VALLORI RASINI Natura, cultura e ambiguità umana nella posizione di Arnold Gehlen 1. Natura e cultura: una diade marcata Nel corso dei primi decenni del Novecento il concetto di “natura” ha avuto ampio spazio e differenti accezioni, declinate, per lo più, a partire dall’imponente presenza di un variegato e polifonico dibattito scientifico. Darwiniani e non, meccanicisti e vitalisti, riduzionisti e scettici fornivano una ricca rete di riferimenti concettuali che non poteva essere ignorata dal mondo dell’arte come (e soprattutto) da quello della filosofia. Agli antipodi della sfera della natura, quasi a rappresentarne l’opposto ontologico, figura l’ambito della cultura, il mondo dei prodotti spirituali e dell’artificio. Complice del persistere di una diade così marcata è certamente una svolta significativa che ha coinvolto l’ambito degli studi antropologici, una svolta dovuta all’esigenza, sempre più sentita, di un confronto diretto e profondo dell’uomo con gli altri enti biologici. Nel delineare le specificità di un’autentica “antropologia filosofica”, il filosofo e sociologo tedesco Arnold Gehlen si sofferma sull’importanza di un momento di rottura nella storia del pensiero occidentale – per il quale ringrazia principalmente Cartesio – che ha visto la filosofia emanciparsi dalla teologia e un nuovo atteggiamento di ricerca, meno dogmatico e favorevole all’osservazione empirica, sostituirsi gradualmente al precedente. «Nel momento in cui la filosofia inizia a emanciparsi dalla teologia», sostiene Gehlen, «si comincia a porre – cercando una risposta all’interno di nuove categorie – la domanda: che cos’è l’uomo?»1. Non ci si accontenta più di considerare l’essere umano come la creatura principale della terra, plasmata a immagine e somiglianza di Dio e correlandone l’essenza al suo creatore, ma si avverte l’esigenza – genuinamente filosofica – di inquadrare l’uomo “per quello che è”, di indagare l’essere umano in 1 A. GEHLEN, Anthropologische Forschung. Zur Selbstbegegnung und Selbstentdeckung des Menschen (1961); trad. it. di S. Cremaschi, Prospettive antropologiche. L’uomo alla scoperta si sé, a cura di V. Rasini, il Mulino, Bologna 2005, p. 30. Bollettino Filosofico 27 (2011-2012): 263-274 ISBN 978-88-548-6064-3 ISSN 1593-7178-00027 DOI 10.4399/978885486064317 263 264 Vallori Rasini quanto tale, facendo uso di categorie “sue proprie”, concernenti cioè la sua sola realtà2. Ovviamente, dal punto di vista di Gehlen, questi primi passi verso la scoperta dell’ente umano hanno avuto i loro difetti; in primo luogo – e di nuovo è Cartesio a essere chiamato in causa, questa volta però per un rimprovero – la giustapposizione di una sostanza materiale e di un elemento spirituale non rende giustizia all’unità della natura umana, mantiene la ricerca antropologica nel solco del dualismo e, almeno in parte, favorisce la sopravvivenza del pensiero metafisico. In questa trappola – la trappola della speculazione metafisica –, nonostante i suoi apprezzabili sforzi, era finito anche Max Scheler che, pur duramente criticato, è considerato da Gehlen un vero “maestro”. Scheler aveva cercato di superare il dualismo cartesiano concependo un principio biopsichico che, a seconda del grado di evoluzione, manifestasse facoltà via via più complesse tra i viventi e desse così conto della differenza specifica tra forme viventi. La vita – sostiene – è sempre, in se stessa, anche psichica, originariamente materia esteriore e interiorità; è un dato di fatto che oltre a possedere il movimento, la formazione, la differenziazione, la delimitazione spontanei rispetto allo spazio e al tempo […], le cose che noi chiamiamo ‘viventi’ non sono solamente oggetto di una osservazione esterna, ma posseggono, come loro caratteristica essenziale, un modo di essere per se stesse e interiore onde riconoscono se stesse. […] Si tratta dell’aspetto psichico dell’autonomia, del movimento spontaneo, ecc. dell’essere vivente in generale: dell’originario fenomeno psichico della vita3. Stabilito questo, Scheler si trova a fare i conti con la “diversità umana”, con la specifica (e speciale) posizione dell’uomo nel cosmo. I vari livelli del principio biopsichico sono tra loro differenti solo per grado, non per qualità; e all’animale, non meno che all’uomo, sono riconosciute notevoli capacità intellettive4. Cosa distingue, allora, l’essere umano dal più intelligente degli animali? La risposta di Scheler è semplice (e prevedibile): la presenza di uno spirito, di un “in più” che rende l’uomo capace di 2 A. GEHLEN, Der Mensch. Seine Natur und seine Stellung in der Welt (1940); trad. it di C. Mainoldi, L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, a cura di V. Rasini, Mimesis, Milano 2010, p. 46. 