i necessari correttivi ai fenomeni d’industrializzazione e di urbanizzazione della seconda rivoluzione industriale. La grande depressione degli anni ’30 ha suscitato riflessioni importanti sulla possibilità di estensione dei meccanismi di mercato a tutti gli ambiti della vita sociale ed economica. Nel secondo dopoguerra, anche come risposta alle temute prospettive di rivolgimenti sociali, è stato elaborato il concetto di uguaglianza (e quindi di giustizia), allargandola dalla sfera dell’esercizio dei diritti politici a quella di una partecipazione consapevole alla vita collettiva attraverso l’esercizio dei diritti di cittadinanza. D’altro canto, l’analisi economica ha portato ad una migliore interpretazione dei fallimenti di mercato, ovverosia delle circostanze in cui anche un idealizzato funzionamento del meccanismo concorrenziale non porta ad esiti ottimali nel senso paretiano. Si può sostenere che lo sviluppo dello stato sociale nei decenni successivi alla seconda guerra mondiale sia stato il risultato congiunto di un approfondimento del concetto di democrazia e di una più precisa lettura del funzionamento dei sistemi capitalistici. Solo negli ultimi decenni sono state proposte linee di politica portatrici di una visione riduttiva della nozione di giustizia sociale. 1 Le tematiche della giustizia sociale trovano poi significative elaborazioni in concetti che si collocano trasversalmente rispetto alle impostazioni di carattere generale cui abbiamo fatto cenno. L’elaborazione del significato di meritocrazia e di uguali opportunità, l’individuazione delle sfere di giustizia specifiche a particolari beni in alternativa alla ricerca di principi onnicomprensivi, la definizione e l’interpretazione dei beni posizionali sono oggetto di approfondite analisi. L’utilitarismo Nella formulazione tradizionale «l’utilitarismo sostiene che l’azione o la politica moralmente giusta è quella che produce la maggiore felicità per i membri della società» (v. Kymlicka 2001, p.10). Data la definizione, nell’utilitarismo possono essere individuati tre elementi essenziali. Un primo elemento è costituito dal welfarismo, conseguendone che il benessere o la felicità sono valutati esclusivamente in base all’utilità, escludendosi ogni informazione diversa dall’utilità individuale, comunque la si voglia definire. In secondo luogo, vale il criterio dell’ordinamento per somma, dovendosi per questa via aggregare tutte le utilità individuali afferenti ad una particolare situazione. Infine, vale il consequenzialismo, con l’implicazione che ogni azione collettiva deve essere valutata in termini dei risultati che ne conseguono, qualunque siano le motivazioni che ne sono all’origine (v. Sen 1987, p.52, trad.it.). Due sono le attrattive dell’utilitarismo: l’importanza del grado di benessere o di felicità individuale di tutti gli individui, e l’idea che anche le regole morali debbano essere valutate in base alle loro conseguenze sul benessere umano e non in relazione a criteri esogeni. Severe sono peraltro le critiche rivolte all’impostazione di fondo di questa corrente filosofica: dalla difficoltà di misurare l’utilità o il benessere di una persona (associata alla considerazione che esistono valori ed orientamenti individuali che non possono essere ricondotti al livello di soddisfazione raggiunto), al fatto che l’utilità individuale può originare da motivazioni moralmente inaccettabili, al fatto infine che l’aggregazione dei livelli individuali di utilità può portare nei suoi effetti alla compressione di diritti personali giudicati inviolabili (Sandel 1982). In questa sede conviene soffermarsi sul fatto che l’utilitarismo nella sua impostazione originale presupponeva sia la misurabilità, sia la comparabilità delle utilità individuali. Se questi presupposti erano poi associati all’ipotesi di utilità marginale decrescente del reddito (tipicamente adottata dagli economisti), ne derivava che una coerente applicazione dei principi utilitaristici avrebbe portato all’adozione di politiche fortemente egualitaristiche; si sarebbe, in altri termini, affermata una concezione di giustizia sociale che, in un periodo di progressiva estensione della democrazia formale, sarebbe risultata inaccettabile per tutti i ceti borghesi che nel corso dell’Ottocento venivano affermando il loro ruolo sociale ed economico. Pur rimanendo in un contesto utilitaristico, gli sviluppi della teoria economica, nel filone della Nuova Economia del Benessere, sono stati indirizzati a delineare un’impostazione di politica economica, e quindi di giustizia sociale, che non fosse suscettibile d’interpretazioni estreme e comunque incompatibili con il buon funzionamento di un sistema fondato sulla proprietà privata e sulla libera impresa. Di fatto si convenne che, da un lato, la misurabilità dell’utilità non era essenziale (si passò da una concezione cardinale ad una ordinale di utilità) e, dall’altro, si separarono le analisi di efficienza da quelle aventi per oggetto i problemi distributivi. Più precisamente, il concetto di ottimalità paretiana (che si realizza quando è impossibile incrementare l’utilità di un individuo senza diminuire quella di altri) divenne il riferimento fondamentale per le analisi di politica economica. In 2 questo contesto il concetto di giustizia si sovrappone ampiamente con quello di efficienza nell’utilizzo delle risorse: un sistema è giusto quando, per una data distribuzione delle risorse, l’efficienza paretiana è realizzata. La drastica delimitazione delle possibilità di azioni di politica economica connessa all’adozione del principio di Pareto (nella generalità dei casi gli interventi violano il criterio paretiano), e la conseguente inadeguatezza del concetto di giustizia in esso implicito, ha avuto