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L'Infermiere n°6 / 2014
EDITORIALE
Il 2015 è l'anno dell'infermiere specialista
di Annalisa Silvestro
SCIENZE INFERMIERISTICHE
La valutazione delle competenze infermieristiche: uno studio di validazione
della Nurse Competence Scale
di Rosaria Scavone, Davide Ausili, Stefania Di Mauro
Lo stravaso da farmaco vescicante: una revisione narrativa
di Andrea Brigida, Giuseppe Re Luca, Maura Lusignani
CONTRIBUTI
La Kangaroo mother care: è una pratica utile per il prematuro?
di Daniela Magnani, Simona Orlandini, Cristian Palazzolo, Paola Ferri
Aspetti assistenziali della resilienza: il sostegno emozionale
di Maurilio Pallassini, Elisa Arezzini
La libera professione infermieristica: un'indagine in Toscana
di Mirko Tonelli, Ludovica Tamburini, Manuela Marcucci, Diletta Calamassi
ESPERIENZE
La gestione del paziente con frattura dell'anello pelvico: un'esperienza
di Francesca Guidoni, Valentina Monetti, Paola Rocca, Luciana Torre
L'infermiere visto dai degenti di una terapia intensiva post-operatoria
cardiochirurgica
di Silvio Simeone, Marco Perrone, Grazia Dell'Angelo, Carlo Vosa
SCAFFALE
Autonomia e collaborazione, gli ambiti di intervento infermieristico
Mangiare per crescere, consigli per genitori in gamba
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L'Infermiere n°6 / 2014
Il 2015 è l'anno dell'infermiere specialista
di Annalisa Silvestro
Presidente della Federazione Nazionale dei Collegi Ipasvi
Nel nuovo anno porte aperte finalmente, con la legge di stabilità 2015, alle competenze
specialistiche degli infermieri. Si tratta di uno snodo importante per l’assistenza sanitaria e
per la professione che apre la strada a quel lavoro di squadra, proprio e anche con le altre
professioni, che da sempre gli infermieri cercano per dare la massima qualità
nell’assistenza ai pazienti, ma con il riconoscimento del loro ruolo e dell'upgrading
raggiunto e con paradigmi professionali, relazionali e organizzativi diversi dagli attuali. Gli
infermieri desiderano ragionare sui bisogni emergenti e attuali degli assistiti e su come
attivare una forte cooperazione per garantire la sostenibilità del Ssn senza diminuire
ulteriormente equità, efficacia, efficienza e appropriatezza.
Gli infermieri sono portatori di quei contenuti disciplinari e quindi professionali che possono
concretamente e con metodo scientifico, dare risposta ai bisogni sanitari che si stanno
imponendo non solo nella società italiana, ma anche e ampiamente, in quella europea.
Bisogni e domanda sanitaria correlati a cronicità, fragilità fisica e psichica, cure di lungo
termine, continuità, olismo assistenziale, gestione professionalizzata dei casi. Situazioni
che richiamano la struttura disciplinare infermieristica che per una gestione assistenziale
ancora più efficace necessita di un formale e riconosciuto approfondimento dei paradigmi
e dei contenuti disciplinari che sottendono i diversi ambiti ed aree di esercizio
professionale.
Con la previsione contenuta nel comma 566 della legge non ci sono più alibi per fermare il
processo, né politici né sindacali, come quelli che finora hanno rallentato l’innovazione.
Abbiamo ragionato delle competenze che definiscono l'assistenza infermieristica, della
loro fisiologica e già comunemente diffusa evoluzione, di sperimentazioni ancora più
innovative attuate dagli infermieri in numerosi luoghi del Paese e dell'aspettativa, già
normata dalla legge 43 del 2006, di giungere, finalmente, alla figura dell’infermiere
specialista. Quelle sperimentazioni e altre e ulteriori ancora, ora si potranno strutturare e
ridefinire anche con l'approfondimento disciplinare di percorsi formativi e di ricerca nelle
sei aree di intervento.
Naturalmente non è la norma della legge di stabilità a dover parlare direttamente di
competenze specialistiche: una legge dello stato non può regolamentare attività
professionali che sono in realtà le Regioni a gestire; non può “intromettersi”
nell’organizzazione del lavoro che queste sviluppano nei e per i loro territori. Con la norma
- ed è perciò che ora possono decollare le competenze specialistiche - è stata fatta cadere
anche l'ultima barriera artificialmente innalzata dai detrattori di questa innovazione. Ora
potrà avere il via libera quell’accordo Stato-Regioni già pronto e concordato, perfino già
messo all’ordine del giorno di una conferenza pre-estiva.
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L'Infermiere n°6 / 2014
Il documento che ci aspettiamo venga presentato in Conferenza Stato Regione per
"sancire accordo" e iniziare finalmente a darvi attuazione. In quell'articolato ci sono tutti gli
elementi per poter agire nei diversi ambiti: accademico, professionale, della formazione
permanente e dell'organizzazione.
Certo, molti si porranno il problema dell’innovazione inserita nel quadro dell’assenza di
contratti e di blocco delle retribuzioni. Il nostro auspicio è che non si aspetti molto a
mettere mano alla parete economica dei contratti ma in questo momento ci preoccupiamo,
come è nostro compito, di porre quelle basi professionali sulle quali auspichiamo che le
rappresentanze sindacali riescano a fare ancora meglio il loro lavoro, ossia valorizzare
economicamente tutto questo. E proprio per questo aspetto è necessario sostenere le
rappresentanze sindacali che davvero hanno a cuore la professione. La realizzazione di
una diversa organizzazione del lavoro impostata sul riconoscimento del merito e delle
diverse responsabilità, oltre che capace di riconoscere la diversità dell'apporto delle
professioni sanitarie e delle loro specificità al processo di cura e di assistenza, non è
facile.
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La valutazione delle competenze infermieristiche:
uno studio di validazione della Nurse Competence Scale
Rosaria Scavone1, Davide Ausili2, Stefania Di Mauro3
1Infermiera, Dipartimento Solventi, IRCSS Ospedale San Raffaele, Milano; 2Ricercatore, Area ricerca
infermieristica, IRCCS MultiMedica, Sesto San Giovanni; 3Professore associato in scienze infermieristiche,
Dipartimento di scienze della salute, Università degli Studi di Milano-Bicocca
Corrispondenza: [email protected]
RIASSUNTO
Introduzione La definizione e valutazione delle competenze infermieristiche rappresenta una sfida cruciale
per definire gli standard professionali, per garantire la qualità dell’assistenza e per la futura sostenibilità dei
sistemi sanitari. La Nurse Competence Scale (NCS) è stata tradotta e adattata al contesto culturale italiano
ma la validità e l’affidabilità dello strumento sono state valutate su campioni molto ristretti di infermieri. Lo
scopo di questo studio è quello di integrare i dati disponibili sulla validità e affidabilità della versione italiana
della NCS attraverso uno studio multicentrico.
Metodi Lo studio è stato condotto in due fasi: la prima fase ha coinvolto un gruppo di esperti e ha avuto lo
scopo di valutare la validità di facciata e di contenuto della scala; la seconda fase ha coinvolto 235 infermieri
operanti in ambito clinico in tre aziende ospedaliere lombarde, e ha avuto lo scopo di valutare la coerenza interna e l’affidabilità test-retest dello strumento.
Risultati Secondo le valutazioni effettuate dai 15 esperti coinvolti, la NCS ha mostrato complessivamente una
buona validità di facciata e di contenuto. Tuttavia, alcune affermazioni hanno ottenuto un content validity ratio limitato a causa di termini ritenuti ambigui per il contesto italiano. I risultati hanno mostrato elevati valori
di coerenza interna e di stabilità (alfa di Cronbach compresa tra 0,93 e 0,97; concordance correlation coefficient compreso tra 0,90 e 0,94; tasso di risposta del 78%).
Conclusioni Secondo i risultati di questo studio, la validità di facciata e di contenuto della versione Italiana
della NCS potrebbero essere perfezionate dall’impiego di definizioni operative dei termini potenzialmente ambigui. La NCS potrebbe avere utili applicazioni nella formazione, nell’organizzazione, nella clinica e nella ricerca infermieristica. Inoltre, un più ampio impiego della NCS potrebbe arricchire il dibattito in corso sulla definizione delle competenze dell’infermiere di assistenza infermieristica generale e specialista.
Parole chiave: competenze professionali, Nurse Competence Scale, competenze infermieristiche, studio metodologico, studio di validazione
Assessing nurses’ competencies: a validation study of the Nurse Competence Scale
ABSTRACT
Introduction Defining and assessing nurse competencies is a crucial challenge to define professional standards, to ensure quality of care and to promote health systems’ sustainability. The Nurse Competence Scale
(NCS) was translated and culturally adapted to the Italian context but its validity and reliability were tested
on small samples of nurses. The aim of this study is to integrate available data on NCS validity and reliability through a multicenter cross-sectional survey.
Methods The study was two-stage conducted: the first stage was aimed to assess NCS face and content
validity involving a panel of recognized experts; the second one tested internal consistency and test-retest
reliability involving a sample of 235 nurses working in three hospitals in Lombardy (North of Italy).
Results Based on 15 experts evaluations, NCS showed overall good face and content validity. However, a
small number of items showed a low content validity ratio due to the use of terms considered ambiguous in
the Italian cultural context. Study results showed high internal consistency and high stability of the NCS (Cronbach alpha between 0,93 and 0,97; concordance correlation coefficient between 0,90 and 0,94; respondent
rate of 78%).
Conclusions Results show that NCS face and content validity could be improved by the use of operational
definitions of potentially ambiguous terminologies. NCS could have useful application in educational, orga-
L’infermiere, 2014;51:6:e69-e79
e69
nizational, clinical and research settings in Italy. Furthermore, a wider use of NCS could enrich the actual national debate on the definition of registered and advanced practice nurses’ competencies.
Key words: professional competence, Nurse Competence Scale, nurse competence, methodological study,
validation study
INTRODUZIONE
La definizione e la valutazione delle competenze dell’infermiere sono fondamentali per garantire un’assistenza infermieristica qualificata ai pazienti e per favorire lo sviluppo professionale (Allen P, et al., 2008;
McMullan M, et al., 2003; Watson R, et al., 2002).
L’impiego del termine “competenza” appare ambiguo e discordante nella vasta letteratura sull’argomento (Affara FA, 2003; ICN, 1986, 2005; Cowan DT,
et al., 2005; ICN-CNAI, 2010; Sironi C, 2008, 2009,
2011). A questo termine sono infatti assegnati i differenti significati di abilità, capacità, pertinenza, idoneità, giudizio o l’insieme di tutte queste caratteristiche (Liu M, et al., 2007).
L’International Council of Nurses (ICN) ha distinto
due fondamentali approcci nella letteratura che studia le competenze professionali infermieristiche (Affara FA, 2003; Dolan G, 2003; ICN, 2005; ICN-CNAI,
2010; Watson R, et al., 2002; Manley K, et al., 2000).
Il primo, denominato comportamentista, si focalizza
sulle funzioni, sulle abilità, sui ruoli ricoperti e implica
l’osservazione diretta delle prestazioni (o performance) professionali. In questo approccio la competenza generale (overall competence) dipende dal livello dimostrato in ogni singola competenza specifica
(denominata competency). Il secondo approccio, denominato olistico, si riferisce alla competenza in termini di ampi gruppi di abilità concettualmente collegate tra di loro e si focalizza sugli attributi o sui tratti
generali del professionista che sono essenziali per
erogare delle prestazioni efficaci. Questi attributi,
come il livello culturale, i valori, le attitudini o il pensiero critico, costituiscono la base per lo sviluppo di
specifiche capacità nell’ambito applicativo di appartenenza (Affara FA, 2003; ICN-CNAI, 2010; McMullan
M, et al., 2003; Watson R, et al., 2002).
