Oltre le banlieues: periferie e disagio giovanile

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Oltre le banlieues: periferie e
disagio giovanile
Appare sempre più evidente il legame tra il declino degli istituti e delle garanzie
dello Stato sociale e i sentimenti di crescente deprivazione, frustrazione e risentimento avvertiti tra la fasce più marginali della popolazione. Gli squilibri che caratterizzano le periferie europee, ed italiane, riducono le possibilità di inserimento
sociale, di gratificazione e di realizzazione personale dei giovani che le popolano,
spingendoli spesso verso il comportamento deviante e la stigmatizzazione.
Fabio Lucchini*
La lezione delle banlieues
Era l’autunno del 2005 quando una vera e propria ondata di sommosse investì
la Francia. Scoppiate a causa della morte accidentale di due giovani che tentavano
di scappare dalla polizia, le violente manifestazioni si diffusero rapidamente in
tutto il paese, suscitando diffusi sentimenti di preoccupazione nell’opinione pubblica, dando luogo a ferme e decise prese di posizione a livello politico contro i
“rivoltosi” ed incuriosendo i ricercatori sociali in tutta Europa. E’ possibile che un
simile fenomeno possa ripetersi altrove? Esso ha forse rappresentato la spia di un
malessere profondo, strutturale, esistenziale all’interno delle nostre società? Qual
è stata la sua natura e quali potrebbero essere le risposte più adeguate da parte dei
pubblici poteri?
Gli episodi di protesta violenta e distruttiva vengono spesso interpretati dagli
osservatori in maniera emozionale, superficiale e indifferenziata. Per comprendere
gli eventi francesi, per contestualizzarli e per verificare se altrove si stiano creando
le condizioni per accadimenti analoghi è necessario mettere a fuoco la questione
mediante le lenti della complessità. Ciò significa discutere contemporaneamente le dimensioni sociali (umili origini dei protagonisti delle sommosse), spaziali
(ambienti urbani degradati e segregati) ed etniche (discriminazione e razzismo)
del fenomeno. Senza ovviamente dimenticare le piaghe della disoccupazione e
della precarizzazione giovanile, che si esplicitano nelle ineguaglianze generazionali
nell’accesso all’impiego e negli ostacoli alla mobilità sociale.
Da questo primo abbozzo di analisi già risalta come i processi che condussero
alla sollevazione delle banlieues ed al persistere del disagio sociale di ampie fasce
della popolazione in Francia siano attivi anche altrove. Non sfugge infatti come
molti contesti urbani europei siano contraddistinti da tensioni sociali ed etniche,
anche se declinate secondo i diversi contesti nazionali.
Rispetto alla Francia, il contesto italiano presenta peculiarità significative: uno
Stato meno autorevole, un ethos pubblico meno sviluppato, un’immigrazione
molto più recente e una carenza di politiche urbane strutturate. Circostanze che
paradossalmente si riflettono in una minore segregazione delle frange popolari.
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Infatti, l’importanza delle dimensioni informali, nei loro aspetti familiari, locali ed
economici, permette una flessibilità che agevola l’integrazione nella società italiana.
Una società affetta più di altre dalle disuguaglianze e in difficoltà al momento di
garantire accettabili livelli di protezione sociale, ma in grado ancora di costruire e
mantenere reti sociali nei cui interstizi gli individui, anche immigrati, anche svantaggiati, abbiano la speranza di trovare un seppur precario riparo. Questa, almeno,
la situazione attuale che distingue il nostro Paese dalla realtà francese e da quella
anglosassone e che contribuisce a spiegare l’assenza di significative rivolte urbane
nella penisola, né a carattere social-rivendicativo, né etnico-razziale. Tuttavia, il
declino economico, l’impoverimento di ampi settori della classe media ed operaia e
l’incremento dei flussi migratori in entrata, espongono l’Italia a nuove criticità che
potrebbero dar corpo ad esiti inquietanti nel prossimo futuro1.