3 M. SCHELER, Die Stellung des Menschen im Cosmos (1928); trad. it. di R. Padellaro, La posizione dell’uomo nel cosmo, a cura di M.T. Pansera, Armando, Roma 1997, p. 119. 4 Ivi, p. 139. Natura, cultura e ambiguità umana nella posizione di Arnold Gehlen 265 cogliere le essenze (un principio “eidetico” o “di ideazione”) e di comportamento morale. Sorvoliamo sul fatto che in questo modo Scheler ricade in una forma di dualismo (Spirito/Principio biopsichico) e concentriamoci sul significato che ottiene la “spiritualità” umana. Come ogni altro organismo, l’uomo partecipa del principio vitale, cioè di quell’elemento naturale che pone in atto l’esistenza organica. Ma, oltre a questo, l’uomo avrebbe a che fare con un principio grazie al quale si determina una differenza qualitativa ed essenziale rispetto ad ogni altro organismo vivente: solo lui è in grado di assumere un punto di vista esistenziale completamente estraneo alla rosa delle necessità biologiche; solo lui può prendere distanza dalle esigenze naturali per seguire un percorso “culturale”. L’uomo, tra gli animali, è il solo che sappia porsi “oltre” un’esistenza semplicemente fisiologica, fatta di soddisfazione di bisogni vitali immediati. Egli può dunque emanciparsi dalle leggi della natura e rifiutarsi di seguire ciecamente i dettami della vita biologica, preferendo – consapevolmente – la via di un nobile comportamento spirituale. La natura, con le sue regole improntate alla sopravvivenza organica, può essere via via allontanata, quasi annullata da chi sia in grado di seguire lo sprone della spiritualità. L’uomo trova così la propria specificità in una dimensione extranaturale e la misura dell’umanità diviene la capacità di sublimazione di certi bisogni. «L’uomo – chiarisce Scheler – è perciò l’essere vivente che, in virtù del suo spirito, è in grado di comportarsi in maniera essenzialmente ascetica nei confronti della sua vita, che lo soggioga con la violenza dell’angoscia; può soffocare e reprimere i propri impulsi tendenziali, vale a dire rifiutare loro il nutrimento delle rappresentazioni percettive e delle immagini»5. Qui si rende manifesta anche la differenza esistenziale con gli altri viventi: «paragonato all’animale che dice sempre ‘sì’ alla realtà effettiva – anche quando l’aborrisce e la fugge – l’uomo è ‘colui che sa dir di no’, l’’asceta della vita’, l’eterno protestatore contro quanto è soltanto realtà»6. Questo eterno protestatore è in grado di allontanarsi dalla sfera biologica tanto quanto serve per entrare a pieno titolo in una dimensione esistenziale diametralmente opposta, negando quanto più possibile la pressione della natura. L’opposizione tra natura e cultura marca dunque la lontananza dell’uomo dall’animalità e la sua speciale “posizione nel cosmo”. Da questo punto di vista, Gehlen segue Scheler; condivide con lui la 5 6 Ivi, pp. 158-159. Ivi, p. 159. 266 Vallori Rasini necessità di individuare un punto di rottura tra l’uomo e l’animale. Tanto è vero che una delle principali critiche che rivolge a Scheler è di sbagliare nel mantenere un principio di continuità biologica tra i viventi, lasciando che la natura umana “provenga” da quella animale (e ritrovandosi costretto a ricorrere alla metafisica per stabilire una frattura tra esse). Criticando lo “schema graduale” di Scheler7, Gehlen colloca lo iato tra natura e cultura in seno alla struttura biologica del vivente. Il “pregiudizio” – così lo apostrofa Gehlen – di una differenza solo graduale tra uomo e animale va rifiutato con la stessa determinazione con cui va respinta l’ipotesi metafisica di uno spirito extrabiologico. A suo parere, la specificità dell’essere umano prende forma dalla costituzione concreta ed è scientificamente constatabile. A