Pur partendo da punti di vista e definizioni tra loro differenti, i filoni di studio delle competenze infermieristiche concordano sulla necessità di valutare e misurare l’acquisizione e il mantenimento delle competenze
professionali nel tempo. La valutazione può essere definita come il processo attraverso il quale si cerca di
identificare o accertare il livello di adeguatezza delle
competenze di un soggetto rispetto a uno specifico
o possibile ambito di attività (Allen P, et al., 2008; Alessandrini G, 2000; Bellini L, et al., 2008; Bernardi MT,
et al., 2005; Borgioli M, et al., 2010, a-b; Canova G,
et al., 2007; Dellai M, et al., 2009; Finotto S, et al., 2009;
e70
Jones T, et al., 2002; Meretoja R, et al., 2001, 2002,
2003, 2004, a-b). Secondo gli autori, il processo di valutazione e certificazione delle competenze rappresenta
un’importante sfida per i professionisti sanitari allo scopo di garantire la sicurezza dei pazienti e la qualità dell’assistenza (Aiken L, et al., 1994; Allen P, et al., 2008;
Jones T, et al., 2002; Needleman J, et al., 2007). Partendo da questa considerazione, in ambito infermieristico sono stati sviluppati diversi strumenti e metodologie per la valutazione delle competenze, tra cui la
Nurse Competence Scale (NCS) (Borgioli M, et al.,
2010, a-b; Sironi C, 2009, 2011; Meretoja R, et al.,
2001, 2002, 2003, 2004, a-b).
La NCS è uno strumento di autovalutazione delle
competenze infermieristiche sviluppato in Finlandia
tra il 1997 e il 2003. La scala è suddivisa in sette
classi di competenza, riferite al quadro concettuale
sviluppato da Benner P (Benner P, 1982, 1984, 1996,
2003). Ciascuna di queste classi prevede una serie di
competenze più specifiche, per un totale di 73 affermazioni complessive (Meretoja R, et al., 2001, 2002,
2003, 2004, a). Sperimentato in numerosi paesi tra
cui gli Stati Uniti, l'Australia, il Regno Unito, il Giappone e la Germania, la NCS ha mostrato di essere
uno strumento valido e affidabile (Bahreini M, et al.,
2011, a-b; Chang MJ, et al., 2011; Cowan DT, et al.,
2007, 2008; Cowin LS, et al., 2008; Girbig M, et al.,
2011; Hengstberger-Sims C, et al., 2008; Makipeura
J, et al., 2007; Martin JS1, et al., 2010; Martínez AC,
2011; Salonen AH, et al., 2007; Steffan KP, et al.,
2010; Takase M, et al., 2011; Tzeng HM, 2004).
In Italia la NCS è stata tradotta e testata per la prima
volta nel 2009 su un campione di 10 infermieri nello
studio di Dellai M e collaboratori (Dellai M, et al.,
2009) e su un campione di 13 infermieri nello studio
di Finotto e Cantarelli (Finotto S, et al., 2009). La versione italiana della NCS è stata sottoposta ad adattamento linguistico e culturale allo scopo di assicurarne l’equivalenza semantica con la versione
originale e di testarne le performance psicometriche
nel contesto italiano (Dellai M, et al., 2009; Finotto S,
et al., 2009). I risultati di questi studi hanno evidenziato che la traduzione italiana della NCS è facile da
utilizzare (Dellai M, et al., 2009; Finotto S, et al.,
2009), le affermazioni sono chiare e comprensibili e
che la NCS può essere considerata uno strumento
utile per fornire indicazioni sul livello e sugli ambiti di
competenza degli infermieri italiani (Dellai M, et al.,
L’infermiere, 2014;51:6:e69-e79
2009; Finotto S, et al., 2009). Tuttavia, dagli studi
considerati è emerso che sarebbero necessarie ulteriori ricerche per verificare la validità e l’affidabilità
della scala nel contesto italiano (Dellai M, et al., 2009;
Finotto S, et al., 2009). Lo scopo di questo studio, di
tipo multicentrico metodologico, è quindi quello di testare la versione italiana della NCS (Finotto S, et al.,
2009) su un campione più numeroso di infermieri, allo
scopo di integrare i dati a oggi disponibili sulla validità di facciata, di contenuto, sulla coerenza interna
e sulla stabilità dello strumento.
METODI
Lo studio è stato suddiviso nelle seguenti due fasi:
• prima fase: si è testata la validità di facciata e di
contenuto della Nurse Competence Scale coinvolgendo un gruppo di esperti;
• seconda fase: si è ulteriormente testata la validità
di contenuto, la coerenza interna e l’affidabilità
test-retest somministrando lo strumento a un campione di infermieri clinici operanti in Lombardia.
Campione e contesto dello studio
Nella prima fase sono stati coinvolti quindici professionisti ritenuti esperti dell’ambito infermieristico per
l’impegno e il ruolo ricoperto nell’ambito formativo,
organizzativo, clinico o di ricerca.
Nella seconda fase è stato adottato un campionamento di convenienza su base volontaria e propositiva includendo gli infermieri clinici di quattro ospedali della Regione Lombardia: l’Ospedale San Raffaele
di Milano, l’Ospedale San Gerardo di Monza, l’IRCCS
MultiMedica di Sesto San Giovanni e l’Ospedale MultiMedica Santa Maria di Castellanza. Le unità operative coinvolte nei centri selezionati per lo studio sono
state di tipo medico, chirurgico e riabilitativo.
Allo scopo di aumentare il tasso di risposta in questa
seconda fase dello studio, per ognuno dei centri
coinvolti è stato estratto un infermiere, tra quelli partecipanti all’indagine, al quale è stato regalato un
abbonamento annuale alla rivista scientifica indicizzata Professioni Infermieristiche comprensivo di iscrizione per un anno alla Consociazione nazionale associazioni infermieri (CNAI).
Strumenti
Per testare la validità di facciata e di contenuto della
Nurse Competence Scale, nella prima fase dello studio lo strumento è stato consegnato a un gruppo di
esperti corredato con due scale Likert con punteggio
da 0 a 5 che chiedevano il livello di chiarezza e di utilità di ognuna delle 73 affermazioni della NCS. Al termine della valutazione è stato chiesto poi a ogni
esperto, secondo quanto indicato da Lynn MR e De
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Vellis RF, di segnalare l’eventuale necessità di revisioni da apportare alle affermazioni e/o l’esistenza di
aree mancanti di competenza professionale (Lynn
MR, 1986; De Vellis RF, 1991).
Nella seconda fase, a un campione di convenienza di
340 infermieri sono stati consegnati: un questionario
finalizzato alla raccolta di informazioni anagrafiche e
la versione italiana della NCS corredata da tre differenti scale di misura:
• una scala Likert a 4 punti impiegata al fine di raccogliere dati rispetto all’importanza attribuita dagli
infermieri alle competenze incluse nella NCS in relazione all’unità operativa o all’ambito clinico di
appartenenza. Si è introdotto questo parametro, a
differenza dello studio di Dellai M e collaboratori
(Dellai M, et al., 2009), al fine di potere ottenere una
misura della rilevanza delle singole competenze,
secondo quanto percepito dai partecipanti, in riferimento all’attività clinica quotidiana. Le possibili risposte hanno previsto le seguenti voci:
- non necessaria: competenza non occorrente
nella pratica clinica;
- poco utile: competenza scarsamente occorrente
nella pratica clinica;
- utile: competenza occorrente nella pratica clinica;
- necessaria: competenza essenziale nella pratica
clinica.
• una seconda scala Likert a 4 punti per valutare la
frequenza con la quale la competenza espressa da
ciascuna affermazione viene impiegata dagli infermieri nella pratica clinica quotidiana. Questa scala ha avuto lo scopo di misurare quanto spesso, secondo la percezione degli infermieri, la competenza in oggetto è utilizzata nella pratica clinica all’interno dell’unità operativa o ambito clinico di appartenenza. Le possibili risposte (in modo analogo
allo studio di Dellai M e collaboratori) sono state:
- mai: competenza impiegata in nessun momento;
- raramente: competenza impiegata saltuariamente;
- spesso: competenza impiegata di frequente;
- molto spesso: competenza impiegata di continuo.
• una scala visivo-analogica (VAS) da 0 a 100, come
nello studio di Dellai M e collaboratori, per l’autovalutazione riguardo alla competenza espressa da
ogni affermazione della NCS (Dellai M, et al., 2009).
L’autovalutazione misura il livello di acquisizione
della competenza che ogni partecipante attribuisce
a se stesso nel momento di compilazione della
scala. Come nei precedenti studi, il punteggio VAS
è stato, in seguito, classificato in quattro categorie:
- basso livello di competenza (0-24);
- livello di competenza abbastanza buono (25-49);
- buon livello di competenza (50-74);
- ottimo livello di competenza (75-100).
e71
A ognuna delle quattro categorie è stato in seguito
attribuito un punteggio crescente da 0 a 3 che è
stato impiegato per l’analisi dei risultati. I punteggi di
autovalutazione sono stati impiegati per valutare la
coerenza interna e l’affidabilità test-retest della NCS.
Infatti, ai 340 infermieri coinvolti nello studio è stata
consegnata la NCS in duplice copia con la richiesta
di rivalutarsi a distanza di 7-10 giorni dalla prima
compilazione a patto che, nel tempo intercorso, non
avessero svolto attività formative specifiche che
avrebbero potuto modificare, in certa misura, il livello
di competenza in una o più classi della NCS. A ogni
partecipante è stato consegnato anche un documento riportante le istruzioni dettagliate per la compilazione dei questionari. Prima di distribuire gli strumenti di raccolta dati sopra descritti è stato eseguito
uno studio di fattibilità coinvolgendo sette infermieri
dell’Ospedale San Raffaele, valutando la corretta interpretazione delle indicazioni e compilazione dei
questionari.
Raccolta e analisi dei dati
Nella prima fase dello studio tutti gli esperti selezionati sono stati reclutati personalmente o tramite posta elettronica. Nella seconda fase si è svolto un incontro informativo con i responsabili infermieristici delle aziende coinvolte allo scopo di presentare il progetto.
La distribuzione dei questionari è avvenuta con la collaborazione dei coordinatori infermieristici delle diverse
unità operative coinvolte. Il materiale compilato è stato riconsegnato ai coordinatori delle unità operative e
in seguito ritirato dai ricercatori. I dati sono stati raccolti nel periodo compreso tra novembre 2011 e novembre 2012 e inseriti in un database Excel.
La validità di facciata e di contenuto espressa dal gruppo di esperti è stata valutata calcolando il content validity ratio (CVR), secondo il metodo di Lawshe CH,
sui punteggi di utilità e di chiarezza attribuiti a ogni
competenza (affermazione) della NCS. La validità di
facciata e di contenuto è stata ritenuta accettabile se
almeno il 50% degli esperti riteneva l’affermazione necessaria e chiara (CVR>0,00)(Lawshe CH, 1975).
