Piergiorgio Pescali
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CENNI DI FILOSOFIA E RELIGIONE INDIANA
Il subcontinente indiano è un coacervo di culture, religioni, etnie, lingue. Nella sola India,
un miliardo di persone professano praticamente tutte le principali religioni esistenti sul
pianeta (induisti 80,5%, islamici 13,4%, cristiani 2,34%, sikh 1,57%, buddisti 0,77%,
giainisti 0,41%).
Pur essendo formalmente la più grande democrazia al mondo, la comunità indiana
sconvolge i nostri canoni sociali, basandosi sul sistema castale.
Casta, in realtà, è un termine derivante dalla lingua portoghese (castus, puro, non
mescolato), mentre gli indiani preferiscono utilizzare altre parole, come varna (colore) o jati
(nascita).
E’ dal 90° inno del X Libro dei RgVeda (1500 a.C.) che trae origine il sistema castale
indiano. In questo inno viene raccontata l’origine dell’universo mediante l’olocausto di
Purusha, un gigantesco essere primordiale. Dallo smembramento delle sue parti
sarebbero nate le quattro caste:
La sua bocca divenne il Brahmano
Il Guerriero fu il prodotto delle sue braccia
Le sue cosce furono l’Artigiano
Dai suoi piedi nacque il Servitore.
Brahmani, Kshatriya (guerrieri), Vaishya (artigiani, commercianti, proprietari terrieri), Sudra
(servitori, contadini) hanno quindi origine divina ed hanno precisi compiti nella società
indiana.
Storicamente le caste sarebbero invece state introdotte nel subcontinente dall’arrivo, nel II
millennio a.C., degli aryi, provenienti dal Centro Asia e dalle regioni causasiche. Questi
crearono i primi regni dell’India, come la Civiltà dell’Indo e centri come Harappa e
Mohenjodaro. Alle tre classi in cui era divisa la società indoariana quando si affacciò
nell’area indiana (sacerdoti, guerrieri, lavoratori), se ne aggiunse una quarta, quella dei
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servitori, formata dalle popolazioni autoctone dravidiche assimilate durante il processo di
espansione indoariana. La pelle più chiara degli indoariani rispetto ai dravidici, avrebbe
generato il concetto di superiorità delle prime tre classi sulla quarta e lo stesso nome di
varna (colore).
Una quinta classe venne introdotta con la conquista militare, quella degli intoccabili, fuori
casta o paria.
Le quattro caste principali si dividono a loro volta in sottocaste, dette jati, la cui
appartenenza è data da concetti ereditari (nascita), specializzazioni lavorative e matrimoni.
Più una casta è elevata, più pura deve essere e mantenersi (in questo senso la casta dei
brahmani è la più vulnerabile). Questo concetto dà origine allo stretto collegamento che
esiste tra brahmani e harijan (fuori casta): perché una casta si mantenga pura, occorre
che un’altra si accolli le impurezze, dando così luogo a comportamenti esclusivi in termini
di matrimonio e lavoro. La specializzazione del lavoro è esaltata al massimo: ogni famiglia
eredita il lavoro di padre in figlio. Ne sono esempi specializzazioni che coinvolgono la
vacca, animale sacro perché simbolo di ricchezza e fecondità. Da viva la vacca santifica
ed è proprietà dei brahmini, da morta contamina ed appartiene agli harijan. Anche il
matrimonio è esclusivo: il primo matrimonio (che solitamente è un contratto famigliare) non
può essere esogamico (cioè tra caste differenti), mentre lo può essere il secondo
matrimonio. In questo caso il marito deve essere sempre di casta superiore alla moglie.
Se il sistema sociale basato sui varna e jati è delineato nei Rg Veda, che descrivono
l’arrivo degli indoari in India, negli stessi libri vengono delineati i primi concetti che
serviranno da base per lo sviluppo dell’induismo.
Già nei RgVeda, infatti, troviamo Vishnu e Shiva come dei inferiori a Indra, dio della guerra.
Vishnu è colui grazie al quale l’universo è stato sottratto agli dei malvagi, mentre Shiva,
rappresentato nella dualità Rudra-Shiva, è solitario, scontroso, terribile (Rudra), ma che
può essere benevolo (Shiva).
Sono proprio Shiva e Vishnu che prevalgono sulle altre divinità dei RgVeda per formare un
nuovo nucleo di credenze che oggi chiamiamo Induismo. A Indra (che, in quanto dio della
Guerra era importante quando gli aryi dovevano impegnarsi militarmente all’affacciarsi nel
subcontinente), si sostituisce Brahma, colui che crea.