causa di un’evidente carenza biologica (strutturale e fisiologica), l’uomo è costretto a rinunciare alla dimensione naturale e a inoltrarsi in un universo completamente diverso, quello culturale. È convinto che l’uomo, provvisto del suo solo apparato “naturale” (la dotazione biologica), non sarebbe in grado di resistere in vita più di qualche giorno8. Le sue deficienze sono infatti molteplici: non ha protezioni naturali dagli attacchi esterni; non possiede organi che possano metterlo in una condizione di superiorità dinanzi alle minacce; non è adatto alla fuga e non possiede un apparato sensoriale e istintuale paragonabile a quello di molti animali. E come se ciò non bastasse, il cucciolo umano, per rendersi autosufficiente, ha bisogno di un periodo di assistenza incomparabilmente protratto, rimanendo per lungo tempo in una situazione di forte dipendenza. Così mal dotato, in mezzo ad animali assai più abili di lui nella difesa e nell’attacco, l’uomo ha dovuto procacciarsi mezzi alternativi – vale a dire “non naturali” – per la sopravvivenza. L’ingresso nella dimensione culturale appare dunque inevitabile: «in conseguenza del suo primitivismo organico e della sua carenza strumentale – afferma Gehlen – l’uomo è incapace di introdursi nella natura. Per sopravvivere deve surrogare i mezzi di cui organicamente difetta: trasformando il mondo a sua disposizione in qualcosa di utile alla sua vita9. In questa continua trasformazione consiste, sostanzialmente, l’agire umano: esso traspone in un universo extranaturale e retto da regole autonome, l’esistenza di un ente solo biologicamente “naturale”. All’opposto dell’animale, che continua a essere il prototipo dell’ente A. GEHLEN, L’uomo, cit., pp. 57 sgg. Ivi, pp. 52-53. 9 Ivi, p. 75. 7 8 Natura, cultura e ambiguità umana nella posizione di Arnold Gehlen 267 naturale, pienamente assistito da madre natura nelle sue funzioni vitali, l’uomo deve affidarsi alla propria attività, alla progettazione, all’invenzione. Quanto più, dunque, egli riesce a “proteggersi” dalla natura dietro le mura dell’artificio, tanto più alte saranno le sue probabilità di sopravvivenza; e quanto più si allontana dalla condizione animale, tanto più manifesta sarà la sua specificità umana. In questo modo, natura e cultura si divaricano drasticamente e senza possibilità di ricongiungimento: l’una cresce – progressivamente – sull’annichilimento dell’altra. D’altronde, è proprio ora, all’inizio del Novecento, che si avverte particolarmente il bisogno di precisare la diversità dei settori del sapere valutando la differenza specifica dei loro oggetti: si sostiene che le “scienze della natura” si servono di metodi e strumenti inadeguati nell’indagine delle “scienze dello spirito” (o “scienze della cultura”), appunto perché le dimensioni alle quali si applicano sono tra loro incommensurabili10. 2. L’ambiente intorno al vivente Parte delle motivazioni addotte a giustificazione di questo divorzio, rimanda al concetto di “ambiente”. In altre parole, idee diverse di “ambiente” conducono verso idee di “natura” appartenenti a dimensioni diverse. A permettere il discrimine è – in certo senso suo malgrado – il pensiero del barone Jakob von Uexküll. Affermato biologo di origine estone, animato da interessi fortemente filosofici, von Uexküll aveva proposto una concezione del rapporto tra l’organismo e il suo esterno che, muovendosi tra suggestioni neoplatoniche e motivi naturalistici, venne recepita dagli ambienti intellettuali come innovativa e in certo senso rivoluzionaria, facendo scuola tra i rappresentanti dell’antropologia filosofica, ma ottenendo credito anche in ambito neokantiano ed esistenzialista11. Dal suo punto di vista, il compito della biologia è quello di studiare la connessione tra il “mondo interno” dell’organismo, definito da una serie di 10 Si pensi al lavoro dello Storicismo tedesco e alle molte fatiche tese a precisare la differenza specifica sussistente tra “oggetti naturali” e “oggetti spirituali” e le relative metodologie di studio. 11 Fuori dallo stretto circuito dell’antropologia filosofica, si vedano almeno le posizioni di E. Cassirer, M. Heidegger, M. Merleau-Ponty. 