La formula di Lawshe applicata è la seguente:
NE - (N/2)
N/2
In questa formula “NE” rappresenta il numero di
esperti che hanno risposto “essenziale” e “N” il numero totale degli esperti coinvolti. Secondo questo
metodo, quando la valutazione massima (punteggio
attribuito pari a 5) è assegnata da meno della metà
degli esperti il content validity ratio è negativo;
quando la valutazione massima (punteggio attribuito
e72
pari a 5) è assegnata dalla metà esatta degli esperti
il content validity ratio è uguale a zero; quando la valutazione massima (punteggio attribuito pari a 5) è assegnata da tutti gli esperti il content validity ratio è
uguale a 1; quando la valutazione massima è assegnata da più della metà degli esperti il content validity ratio è positivo e varia da 0 a 0,99.
L’importanza e la frequenza d’uso di ogni affermazione e di ogni classe di competenze espresse dal
campione di infermieri clinici sono state analizzate attraverso misure descrittive e sono state considerate
come ulteriore indicazione della validità di contenuto
della NCS.
La coerenza interna è stata valutata attraverso l’alfa
di Cronbach e l’intraclass correlation coefficient (ICC)
stimati sull’autovalutazione svolta dagli infermieri.
L’affidabilità test-retest è stata valutata attraverso la
kappa di Cohen, il concordance correlation coefficient (CCC) e un test d’ipotesi per valutare l’assenza
di differenze statisticamente significative nelle medie
di risposta tra la prima e la seconda rilevazione. I dati
sono stati analizzati attraverso l’impiego del software statistico MedCalc nella versione 12.2.1.0.
Aspetti etici
Sono state richieste e ottenute le autorizzazioni all’uso
della NCS dall’autrice dello strumento originale (Meretoja R, et al., 2004, a) e dagli autori della traduzione
italiana (Finotto S, et al., 2009). Inoltre, è stata richiesta e ottenuta l’autorizzazione a distribuire i questionari alle Direzioni generali e sanitarie delle strutture
coinvolte. La partecipazione da parte degli esperti e
degli infermieri è stata volontaria; la riservatezza delle
informazioni e l’anonimato dei partecipanti sono stati
garantiti in tutte le fasi dello studio.
RISULTATI
Il tasso di risposta nella prima fase dello studio è
stato pari al 100%; tutti i 15 esperti selezionati hanno
restituito il questionario compilato. I risultati ottenuti
in questa fase hanno mostrato che la maggioranza
degli esperti ha concordato nell’attribuire un punteggio massimo (pari a 5) riguardo all’utilità delle
competenze a 63 affermazioni su 73 (86%).
Per quanto riguarda la chiarezza, gli esperti hanno attribuito il punteggio massimo (pari a 5) a 66 affermazioni su 73 (90,4%).
Le Tabelle 1 e 2 riportano in dettaglio le affermazioni che hanno ottenuto un content validity ratio non accettabile per l’utilità/essenzialità della competenza e
un content validity ratio non accettabile per la chiarezza dell’affermazione relativo alla competenza in esame. Nelle medesime tabelle è riportato anche il numero di esperti che, invece, ha attribuito un punteg-
L’infermiere, 2014;51:6:e69-e79
gio massimo (pari a 5) alle medesime affermazioni (NE).
Nella seconda fase dello studio, dei 340 questionari,
distribuiti nei tre centri coinvolti, ne sono tornati 264,
con un tasso di risposta del 78%; di questi, solo 235
Tabella 1. Affermazioni che hanno ottenuto un content validity ratio non accettabile in merito all’utilità della competenza e numero di esperti che hanno attribuito il punteggio massimo (pari a 5)
Content validity ratio
“utile” o “essenziale”
NE
-0,333
-0,6
5
3
-0,067
7
-0,067
-0,067
-0,2
7
7
6
-0,333
-0,467
-0,333
5
4
5
-0,333
5
-0,067
7
Competenze di presa in carico
Supportare le strategie di adattamento alla malattia del paziente
Valutare criticamente la propria filosofia di nursing, la sua congruenza con i bisogni
degli utenti e la sua applicazione nella pratica quotidiana
Migliorare la cultura della presa in carico nell’unità operativa
Competenze educative
Riconoscere i bisogni educativi dei familiari
Agire autonomamente nell’educare i familiari
Sviluppare il processo educativo nei confronti del paziente all’interno dell’unità
operativa
Competenze diagnostiche
Analizzare lo stato di salute del paziente utilizzando diversi modelli teorici
Accertare i bisogni psicologici dei familiari
Organizzare per il paziente la consulenza di un esperto (infermieristico e non)
Assicurare la qualità
Contribuire all’identificazione di criticità nel modello assistenziale scelto dall’équipe
infermieristica
Competenze legate al ruolo
Gestire completamente le situazioni che gli si presentano innanzi
NE: numero di esperti che hanno risposto “essenziale”
Tabella 2. Affermazioni che hanno ottenuto un content validity ratio non accettabile in merito alla chiarezza della competenza e numero di esperti che hanno attribuito il punteggio massimo (pari a 5)
Content validity ratio NE
“chiaro”
Competenze di presa in carico
Supportare le strategie di adattamento alla malattia del paziente
Valutare criticamente la propria filosofia di nursing, la sua congruenza con i bisogni
degli utenti e la sua applicazione nella pratica quotidiana
-0,6
-0,467
3
4
Competenze educative
Sviluppare il processo educativo nei confronti del paziente all’interno dell’unità
operativa
Incoraggiare gli altri ad assumersi le proprie responsabilità
-0,067
7
-0,333
5
Competenze diagnostiche
Analizzare lo stato di salute del paziente utilizzando diversi modelli teorici
Accertare i bisogni psicologici dei familiari
Organizzare per il paziente la consulenza di un esperto (infermieristico e non)
-0,467
-0,067
-0,067
4
7
7
Competenze legate al ruolo
Assicurare il procedere di un’assistenza priva di pericoli attraverso la delega dei compiti
Gestire completamente le situazioni che gli si presentano innanzi
-0,2
-0,333
6
5
NE: numero di esperti che hanno risposto “essenziale”
L’infermiere, 2014;51:6:e69-e79
e73
(69%) sono stati analizzati poiché compilati correttamente nella loro interezza.
L’80% del campione era rappresentato da infermieri
di sesso femminile. Il 40% ha indicato un’esperienza
lavorativa superiore a 5 anni (il 13% meno di un
anno; il 24% da 1 a 3 anni e il 21% da 3 a 5 anni).
L’11% del campione ha eseguito corsi post base e di
questi il 42% ha conseguito un Master di coordinamento delle professioni sanitarie; il 25% e il 19% ha
conseguito rispettivamente il Master in area critica e
in wound care e l’8% del campione ha riferito di
avere conseguito la laurea magistrale in scienze infermieristiche e ostetriche.
I dati relativi all’importanza e alla frequenza d’uso riportate dagli infermieri clinici riguardo alle classi di
competenze valutate dalla NCS sono mostrati nelle
Tabelle da 3 a 6.
In quanto a importanza attribuita dagli infermieri alle
competenze, tutte le affermazioni hanno ottenuto un
punteggio che si colloca tra “utile” e “necessario” (de-
Tabella 3. Frequenze percentuali dell’importanza d'uso attribuita dagli infermieri alle competenze infermieristiche nelle
sette classi della NCS
Non necessario (%)
Poco utile (%)
Utile (%)
Necessario (%)
-
-
18
82
Competenze di educazione
0,4
0,85
18,7
80
Competenze diagnostiche
1,2
11,4
54,4
32,7
Competenze di gestione delle situazioni
-
0,85
6,8
92,3
Interventi terapeutici
-
0,4
16,5
82,9
Assicurare la qualità
0,4
6,8
57,4
35,3
-
0,85
45,9
53,1
Competenze di presa in carico
Ruolo
Tabella 4. Punteggio medio attribuito dagli infermieri all’importanza d’uso delle competenze infermieristiche nelle sette
classi della NCS
Media (%)
Intervallo
di confidenza
(IC95%)
Deviazione
standard
Varianza
Competenze di presa in carico
2,53
2,49-2,55
0,59
0,35
Competenze di educazione
2,58
2,56-2,60
0,56
0,31
Competenze diagnostiche
2,39
2,36-2,47
0,60
0,36
Competenze di gestione delle situazioni
2,75
2,73-2,77
0,45
0,20
Interventi terapeutici
2,62
2,60-2,64
0,52
0,27
Assicurare la qualità
2,26
2,23-2,29
0,59
0,35
Ruolo
2,64
2,63-2,66
0,52
0,27
p
0,0001
p: significatività
Tabella 5. Frequenze percentuali della frequenza d’uso delle competenze infermieristiche nelle sette classi della NCS
Competenze di presa in carico
Mai (%)
Raramente (%)
Spesso (%)
Molto spesso (%)
0,85
10,6
46,80
38,2
Competenze di educazione
-
11,9
42,1
45,9
Competenze diagnostiche
8,5
38,7
40,4
12,3
Competenze di gestione delle situazioni
0,4
2,9
31,9
64,6
Interventi terapeutici
0,85
2,9
45,9
50,2
Assicurare la qualità
5,1
31,4
48
15,3
Ruolo
2,5
14,4
50,2
32,7
e74
L’infermiere, 2014;51:6:e69-e79
Tabella 6. Punteggio medio attribuito dagli infermieri alla frequenza d’uso delle competenze infermieristiche nelle sette
classi della NCS
Media (%)
Intervallo
di confidenza
(IC95%)
Deviazione
standard
Varianza
Competenze di presa in carico
1,93
1,90-1,97
0,75
0,57
Competenze di educazione
1,97
1,95-2,00
0,73
0,54
Competenze diagnostiche
1,83
1,79-1,87
0,75
0,57
Competenze di gestione delle situazioni
2,26
2,23-2,29
0,73
0,53
Interventi terapeutici
2,02
1,99-2,05
0,73
0,54
Assicurare la qualità
1,52
1,48-1,56
0,76
0,58
Ruolo
2,20
2,18-2,66
0,72
0,52
p
0,0001
p: significatività
viazione standard compresa tra 0,52 e 0,59). Il punteggio medio più alto è stato riscontrato nella quarta
classe (competenze di gestione delle situazioni) con un
punteggio di 2,75. L’importanza attribuita a questa classe di competenze è stata significativamente superiore alla media complessiva della NCS (intervalli di confidenza, IC95%: da 0,15 a 0,34; p<0,0001). Il punteggio medio più basso è stato riscontrato nella sesta classe (assicurare la qualità) con un punteggio di 2,26. L’importanza attribuita a questa classe di competenze è stata significativamente inferiore alla media complessiva
della NCS (IC95% = da -0,33 a -0,14; p<0,0001).
Per quanto riguarda la frequenza d’uso, il punteggio
medio più alto è stato rilevato nella quarta classe
(competenze di gestione delle situazioni) con un punteggio di 2,26; le competenze di questa classe sono
state impiegate con una frequenza significativamente
superiore alla media complessiva della NCS (IC95%:
da 0,16 a 0,35; p<0,0001). Il valore medio più basso
è stato riscontrato nella sesta classe (assicurare la
qualità) con un punteggio di 1,52. Questa classe di
competenze è stata impiegata con una frequenza significativamente inferiore alla media generale della
NCS (IC95%: da -0,51 a -0,32; p<0,0001).
Considerando le medie complessive, la frequenza
d’uso delle competenze nella pratica clinica è risultata significativamente inferiore all’importanza che gli
infermieri attribuiscono alle medesime competenze
nello svolgimento della loro professione (IC95%: da
-0,71 a -0,50; p<0,0001).
