Piergiorgio Pescali www.pescali.blogspot.com e-mail: [email protected] tel. 339.4551575 - 035890037 CENNI DI FILOSOFIA E RELIGIONE INDIANA Il subcontinente indiano è un coacervo di culture, religioni, etnie, lingue. Nella sola India, un miliardo di persone professano praticamente tutte le principali religioni esistenti sul pianeta (induisti 80,5%, islamici 13,4%, cristiani 2,34%, sikh 1,57%, buddisti 0,77%, giainisti 0,41%). Pur essendo formalmente la più grande democrazia al mondo, la comunità indiana sconvolge i nostri canoni sociali, basandosi sul sistema castale. Casta, in realtà, è un termine derivante dalla lingua portoghese (castus, puro, non mescolato), mentre gli indiani preferiscono utilizzare altre parole, come varna (colore) o jati (nascita). E’ dal 90° inno del X Libro dei RgVeda (1500 a.C.) che trae origine il sistema castale indiano. In questo inno viene raccontata l’origine dell’universo mediante l’olocausto di Purusha, un gigantesco essere primordiale. Dallo smembramento delle sue parti sarebbero nate le quattro caste: La sua bocca divenne il Brahmano Il Guerriero fu il prodotto delle sue braccia Le sue cosce furono l’Artigiano Dai suoi piedi nacque il Servitore. Brahmani, Kshatriya (guerrieri), Vaishya (artigiani, commercianti, proprietari terrieri), Sudra (servitori, contadini) hanno quindi origine divina ed hanno precisi compiti nella società indiana. Storicamente le caste sarebbero invece state introdotte nel subcontinente dall’arrivo, nel II millennio a.C., degli aryi, provenienti dal Centro Asia e dalle regioni causasiche. Questi crearono i primi regni dell’India, come la Civiltà dell’Indo e centri come Harappa e Mohenjodaro. Alle tre classi in cui era divisa la società indoariana quando si affacciò nell’area indiana (sacerdoti, guerrieri, lavoratori), se ne aggiunse una quarta, quella dei 1 servitori, formata dalle popolazioni autoctone dravidiche assimilate durante il processo di espansione indoariana. La pelle più chiara degli indoariani rispetto ai dravidici, avrebbe generato il concetto di superiorità delle prime tre classi sulla quarta e lo stesso nome di varna (colore). Una quinta classe venne introdotta con la conquista militare, quella degli intoccabili, fuori casta o paria. Le quattro caste principali si dividono a loro volta in sottocaste, dette jati, la cui appartenenza è data da concetti ereditari (nascita), specializzazioni lavorative e matrimoni. Più una casta è elevata, più pura deve essere e mantenersi (in questo senso la casta dei brahmani è la più vulnerabile). Questo concetto dà origine allo stretto collegamento che esiste tra brahmani e harijan (fuori casta): perché una casta si mantenga pura, occorre che un’altra si accolli le impurezze, dando così luogo a comportamenti esclusivi in termini di matrimonio e lavoro. La specializzazione del lavoro è esaltata al massimo: ogni famiglia eredita il lavoro di padre in figlio. Ne sono esempi specializzazioni che coinvolgono la vacca, animale sacro perché simbolo di ricchezza e fecondità. Da viva la vacca santifica ed è proprietà dei brahmini, da morta contamina ed appartiene agli harijan. Anche il matrimonio è esclusivo: il primo matrimonio (che solitamente è un contratto famigliare) non può essere esogamico (cioè tra caste differenti), mentre lo può essere il secondo matrimonio. In questo caso il marito deve essere sempre di casta superiore alla moglie. Se il sistema sociale basato sui varna e jati è delineato nei Rg Veda, che descrivono l’arrivo degli indoari in India, negli stessi libri vengono delineati i primi concetti che serviranno da base per lo sviluppo dell’induismo. Già nei RgVeda, infatti, troviamo Vishnu e Shiva come dei inferiori a Indra, dio della guerra. Vishnu è colui grazie al quale l’universo è stato sottratto agli dei malvagi, mentre Shiva, rappresentato nella dualità Rudra-Shiva, è solitario, scontroso, terribile (Rudra), ma che può essere benevolo (Shiva). Sono proprio Shiva e Vishnu che prevalgono sulle altre divinità dei RgVeda per formare un nuovo nucleo di credenze che oggi chiamiamo Induismo. A Indra (che, in quanto dio della Guerra era importante quando gli aryi dovevano impegnarsi militarmente all’affacciarsi nel subcontinente), si sostituisce Brahma, colui che crea. Vishnu, diviene un dio ricco di avatar (incarnazioni), le più famose delle quali sono Rama e Krishna. 