268 Vallori Rasini “eccitazioni dinamiche”, e il “mondo esterno”, con cui il vivente interagisce grazie a specifici “ricettori” ed “effettori”. Diversamente da altre scienze della natura, la biologia non si occupa di un oggetto qualunque, valutabile appunto “oggettivamente”, ma di un “centro organico soggettivo”, strettamente correlato con ciò che lo circonda. Di fronte agli stimoli provenienti dall’esterno, il soggetto biologico è in grado di percepire e di agire, e la prestazione complessiva che ne risulta si riferisce sempre a precisi fattori che compongono il suo ambiente. Il termine “ambiente” indica l’insieme del mondo percettivo e del mondo “effettuale” del vivente: «ogni animale – dice von Uexküll – è un soggetto che, grazie al suo peculiare tipo di costituzione, dall’azione generale del mondo esterno seleziona determinati stimoli, ai quali risponde in un certo modo. Queste risposte consistono a loro volta in determinate azioni sul mondo esterno, che influenzano gli stimoli»12. Ne risulta una serie di “circuiti funzionali” (ad esempio, quello del nutrimento, quello dell’accoppiamento ecc.), per ciascun sistema vitale; essi sono reciprocamente connessi a formare un “mondo funzionale” il quale, nella sua chiusura, costituisce qualcosa di simile a una struttura monadica: ogni organismo – secondo la propria morfologia, le proprie capacità e necessità – è, in tal modo, come incastonato in un ambiente a lui perfettamente corrispondente. Per questo, occorre evitare non solo di considerare l’ambiente come un unico luogo, oggettivamente osservabile (come lo è lo spazio geometrico), ma anche di caratterizzarlo antropomorficamente, attribuendogli proprietà che si accordano con la natura umana, ma non con quella degli altri viventi. In relazione alla diversità biologica degli organismi, occorre insomma riconoscere la singolarità di ciascun ambiente, caratterizzato dalla presenza di “cose” percepibili e utilizzabili all’interno di un particolare sistema funzionale. Al termine “ambienti” – rigorosamente al plurale – corrisponde l’idea di “mondi individuali”, universi tra loro incommensurabili, prodotto di una determinata interazione; per questo avremo tanti ambienti quanti sono gli animali13. Ogni animale è perfettamente adattato al proprio ambiente; in esso trova ciò che riflette la sua gamma di bisogni e il suo livello di 12 J. VON UEXKÜLL, Teoretische Biologie (1928), Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1973, p. 150. 13 Si veda in particolare J. VON UEXKÜLL, Streifzüge durch die Umweltwn. Ein Bilderbuch unsichtbarer Welten (1934); trad. it., Ambienti animali e ambienti umani. Una passeggiata in mondi sconosciuti e invisibili, a cura di M. Mazzeo, Quodlibet, Macerata 2010. Natura, cultura e ambiguità umana nella posizione di Arnold Gehlen 269 complessità: ad animali semplici corrisponde un ambiente elementare; ad animali più complessi un ambiente più ricco e complicato. In questo ambiente “calibrato”, l’organismo svolge un processo vitale dalle caratteristiche uniche, determinate da un “piano naturale”, a sua volta unico. Lo si può facilmente constatare – sostiene von Uexküll – osservando le manifestazioni percettive ed effettuali caratteristiche di circuiti funzionali semplici, dove l’oggetto che entra in relazione con il soggetto organico manifesta esattamente e solo quelle peculiarità che gli consentono di appartenere al ciclo vitale di quel soggetto: «ogni soggetto vive in un mondo in cui esistono solamente realtà soggettive»14 e nessun “oggetto”; non esistono cioè elementi ambientali “uguali” – vale a dire: aventi lo stesso valore e lo stesso significato – per ogni vivente. Uno dei più celebri esempi di von Uexküll concerne la metamorfica funzione di un albero del bosco per soggetti differenti: una quercia – dice – se già per l’uomo, a seconda della sua condizione e dei suoi interessi appare di volta in volta diversa (per un boscaiolo rappresenterà una determinata cubatura di legname; per un bimbo impressionato dalla strane venature della corteccia un mostro misterioso), per una volpe, ad esempio, sarà importante solo per le grosse radici tra le quali avrà scavato il proprio riparo; mentre per un uccello saranno i suoi rami ad avere il valore di un utile sostegno: «in base alle diverse tonalità operative, le immagini percettive dei numerosi abitanti della quercia stanno strutturate in modo differente. Ogni ambiente ritaglia una zona dell’albero le cui proprietà sono adatte a farsi portatrici delle marche percettive e operative dei vari circuiti funzionali»15. 