come conseguenza che si avviasse la ricerca di canoni distributivi effettivamente applicabili e logicamente inseribili nella Nuova Economia del Benessere; si doveva in altri termini scegliere fra le possibili distribuzioni del reddito quella socialmente preferibile e su questa base costruire poi l’edificio dell’efficienza paretiana. In questo contesto si inserisce il Teorema d’Impossibilità di Arrow (v. Arrow 1963): nel rispetto di alcune caratteristiche connaturate a processi di scelta democratici non esiste un meccanismo capace di aggregare in modo coerente le preferenze individuali, qualunque esse siano, in un quadro informativo da cui siano bandite le comparazioni interpersonali di utilità. L’impossibilità di aggregazione, o di scelta della distribuzione socialmente preferita, è tanto più probabile quanto più divaricati sono i criteri valutativi adottati dai componenti della collettività, fatto del tutto verosimile quando si devono affrontare scelte concernenti la ripartizione delle risorse. Per converso, la possibilità di aggregazione delle preferenze individuali, richiede che sia allargata la dimensione informativa su cui fondare la scelta, introducendo di fatto principi equitativi condivisi (v. Sen A., Preferenza, confronti di benessere e misurazione sociale: una visione d’insieme in Scelta, benessere, equità, (a cura di) S. Zamagni, Bologna 1986). Rawls Un importante tentativo di superamento dell’utilitarismo (in particolare nella sua vaghezza sulla tutela dei diritti individuali e nella sua indeterminatezza sulle tematiche distributive) si ha con A Theory of Justice di John Rawls (v. Rawls 1999), che tenta di delineare le linee fondamentali di una società costruita sulla base di una concezione di giustizia come equità. Riprendendo tematiche kantiane, Rawls sottolinea che alla base di ogni teoria etica stanno i due concetti di “buono” e di “giusto” e che le diverse teorie si distinguono per le modalità con cui connettono le due nozioni. Vi sono teorie, definite teleologiche, che, da un lato, definiscono il bene indipendentemente dal giusto e, dall’altro, individuano ciò che è giusto nelle azioni che massimizzano il bene. Le teorie utilitariste rientrano in quest’ambito (v.Rawls 1999, p.25). Al contrario vi sono le teorie deontologiche, come quella di Rawls, in cui ciò che è giusto viene definito indipendentemente da quello che è bene e la giustizia non viene definita in ragione della sua idoneità a massimizzare ciò che viene giudicato bene o utile (v.Rawls 1999, p.26). Il problema si sposta quindi nell’individuazione delle modalità con cui una collettività sceglie i criteri o i principi di giustizia. Nella visione di Rawls questi principi coincidono con quelli che individui liberi e razionali sceglierebbero in una posizione originaria di uguaglianza, caratterizzata da un velo d’ignoranza riguardante la posizione che i singoli individui occuperanno effettivamente nella società. La posizione originaria rappresenta secondo Rawls l’appropriato status quo iniziale che garantisce l’equità, o la giustizia, degli accordi fondamentali. 3 Rawls individua due principi di giustizia alla base del contratto sociale: Primo: ogni persona ha un uguale diritto al più esteso sistema di libertà fondamentali compatibilmente con il fatto che un simile sistema di libertà valga per tutti gli altri individui. Secondo: le diseguaglianze economiche e sociali devono essere organizzate in modo da essere (a) presumibilmente di vantaggio per ogni individuo e (b) connesse a posizioni e cariche aperte a tutti. Questi principi devono essere ordinati in modo lessicografico, con il primo antecedente il secondo. Ne deriva che qualsiasi violazione delle libertà fondamentali, uguali per tutti, non può essere giustificata o compensata anche da elevati benefici collettivi. Il secondo principio, oltre ad escludere ogni forma di discriminazione nell’accesso a cariche, introduce il principio di differenza: tutti i beni primari- libertà e opportunità, reddito e ricchezza e le basi sociali dell’autostima- devono essere distribuiti in modo uguale, salvo che una distribuzione ineguale non torni a vantaggio di ognuno. L’ingiustizia dunque si manifesta nel modo più diretto quando le ineguaglianze non sono di beneficio per tutti (Rawls, 1999, p. 54, trad. nostra). Sul significato del principio di differenza applicato ai beni primari (intesi come quei beni che, per il loro carattere strumentale tutti vorrebbero per poter perseguire il proprio piano di vita) si è soffermata ampiamente la letteratura. Qui conviene soffermarsi su alcune implicazioni di ordine economico. In primo luogo, la teoria di Rawls non definisce una distribuzione finale giusta o socialmente appropriata: i beni primari sono meri strumenti per la realizzazione delle opzioni individuali (v. Roemer, 1996. P.163). E’ poi evidente che la concezione di giustizia di Rawls apre lo spazio ad ampi interventi redistributivi. Rawls in alcuni suoi lavori sembra tuttavia valutare criticamente l’esperienza storica dello stato sociale europeo, caratterizzato da sostanziale disuguaglianza nelle distribuzione iniziale della proprietà e delle doti naturali e dove si interviene sulla distribuzione solo ex post. A suo giudizio, si deve invece ricercare la democrazia a proprietà privata: in questo regime è fondamentale il perseguimento dell’uguaglianza delle opportunità, investendo nel capitale umano e facendo sì che il funzionamento del mercato produca all’origine meno disuguaglianze (v. Kymlicka 2001, p.89). Gli sviluppi più significativi della teoria di Rawls, se considerata nelle sue possibili applicazioni concrete, si ritrovano nell’approccio della capacità di Sen. Abbiamo già sottolineato che la prima parte del secondo principio di giustizia