Criticità che emergono da una semplice ricognizione sullo stato in cui versano
attualmente le zone periferiche delle nostre città. Da Milano a Napoli, da Torino
a Roma, le periferie non sono più quelle classicamente intese. Non è più il tempo
della pianificazione organica e razionale delle città, peraltro molto spesso fallita
proprio nei quartieri di periferia che dovevano certificarne l’efficacia. Oggi, nelle
metropoli italiane, sembra di assistere, più che a un “progetto di città”, a una “città
per progetti”, in cui si procede per accumulazione di idee, senza una visione di
insieme e senza la possibilità di un confronto pubblico sulle scelte da fare, secondo
logiche non tanto umanistiche, quanto di marketing del territorio.
I quartieri periferici sembrano soffrire di una deprivazione di spazialità (e delle
relative opportunità): sono tanti gli spazi vuoti e anonimi, privi di verde o di luoghi
in cui incontrarsi; pochi sono anche gli spazi in cui ci si riconosce e in cui ci si può
identificare. Ad essi si affiancano infatti oggi, in termini di dinamiche di frammentazione, disagio e degrado, numerosi quartieri, magari storici o centrali, divenuti
sempre più sensibili a determinate forme di esclusione.
I quartieri sensibili assommano i principali fattori che determinano la produzione di insicurezza, quali forti tassi di disoccupazione, di lavoro precario e di attività
marginali, habitat degradato, urbanizzazione senz’anima, promiscuità tra gruppi
di origine etnica differente e presenza permanente di giovani apparentemente sfaccendati che sembrano esibire la loro inutilità sociale. E ancora, visibilità di pratiche
delinquenziali legate al traffico della droga ed alla ricettazione, frequenza di atti
incivili, di momenti di tensione e di conflitto con le forze dell’ordine. Insicurezza
sociale e insicurezza civile si sovrappongano e si alimentano reciprocamente.
Molti individui e famiglie soffrono inoltre l’allontanamento dai luoghi di origine, scarse opportunità di mobilità fisica e sociale, il confinamento nella località,
un senso di segregazione. Sembra insomma che in molte periferie la socialità sia
stata esiliata dalle mutazioni della città. E senza socialità resta l’abbandono dei
“viaggiatori di seconda classe”, gli “eredi del welfare”, gli “alloggiati”. Persone che
sperimentano una sofferenza profonda che li imprigiona in un territorio che non
1 -H. Lagrange e M. Oberti, La rivolta delle periferie, Bruno Mondatori, Milano 2006
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sentono più, se mai l’abbiano mai sentito, come il loro luogo, come una comunità
dove avere dimora2.
Marginalità, frustrazione e risentimento
La condizione di disagio che si va descrivendo appare quindi complessa, diffusa
e multidimensionale. La varietà delle situazioni che caratterizzano gli ambienti
urbani contemporanei verrà tuttavia ampiamente sacrificata in questa sede, in virtù della scelta di appuntare l’attenzione su una categoria ben definita di individui
che abita le nostre periferie e che è attualmente al centro dell’attenzione generale:
i giovani stranieri. Durante l’ultimo ventennio, infatti, un numero crescente di ragazzi stranieri è andato popolando non solo gli spazi scolastici, lavorativi e sociali,
ma anche le carceri e gli istituti penali minorili. Il ritratto del giovane immigrato
“a rischio” che le cifre restituiscono è quello di un adolescente, nella maggior parte
dei casi maschio, irregolare, arrivato in Italia da solo o con un adulto non sempre
identificabile. Spesso questi ragazzi vivono in una condizione di eterno presente,
cui li costringe l’opacità dei progetti per il futuro, circostanza che li accomuna
peraltro a gran parte degli adolescenti e dei giovani delle periferie delle grandi città
italiane dove si sono stabiliti3.