3. Ambiente chiuso e mondo aperto La concezione dell’ambiente soggettivo del barone von Uexküll – come dicevamo – ebbe notorietà e buona accoglienza negli ambienti che trovavano eccessivamente riduttiva una impostazione meccanicistica delle scienze biologiche. La ricerca di una dimensione non semplicemente quantitativa della vita, in cui avessero un ruolo l’elemento temporale e la relazione con l’altro, impegnava scienziati e intellettuali di varia estrazione ideologica, specie nei primi decenni del secolo, quando anche in seno alle 14 15 Ivi, p. 150. Ivi, p. 155. 270 Vallori Rasini scienze fisico-chimiche si rendeva necessario cominciare a introdurre nuovi parametri. La teoria di von Uexküll aveva il vantaggio di esaltare la singolarità e l’unicità del legame tra organismo e ambiente partendo “dal basso”, cioè dall’osservazione del comportamento del vivente, sempre specifico, sempre biunivoco. La parola tedesca “Umwelt” porta in chiaro la questione: composta da “um” (intorno) e da “Welt” (mondo), indica “ciò che sta intorno” solo se c’è “qualcosa a cui” stare intorno, e precisamente una “Innenwelt”, un “mondo interiore”. Il “mondo circostante” o “ambiente” 16 deve corrispondere (a doppio filo) all’organismo in quanto suo ambito esistenziale: non c’è un semplice stare l’uno accanto all’altro, ma un essere strettamente correlati, quasi a costituire un insieme monadico. La corrispondenza funzionale della struttura morfologica e fisiologica del vivente con il suo esterno produce una chiusura; l’ambiente è infatti ben “racchiuso”, “circoscritto” intorno alle caratteristiche e alle possibilità dell’organismo di volta in volta considerato. Ma occorre specificare: dell’organismo animale (o non umano). Qui infatti, sul limite della differenza tra animale e umano, si attenua l’entusiasmo per la concezione di von Uexküll, quanto meno da parte degli esponenti dell’antropologia filosofica tedesca17. Sì, perché di corrispondenza o di adattamento reciproco tra organismo e ambiente è difficile parlare in relazione all’uomo. L’animale ha una sua specializzazione, è provvisto di istinti e in generale ha una dotazione strutturale che gli garantisce la sopravvivenza nella congruenza con il proprio milieu; ciò che non gli serve, per lui non esiste, e la sua sopravvivenza è garantita proprio da questa limitazione e dalla sicurezza che essa comporta. Ma per l’uomo le cose non stanno così. L’uomo – come sostiene Gehlen – non è specializzato, è quasi privo di istinti e sprovvisto degli organi più elementari per la difesa e l’attacco; l’uomo non ha un ambiente. Non ha un ambiente perché gli manca quella particolare aderenza – possiamo chiamarla adeguatezza o adattamento – a un circuito naturale specifico; gli manca l’inserimento in un “mondo funzionale”. Von Uexküll – scopritore di una nuova idea di “mondo individuale”e fautore della deantropomorfizzazione dell’ambiente – ha troppo precipitosamente 16 “Umwelt” si può dire l’equivalente letterale del latino “ambito” o “ambiente” (derivante, come “ambire”, da “andare intorno”). 17 Sulle osservazioni critiche a von Uexküll mi permetto di rimandare al mio Ambiente e organismo. Plessner, Gehlen e il pensiero biologico di von Uexküll, "B@belonline. Rivista di filosofia" 5 (2008), pp. 147-158. Natura, cultura e ambiguità umana nella posizione di Arnold Gehlen 271 trasferito all’uomo le caratteristiche dell’universo animale – dice Gehlen – e, ad esempio, «fece leva sulla nota idea per cui il bosco, per il poeta, il cacciatore, il boscaiolo, una persona che vi sia sperduta, è un bosco ogni volta diverso». E in questo modo commise un errore decisivo: prese «le strutture comportamentali originarie, autenticamente istintive, degli animali, che si rapportano a ambienti naturali e a loro coordinati, per le specializzazioni acquisite del comportamento, che nell’uomo rispondono a una ricca e articolata sfera culturale»18. Uno scambio, a quanto pare, del tutto illecito: l’uomo non è adattato a un