di Rawls richiede che sia tendenzialmente uguagliato per tutti gli individui un vettore di beni primari (per loro natura utilizzabili per la realizzazione delle finalità individuali liberamente scelte). Al contrario, Sen ritiene che non sono rilevanti i beni primari in sé, quanto quello che i beni possono fare per chi ne ha la disponibilità; si usa il termine functionings per indicare appunto le attività o gli stati che contribuiscono al benessere individuale e che traggono origine dall’utilizzo di beni specifici in determinate circostanze. Ai functionings corrispondono le capacità individuali di realizzare queste potenzialità positive. Nell’analisi di Sen l’obiettivo di una società giusta è quello di massimizzare la capacità di utilizzare le funzionalità che concorrono al benessere individuale (Sen A., Preferenza, confronti di benessere e misurazione sociale: una visione d’insieme in Scelta, benessere, equità (a cura di S. Zamagni), Bologna 1986). A titolo di esempio, la mobilità costituisce una funzionalità che contribuisce al benessere individuale, ma gli individui, per qualsiasi motivo, possono non essere in grado di sfruttare questa possibilità in ugual misura, in quanto caratterizzati da diverse capacità. Sono quindi giustificate forme articolate di intervento pubblico o di politiche 4 distributive, finalizzate alla massimizzazione dell’insieme delle capacità individuali; una politica di uguaglianza delle risorse, come sembra essere implicito nel principio rawlsiano di attribuzione omogenea del beni primari, potrebbe risultare inefficiente quando le situazioni soggettive sono diverse. Le teorie libertarie: Hayek e Nozick La terza linea d’indagine di origine filosofica rilevante per la definizione della nozione di giustizia sociale è costituito dalle teorie definite libertarie. Il primo necessario riferimento è costituito dall’opera di Frederick von Hayek, basata sul concetto di ordine sociale spontaneo, contrapposto a quello di organizzazione. L’ordine sociale si forma per evoluzione ed è in grado di perpetuarsi attraverso meccanismi endogeni per loro natura spontanei e non inquadrabili a priori; a sua volta il concetto di organizzazione si identifica con assetti creati artificialmente. Le organizzazioni possono essere applicate alla gestione di problematiche semplici, che, rientrando nei limiti delle capacità intellettive umane, sono tendenzialmente finalizzate alla tutela degli interessi di coloro che le hanno create (v. Donzelli, 1988, p.44). Al contrario, l’ordine sociale spontaneo è tipico delle strutture complesse in cui i problemi di coordinamento trascendono le conoscenze che possono essere padroneggiate dalla mente umana. Nella visione di Hayek il meccanismo di mercato, articolato nel sistema dei prezzi e in un assetto concorrenziale, è in grado di produrre un ordine sociale autoperpetuantesi e autorigenerantesi in un contesto di assoluta neutralità nei confronti degli interessi individuali. La causa di fondo, lontana da ogni ipotesi di creazione razionale e consapevole a priori, deve essere ricondotta al fatto che solo il meccanismo di mercato è in grado di utilizzare e di coordinare le conoscenze e le aspirazioni individuali (v. Donzelli 1988, p.46). Il meccanismo di mercato deve essere tuttavia lasciato operare liberamente, al di fuori di ogni indebita interferenza riconducibile alla ricerca della giustizia sociale o a interventi nella sfera distributiva. E’ a questo punto agevole identificare l’accezione di giustizia sociale che emerge dalla più generale visione hayekiana. La giustizia, e i concetti connessi di legge e moralità, non sono, nel loro vero significato, il risultato di esplicite azioni pubbliche, ma le conseguenze della ricerca spontanea e non preordinata di un ordine sociale storicamente appropriato; più spesso quello che si chiama giustizia, soprattutto nei regimi parlamentari, è secondo Hayek la manifestazione della volontà della maggioranza che si risolve in provvedimenti legislativi che danneggiano le minoranze. E’ appunto la ricerca della cosiddetta giustizia sociale che nella seconda metà del XX secolo ha dominato le scelte in materia di politica economica e sociale. Così facendo si è inserito il concetto di giustizia o ingiustizia nella sfera sociale o sovraindividuale, piuttosto che riconnetterla alla dimensione individuale, dove dovrebbe trovare, come riflesso dell’individualismo metodologico hayekiano, collocazione. Ma Hayek rifiuta anche i concetti di merito o bisogno come criteri distributivi, per la loro indeterminatezza, e per l’arbitrarietà che sarebbe necessariamente associata alla loro applicazione. Il punto essenziale dell’argomentazione di Hayek è infatti il seguente «le distribuzione sulla base di questi criteri …spezza il nesso fra remunerazione e servizio reso, che è l’unica garanzia di efficienza economica » (Gray, 1984, p.73, trad. nostra). In altri termini il sistema di mercato è intrinsecamente giusto, e ogni tentativo di correggerne il libero funzionamento non può che portare ad esiti negativi. 