Il generico termine “stranieri” si sdoppia, nel territorio penale, intorno a due
gruppi diversi, ossia i giovani arrivati da soli che in genere commettono reati legati
alla sopravvivenza e quelli che appartengono alla “seconda generazione”, ragazzi
stranieri che o sono immigrati giovanissimi o sono nati in Italia. Se per i primi
marginalità e devianza tendono a sovrapporsi, per i secondi la questione è più
complessa e merita attenta analisi. Infatti, ogni automatica connessione tra i termini devianza e seconda generazione, dovuta alla confusione valoriale causata dallo
spaesamento dei giovani davanti all’incongruenza dell’identità culturale dei propri
genitori e della società d’approdo, oscura l’articolazione del fenomeno, considerando soltanto la variabile dell’origine dei propri genitori e trascurando invece i
problemi della società di residenza4.
Illuminante al proposito è il clima di allarmismo recentemente ingeneratosi in
seguito alla comparsa in diverse città italiane del fenomeno delle cosiddette baby
gang. L’allarme sociale che si è venuto a creare intorno ai comportamenti criminali
di tali bande spesso nasconde uno scenario caratterizzato da diversi conflitti socioculturali che derivano da processi di subordinazione, emarginazione o esclusione
economica e simbolica. Il fenomeno delle bande di stranieri, e di conseguenza
quello dell’immigrazione, è spesso presentato attraverso la contrapposizione fra noi
e loro, mentre sono assolutamente esclusi dalla discussione i problemi che risultano
invece essenziali (le difficoltà dei servizi sociali ed educativi, quelle economiche
2 M. Magatti (a cura di), La città abbandonata: dove sono e come cambiano le periferie italiane, Il
Mulino, Bologna 2007
3 C. Buzzi, A. Cavalli, A. de Lillo (a cura di), Rapporto giovani, Il Mulino, Bologna 2007
4 C. Calle in A. Maggiolini (a cura di), Adolescenti delinquenti, Franco Angeli, Milano 2002
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delle famiglie, ecc.) e che, al contrario, portano al confronto e all’interazione fra i
diversi gruppi etnici e la popolazione autoctona. Questo avviene anche a causa dello scarsissimo spazio che viene riservato dai mass media all’analisi e alla problematizzazione di queste situazioni. La carenza negli approfondimenti non è imputabile
soltanto alla rappresentazione del fenomeno da parte dei media, ma rimanda ad un
atteggiamento diffuso nell’intero corpo sociale, che, forse condizionato dai ritmi
frenetici della post-modernità, appare sempre più propenso ad accontentarsi di ciò
che risulti immediatamente fruibile, percepibile e comprensibile. Inoltre, si fa strada nella nostra cultura una crescente diffidenza verso l’altro, che spesso si trasforma
in paura del diverso e si declina in posture xenofobe, più o meno latenti.
È necessario però prestare molta attenzione alle conseguenze degli atteggiamenti e delle sensazioni che vanno diffondendosi. In particolare, le narrazioni riguardanti le vicende criminali di cui a volte i ragazzi migranti sono effettivamente protagonisti rischiano di diventare una profezia che si autoadempie, prefigurando per
i giovani un percorso perverso di visibilità, affermazione e riconoscimento all’interno di un contesto negativo5. Conseguenza di ciò può essere l’assunzione stabile
di un’identità deviante, come unica modalità di appropriazione e riconoscimento
di sé, a fronte di una totale assenza di alternative praticabili. Il problema centrale,
infatti, è che spesso gli adolescenti stranieri non trovano possibilità diverse, rispetto
alla marginalità e alla devianza, dove mettere in gioco e sperimentare le proprie capacità e trovare quel prestigio sociale basilare, desiderato da ciascun individuo che
vive in una società6. Una società, come detto, che sembra restringere sempre più le
opportunità di realizzazione di ampie fasce della popolazione. Un meccanismo che
mette in moto una spirale, pericolosa e potenzialmente eversiva, di marginalità,
frustrazione e risentimento.