sistema funzionale più o meno complesso; e non è neppure – propriamente – un “ente naturale”. È “aperto al mondo” anziché chiuso nell’angusto circuito delle soddisfazioni organiche e, lungi dal potersi ritenere un “animale superiore”, semplicemente più evoluto o quantitativamente più intelligente, ha piuttosto rotto i ponti con la catena graduata degli altri viventi e imboccato una via di sviluppo “culturale”. Il concetto di Umwelt – spiega Gehlen –, se definito a dovere nei suoi esatti termini biologici, non è […] applicabile all’uomo, giacché nel punto preciso in cui, nel caso dell’animale, si trova appunto la ‘Umwelt’ in quello dell’uomo c’è la ‘seconda natura’, ossia la sfera culturale, con i suoi peculiari, particolarissimi problemi e formazioni concettuali, che la nozione di ‘ambiente’, di ‘Umwelt’ non inquadra, bensì, all’opposto, solo riesce a occultare19. Privo di un rapporto armonico con una costellazione “naturale” di condizioni, l’essere umano deve modificare la struttura del proprio intorno così da renderlo vivibile; questo è il motivo per cui anche geograficamente, può vivere ovunque, al Polo come all’Equatore, sulle montagne come in riva al mare, nelle steppe come nelle città. Progettazione e intervento gli procurano quella dimensione «la quale dunque, nel suo caso, sta in luogo dell’ambiente»20. In questo senso, l’uomo è “per natura” artificiale, estraneo alla natura (a causa delle sue condizioni biologiche), e dunque culturale “allo stato di natura”. «Cultura – precisa Gehlen – è dunque, in prima approssimazione, l’insieme dei mezzi materiali e dei mezzi di rappresentazione, delle tecniche materiali e di pensiero, istituzioni incluse, A. GEHLEN, L’uomo, cit., p. 119. Ivi, p. 120. 20 Ivi, p. 121. 18 19 272 Vallori Rasini tramite i quali una data società ‘si regge’; in seconda approssimazione, è l’insieme di tutte le istituzioni successive che si fondano su quanto precede»21. La cultura non comincia “a un certo punto” dello sviluppo umano; costituisce invece la precondizione della resistenza in vita dell’uomo e la sua sola possibilità di esserci; per questo non importa “quale” o “quanta”: qualunque uomo (o comunità), sin dal principio e necessariamente, congedandosi dalla natura, si avventura in una trasformazione prometeica22. 4. L’inevitabile insicurezza prometeica La figura di Prometeo è certamente la più indicata allo scopo di descrivere il “dovere” dell’essere umano: prevedere e provvedere. La progettazione e, ovviamente, la realizzazione danno seguito alle scelte di cambiamento concepite come importanti per la vita, sia del singolo sia della specie. Mentre però l’intrepido titano mitologico sfodera tutto il suo coraggio senza temere ritorsioni (che pure arrivano, inevitabilmente); mentre cioè l’immagine di Prometeo è quella di un eroe, deciso e infallibile, Gehlen ci presenta piuttosto un essere insicuro e bisognoso di assistenza (nonché di guida). L’apertura al mondo rappresenta un’incognita: l’uomo si trova esposto a una quantità indefinita di stimolazioni, a un flusso continuo di impressioni percettive dinanzi a cui la sua dotazione organica è quasi impotente. Giacché gli mancano i filtri per selezionare gli impulsi, affrontare il mondo è un onere immenso. L’uomo è dunque affaticato, per un verso, e costantemente in pericolo, per l’altro. La ricerca dello sgravio, l’esonero da grandi, impegnative fatiche, che al contempo gli procuri maggiore sicurezza e stabilità, diviene il suo destino; l’ingresso nella cultura il suo percorso obbligato. Questo passaggio gli è consentito dallo sfruttamento della tecnica (ma forse dovremmo dire “delle tecniche”), che traduce la sua azione in fatti convenienti assicurandogli il necessario sollievo. La tecnica è data dall’insieme delle abilità di manipolazione delle cose e di applicazione dei risultati di questo processo; essa è in grado di trovare una sostituzione degli Ibid. Ivi, p. 76: «La distinzione tra ‘uomo civile’ e ‘uomo allo stato di natura’ è una distinzione equivoca. Nessuna popolazione umana, nei luoghi selvaggi, vive dei luoghi selvaggi semplicemente, ognuna possiede tecniche venatorie, armi, il fuoco e utensili». 