5 In continuità rispetto a Hayek e in contrapposizione a Rawls, Robert Nozick elabora una concezione del tutto non interventista di giustizia sociale. Anche per Nozick, come per Rawls, il punto di partenza analitico è costituito dal riferimento ad una posizione originaria o, nella sua terminologia, ad uno stato di natura. Ma contrariamente al velo d’ignoranza di Ralws (che per l’intrinseca incertezza porta a soluzioni tendenzialmente ugualitaria nella distribuzione dei beni primari), lo stato di natura di Nozick si caratterizza per il fatto che gli individui hanno diritti dei quali sono consapevoli; da ciò segue che «ci sono cose che nessuna persona o cosa può fare senza violare i loro diritti» (Nozick, 1974, p. ix) o, in altri termini, si pone il problema della legittima estensione dell’azione dello stato, data l’inviolabilità di questi diritti. In questo contesto il ruolo dello stato deve essere minimo, limitandosi alla protezione contro i comportamenti fraudolenti e alla garanzia del rispetto dei contratti. Lo stato non può peraltro costringere gli individui a compiere azioni a favore di altri o impedire loro di agire a proprio vantaggio. La conseguenza in termini di definizione della giustizia sociale è immediata: una società è giusta quando protegge i diritti degli individui. Sul piano più strettamente distributivo, le allocazioni delle risorse sono giuste quando i detentori hanno titolo valido alla proprietà dei beni o quando sono verificati i seguenti principi fondamentali: 1. Una persona che acquisisce un bene nel rispetto del principio della giustizia lo acquisisce in modo legittimo. 2. Una persona che acquisisce un bene nel rispetto del principio di giustizia, anche nel trasferimento ha titolo valido al possesso di quel bene. 3. Nessuno ha titolo valido al possesso di un bene se non per effetto della ripetute applicazione dei principi 1 e 2. Il principio della giustizia distributiva, nella sua formulazione completa afferma semplicemente che una distribuzione è giusta quando ognuno ha titolo valido ai beni che possiede in quello specifico assetto distributivo. (v. Nozick 1974, p.151, trad. nostra) Tutto si risolve, come è stato osservato (v. Roemer 1996) nelle definizioni di giustizia nella distribuzione e di giustizia nei trasferimenti. Rimane il fatto che Nozick, come Hayek, assume un atteggiamento del tutto negativo nei confronti delle politiche welfaristiche che hanno caratterizzato la storia sociale dei paesi occidentali nel secondo dopoguerra. Qui merita di essere sottolineato che sia il libro di Rawls, sia quello di Nozick sono pubblicati pochi anni dopo la presidenza Johnson, caratterizzata da un più esteso coinvolgimento dello stato nella sfera sociale. Al di là dell’ inevitabile indeterminatezza sul piano operativo, entrambi gli autori hanno fornito un organico riferimento concettuale, rispettivamente, a sostenitori e oppositori delle politiche welfaristiche. Analisi economica e giustizia sociale Oltre che inquadrato in ambito filosofico, il concetto di giustizia sociale, nelle sue successive declinazioni, può essere interpretato come la risposta, o il tentativo di risposta, alle grandi trasformazioni dei sistemi produttivi. In altri termini, la nozione di giustizia sociale, lungi dall’essere un concetto astratto (o inquadrabile in semplici formule di natura filosofica) è storicamente determinata. 6 Diverse nozioni di giustizia sociale emergono infatti dalle storia delle dottrine economiche. Muovendosi in sostanziale parallelismo con le impostazioni filosofiche richiamate, l’analisi economica ha individuato limiti nel funzionamento del meccanismo di mercato concretamente esistente; su questa base sono state avanzate e in molti casi concretamente realizzate forme d’intervento pubblico finalizzate alla soluzione dei problemi più urgenti, e quindi alla realizzazione di una società ben funzionante anche sul piano sociale. Una società giusta è quindi una società che riesce ad affrontare in modo ordinato le sfide che l’evoluzione economica pone in seguito alla continua rottura degli equilibri preesistenti. E’ interessante sottolineare in via preliminare che i compiti attribuiti allo stato, sulla base di una concreta analisi storica e istituzionale, si sono progressivamente cumulati nel tempo fino a raggiungere le dimensioni che oggi caratterizzano tutti i paesi sviluppati. Solo nell’ultimo ventennio del secolo XX hanno assunto rilievo analitico e influenza politica filoni di pensiero orientati a ridimensionare il ruolo pubblico nel perseguimento di obiettivi di natura sociale. Seguendo il processo storico, John Stuart Mill è il primo autore che ha affrontato il problema degli interventi necessari a creare una società giusta, pur rimanendo nel contesto di un’economia liberale. Gli effetti sociali della prima rivoluzione industriale dimostrano, nella sua analisi, che l’individuo non è sempre il miglior giudice dei propri interessi quando si devono intraprendere attività che tendono a innalzare il carattere degli esseri umani o quando la necessità di adottare un riferimento di lungo periodo contrasta con la tendenza a soddisfare le esigenze immediate. La necessità di sviluppare l’educazione pubblica, d’introdurre forme di regolazione del lavoro, di varare tutele previdenziali è appunto conseguenza del fatto che la razionalità individuale è limitata e che le capacità di autotutela non sono uniformemente distribuite nella popolazione. Sempre Stuart Mill ha auspicato l’introduzione di imposte di successione che colpissero le fortune immeritate, in quanto non risultanti dallo sforzo individuale, al fine di evitare che le eccessive concentrazioni di ricchezza. Le tesi, o più propriamente le sollecitazioni di politica economica, di Mill possono essere inquadrate in una prospettiva utilitaristica, ma possono essere, forse più proficuamente, lette come il risultato di un’attenta lettura della realtà e dei problemi sociali che le profonde trasformazioni economiche inevitabilmente suscitano. (v. Artoni 1982, p.90) Dall’analisi della realtà discende certamente la prima sistematica legislazione sociale, varata in Germania a partire dal 1881, orientata sia al perseguimento di un concetto di giustizia operativo, sia alla conservazione dell’assetto vigente, potenzialmente minacciato dalle istanze socialiste. La seconda rivoluzione industriale, che in Europa ebbe il suo centro in Germania, fu infatti caratterizzata da un’industrializzazione fondata sulla