Per quanto riguarda l’autovalutazione espressa dagli
infermieri clinici, il valore più alto è stato riscontrato
nella quarta classe (competenze di gestione delle
situazioni) con un punteggio di 2,32. In questa classe
di competenze gli infermieri si sono valutati in modo
significativamente superiore alla media complessiva
della NCS (IC95%: da 0,13 a 0,32; p<0,0001). Il va-
L’infermiere, 2014;51:6:e69-e79
lore medio più basso è stato invece riscontrato nella
sesta classe di competenze (assicurare la qualità)
con un punteggio di 1,77. In questa classe di competenza gli infermieri si sono valutati in modo significativamente inferiore rispetto alla media complessiva della NCS (IC95%: da -0,41 a -0, 28; p<0,0001).
Come riportato nella Tabella 7, l’alfa di Cronbach e
l’intraclass correlation coefficient per classi di competenze sono stati compresi rispettivamente tra 0,93
e 0,97 (alfa di Cronbach) e tra 0,92 e 0,97 (ICC). Non
sono state rilevate differenze statisticamente significative nelle autovalutazioni medie in tutte le classi di
competenza della NCS e nel punteggio complessivo
tra la prima e la seconda rilevazione (Tabella 8).
Il concordance correlation coefficient relativo alle
sette classi di competenza della NCS e al punteggio
complessivo è risultato compreso tra 0,90 e 0,95.
La kappa di Cohen era compresa tra 0,78 e 0,83
(Tabella 9).
DISCUSSIONE
Considerando i punteggi attribuiti dal gruppo di
esperti, i risultati di questo studio mostrano complessivamente un buon livello di utilità e di chiarezza
delle 73 competenze della NCS nel contesto culturale
italiano. Questo dato pare confermare i risultati positivi riportati dagli studi già svolti in precedenza. Tuttavia, in alcuni casi si è riscontrato un limitato grado
di accordo rispetto alla chiarezza e all’utilità delle affermazioni; si vedano, per esempio, le affermazioni
“Valutare criticamente la propria filosofia di nursing”,
“Riconoscere i bisogni educativi dei familiari”, “Analizzare lo stato di salute del paziente utilizzando diversi
modelli teorici”, “Accertare i bisogni psicologici dei familiari”, “Organizzare per il paziente la consulenza di
un esperto”, “Contribuire all’identificazione di criticità nel modello assistenziale scelto”. Gli esperti han-
e75
Tabella 7. Alfa di Cronbach e intraclass correlation coefficient per le sette classi di competenze della NCS
Alfa di Cronbach
Intraclass correlation coefficient
Competenze di presa in carico
0,93
0,92
Competenze di educazione
0,97
0,97
Competenze diagnostiche
0,93
0,93
Competenze di gestione delle situazioni
0,93
0,93
Interventi terapeutici
0,95
0,95
Assicurare la qualità
0,95
0,95
Ruolo
0,96
0,96
Tabella 8. Valori medi nel test e nel retest per le sette classi di competenza e per il punteggio complessivo della NCS
Media test
Media retest
T-test*
p*
Competenze di presa in carico
2,02
2,07
0,53
0,58
Competenze di educazione
2,10
2,18
0,93
0,34
Competenze diagnostiche
2,00
2,11
1,26
0,20
Competenze di gestione delle situazioni
2,32
2,38
0,79
0,43
Interventi terapeutici
2,18
2,23
0,58
0,56
Assicurare la qualità
1,77
1,89
1,23
0,21
Ruolo
2,31
2,31
0,00
1,00
Punteggio complessivo
2,14
2,20
0,69
0,48
*t-test e livello di significatività statistica sulla differenza tra le medie nel test e nel retest
p: significatività
Tabella 9. Kappa di Cohen e concordance correlation coefficient tra test e retest per le sette classi di competenza e
per il punteggio totale della NCS
Kappa di Cohen
Concordance correlation coefficient
Competenze di presa in carico
0,83
0,94
Competenze di educazione
0,80
0,93
Competenze diagnostiche
0,81
0,90
Competenze di gestione delle situazioni
0,80
0,90
Interventi terapeutici
0,82
0,91
Assicurare la qualità
0,78
0,86
Ruolo
0,82
0,92
Punteggio complessivo
0,81
0,95
no segnalato che alcuni termini contenuti in queste
affermazioni andrebbero definiti più chiaramente dal
punto di vista concettuale. Questi termini sono per
esempio nursing, filosofia di nursing, bisogni, problemi
assistenziali, bisogni psicologici e modello assistenziale. Questo dato suggerisce che questi termini potrebbero essere interpretati in modo disomogeneo nell’impiego della versione italiana della NCS oppure potrebbero essere scarsamente accettati dal punto di vi-
e76
sta culturale. Per questa ragione, nonostante gli indici impiegati in questo studio abbiamo mostrato una
buona stabilità dello strumento, l’adozione di definizioni operative dei termini in oggetto potrebbe favorire ulteriormente l’omogenea compilazione della
NCS. In alternativa, come nel caso della parola nursing (assistenza infermieristica), si potrebbe considerare, come suggerito dal gruppo di esperti, di ritradurre l’affermazione per tenere maggiormente
L’infermiere, 2014;51:6:e69-e79
conto della cultura italiana e del peculiare sviluppo delle scienze infermieristiche nel nostro Paese.
I dati riportati dal campione di infermieri clinici relativi all’importanza delle competenze incluse nella NCS
confermano ulteriormente la validità di contenuto della scala; infatti, tutte le affermazioni hanno ottenuto
un punteggio che si colloca tra “utile” e “necessario”.
L’importanza attribuita dagli infermieri alle competenze
della NCS è stata significativamente superiore alla frequenza d’uso delle medesime competenze nei contesti clinici. Questo dato suggerisce che sarebbe opportuno indagare più approfonditamente, attraverso
ulteriori studi, le ragioni per cui alcune competenze
infermieristiche, riconosciute come importanti per
l’esercizio della professione, trovano un ridotto livello di applicazione nella pratica professionale.
Le competenze utili a gestire le situazioni, per esempio “Riconoscere situazioni critiche” o “Ridefinire le
priorità al modificarsi delle situazioni”, sono quelle
che gli infermieri hanno ritenuto più importanti e che
applicano più frequentemente nella pratica professionale. Questo risultato pare rispecchiare la complessità e la dinamicità degli ospedali per acuti in cui
lo studio è stato condotto.
Le competenze per il miglioramento continuo della
qualità sono state considerate invece le meno importanti e le meno frequentemente utilizzate nella
pratica quotidiana. Queste competenze includono,
per esempio, l’utilizzo dei risultati della ricerca e la valutazione sistematica degli esiti, come la soddisfazione dei pazienti. Anche l’autovalutazione degli infermieri, in questa classe di competenza, ha mostrato
un livello significativamente più basso rispetto a
quello ottenuto nelle altre classi della NCS. Questo risultato suggerisce la necessità di incrementare sia lo
sviluppo sia l’utilizzo di queste competenze infermieristiche che paiono fondamentali per garantire la
migliore assistenza ai cittadini. Inoltre, futuri studi
dovrebbero chiarire i fattori che favoriscono o sfavoriscono lo sviluppo e l’impiego di queste competenze nel contesto professionale italiano.
Gli indici utilizzati hanno mostrato un’elevata coerenza
interna dello strumento in tutte le sette classi di competenza. Anche le valutazioni svolte per determinare l’affidabilità test-retest hanno evidenziato una
buona stabilità della scala. Questo dato suggerisce
che, nonostante la presenza dei termini potenzialmente
ambigui, evidenziata dagli esperti, la NCS mantiene
una buona affidabilità nel misurare le competenze nel
tempo nello stesso gruppo di infermieri. I limiti principali di questo studio sono rappresentati dal campionamento di convenienza e dal coinvolgimento di
centri appartenenti a un’unica regione italiana, che non
può essere considerata rappresentativa del contesto
L’infermiere, 2014;51:6:e69-e79
infermieristico nazionale. I punti di forza dello studio
sono stati il buon tasso di risposta dei partecipanti e
la numerosità campionaria complessiva.
CONCLUSIONI
La valutazione delle competenze infermieristiche è un
tema complesso e dibattuto nella letteratura nazionale e internazionale. Tra gli strumenti standardizzati
di valutazione delle competenze, la Nurse Competence Scale è stata impiegata in numerosi studi e ha
mostrato una buona capacità di descrivere il profilo
di competenza degli infermieri in diversi contesti professionali e culturali.
Dai risultati di questo studio emerge che la versione
italiana della NCS ha mostrato una buona validità di
facciata, di contenuto ed elevate coerenza interna e
affidabilità test-retest. L’impiego della NCS, con le
modifiche suggerite, potrebbe essere utile in ambito
formativo, clinico, organizzativo e di ricerca. Nell’ambito formativo la NCS potrebbe essere utilizzata
per valutare il percorso di acquisizione delle competenze da parte degli studenti infermieri e orientare le
attività didattiche in base alle aree di competenza che
necessitano un maggiore approfondimento. Nell’ambito organizzativo la NCS potrebbe rappresentare un valido sostegno decisionale nella gestione del
personale infermieristico, utile per la selezione del
personale, per l’inserimento dei neoassunti e per la
valutazione dei fabbisogni formativi degli infermieri.
In ambito clinico, la NCS potrebbe essere un valido
strumento per i professionisti per individuare le aree
di sviluppo professionale e indirizzare la propria formazione continua. Nell’ambito della ricerca, in caso
di approccio quantitativo alla valutazione delle competenze, la NCS rappresenta uno strumento valido e
affidabile per misurare in modo standardizzato l’acquisizione e il mantenimento delle competenze infermieristiche anche nel contesto italiano. La validità
del costrutto dello strumento potrebbe essere studiata da future ricerche che, attraverso un’analisi fattoriale esplorativa e/o confermativa, testino la scala
in riferimento alle 7 dimensioni della competenza infermieristica indicate come costrutto teorico di riferimento della NCS. Infine, un impiego più diffuso
della NCS potrebbe fornire dati e spunti di riflessione per arricchire il dibattito attualmente in corso,
a livello nazionale, sulla definizione delle competenze dell’infermiere di assistenza infermieristica generale e specialista (advanced practice nurse).
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e79
Lo stravaso da farmaco vescicante:
una revisione narrativa
Andrea Brigida1, Giuseppe Re Luca2, Maura Lusignani3
1Infermiere,
Corso di laurea in infermieristica dell’Università degli Studi di Milano, sezione Ospedale
Maggiore Policlinico Fondazione IRCCS Ca’ Granda di Milano; 2Infermiere tutor, Corso di laurea
in infermieristica dell’Università degli Studi di Milano, sezione Ospedale Maggiore Policlinico Fondazione
IRCCS Ca’ Granda di Milano; 3Ricercatore di scienze infermieristiche presso il Dipartimento di scienze
biomediche per la salute e coordinatrice didattica del Corso di laurea in infermieristica dell’Università
degli Studi di Milano, sezione Ospedale Maggiore Policlinico Fondazione IRCCS Ca’ Granda di Milano
Corrispondenza: [email protected]
RIASSUNTO
Introduzione Lo stravaso da farmaco vescicante rappresenta dallo 0,5% al 6% di tutti gli eventi avversi associati al trattamento. L’infermiere può assumere un ruolo chiave nel contribuire a ridurre la frequenza e la gravità di questo evento. L’obiettivo dello studio è quello di illustrare le più recenti raccomandazioni di buona
pratica clinica in merito alla prevenzione e gestione dello stravaso da farmaco vescicante.