Sotto questo profilo, occorre aggiungere che il conflitto culturale appare particolarmente insidioso perché tende a saldarsi e a confondersi con un rischio intergenerazionale. L’avversità della società rispetto ad una minoranza significa spesso
l’interiorizzazione da parte delle componenti più fragili e suggestionabili (i giovani
e gli adolescenti) di immagini negative della propria cultura d’origine, stigmatizzata come malvagia e criminale. Pochi sono gli individui in grado di respingere
con fermezza ed equilibrio una stigmatizzazione di tal fatta, in quanto essa va ad
intaccare l’essenza stessa della personalità, coinvolgendo e mettendo in discussione
l’adeguatezza della propria famiglia delle proprie radici e della cultura d’origine.
Un problema che affligge nuovamente le seconde generazioni di giovanissimi immigrati o di nati in Italia da genitori stranieri, coloro che dovrebbero costituire un
ponte tra culture ma che si trovano invece al centro di un conflitto identitario e
normativo suscettibile di diventare cronico e destabilizzante7.
5 Ringrazio per il suo contributo su questo punto la Dottoressa Stefania Bettiol
6 R. K. Merton, Teoria e struttura sociale, Il Mulino, Bologna 1992
7 D. Melossi, Stato, controllo sociale, devianza, Bruno Mondatori, Milano 2002
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Conclusioni
La demonizzazione delle periferie e, in particolare, la stigmatizzazione dei giovani di
periferia (prevalentemente di origine straniera) rimanda ad un processo di spostamento
della conflittualità sociale. Rappresentare la condizione delle periferie come se esse fossero
un ascesso provocato dalla stabilizzazione dell’insicurezza - una rappresentazione a cui
contribuiscono il potere politico, i media e larga parte dell’opinione pubblica - significa rinunciare ad una seria analisi del reale per abbandonarsi all’irrazionalità. Si finisce così con
l’attribuire a determinati gruppi, situati ai margini, la responsabilità di tutte le minacce
che gravano su una società. Un’operazione semplicistica e fondamentalmente ingiusta8.
Del resto, essa fa agio sugli orientamenti culturali ad oggi prevalenti nelle società
occidentali, che si fondano più sull’esclusione che sulla solidarietà, più sul controllo che
sulla previdenza sociale, più sui meccanismi di funzionamento del mercato che sulle
questioni legate alla cittadinanza. Anche le agenzie preposte al controllo della criminalità ed alla irrogazione ed esecuzione delle sanzioni si sono conformate ad un panorama
caratterizzato da un’economia insicura che marginalizza ampi strati della popolazione, ad una cultura consumistica che associa un ampliamento delle libertà individuali
all’allentamento dei controlli sociali, ad uno Stato sempre meno capace di regolare una
società costituita da individui isolati e da gruppi sociali differenziati. Una generalizzata
percezione del rischio e dell’insicurezza che genera attenzione ossessiva nei confronti del
controllo, l’impulso a segregare, a fortificare, ad escludere. Da questa analisi si rintracciano le condizioni atte ad innescare il monitoraggio e l’isolamento di chi è considerato
pericoloso. Le condizioni che producono angosce profonde, quanto spesso irrazionali
ed ingiustificate, che a loro volta trovano sfogo nella privatizzazione della sicurezza e
persino in una progettazione urbanistica pensata per separare le persone.
In quest’ottica, l’aumento della criminalità, la dipendenza parassitaria dagli istituti
del welfare, l’abuso di droghe sarebbero solo alcune delle spie della malattia della società. L’urgenza di ripristinare l’ordine ha determinato azioni disciplinari sempre più
estese ed indirizzate a gruppi ben individuati (minoranze e marginali), nel tentativo,
spesso vano, di ristabilire un ordine passato mitizzato e artificiosamente rimpianto.
L’opinione pubblica presta grande attenzione all’ ”emergenza criminalità” e gli attori
politici sentono il dovere di rispondere prontamente a questa diffusa preoccupazione e,
all’occorrenza, di cavalcare i sentimenti di paura per fini meramente elettoralistici.