grande impresa e da una forte urbanizzazione: alla distruzione della famiglia patriarcale, tipica del mondo contadino con i suoi informali meccanismi di sostegno fra le diverse generazioni appartenenti allo stesso nucleo, si fece fronte con un compiuto sistema di interventi legislativi capaci di proteggere gli addetti all’industria manifatturiera dai grandi rischi dell’esistenza. Di fatto, il modello di legislazione sociale tedesca ha ispirato analoghi interventi in tutti i paesi avanzati; alla sua origine è stato concettualmente inquadrato dal cosiddetto socialismo della cattedra (v. Cusumano 1875). Si deve comunque ricordare che sia le prime enunciazioni di Mill, sia le effettive realizzazioni della Germania bismarckiana suscitarono opposizioni anche sul piano analitico. Alla fine dell’Ottocento ebbe largo seguito (anche in Italia) il darwinismo sociale che considerava le forme di protezione sociale un meccanismo che avrebbe arrestato l’evoluzione della società verso uno stato di massima libertà; in questo stato sarebbero scomparsi tutti gli elementi 7 coercitivi, rappresentati in particolare dall’intervento pubblico in economia in qualsiasi forma (v. Artoni 1985). Anche se rappresentano una fase del suo pensiero destinato a modificarsi successivamente, le posizioni liberiste o anti interventiste sono bene espresse da Einaudi in uno scritto del 1915: “l’organizzazione statale dei più svariati rami di assicurazione sociale è.. un ideale che si muove entro una bassura: l’esistenza di masse umane le quali hanno bisogno di essere costrette alla previdenza, alla organizzazione e alla solidarietà” (v. Einaudi 1921, p.137) . Venendo a tempi a noi più vicini, la grande crisi degli anni ’30 ha fortemente influito sia sull’interpretazione del funzionamento di un sistema economico capitalistico, sia sulla definizione dei compiti dello stato nella sfera sociale. Si possono qui ricordare in primo luogo i più importanti contributi keynesiani: sia la contrapposizione fra una funzione aggregata dell’offerta e una funzione aggregata della domanda, distinte fra di loro, con l’occupazione determinata dall’intersezione di queste due funzioni e non corrispondente necessariamente al pieno impiego, sia l’enfasi sull’ineliminabile propensione all’instabilità dei mercati finanziari (v. Artoni 1989; Minski 1975). Si deve altresì fare riferimento ai contributi di Karl Polanyi che evidenzia le tendenze all’autodistruzione di un meccanismo di mercato autoregolato, quale si era venuto configurando nel decennio successivo alla prima guerra mondiale. «Un mercato autoregolantesi richiede niente meno che la separazione istituzionale della società in una sfera economica ed una politica. Ma un’economia di mercato deve comprendere tutti gli elementi dell’industria compreso il lavoro, la terra e la moneta. Lavoro e terra non sono altro che gli esseri umani stessi dai quali è costituita ogni società e l’ambiente naturale nel quale essa stessa esiste». In particolare, «il lavoro è soltanto un altro nome per un’attività umana che si accompagna alla vita stessa, la quale a sua volta non è prodotta per essere venduta. La terra è soltanto un altro nome per la natura che non è prodotta dall’uomo. La moneta .. è un simbolo del potere d’acquisto che di regola non è prodotto, ma si sviluppa attraverso il meccanismo della banca o della finanza di stato. Nessuno di questi elementi è prodotto per la vendita: la loro descrizione come merce è quindi fittizia» Con riferimento alla disgregazione economica degli anni ’30, Polanyi scrive che permettere al meccanismo di mercato di essere l’unico elemento direttivo del destino degli esseri umani e del loro ambiente naturale e perfino dell’impiego e della quantità del potere d’acquisto porterebbe alla demolizione della società (v. Polanyi 1944, p.92). Negli assetti politici del secondo dopoguerra possiamo cogliere alcune delle sollecitazioni presenti in Keynes e in Polanyi, con l’attribuzione di nuovi compiti ai singoli stati e ad istituzioni sovranazionali allora create; da queste innovazioni è derivato un nuovo, più esteso, concetto di giustizia sociale. Nel 1946 il Congresso degli Stati Uniti, ispirato dagli insegnamenti keynesiani, approvò l’Employment Act, dove si afferma che responsabilità del governo federale era, fra l’altro, la promozione del general welfare e del massimo livello di occupazione (v. Stein 1996). Gli accordi di Bretton Woods, oltre a promuovere la cooperazione finanziaria internazionale, prevedevano il controllo dei movimenti di capitali al fine di evitare fenomeni destabilizzanti. Solo dopo molti decenni ci si rese conto dell’importanza di tutelare le risorse naturali, dopo aver ignorato quanto scriveva Polanyi nel 1944: in un puro contesto di mercato «la natura verrebbe ridotta ai suoi elementi, l’ambiente ed il paesaggio deturpati, i fiumi inquinati» (v. Polanyi 1944, p.94). Ma anche nella tutela dell’individuo, nella sua veste di cittadino e di lavoratore, le analisi critiche sviluppate a seguito della grande crisi hanno prodotto innovazioni radicali rispetto alla legislazione sociale ottocentesca. E’ stata in primo 8 luogo formulata la teoria dei diritti di cittadinanza: «deve esistere una forma di uguaglianza umana fondamentalmente connessa con il concetto di appartenenza ad una comunità che non contrasta con le disuguaglianze che distinguono i diversi livelli economici della società; le istituzioni che hanno i più stretti legami con l’elemento sociale sono appunto il sistema scolastico e i servizi sociali con la conseguenza che le aspirazioni alla riduzione della disuguaglianza possono essere soddisfatte facendo entrare i diritti sociali nello stato della cittadinanza e creando così un diritto universale a un reddito reale non