Materiali e metodi E’ stata condotta una revisione della letteratura attraverso banche dati biomediche e siti
Internet istituzionali.
Risultati I fattori di rischio dipendono dal paziente, dalla procedura e dall’agente farmacologico. Il monitoraggio del sito, del paziente e dell’infusione è la chiave per prevenire lo stravaso. La gestione dello stravaso
è non farmacologica e/o farmacologica o chirurgica nei casi più gravi. Sono indispensabili un processo di segnalazione spontanea degli eventi avversi (incident reporting) e un adeguato follow-up dopo il trattamento
dello stravaso. Mancano prove di efficacia a supporto di una gestione standardizzata dello stravaso e sono
inconcludenti quelle sull’uso di antidoti.
Conclusioni La prevenzione più efficace è un’adeguata formazione del personale infermieristico e informazione del paziente.
Parole chiave: stravaso, farmaco vescicante, infermieri
Vesicant drug extravasation. A narrative review
ABSTRACT
Introduction Extravasation by vesicant is from 0.5% to 6.0% of all adverse events associated with treatment. Nurses can play a key role in helping to reduce the frequency and severity of this event. The objective
of the study is to describe the most recent recommendations of good clinical practice for the prevention and
the management of vesicant drug extravasation.
Methods A review of the literature through biomedical databases and institutional Internet sites was carried
out.
Results Risk factors depend on patient, procedure and pharmacological agent. Monitoring the site, the patient and the infusion is the key to preventing the extravasation. The management of extravasation is nonpharmacological and/or pharmacological or surgical in severe cases. The incident reporting and an adequate
follow-up after extravasation treatment are essential. There is a lack of evidence in support of a standardized
management of extravasation and inconclusive evidence about the use of antidotes.
Conclusions The most effective prevention is an adequate training of nurse and patient information.
Key words: extravasation, vesicant drug, nurses
INTRODUZIONE
Lo stravaso non è raro come si potrebbe pensare: in
ambito oncologico si stima che rappresenti dallo 0,5%
al 6% di tutti gli eventi avversi associati al trattamento (EONS, 2007) ma se si considera che gli eventi av-
e80
versi connessi a chemioterapia sono abbastanza comuni, il numero assoluto di stravasi che hanno luogo
è significativo (EONS, 2007). L’incidenza di stravaso
relativa a mezzi di contrasto è compresa fra lo 0,1%
e lo 0,9% (ACR, 2013). Lo stravaso può verificarsi an-
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che durante l’iniezione di farmaci in bolo o durante la
somministrazione in pompa infusionale e la sua frequenza non sembra essere correlata alla portata di iniezione (ACR, 2013). Per stravaso si intende un evento
durante il quale avviene la fuoriuscita di una soluzione vescicante, in grado dunque di provocare una grave reazione tessutale, che è stata iniettata per via endovenosa (Sarasota Memorial Hospital, 2012). La sostanza fuoriuscita dalla vena si distribuisce nei tessuti
circostanti il punto di iniezione ivi producendo lesioni (Sarasota Memorial Hospital, 2012). Per infiltrazione invece si intende la fuoriuscita di una soluzione non
vescicante anch’essa iniettata per via endovenosa
(GOSH, 2012). Una condizione di stravaso può verificarsi per dislocazione del catetere venoso periferico e può essere causata, per esempio, da movimenti accidentali del paziente, da un fissaggio inadeguato del dispositivo o da sposizionamenti o trazioni del
set preposto all’infusione endovenosa del farmaco
(Dougherty L, 2010). Lo stravaso conduce a un’irritazione a carico del circolo venoso locale e conseguente
spasmo e vasocostrizione; non è trascurabile il fatto
che alcune vene non sono in grado di sopportare la
pressione di infusione o un’iniezione in bolo, il che facilita la conseguente insorgenza dell’evento avverso
(Dougherty L, 2010). Per una corretta constatazione
dello stravaso occorre riconoscere segni e sintomi rilevatori che ne comprovino l’avvenuta manifestazione (EONS, 2007). Essi possono essere raccolti attraverso le segnalazioni dei pazienti e la valutazione visiva del sito di iniezione, stante un attento monitoraggio
del dispositivo per l’infusione endovenosa (EONS,
2007). La valutazione da parte dell’infermiere durante la somministrazione del farmaco assume un ruolo
chiave in quanto riduce al minimo sia la frequenza sia
la gravità dell’evento: possibili ritardi nel riconoscimento
e/o nel trattamento di uno stravaso aumentano la probabilità di sviluppare gravi e, a volte, irreversibili danni ai tessuti (EONS, 2007). Alcuni farmaci chemioterapici, pur se correttamente somministrati, possono
causare una reazione locale che mima una reazione
da stravaso: tuttavia, tale condizione non deve essere confusa con un vero stravaso (Pérez Fidalgo JA, et
al., 2012). Le principali differenze tra lo stravaso in senso stretto e le condizioni che lo richiamano riguardano la natura e la tempistica della comunicazione di sospetto stravaso da parte del paziente, il tipo e l’entità dell’eritema osservato e la collocazione e presenza di tumefazione (Tabella 1) (EONS, 2007).
Un’altra diagnosi differenziale importante da compiere
è quella fra stravaso e flebite chimica, causata da vari
tipi di farmaci: questa infiammazione, spesso seguita da trombosi o sclerosi del circolo venoso locale, può
causare una sensazione di bruciore al sito di inserimento dell’agocannula e crampi lungo il decorso della vena prossimale al sito (Pérez Fidalgo JA, et al.,
2012). L’eziopatogenesi e il meccanismo dei danni
causati da stravaso di farmaco non sono ancora del
tutto chiari; la gravità del danno tessutale sembra essere funzione della forza del legame fra il farmaco e
il DNA (Unsal Avdal E, et al., 2012; Wickham R, et al.,
2006). Secondo una teoria ampiamente accettata, il
farmaco diffonde l’agente tossico tra le cellule sane
circostanti necrotizzandole per un periodo che può durare da alcune settimane a qualche mese (Unsal Avdal E, et al., 2012). La causa della diffusione è, di norma, la compromissione meccanica della parete del
vaso sanguigno dovuta all’inserimento dell’ago, in par-
Tabella 1. Stravaso e condizioni simili: diagnosi differenziale (EONS, 2007)
Segni
e sintomi
Colorazione
Insorgenza
Gonfiore
Ritorno
di sangue
Stravaso
Reazione
infiammatoria
Irritazione
della vena
Shock venoso
• dolore e bruciore
(comuni)
• sensazione di dolore
pungente (può verificarsi
durante l’infusione)
eritema attorno al sito
di inserimento
dell’agocannula o presso
il sito della venipuntura
appena dopo l’iniezione,
sintomatologia duratura
• macchie pruriginose
• orticaria
• dolore
• bruciore (non comune)
• dolore
• vasocostrizione
spasmo del vaso
sanguigno
• eritema ingravescente
• macchie o eritema
diffuso o irregolare lungo
il decorso del vaso
improvvisa; dissipa entro
30-90 minuti
eritema o ipocromia lungo
il decorso del vaso
• ipocromia
• pallore locale
pochi minuti dopo l’iniezione appena dopo
(il cambio di colorazione è
l’iniezione
successivo)
improbabile
frequente, non scompare improbabile
per diversi giorni
di solito assente o lento presente ma non sempre presente ma non sempre
completo
completo
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spesso assente
e81
ticolare dopo punture venose ripetute e/o per l’effetto irritante dell’agocannula (EONS, 2007). Il rischio o
l’entità del danno possono avere quali fattori favorenti
la fragilità dei vasi sanguigni, le punture venose ripetute, la somministrazione frequente di farmaci per
ciclo di trattamento o più cicli ripetuti a distanza temporale troppo breve per consentire un’adeguata rigenerazione della parete venosa danneggiata e la
somministrazione di mezzi di contrasto (EONS, 2007).
Lo stravaso può essere classificato in base alla reazione indotta dal principio tossico contenuto nel farmaco iniettato (EONS, 2007). Sono diverse le classi
di farmaci che sono state ordinate in base al tipo di
reazione vescicante e irritante che producono; per lo
scopo dello studio si farà riferimento per lo più ai farmaci antineoplastici, anche se va notato che essi non
sono gli unici a produrre danni (EONS, 2007). In base
alla potenziale dannosità, in caso di stravaso i farmaci
antineoplastici possono essere raggruppati in tre categorie (EONS, 2007): non vescicanti, irritanti e vescicanti.
I fattori di rischio principali per l’insorgenza di stravaso
si riferiscono a (EONS, 2007):
• tipi di farmaci, soluzioni somministrate e loro caratteristiche;
• potenziale lesivo;
• dispositivi di infusione endovenosa e tecnica di incannulazione;
• caratteristiche fisiologiche e tratti comportamentali
del paziente;
• formazione dell’infermiere (conoscenze, competenze, abilità ed esperienza).
La regola generale è, se possibile, evitare l’insorgenza di stravaso (EONS, 2007). I pazienti possono avvertire dolore o disagio anche ben prima che il danno tessutale progredisca fino a produrre lesioni ulcerative e necrotiche (EONS, 2007). L’entità del danno
può variare notevolmente tra i diversi regimi di trattamento e differenti pazienti e la distruzione dei tessuti può non essere immediata ma progressiva e svilupparsi molto lentamente con poco dolore (EONS,
2007). In generale, il danno tessutale inizia con la comparsa di infiammazione e vesciche in prossimità del sito
di iniezione; in funzione del farmaco e altri fattori, può
esserci un’evoluzione verso l’ulcerazione e infine la necrosi locale (EONS, 2007). Quest’ultima può essere così
grave da rendere irrecuperabile la funzionalità della
zona interessata; in questo caso è necessario un intervento chirurgico urgente (EONS, 2007). Il danno da
stravaso, in genere, coinvolge sia la cute sia il sottocute; se avviene in prossimità di nervi, legamenti o tendini allora vi è un diretto impatto sulla sensibilità e sulla funzionalità del distretto colpito dall’evento (EONS,
2007). Il dolore presso il sito di infusione può essere
e82
da moderato a grave e di solito si manifesta sotto forma di bruciore o dolore; può esserci presenza degli altri segni indicativi di flogosi e mancare il ritorno di sangue dall’agocannula. Non tutte queste condizioni
possono essere presenti (NEYHCA Cancer, 2013).
La presenza a livello locale di vesciche è indicativa di
almeno una lesione a spessore parziale; possono esservi anche screziature o ipercromie della cute, dolore persistente e indurimenti (NEYHCA Cancer,
2013). Un precoce indurimento, accompagnato o
meno da fragilità tessutale, sembra essere un segno
affidabile di possibile ulcerazione (NEYHCA Cancer,
2013). Quando il danno è a tutto spessore la superficie cutanea appare ipocromica e fredda per scarso
o assente riempimento capillare; ciò può progredire
verso la formazione di un’escara ed esitare in necrosi secca (NEYHCA Cancer, 2013). L’ulcerazione di solito non si manifesta fino a 1-2 settimane dopo l’infortunio, quando l’escara muta per rivelare la cavità
alla base della zona ulcerata (NEYHCA Cancer,
2013). Le ulcere sono tipicamente necrotiche, fibrotiche e giallastre, con un orlo circostante eritematoso persistente (NEYHCA Cancer, 2013). La severità
del danno dipende dalle seguenti variabili: localizzazione del sito presso cui è avvenuto lo stravaso; quantità di farmaco fuoriuscito; concentrazione e potere
vescicante dell’agente tossico; modalità di gestione
dell’evento da parte del personale sanitario (EONS,
2007). Lo stravaso può portare al prolungamento della degenza e del periodo di follow-up, necessità di
consulenze specialistiche e di terapia fisica, elevati costi per il suo trattamento e conseguenze fisiche, psicologiche e lavorative per il paziente (EONS, 2007).