2 Shiva, invece, non ha avatar e mantiene entrambe le caratteristiche di Rudra-Shiva, distruttore, ma anche creatore. Ha una moglie, Shakti, che può assumere diverse manifestazioni: Kali la Nera, Parvati, la dea delle montagne, Durga l’inavvicinabile, Gauri la splendida, Devi la dea, Sati la moglie fedele, Bhairavi, la terribile e Karala l’orribile. L’unione di Shiva con Shakti ha generato il simbolismo genitale del linga (fallo maschile) e yoni (genitale femminile), la cui unione simboleggia il potere riproduttivo. La gerarchia teologica induista viene ricostruita nei Brahmana, mentre .la summa filosofica indiana è descritta nelle Upanishad (Sedersi accanto a qualcuno, il maestro che impartisce gli insegnamenti al discepolo). Fine delle Upanishad è la liberazione dell’uomo, che si raggiunge gradualmente mediante un processo cognitivo che parte dal Brahman, l’Assoluto ingenerato, da cui tutto ha origine. E’ dal prana, il “soffio energetico”, che tutto è stato creato. La pronuncia del prana (la sillaba Aum dell’alfabeto sanscrito – ॐ ) scatena la liberazione dell’energia imprigionata nel nostro corpo. Affinché questa liberazione di energia possa avvenire in modo “scatenante”, occorre essere consci che l’atman (anima) presente in ognuno di noi, coincida esattamente con l’anima primordiale generatrice del Tutto, cioè il Brahman. L’atman personale (cioè l’essenza immortale che ognuno di noi possiede ancor èprima di nascere e che perdurerà dopo la morte), è la sola realtà dell’universo. Tutto quanto ci circonda è sola illusione (maya) generata dalla nostra ignoranza, la stessa ignoranza che non permette al n ostro atman di riconoscere e ricongiungersi con il Brahman. Occorre quindi eliminare questa ignoranza mediante il jnana (la conoscenza, che ci permette di scostare il velo maya che ottenebra la nostra mente) e la bhakti (l’abbandono completo al Signore), raggiungendo finalmente il moksha, la liberazione. Naturalmente difficilmente sarà possibile liberarsi in una sola vita. Entra quindi in gioco il karman (l’atto che genera conseguenze): ogni azione che noi compiamo in questa vita genererà frutti che condizioneranno le vite successive avvicinandoci o allontanandoci dal moksha. Solo quando acquisteremo il jnana e la bhakti romperemo la catena (samsara) delle rinascite e ci uniremo al Brahman. Una volta fusi con esso ci allontaneremo definitivamente dalla dicotomia bene-male, così come ci insegnano le due grandi epiche indiane: il Mahabharata (Grande storia dei Bharata, IV sec. a.C. – IV sec. d.C.) e il Ramayana (Il viaggio di Rama, IV-III sec. a.C.). 3 Il Mahabharata racconta la storia della guerra tra le due grandi famiglie indiane: i Bharata, fondatori di un regno nei pressi dell’attuale New Delhi e i Panchala, detentori di un regno nei pressi di Agra. Il racconto della battaglia finale, durata 18 giorni, è tra i più famosi della letteratura indiana, raccolto nei Bhagavad Gita. La guerra (sinonimo di male nella morale umana) è voluta da Brahma al fine di salvare dalla catastrofe la terra, che rischiava di sprofondare nell’oceano primordiale a causa del peso creato da un’umanità troppo numerosa. Dal male, quindi, può nascere il bene (la salvezza della terra) mediante il sacrificio di alcuni valorosi. Di natura più romanzesca, il Ramayana racconta dell’incarnazione di Vishnu, la cui corona che gli spettava di diritto gli viene sottratta con un sotterfugio. Allontanato dalla reggia, vive in foresta, sposando Sita, figlia di un re. Rama è amato da una diavolessa che, non ricambiata, convince il fratello Ravana, re di Lanka, a rapire Sita. Rama organizza un esercito liberando la moglie che, però, ripudia perché non crede alla sua fedeltà. Sita, affranta, si immola nel sati (pira di fuoco). Viene salvata dal dio Agni (fuoco) che la riconsegna a Rama, questa volta convinto della sua fedeltà. La storia termina con Rama che riacquista il trono accanto alla moglie Sita. 4