misurato dal valore di mercato del soggetto»(v. Marshall 1976). Nel secondo dopoguerra tutto lo sviluppo dello stato sociale, articolato in modo tale da proteggere gli individui dai grandi rischi dell’esistenza e associato ad un sistema fiscale tendenzialmente progressivo, può essere ricondotta all’obiettivo di coesione o di giustizia sociale fondato sulla realizzazione dei diritti di cittadinanza (v.FloraHeidenheimer 1981). Si noti che poi la stessa teoria economica ortodossa con l’analisi dei limiti dell’economia concorrenziale e l’individuazione dei cosiddetti fallimenti di mercato fornì di fatto un importante sostegno a queste impostazioni di politica sociale, integrando le finalità redistributive con quelle più strettamente efficientistiche (v. Arrow 1963). La protezione dell’individuo come lavoratore si è poi realizzata fondamentalmente attraverso l’introduzione d’istituti contrattuali che, valorizzando il ruolo dei sindacati e dei contratti collettivi di lavoro, hanno permesso lo sviluppo della produzione associato ad un’equilibrata distribuzione del reddito (v. Iversen-Cusack 2000). Il neoliberismo Se le vicende economiche e sociali del periodo che va dalla fine della seconda guerra mondiale agli anni ’70 possono essere ricondotte ad un’impostazione tendenzialmente interventista nella sfera distributiva (la filosofia di Rawls è coerente con questa linea di politica economica), il trentennio successivo è sintetizzabile nel termine neoliberismo, dove hanno assunto rilievo le analisi di Hayek e Nozick. La base analitica del neoliberismo è costituito da un modello, che si ritiene adeguatamente descrittivo della realtà, caratterizzato da perfetta flessibilità dei prezzi e dei beni in cui le aspettative degli operatori sono sistematicamente realizzate. Questo modello è stato assunto come riferimento normativo cui far tendere i concreti assetti economici e sociali. Più precisamente, in questo quadro vengono negate le implicazioni delle analisi di Keynes e Polanyi: non è più giustificata l’introduzione di limiti alla libertà di movimenti dei capitali come previsto dagli accordi di Bretton Woods (anzi, agli operatori finanziari è attribuito di fatto il compito di formulare previsioni coerenti con il modello di riferimento sulla base delle loro informate aspettative); il mercato del lavoro deve essere liberalizzato al fine di garantire la piena flessibilità dei salari, riducendo l’influenza dei sindacati o individualizzando il rapporto di lavoro; gli interventi pubblici devono essere limitati, da un lato, circoscrivendo gli effetti disincentivanti che la tassazione produce sull’offerta di lavoro e risparmio e, dall’altro, privilegiando anche per i grandi rischi dell’esistenza la responsabilità individuale e i sistemi privatistici (Akerlof 2007; Artoni-Casarico 2010). In altri termini, una società giusta, in coerenza con le suggestioni hayekiane ma sulla base di una apparentemente sofisticata analisi tecnica, lascia liberamente operare i meccanismi di mercato, senza introdurre controproducenti rigidità artificiali. 9 Ma l’analisi strettamente economica ha trovato supporto anche in considerazioni di ordine etico avanzate da economisti (ritroviamo in altra forma anche Einaudi, oltre che Hayek). Nel tentativo d’individuare gli effetti di lungo periodo del welfare state, è stato sottolineato l’importanza di non organizzare lo stato sociale sulla base di un’assunzione d’invarianza del comportamento individuale nel tempo: se lo stato sociale è stato creato con l’obbiettivo di proteggere gli individui dai grandi rischi dell’esistenza, la persistenza nel tempo degli istituti di protezione sociale può minare le basi da cui dipende il benessere della collettività, spingendo larga parte della popolazione in una situazione di dipendenza prolungata dalle provvidenze pubbliche. Oltre che gli equilibri dei bilanci pubblici, sarebbero compromesse anche le basi morali del capitalismo, fondate sulla stretta associazione, almeno in linea di principio, fra sforzo e ricompensa (v. Lindbeck 1995). Come già osservato, la visione del funzionamento del sistema economico appena descritta, con la connessa concezione di giustizia sociale, ha improntato le politiche del periodo più recente in molti paesi. I risultati, sulla base di una valutazione che riflette le vicende più recenti, non ha confortato probabilmente le aspettativi dei proponenti. I mercati finanziari, lungi dallo svolgere una funzione di stabilizzazione, si sono rivelati, come peraltro insegna una storia secolare, fattori d’instabilità. La distribuzione del reddito, per il venir meno di forme di tutela collettiva, si è fortemente polarizzata. L’affidamento alla responsabilità individuale per la protezione dai grandi rischi dell’esistenza si è rivelata inadeguata per la limitata funzionalità dei meccanismi privati (v.Hacker 2002). Alcune nozioni strumentali Nella letteratura sono presenti diversi concetti, diversamente rilevanti nei vari approcci alla giustizia sociale, che conviene richiamare. Si tratta di concetti o definizioni che possono essere utili per l’individuazione degli strumenti o delle modalità d’intervento potenzialmente utilizzabili per la realizzazione della giustizia sociale, qualunque sia la sua definizione. Meritocrazia e uguali opportunità Una società è meritocratica quando l’accesso alle posizioni rilevanti è basato esclusivamente sul merito o sull’idoneità, generalmente valutata a priori, a svolgere una certa funzione. Tre passaggi sono impliciti in questa definizione. La platea dei potenziali interessati deve essere la più ampia possibile o, in altri termini, devono essere garantite a tutti uguali opportunità di poter accedere ad una specifica posizione. La scelta deve essere effettuata evitando ogni forma di discriminazione. Deve essere definito, infine, l’entità del premio o della remunerazione differenziale da destinare all’individuo cui è affidato l’incarico. L’espressione uguali opportunità è stata applicata dalla letteratura al sistema dell’istruzione, giudicata lo strumento essenziale nelle società moderne per l’individuazione delle persone in grado di coprire le posizioni socialmente rilevanti. Una meritocrazia fondata sull’istruzione richiede che siano verificati due elementi. Il livello dimostrato nell’abilità scolastica non deve riflettere le origini sociali degli individui. Deve esserci una forte correlazione fra risultati scolastici e posizione professionale, eliminando gli effetti di altri possibili fattori di selezione sociale (Arrow et al. 2000; Barry 2005). 