Inoltre, non è raro per gli ospedali e per il personale
a essi afferente dovere affrontare le conseguenze legali derivanti da danni prodotti a seguito di uno stravaso (EONS, 2007). Per le ragioni esposte, uno dei
principali obiettivi è formare ed educare gli operatori sanitari alla prevenzione e gestione dell’evento stravaso al fine di evitare le gravi complicanze che possono comportare la sua insorgenza (EONS, 2007).
Obiettivo
Illustrare le più recenti raccomandazioni di buona pratica clinica in merito alla prevenzione e gestione degli eventi di stravaso da farmaci vescicanti.
MATERIALI E METODI
Il reperimento della documentazione di interesse è avvenuto tramite interrogazione di siti istituzionali o governativi internazionali ritenuti tra i più importanti e autorevoli per l’argomento in oggetto e di banche dati
biomediche quali Trip Database, PubMed, CINAHL
Plus e Web of Knowledge. Le parole chiave utilizza-
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te sono state: extravasation, extravasation of diagnostic
and therapeutic materials/prevention and control, extravasation of diagnostic and therapeutic materials/nursing. Sono state prese in considerazione le
pubblicazioni relative agli ultimi dieci anni riguardanti soggetti adulti. Dopo una prima selezione dei documenti per rilevanza di titolo e contenuto, è seguito il loro reperimento, la lettura, l’analisi e la sintesi in
tabelle sinottiche.
RISULTATI
Fattori di rischio correlati a paziente, procedura e
trattamento
La presenza dei fattori indicati in Tabella 2 non implica
che non sia possibile il trattamento ma è necessaria
una particolare attenzione per quanto riguarda, per
esempio, la selezione della vena più idonea, una venipuntura adeguata e un monitoraggio più serrato durante e dopo la somministrazione del farmaco vescicante (Dougherty L, 2010). Il fattore di rischio più
frequente è la riduzione del numero di siti di venipuntura ottimali a causa di vene logorate e/o insufficiente disponibilità di accessi venosi (Pikó B, et al.,
2013). L’efficacia della sorveglianza dell’infusione da
parte del personale sanitario e l’attuazione di procedure urgenti in caso di stravaso dipende in modo significativo dalle circostanze dipartimentali (per esempio il numero di operatori, l’esperienza specifica e la
formazione adeguata) e dalla capacità di cooperare
del paziente (Pikó B, et al., 2013).
Fattori di rischio correlati all’agente farmacologico
Qualora si verifichi uno stravaso, l’entità della lesione non dipende direttamente solo dalla quantità
dell’agente che fuoriesce dai vasi sanguigni ma anche dai seguenti aspetti: struttura chimica, meccanismo d’azione, reazione chimica indotta, osmolarità, concentrazione ed effetti diretti sui vasi sanguigni
(vasocostrizione e vasodilatazione) (Pikó B, et al.,
2013). In letteratura, i farmaci antineoplastici sono divisi in tre gruppi principali in base al loro effetto sul
tessuto (Pikó B, et al., 2013):
• farmaci vescicanti, che causano spesso necrosi tessutale;
• farmaci irritanti, con complicanze lievi;
• farmaci non vescicanti, con conseguenze minime
o assenti.
Anche fra gli agenti con potere vescicante vi sono differenze importanti: quelli che si legano al DNA nel tessuto sano (per esempio le antracicline) non sono metabolizzati e conseguentemente possono causare un
maggiore grado di distruzione tessutale (Dougherty
L, 2010; Pikó B, et al., 2013; Dougherty L, et al., 2010;
GMCCN, 2011; Wengström Y, et al., 2008). Il poten-
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ziale danno tessutale può essere influenzato anche da
fattori quali l’ampiezza del tessuto danneggiato e della zona soggetta a stravaso e l’uso ripetuto di farmaci
vescicanti (Unsal Avdal E, et al., 2012). I nuovi farmaci
biologici mirati differiscono dai tradizionali agenti citostatici sia nei loro effetti terapeutici sia in quelli collaterali, quindi è difficile la loro collocazione nella classificazione precedentemente illustrata; questo comporta pareri controversi riguardo al trattamento corretto in caso di loro stravaso (Pikó B, et al., 2013).
Fattori di rischio correlati a infusione tramite dispositivo impiantato in vena centrale
Alcuni pazienti possono essere candidati per il posizionamento di un dispositivo di accesso venoso centrale (per esempio, port-a-cath, catetere Hickman e
catetere venoso centrale) (Schulmeister L, 2011). Tuttavia anche per tali dispositivi sussistono specifici fattori di rischio per stravaso di sostanze vescicanti (Tabella 3).
Prevenzione
La posizione più appropriata per il posizionamento di
un’agocannula è considerata l’avambraccio, tuttavia
in certi casi una grande vena a decorso rettilineo sopra il dorso della mano potrebbe essere preferibile a
una piccola vena dell’avambraccio (Dougherty L,
2008). Anche se nella fossa antecubitale potremmo
apprezzare vene potenzialmente incannulabili, è preferibile selezionarle per eventuali tentativi di incannulamento successivi in quanto il minimo movimento dell’articolazione provocherebbe dislocamento
del dispositivo (EONS, 2007; Schulmeister L, 2010;
Dougherty L, 2008). Le vene sul dorso della mano, sul
polso e antecubitali hanno poco tessuto sovrastante: se si verifica in queste aree uno stravaso vescicante
è più probabile il danno alle strutture sottostanti (tendini, legamenti e nervi) (Schulmeister L, 2010). Qualora vi sia il minimo dubbio circa la collocazione o la
pervietà di un’agocannula, essa deve essere rimossa e riposizionata nell’altro braccio o in una posizione sopra il precedente sito di fallita venipuntura (WoSCAN, 2009). Idealmente, i cateteri venosi periferici
andrebbero inseriti immediatamente prima della
somministrazione di farmaci antineoplastici vescicanti
(Schulmeister L, 2010): infatti, anche i dispositivi che
sono stati inseriti da poche ore possono produrre traumi meccanici alla parete venosa e aumentare il rischio
di stravaso (Schulmeister L, 2010). I farmaci vescicanti
non dovrebbero mai essere somministrati in un sito
sottostante a quello di un recente prelievo venoso o
di recenti o non ancora guarite lesioni da stravaso
(Schulmeister L, 2010). In caso di somministrazione
da vena periferica, essa dovrebbe avvenire tramite in-
e83
Tabella 2. Fattori di rischio correlati a paziente, procedura e trattamento (ACR, 2013; GOSH, 2012; Dougherty L, 2010; Pérez
Fidalgo JA, et al., 2012; Pikó B, et al., 2013; Dougherty L, et al., 2010; GMCCN, 2011)
Paziente
Procedura
Trattamento
Età: piccole vene nei bambini, vene sclero- Selezione non ottimale della vena (le vene del- Visibilità insufficiente della cannula e del tesl’avambraccio sono ideali per le venipunture) suto circostante
tiche e fragili nei pazienti anziani
Pazienti in terapia con anticoagulanti o cor- Evitare punture di piccole vene fragili adiacenti Inadeguata supervisione del paziente
ticosteroidi (fragilità della pelle e delle vene ai tendini o nervi (per esempio mano, polso,
piede e caviglia)
ed ematomi o ecchimosi)
Sanguinamento prolungato per alterazioni
nel tempo di coagulazione (per esempio riduzione della conta piastrinica o altra
causa)
Per esempio, dopo l’intervento per neoplasia Flusso troppo veloce (non idoneo al diametro
alla mammella non bisogna scegliere il braccio della vena)
sul lato operato (alterato flusso di sangue venoso)
Insufficiente capacità di cooperare (per Fissare adeguatamente l’agocannula (che non Elevata portata di infusione (specie in caso di
esempio disturbi mentali, effetto di un se- deve essere inserita nella fossa antecubitale utilizzo di una pompa di infusione)
dativo o un tranquillante, persone inco- per rischio di dislocazione)
scienti o confuse)
Problemi di comunicazione (per esempio Linee di infusione in funzione da più di 24 ore
incapacità o difficoltà a parlare, presenza di o con più forature nelle stesse
neoplasia della laringe, difficoltà a gestire
il sistema di chiamata)
Diffusione di agenti diversi nella stessa miscela di infusione (incompatibilità fisiche o
chimiche con effetti imprevedibili sul vaso
sanguigno)
Disturbi neurologici con movimenti invo- Trattamento somministrato attraverso una
vena ex compromessa (per esempio per somlontari (per esempio tremore)
ministrazione di 5-fluorouracile o infiammazione chimica)
Sensazione di disturbo, perdita di sensibi- Trattamento somministrato da incannulamento
lità sulla zona interessata, per esempio neu- venoso a lungo termine (per irritazione meccanica o chimica della parete venosa che riropatia
duce la resistenza, causa di infiammazione invisibile a occhio nudo o di lesione trombotica)
Infiltrazione tumorale in zona
Malattie infiltranti della pelle
Vene difficili da forare: vasi sottili o fragili,
malattie vascolari generalizzate, più punture precedenti e vasospasmo come conseguenza di questi, obesità
Somministrazione in ordine scorretto di diversi agenti (in caso di circolo venoso in buone
condizioni: prima somministrare i farmaci vescicanti)
Ripetute punture della vena nello stesso sito
(lesioni murali con aumentato rischio di stravaso)
Somministrazione di infusione attraverso un
ago metallico (aumento di rischio meccanico
soprattutto per infusioni prolungate o continue; dopo la sua rimozione maggiore rischio di
emorragia tardiva)
Osmolarità elevata del farmaco o della soluzione (può influenzare il grado di danno tessutale, per esempio farmaci/soluzioni ipertoniche)
Mancato controllo del posizionamento corretto
dell’agocannula in vena e delle condizioni della
vena prima dell’inizio dell’infusione (somministrare almeno 10 ml di cloruro di sodio allo
0,9% o glucosata al 5%)
Ex ostruzione di vasi per qualsiasi altra
causa
Mancata o insufficiente valutazione degli effetti dovuti ad altri farmaci (per esempio vasodilatatori, anticoagulanti, steroidi, diuretici e
antidolorifici)
Fenomeno recall dopo una precedente ra- Fissaggio inefficace con rischio di dislocazione
dioterapia per la somministrazione di do- dell’agocannula
xorubicina e paclitaxel; variazioni del flusso
sanguigno (ipo o ipertensione) e congestione (per esempio disturbo nel sistema
linfatico o sindrome ostruttiva della vena
cava superiore)
Ritardo nell’inizio di un trattamento adeguato
in caso di stravaso (per esempio insufficiente
abilità, problemi logistici od organizzativi,
mancanza di kit per stravaso)
e84
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Tabella 3. Fattori di rischio correlati a infusione tramite dispositivo impiantato in vena centrale (Schulmeister L, 2011)
Posizionamento in regione prossima a grosse articolazioni (instabilità da movimento)
Utilizzo di materiale morbido con indebolimento e frattura (compressione del dispositivo tra la clavicola e la prima
o seconda costa, pinch-off syndrome)
Difficoltà nell’inserimento del dispositivo (per esempio, l’incapacità di far avanzare il filo guida o il catetere)
o tranciatura, foratura e intaccatura prima o durante la manovra
Errato posizionamento del dispositivo con punta del catetere collocata al di fuori del sistema venoso (per esempio,
nello spazio pleurico anziché in vena cava superiore)
Dispositivi impiantati in siti dove è difficile il fissaggio e la stabilizzazione dell’ago senza carotaggio (per esempio,
l’impianto in addome con catetere infilato in vena cava inferiore)
Dispositivi impiantati in profondità (aghi senza carotaggio di lunghezza insufficiente per un saldo inserimento
nella membrana; un ago corto o il movimento del paziente ne provoca oscillazioni)
Dispositivo accessibile con difficoltà
Presenza sulla punta del dispositivo di una guaina di fibrina o di un trombo (reflusso di agenti vescicanti fino
al punto di inserzione)
Deposizione di fibrina o trombosi lungo il decorso del dispositivo
Contropressione eccessiva intorno all’ago
Lavaggio eseguito con siringhe piccole (<10 ml)
Migrazione della punta del dispositivo dalla vena nel tessuto
Inginocchiamento o dislocazione
Lungo tempo di permanenza (6 mesi o più)
fusioni che scendono per gravità o a mezzo di boli endovenosi, evitando la somministrazione per pompa infusionale; essa, infatti, potrebbe continuare a infondere un vescicante nel tessuto finché non si attiva l’allarme ed è anche possibile che in presenza di uno stravaso esso non si azioni (Schulmeister L, 2010). Dato
che i sintomi più comuni di stravaso sono rossore e
gonfiore e il disagio può non essere avvertito, l’applicazione di una medicazione trasparente ha la
doppia funzione di mantenere in sito il dispositivo e
consentirne la visualizzazione durante l’infusione
(Schulmeister L, 2010). Un ritorno del sangue dal dispositivo dovrebbe essere ottenuto prima di somministrare un vescicante in quanto è un segno abbastanza affidabile del suo corretto posizionamento
(Schulmeister L, 2010). Nonostante ciò, l’infermiere dovrebbe comunque valutare il sito di inserimento del
dispositivo in termini di gonfiore, fragilità della cute o
perdita di fluido, indicativi dell’opportunità di scegliere
un’altra sede più appropriata (Schulmeister L, 2010).