Vishnu, diviene un dio ricco di avatar (incarnazioni), le più famose delle quali sono Rama e
Krishna.
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Shiva, invece, non ha avatar e mantiene entrambe le caratteristiche di Rudra-Shiva,
distruttore, ma anche creatore. Ha una moglie, Shakti, che può assumere diverse
manifestazioni: Kali la Nera, Parvati, la dea delle montagne, Durga l’inavvicinabile, Gauri
la splendida, Devi la dea, Sati la moglie fedele, Bhairavi, la terribile e Karala l’orribile.
L’unione di Shiva con Shakti ha generato il simbolismo genitale del linga (fallo maschile) e
yoni (genitale femminile), la cui unione simboleggia il potere riproduttivo.
La gerarchia teologica induista viene ricostruita nei Brahmana, mentre .la summa filosofica
indiana è descritta nelle Upanishad (Sedersi accanto a qualcuno, il maestro che impartisce
gli insegnamenti al discepolo).
Fine delle Upanishad è la liberazione dell’uomo, che si raggiunge gradualmente mediante
un processo cognitivo che parte dal Brahman, l’Assoluto ingenerato, da cui tutto ha origine.
E’ dal prana, il “soffio energetico”, che tutto è stato creato. La pronuncia del prana (la
sillaba Aum dell’alfabeto sanscrito –
ॐ
) scatena la liberazione dell’energia imprigionata
nel nostro corpo.
Affinché questa liberazione di energia possa avvenire in modo “scatenante”, occorre
essere consci che l’atman (anima) presente in ognuno di noi, coincida esattamente con
l’anima primordiale generatrice del Tutto, cioè il Brahman. L’atman personale (cioè
l’essenza immortale che ognuno di noi possiede ancor èprima di nascere e che perdurerà
dopo la morte), è la sola realtà dell’universo. Tutto quanto ci circonda è sola illusione
(maya) generata dalla nostra ignoranza, la stessa ignoranza che non permette al n ostro
atman di riconoscere e ricongiungersi con il Brahman.
Occorre quindi eliminare questa ignoranza mediante il jnana (la conoscenza, che ci
permette di scostare il velo maya che ottenebra la nostra mente) e la bhakti (l’abbandono
completo al Signore), raggiungendo finalmente il moksha, la liberazione.
Naturalmente difficilmente sarà possibile liberarsi in una sola vita. Entra quindi in gioco il
karman (l’atto che genera conseguenze): ogni azione che noi compiamo in questa vita
genererà frutti che condizioneranno le vite successive avvicinandoci o allontanandoci dal
moksha. Solo quando acquisteremo il jnana e la bhakti romperemo la catena (samsara)
delle rinascite e ci uniremo al Brahman.
Una volta fusi con esso ci allontaneremo definitivamente dalla dicotomia bene-male, così
come ci insegnano le due grandi epiche indiane: il Mahabharata (Grande storia dei
Bharata, IV sec. a.C. – IV sec. d.C.) e il Ramayana (Il viaggio di Rama, IV-III sec. a.C.).
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Il Mahabharata racconta la storia della guerra tra le due grandi famiglie indiane: i Bharata,
fondatori di un regno nei pressi dell’attuale New Delhi e i Panchala, detentori di un regno
nei pressi di Agra.
Il racconto della battaglia finale, durata 18 giorni, è tra i più famosi della letteratura indiana,
raccolto nei Bhagavad Gita. La guerra (sinonimo di male nella morale umana) è voluta da
Brahma al fine di salvare dalla catastrofe la terra, che rischiava di sprofondare nell’oceano
primordiale a causa del peso creato da un’umanità troppo numerosa. Dal male, quindi,
può nascere il bene (la salvezza della terra) mediante il sacrificio di alcuni valorosi.
Di natura più romanzesca, il Ramayana racconta dell’incarnazione di Vishnu, la cui corona
che gli spettava di diritto gli viene sottratta con un sotterfugio. Allontanato dalla reggia, vive
in foresta, sposando Sita, figlia di un re. Rama è amato da una diavolessa che, non
ricambiata, convince il fratello Ravana, re di Lanka, a rapire Sita. Rama organizza un
esercito liberando la moglie che, però, ripudia perché non crede alla sua fedeltà. Sita,
affranta, si immola nel sati (pira di fuoco). Viene salvata dal dio Agni (fuoco) che la
riconsegna a Rama, questa volta convinto della sua fedeltà. La storia termina con Rama
che riacquista il trono accanto alla moglie Sita.
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