10 Garantita a tutti la possibilità di partecipare alla selezione, la scelta deve essere effettuata escludendo ogni forma di discriminazione (di sesso o di razza o di convinzione politica, per ricordare gli esempi più ovvi), ma puramente sulla base delle capacità individuali, riconducibili sostanzialmente ai risultati ottenuti nel processo educativo. Infine, per quanto riguarda la quantificazione del premio, in una prima ipotesi possono essere considerate marginali le preoccupazioni distributive, nel senso che potrebbero essere tollerati anche livelli di remunerazioni relativamente elevati rispetto alla generalità della popolazione; a questa conclusione porterebbe l’accettazione delle visioni libertarie di Hayek e Nozick. In alternativa si potrebbe ritenere che il differenziale di capacità dell’individuo prescelto non sia solo il frutto di un impegno individuale (per il quale è giustificato un riconoscimento), ma anche il portato di talenti naturali che trascendono ogni applicazione del singolo. Questa è la posizione espressa da Rawls: la corretta interpretazione dei principi di giustizia porta a «mitigare gli effetti delle situazioni sociali e della casualità naturale sulla distribuzione delle risorse» (v.Rawls 1971, p.63). Merita di essere ricordato che la prima analisi delle implicazioni di un regime potenzialmente meritocratico risale al 1958. Si analizzarono allora gli effetti sugli scolari del Regno Unito della selezione effettuata a 11 anni a fini della continuazione del percorso scolastico: questa selezione, che prescindeva da un compiuto tentativo di realizzare l’uguaglianza delle opportunità, era di fatto la base con cui i bambini venivano indirizzati a canali d’istruzione diversi e separati, predeterminando la loro collocazione professionale e retributiva (v. Goldthorpe-Jackson 2008). Sfere di giustizia In una società si può ricercare un principio distributivo unico oppure, per la molteplicità dei beni o servizi che hanno rilevanza sociale perseguire la ricerca di principi di giustizia distributiva differenziati, specificamente rilevanti per le singole categorie di beni (v. Walzer 1983). Michael Walzer fonda la sua analisi su due definizioni. Sono beni dominanti quelli che garantiscono al loro possessore il controllo su molti altri beni (un tempo le origini famigliari, oggi la ricchezza personale). Sono invece beni monopolizzati i beni che sono controllati da uno specifico segmento della popolazione. Le classi dirigenti traggono il loro potere dal tendenziale controllo dei beni dominanti. Sulla base di queste definizioni Walzer individua due forme di evoluzione sociale alternative, o la regolazione della detenzione monopolistica di un bene o la limitazione degli effetti della dominanza Se il denaro è nelle concrete circostanze storiche il bene dominante, si possono seguire politiche redistributive indirizzate ad una distribuzione tendenzialmente ugualitaria della ricchezza. Si segue in questa ipotesi una politica di uguaglianza semplice, puramente finalizzata al controllo della distribuzione del bene dominante. Queste politiche nell’analisi di Walzer non hanno avuto esiti positivi, trovando evidenti limiti in sede di applicazione. Si pensi all’esperienza dei paesi sviluppati, dove lo strumento fiscale, anche se formalmente improntato a criteri di progressività, non ha portato agli esiti desiderati per le molte possibilità di elusione utilizzabili, soprattutto in un mondo caratterizzato da libertà di movimento dei capitali. La seconda ipotesi di politica economica tende a limitare gli effetti della dominanza. La detenzione di un bene non deve cioè portare vantaggi che trascendono l’ambito specifico del bene stesso. Si deve cioè perseguire un regime di 11 uguaglianza complessa attraverso la definizione di autonomi principi distributivi per i diversi beni sociali, quali il bisogno per la sanità o la capacità per l’educazione superiore, in un contesto in cui sia tendenzialmente realizzata l’uguaglianza delle opportunità. Si può ragionevolmente affermare che i sistemi scandinavi di protezione sociale sono vicini alle indicazioni di giustizia sociale di Walzer. I servizi sociali sono stati sviluppati in tutti i comparti garantendo la possibilità di accesso a tutti gli strati sociali in ragione dei loro bisogni e delle loro aspirazioni. Il fatto che l’articolazione dei servizi rispondesse non ad esigenze generali e astratte, ma a specifici bisogni ha reso accettabile una pressione fiscale significativamente più elevata di quelle degli altri paesi; tutto ciò è avvenuto senza compromettere la crescita produttiva (v. Lindert 2004). Beni posizionali Abbiamo già osservato che la realizzazione dei diritti di cittadinanza implica l’accesso ai servizi sociali fondamentali indipendentemente dalle capacità di pagamento individuale e con un radicale allontanamento dai meccanismi di mercato. In questo contesto assume rilevanza la categoria dei beni posizionali (v. Hirsch 1976). I