Qualora non si ottenga un ritorno di sangue da un dispositivo periferico se ne deve inserire uno nuovo in
un’altra posizione (Schulmeister L, 2010). Un’agocannula non deve mai essere testata infondendo un
farmaco vescicante; allo scopo andrebbero utilizzati solo soluzione fisiologica, ovvero cloruro di sodio
(NaCl) allo 0,9%, o destrosio al 5% (Schulmeister L,
2010). Se il ritorno di sangue non si ottiene da un di-
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spositivo di accesso venoso centrale, occorre posizionare il paziente supino e lavare il dispositivo molto delicatamente con una siringa da 10 ml di soluzione
fisiologica (Schulmeister L, 2010). In caso di esito negativo si può utilizzare una siringa da 20 ml per tentare di aspirare il sangue: la dimensione maggiore diminuisce la forza sulla parete interna del presidio e può
consentire il ritorno di sangue (Schulmeister L, 2010).
Nel caso in cui non si ottenga ancora reflusso di sangue occorrerà procedere alla disostruzione utilizzando un agente trombolitico o confermare, tramite esame angiografico, il corretto posizionamento del dispositivo e la sua pervietà (Schulmeister L, 2010).
Monitoraggio
Il monitoraggio è la chiave per la diagnosi precoce sia
di infiltrazione sia di stravaso (Dougherty L, 2008). Fra
le competenze che si richiedono all’infermiere, assume
rilievo fondamentale la capacità di educare il paziente
alla prevenzione e alla gestione dello stravaso da farmaco vescicante (Tabella 4) (Smith LH, 2009).
L’infermiere deve sempre confermare la pervietà tramite lavaggio con almeno 5-10 ml di cloruro di sodio
allo 0,9% prima di somministrare qualsiasi soluzione
vescicante o farmaco (Dougherty L, 2008). E’ consigliato il controllo del reflusso di sangue ogni 2-5 ml
di farmaco ma, non essendo sempre un segno affidabile, è bene che l’infermiere valuti anche il sito, con-
e85
trolli l’eventuale gonfiore e interroghi il paziente su
come avverte il sito di iniezione (Dougherty L, 2008).
Con un catetere venoso centrale dovrebbe sempre essere possibile ottenere il reflusso del sangue ma, se
questo non è possibile, occorre effettuare ulteriori indagini per verificarne la pervietà prima di somministrare
qualunque farmaco, che sia vescicante o meno
(Dougherty L, 2008). Le abilità, le conoscenze e le
competenze di base e avanzate nonché la formazione continua degli operatori sanitari è indispensabile
per mantenere lo standard di cura a un livello costantemente elevato (EONS, 2007; Dougherty L, et al.,
Tabella 4. Monitoraggio del sito ed educazione al paziente (Smith LH, 2009)
Infusione di farmaco vescicante
Da vena periferica
Evento stravaso
Da vena centrale
Prima del trattamento, posizionare gli oggetti di Conoscere il nome e tipo di dispositivo im- Fornire una definizione di stravaso
cui si può avere bisogno vicino al braccio che non piantato e la data di inserimento
ha inserito il dispositivo e utilizzare solo questo
braccio per raggiungerli
Non muovere la mano o il braccio durante l’infu- Indossare abiti confortevoli per consentire Spiegare perché si è verificato stravaso
e quali problemi comporta
un facile accesso al dispositivo
sione
Segnalare subito se nel sito o nella zona circo- Segnalare se durante o appena dopo l’in- Spiegare il trattamento erogato per evistante si avverte disagio, dolore, prurito o sensa- serimento dell’ago nel dispositivo si av- tare danni tessutali
zioni insolite e non aspettare per verificare se i sin- verte dolore, bruciore o fastidio
tomi persistono o peggiorano
Verificare che il deflussore sia fissato al braccio e Verificare il ritorno di sangue durante l’aspi- Fornire contatti telefonici in caso di nerazione; in caso si avvertano strane sensa- cessità
tenuto in grembo
zioni presso il sito del dispositivo o in qualunque altro distretto corporeo, riferirle
immediatamente al personale sanitario
In caso di trazioni accidentali informare imme- Se con paziente supino non compare un ri- Dopo l’evento, al domicilio:
torno di sangue, informarlo della necessità • muovere delicatamente il braccio o la
diatamente il personale sanitario
di una radiografia per la possibile presenza mano. Prendere, se occorre, antidolodi un coagulo nella porzione distale del di- rifici leggeri
• non applicare creme, lozioni o pomate
spositivo o di un suo dislocamento
senza indicazione medica
Indossare abiti con maniche corte o molto larghe Durante l’infusione avvertire immediata- • non esporre l’area a forte luce solare
per mantenere la zona compresa tra gomito e mente il personale sanitario se presso il • non indossare indumenti stretti intorno
sito del dispositivo o nelle aree circostanti alla zona colpita
polso visibile
si avverte un senso di disagio, dolore, pru- • proteggere l’area interessata durante
rito e non aspettare per vedere se i sintomi l’igiene personale
continuano o peggiorano
Avvertire il paziente che, compatibilmente con le
condizioni del circolo venoso superficiale, è possibile che si debba compiere più di un tentativo di
incannulamento al fine di garantire la massima sicurezza sulla tenuta del sito di accesso prescelto
durante l’infusione
Assicurarsi che il deflussore sia fissato al
braccio e tenuto in grembo; in caso di trazioni accidentali informare immediatamente
il personale sanitario
Avvertire il paziente che, data l’aggressività della
terapia a cui è sottoposto, è possibile che si
debba procedere a un nuovo incannulamento per
completare il trattamento
Evitare di muoversi nel corso dell’infusione Controllo quotidiano della zona:
(non alzare le braccia sopra la testa; non • cambiamento nel colore o aumento
toccare o strofinare le garze poste sopra il del rossore nell’area colpita
• presenza di vesciche, secchezza o dedispositivo)
squamazione cutanea
Osservare la cute al di sopra del dispositivo • sensazione di fastidio
alcune ore dopo il trattamento e di nuovo i presenza di dolore che rende difficile il
giorni successivi (comparsa di gonfiore o movimento del braccio o della mano
rossore e calore o sensazione di disagio) e
in caso di necessità contattare il personale
sanitario
Insegnare a osservare il sito di infusione poche ore
dopo il trattamento e quotidianamente i giorni
successivi (comparsa di gonfiore o rossore e calore o sensazione di disagio) e, in caso di necessità, contattare il personale sanitario
e86
L’infermiere, 2014;51:6:e80-e96
2010; GMCCN, 2011). Tutto il personale deve inoltre
essere incoraggiato a riesaminare periodicamente la
letteratura scientifica in merito alla somministrazione
di farmaci vescicanti e ai nuovi agenti terapeutici come
parte essenziale della propria formazione continua
(Smith LH, 2009). La comunicazione e l’informazione
al paziente prima, durante e dopo l’infusione di farmaci vescicanti, per vena periferica o centrale, sono
molto importanti in quanto egli è chiamato a riferire
agli operatori sanitari segni e sintomi di sospetto stravaso di farmaco vescicante (Smith LH, 2009). Il paziente deve essere informato circa la natura della terapia che sta ricevendo e la possibilità di incorrere in
effetti collaterali in modo da potere segnalare prontamente qualsiasi sensazione avvertita, per quanto insignificante possa apparire (Smith LH, 2009). Un paziente informato aiuta l’infermiere a riconoscere precocemente l’insorgenza di stravaso e va sempre ascoltato (Smith LH, 2009).
Riconoscimento
I sintomi iniziali di stravaso si verificano subito dopo
il danneggiamento del vaso sanguigno (Tabella 5)
(EONS, 2007). A seconda dell’agente responsabile, i
sintomi possono essere costituiti da disagio o dolore che può variare da lieve a intenso; spesso i pazienti
lo descrivono come una sensazione di bruciore
(EONS, 2007). Il dolore, nelle ore successive, può essere seguito da eritema ed edema e/o scolorimento
o arrossamento cutaneo in prossimità del sito di infusione (EONS, 2007).
I sintomi iniziali di stravaso non sempre sono tipici di
uno specifico agente ma possono essere attribuibili a
diverse sostanze, sia irritanti sia vescicanti (EONS,
2007). La progressione dei sintomi iniziali tuttavia è molto diversa per queste due classi, soprattutto in materia
di danni permanenti ai tessuti (EONS, 2007). E’ fondamentale che uno stravaso sia riconosciuto e diagnosticato precocemente (EONS, 2007; GOSH, 2012).