21 22 Natura, cultura e ambiguità umana nella posizione di Arnold Gehlen 273 organi mancanti, di potenziare facoltà esistenti e di liberare l’organismo da oneri insopportabili. Per questo è l’indispensabile alleata dell’essere umano; così indispensabile da dover essere considerata «vecchia quanto l’uomo»23. Trasformando le condizioni naturali, essa per un verso elabora materialmente la realtà circostante; per l’altro traspone simbolicamente – soprattutto attraverso il linguaggio mimico e parlato – l’esperienza percettiva, liberando progressivamente l’uomo da un impegno massiccio in attività vitali elementari e favorendo lo sviluppo di energie che possono essere utilizzate in applicazioni di livello superiore (come l’attività razionale). Questa possibilità di ampliare e potenziare progressivamente il proprio ambito d’azione “apre” – appunto – a un mondo, a una dimensione che va ampliandosi proporzionalmente alle “elaborazioni efficaci” della natura. Ecco perché là dove per l’animale c’è un ambiente, cioè un luogo naturale in cui soddisfa i propri bisogni in relazione alla costituzione soggettiva, l’uomo scopre un “mondo”, un habitat speciale, da lui stesso prodotto e tuttavia ancora sempre da produrre. «L’insieme della natura da lui trasformata con il proprio lavoro in tutto ciò che riesca utile alla propria vita – chiarisce Gehlen – dicesi cultura, e il mondo della cultura è il mondo umano»24. È inequivocabile che il mondo della cultura sia l’alternativa “salvifica” (per quanto coatta) alla vita naturale. Così come non c’è l’uomo senza una distanza dall’animale25, non c’è neppure un’esistenza umana senza la distanza dalla natura; espletare il dovere vitale di questo allontanamento è precisamente il compito esistenziale di un “essere tecnico”, che appare sempre di più non solo – come lo abbiamo già definito – “innaturale” ma persino “anti-naturale”. Soprattutto quando si consideri il processo di emancipazione dall’organico rinvenibile nella sua storia (il che equivale a dire: il processo di allontanamento dal suo primordiale legame con la vita). A questo conduce l’artificialità: a un affrancamento nobilitante dai bisogni più elementari, alla libertà da pressioni di carattere puramente biologico e alla liberazione dal rapporto con un ambiente predefinito. Questo è ciò che ci suggerisce Gehlen. Grazie soprattutto all’ingegneria tecnica e all’intervento diretto nella 23 A. GEHLEN, Die Seele im technischen Zeitalter (1969); trad. it., L’uomo nell’era della tecnica, a cura di M.T. Pansera, Armando, Roma 2003, p. 32. 24 A. GEHLEN, L’uomo, cit., p. 64. 25 Ivi, p. 64, Gehlen dice espressamente: «non ci si deve lasciare indurre alla supposizione che l’uomo sia solo gradualmente diverso dall’animale». 274 Vallori Rasini struttura biologica umana, è difficile stabilire come si delinei oggi il futuro dell’uomo: sempre più esposto alla manipolazione biologico-genetica e sempre più bisognoso di manipolazione. Se si parte da una prospettiva come quella gehleniana (peraltro largamente condivisa dal pensiero contemporaneo), c’è da chiedersi quale statuto spetti davvero all’essere umano. È un animale tra animali o qualcosa di diverso? Va considerato un essere “naturale” o “artificiale”? O meglio: come si innesta l’artificialità sulla sua naturalità originaria? La domanda, tuttavia, è forse mal posta; e magari il problema va spostato all’indietro, fino a investire il significato stesso dell’essere dell’uomo (e del vivente). Siamo certi che il divorzio di natura e cultura rappresenti una premessa corretta o indispensabile? Questa dicotomia costituisce un paradigma realmente fecondo nell’interpretazione della realtà e del ruolo dell’uomo nel mondo? Intanto, un dato certo pare che – qualunque sia la “verità” su di lui – l’uomo riesce a immaginare la propria identità soltanto attraversando l’ambiguità: il doppio, l’ambivalente, l’indefinito descrivono le sue potenzialità meglio di qualunque precisa, univoca determinazione. Abstract This article analyses the themes of nature, culture and human ambiguity in the thought of Arnold Gehele. After taking into account the dyad constituted by nature and culture, showing the influence of Scheler’s thought, the author turns his attention to the issue of the environment and the world in relation to man as living being.