beni posizionali sono i beni la cui utilità dipende anche dal consumo che degli stessi beni fanno altri individui. Il concetto si applica in particolare all’educazione (ma anche a tutti i beni il cui utilizzo è soggetto a congestione). Il vantaggio connesso al conseguimento di un elevato livello d’istruzione, come all’accesso a beni non riproducibili, è sostanzialmente circoscritto dal fatto che altri si pongono sulla base di un titolo analogo in concorrenza per le stesse limitate posizioni In presenza di beni posizionali il conflitto distributivo si pone in forme diverse da quelle tradizionali ed è particolarmente evidente nelle società sviluppate e democratiche, dovendosi essenzialmente definire regole di accesso che discriminano fra individui ugualmente titolati. Le opzioni aperte sono due. Si può affermare la centralità dell’intervento redistributivo fondato sull’intervento pubblico, definendo criteri di accesso che prescindono dal reddito individuale. In alternativa, si abbandona l’ispirazione originaria del welfare, rimettendo anche alla sfera privata la competenza per la produzione di alcuni servizi sociali fondamentali, eventualmente in concorrenza con le strutture pubbliche. Quando la qualità è differenziata, l’accesso alle strutture migliori viene di fatto a dipendere dalla capacità di pagamento individuale, ridefinendo di conseguenza il concetto di giustizia sociale rilevante. Il concetto di beni posizionali è utile per interpretare in alcuni casi il mutamento di atteggiamento delle classi medie nei confronti dello stato sociale, quale si è venuto evolvendo nel secondo dopoguerra. In una prima fase di completa adesione, quando la platea dei beneficiari era limitata e gli sbocchi occupazionali erano di fatto garantiti, è seguita una seconda fase di progressivo rifiuto. In questa fase l’espansione quantitativa dei servizi (associata a difficoltà di gestione qualitativamente adeguata) e il connesso aumento della pressione tributaria ha spinto alla ricerca di soluzioni diverse di tipo privatistico. La ricerca di una adeguato posizionamento individuale, sfruttando le potenzialità economiche private, ha determinato in altri termini una minore attenzione alla realizzazione dei diritti di cittadinanza e ha portato ad una implicita ridefinizione del concetto di giustizia sociale. Conclusioni 12 Sintetizzando la nostra esposizione, il concetto di giustizia può essere in primo luogo inquadrato in una prospettiva filosofica. Le conclusioni dipendono ovviamente dalla scelta analitica di base: sono state infatti suggerite alternativamente o politiche fortemente ugualitarie o una totale astensione da ogni redistribuzione. Rimane il fatto che analisi di questa natura, per la loro generalità e astrattezza, risentono di un’inevitabile indeterminatezza. Si può dare peraltro contenuto alle analisi filosofiche con gli opportuni riferimenti storici, cogliendo i problemi che il processo di trasformazione delle economie avanzate ha suscitato e esaminando le soluzioni che sono state o ipotizzate o introdotte. E’ evidente che la capacità di autoregolamentazione dei sistemi economici, implicite nel modelli interpretativi utilizzati, in un certo senso predetermina le conclusioni; è tuttavia vero che il grado di realismo dei modelli economici utilizzati, o la loro capacità d’interpretazione dei processi storici, dovrebbe consentire di discriminare fra le interpretazioni proposte. Si possono analizzare, ovviamente al di là di quanto abbiamo sinteticamente fatto, gli strumenti che in concreto portano a situazioni di giustizia sociale accettabili, là dove si ritenga che questo concetto abbia un senso e giustifichi interventi. La letteratura da noi esaminata e le connesse evidenze storiche individuano due nuclei problematici fondamentali. Il primo riguarda l’effettiva possibilità che un individuo ha di fronteggiare i grandi rischi dell’esistenza. Là dove questa possibilità è limitata per ragioni o economiche o morali emerge una prima finalità della giustizia sociale, come sottolineato da Stuart Mill, dai socialisti della cattedra e dagli ispiratori del moderno stato sociale. Gli ordini sociali spontanei, ammesso che siano mai raggiungibili e che siano effettivamente qualificabili come ordini, potrebbero rendere superfluo ogni intervento pubblico. A prescindere dalle problematiche macroeconomiche (che possono essere giudicate o meno meritevoli di consapevole azione correttiva da parte dello stato anche a fini di giustizia sociale), il secondo nucleo fondamentale è riconducibile alle tematiche distributive. Se gli assetti distributivi che si formano spontaneamente sono giudicati accettabili, non esiste problema di realizzazione di principi di giustizia. Se, al contrario, la tendenza alla concentrazione dei redditi e delle ricchezze è ritenuta antitetica ad ogni principio di coesione sociale, compiti correttivi e regolativi della sfera distributiva devono essere attribuiti alle autorità pubbliche. 13 OPERE Akerlof G.A. (2007), The Missing Motivation in Macroeconomics, American Economic Review, Vol. XCVII, 1, pp. 536 Arrow, K.F. (1950), Social Choice and Individual Values, New York 1963 Arrow, K.F., Uncertainty and the Welfare Economics of the Welfare State, in “American Economic Review”, 1963, LIII, pp. 941-973 Cusumano, V., Le scuole economiche della Germania, Napoli 1875 Hacker J., The Great Risk Shift, Oxford University Press 2006 Hayek, F.A. (1944), The Road to Serfdom, Londra 1986 Hayek, F.A., The Constitution of Liberty, Londra 1960 Hirsch, F., Social Limits to Growth, Londra 1976 (trad. it. I limiti sociali dello sviluppo, Milano 1981) Marshall, T.H., Citizenship and Class Structure, Londra 1963 [1950], (trad.it. 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