L’aumento della diffidenza nei confronti delle minoranze e delle fasce più deboli
della popolazione, sulle quali si riversano le ansie esistenziali collettive, implica costi sociali sempre meno gestibili, quali l’inasprimento delle divisioni sociali ed etnico-razziali,
il consolidamento dei processi criminogenetici e la perdita di credibilità dell’autorità
legale. Se è vero che un’ampia fascia della popolazione povera, criminalizzata e marginalizzata, non interessa granché all’opinione pubblica nel breve periodo, occorre rilevare
come essa, presa globalmente, potrebbe a lungo andare trasformarsi in un serio problema per la stabilità e la sicurezza delle nostre società9. Il restringimento delle opportunità
8 R. Castel, L’insicurezza sociale. Che significa essere protetti?, Einaudi, Torino 2004
9 D. Garland, La cultura del controllo, Il Saggiatore, Milano 2004
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nelle società contemporanee, segnate da un’endemica crisi socio-economica, fa sì che in
determinati soggetti (in particolar modo i giovani di estrazione sociale bassa e mediobassa) si sviluppi un sentimento di deprivazione. Il benessere che, malgrado tutto,
ancora permea le nostre società induce i giovani a nutrire ambizioni sempre più elevate
e il mancato soddisfacimento delle stesse finisce con l’aumentare la probabilità di una
loro frustrazione. Il malcontento e il diffuso sentimento di ingiustizia che ne seguono
sono suscettibili di essere canalizzati, soprattutto in realtà segnate dal degrado, verso atti
teppistici, espressivi e violenti10. Sotto questo profilo, l’esplosione di rabbia dei giovani
delle banlieues francesi rappresenta il più esemplare dei moniti.
Che fare? Innanzitutto, urge un cambiamento di rotta rispetto allo svuotamento progressivo degli istituti del welfare che ha caratterizzato gli ultimi decenni,
unito ad un impegno per rilanciare le prospettive di vita dei giovani, italiani e stranieri, non accompagnati e di seconda generazione. E’ tempo di uscire dall’equivoco etnico che inquina la vita sociale delle nostre città e agita i sonni di un’opinione
pubblica stressata e parossisticamente turbata dall’insicurezza che percepisce. La
pura e semplice repressione non servirà a molto se non verranno rimossi i blocchi
che impediscono ai ragazzi che popolano le periferie europee (e italiane) di progettare con ragionevole fiducia il proprio futuro. Non è possibile affrontare i problemi
complessi che si presentano oggi alle collettività organizzate proponendo soluzioni
sbrigative e semplicistiche. Sicuramente il lavoro di professionisti competenti (educatori, psicologi, formatori ecc.) deve conservare il suo ruolo nell’affiancamento
e nel recupero dei soggetti a rischio, ma senza una contestuale svolta culturale e
politica nella società e nelle istituzioni il problema del degrado della qualità della
vita urbana non verrà risolto, con grave danno della sicurezza dei cittadini, della
coesione sociale e delle prospettive esistenziali delle prossime generazioni.
* Sociologo, collabora con il periodico Critica Sociale
e con l’Università degli Studi di Milano-Bicocca
Bibliografia
C. Buzzi, A. Cavalli, A. de Lillo (a cura di), Rapporto giovani, Il Mulino, Bologna 2007
C. Calle in A. Maggiolini (a cura di), Adolescenti delinquenti, Franco Angeli, Milano 2002
R. Castel, L’insicurezza sociale. Che significa essere protetti?, Einaudi, Torino 2004
Dipartimento di giustizia minorile (a cura di), I gruppi di adolescenti devianti, Franco Angeli, Milano 2001
D. Garland, La cultura del controllo, Il Saggiatore, Milano 2004
H. Lagrange e M. Oberti, La rivolta delle periferie, Bruno Mondadori, Milano 2006
M. Magatti, La città abbandonata: dove sono e come cambiano le periferie italiane, Il Mulino, Bologna 2007
D. Melossi, Stato, controllo sociale, devianza, Bruno Mondadori, Milano 2002
R. K. Merton, Teoria e struttura sociale, Il Mulino, Bologna 1992
10 Dipartimento di giustizia minorile (a cura di), I gruppi di adolescenti devianti, Franco Angeli,
Milano 2001
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