Il modo più efficace per riconoscere e rilevare uno stravaso nelle sue fasi iniziali è conoscere e agire su tutti i segni e i sintomi (EONS, 2007). I segni e i sintomi
rivelatori possono essere raccolti da segnalazioni dei
pazienti, valutazione visiva del sito di iniezione e attento monitoraggio del dispositivo endovenoso (EONS,
2007). La qualità della valutazione infermieristica durante la somministrazione del farmaco può svolgere
un ruolo fondamentale riducendo al minimo la frequenza e la severità dello stravaso (EONS, 2007). Date
le gravi conseguenze che ne possono derivare, se vi
è anche il minimo dubbio, è sempre consigliabile un
secondo parere (EONS, 2007). I più importanti sintomi riportati dal paziente per valutare uno stravaso riguardano la sensazione intorno al sito di iniezione o,
nel caso di una linea centrale, intorno al punto di inserimento cutaneo (EONS, 2007). I segni visivi, anche
se non esclusivi di stravaso, forniscono la conferma
utile per i report dei pazienti in caso di sospetto di evento (EONS, 2007). Oltre a quanto riferito dal paziente
e ai segni visibili, è possibile determinare se si è verificato uno stravaso anche controllando la linea di infusione (EONS, 2007). Il dispositivo di accesso deve
essere ben protetto (Dougherty L, 2008). La pressione di un’eventuale pompa di infusione deve essere monitorata e documentata almeno ogni ora (Dougherty
L, 2008). Il sito di infusione deve essere controllato ogni
30-60 minuti e documentato quando è in uso e se si
sospetta uno stravaso o un’infiltrazione (GOSH,
2012). Controlli più frequenti possono essere necessari a seconda del paziente, dell’integrità vascolare e
del tipo di dispositivo di accesso vascolare utilizzato
(15-30 minuti) (GOSH, 2012). Il sito di entrata dell’ago
nel dispositivo deve essere valutato prima di somministrare vescicanti o soluzioni irritanti (GOSH, 2012).
L’allarme sulla pompa di infusione deve essere impostato su una pressione massima raccomandabile
pari a 15-25 mmHg per i farmaci vescicanti (GOSH,
2012) all’inizio dell’infusione e ricontrollato all’inizio di
Tabella 5. Riconoscimento di stravaso (EONS, 2007)
Sintomi
• Dolore
• gonfiore
• rossore
• senso di disagio
• bruciore
• sensazione di dolore
pungente
• altri cambiamenti acuti
presso il sito
Segni
Precoci:
• gonfiore o edema
• arrossamento
o eritema
Tardivi:
• infiammazione
• indurimento
• vesciche
L’infermiere, 2014;51:6:e80-e96
Linea di infusione
• Aumento di resistenza nel corso della somministrazione del farmaco
• infusione lenta o quasi “bloccata”
• variazione del flusso di infusione
• mancanza o perdita di ritorno del sangue dall’agocannula
• breve ritorno del sangue: 1) l’ago passa attraverso il lume della vena
e poi perfora l’altra parete; 2) il ritorno si arresta quando l’ago
supera la parete venosa posteriore; 3) in tal caso l’ago è passato
attraverso il lume e tutta l’infusione passa nel tessuto circostante;
4) l’agocannula deve essere rimossa e la procedura riavviata;
5) si utilizza un altro ramo di vene o un altro punto sopra il sito
originale sulla stessa vena ma più prossimo al cuore
e87
ogni turno, se essa è ancora in esecuzione (GOSH,
2012). E’ importante osservare che la lettura della pressione, di per sé, non può né deve essere l’unico indicatore di un possibile stravaso (GOSH, 2012). Per un
monitoraggio efficace del sito di inserzione non è raccomandato l’utilizzo di bende o medicazioni che non
consentano di rendere visibile lo stesso e quindi di effettuare una precoce diagnosi di stravaso (EONS, 2007;
GOSH, 2012). Dopo un’adeguata informazione da parte degli operatori sanitari, occorre interrogare il paziente
e l’eventuale caregiver sui segni e sui sintomi occorsi durante o dopo l’infusione ricordando anche che le
caratteristiche della manifestazione possono modificarsi nel corso del tempo (Tabella 6) (GOSH, 2012).
Gestione
L’intervento precoce e l’identificazione dei primi segni e sintomi di stravaso è di fondamentale importanza
al fine di prevenire eventi avversi gravi (Doellman D,
et al., 2009). La conformità con le linee guida è essenziale per ridurre al minimo le complicazioni connesse all’evento (Doellman D, et al., 2009). Se si sospetta uno stravaso, il trattamento deve iniziare il più
presto possibile (Tabella 7) (SCN, 2011). La diagnosi precoce e il trattamento più idoneo attuato entro le
24 ore possono ridurre significativamente i danni ai
tessuti (SCN, 2011). Tuttavia, in alcuni casi, lo stravaso
può risultare evidente solo 4 settimane dopo la somministrazione (SCN, 2011). Piccoli stravasi (volumi
massimi di 1-3 ml) possono risolversi spontaneamente,
anche se questo non può essere il caso di soggetti
in età pediatrica, per i quali la percentuale di danno
sarà proporzionalmente di grado maggiore (SCN,
2011). La gestione dello stravaso successiva all’evento acuto (Tabella 8) si basa su due principi diversi: 1) localizzazione e neutralizzazione, e 2) dispersione e diluizione.
Nel primo caso si applica una sorgente fredda sul sito
di stravaso che provoca vasocostrizione e localizzazione del farmaco (EONS, 2007). In questa fase può
essere usato un antidoto per neutralizzare il farmaco,
che sarà poi disperso attraverso i circoli vascolare e
linfatico locali (EONS, 2007). L’antidoto da utilizzare
dipenderà dal tipo di farmaco e dal volume di stravaso
(EONS, 2007). Nel secondo caso si applica una fonte di calore sul sito di stravaso che provoca vasodilatazione aumentando la distribuzione e l’assorbimento
e diminuendo la concentrazione locale del farmaco
(EONS, 2007). L’utilizzo di uno o dell’altro principio di
gestione dipende dal tipo di farmaco e dal suo potere
vescicante (EONS, 2007). Vale la pena notare che, al
di là delle procedure qui descritte, la gestione dello
stravaso, purtroppo, non è ancora standardizzata in
modo ottimale per mancanza di prove ben documentate, il che spesso richiede la necessità di una consulenza specialistica (EONS, 2007).
Gestione non farmacologica e farmacologica
Le fonti di caldo o di freddo (Tabella 9) non dovrebbero essere applicate direttamente sulla cute: andrebbero collocate alcune garze asciutte come barriera protettiva tra la cute e la fonte di riscaldamento o di raffreddamento (WoSCAN, 2009).
L’applicazione di calore provoca vasodilatazione,
aumenta la distribuzione del farmaco e il suo assorbimento e ne riduce le concentrazioni locali (WoSCAN,
Tabella 6. Caratteristiche delle manifestazioni in funzione del tempo (GOSH, 2012)
Manifestazione
Caratteristiche della manifestazione
Precoci (in corso di infusione)
Tardive (24 ore dopo l’evento)
Dolore
• Dolore: pungente o bruciore grave
Dolore continuo o insorgenza entro 48 ore;
(non sempre presente) presso il sito
può intensificarsi nel tempo
e le zone circostanti
• durata: da minuti a ore, in riduzione nel tempo
Rossore
• Non sempre presente subito
Successivo all’evento
• può essere osservato pallore locale della cute
• l’arrossamento appare intorno al sito
Gonfiore
Può essere immediato, non sempre identificabile Si verifica entro 48 ore
Mancato ritorno di sangue Si verifica immediatamente
Ulcerazione
Improbabile
Si verifica entro 48-96 ore; può richiedere
3-4 settimane per svilupparsi
Altro
• Variazioni nella velocità dell’infusione
• Formicolio locale
• pressione o resistenza sullo stantuffo
• deficit sensoriali
della siringa durante l’iniezione
• perdite attorno al sito
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L’infermiere, 2014;51:6:e80-e96
Tabella 7. Gestione immediata dello stravaso (GOSH, 2012; GMCCN, 2011; Wengström Y, et al., 2008; WoSCAN,
2009; Doellman D, et al., 2009)
Dispositivo
Di accesso venoso periferico
Di accesso venoso centrale
1. arrestare e scollegare immediatamente l’infusione/bolo e non rimuovere il dispositivo
2. spiegare al paziente ciò che si sospetta sia successo e la procedura da porre in atto
3. informare immediatamente il personale medico e recuperare un kit per stravaso
4. con il dispositivo in sede aspirare la maggiore quantità di farmaco possibile con una siringa luer lock da 10 ml
e prelevare il sangue dal dispositivo
5. segnalare la zona interessata con pennarello indelebile
6. per i farmaci vescicanti, e quelli per i quali venga ritenuto clinicamente opportuno, scattare un’immagine digitale
del sito di stravaso
7. rimuovere il dispositivo
7. non applicare una pressione manuale diretta
sul sospetto sito di stravaso
8. non applicare una pressione manuale diretta
sul sospetto sito di stravaso
8. eseguire le tecniche più idonee da effettuare in base
al farmaco stravasato
9. eseguire le tecniche più idonee da effettuare in base
al farmaco stravasato
9. se richiesto e prescritto, somministrare terapia
antidolorifica
10. se richiesto e prescritto, somministrare terapia
antidolorifica
10. organizzare per la rimozione del dispositivo e, in caso
di catetere di Hickman o port-a-cath, considerare
l’intervento di un chirurgo plastico per minimizzare
i danni tessutali
11. invitare a muovere l’arto e tenerlo in elevazione
per 48 ore
11. per ogni dispositivo considerare consulenze di chirurgia
plastica
12. compilare in ogni sua parte la documentazione
pertinente
12. invitare a muovere l’arto e tenerlo in elevazione
per 48 ore
13. predisporre follow-up seriali
13. compilare in ogni sua parte la documentazione
pertinente
14. predisporre consulenza di chirurgia plastica in caso
di gravi danni tessutali
14. predisporre follow-up seriali; ogni paziente con stravaso
da dispositivo di accesso venoso centrale deve essere
valutato una seconda volta entro 48 ore dall’evento
15. ricomporre il kit di stravaso
15. ricomporre il kit di stravaso
Note: adozione di misure per limitare infiammazione, dolore e disagio:
- cloruro di sodio allo 0,9%: richiede consulenza specialistica per concedere il suo utilizzo
- corticosteroidi: utili per trattare l’infiammazione ma non vi sono prove per sostenere il loro uso in caso di stravaso. In caso di stravaso accertato e su vasta scala, iniettare 100 mg (2 ml) per via endovenosa di idrocortisone (ogni iniezioni da 0,1-0,2 ml in 6-8 punti attorno al sito)
2009); favorisce inoltre la dispersione degli alcaloidi
della vinca ed è di aiuto nelle lesioni indotte non vescicanti dove sia richiesta una strategia di “dispersione
e diluizione” (WoSCAN, 2009). Il calore non dovrebbe mai essere usato per lesioni indotte da doxorubicina: questo ne aumenta l’assorbimento cellulare e
quindi l’effetto citotossico (WoSCAN, 2009). Laddove il calore è consigliato, si raccomanda di utilizzare
impacchi caldi sulla zona soggetta a stravaso per 20
minuti ogni 6 ore (WoSCAN, 2009).
Il raffreddamento topico diminuisce il dolore e il fastidio
nel sito di stravaso e provoca vasocostrizione (WoSCAN, 2009). Diminuendo l’apporto di sangue diminuisce la richiesta metabolica del tessuto colpito e ral-
L’infermiere, 2014;51:6:e80-e96
lenta l’assorbimento del farmaco (WoSCAN, 2009).
Inoltre, cambia anche la fluidità della membrana cellulare rendendo le cellule meno sensibili agli effetti dannosi (WoSCAN, 2009). Questo approccio non deve essere utilizzato per le lesioni da alcaloidi della vinca in
quanto aumenta la probabilità di formazione di ulcere (WoSCAN, 2009). Quando è indicato il raffreddamento topico si raccomanda di utilizzare un impacco freddo sulla zona per 30 minuti ogni 4 ore (WoSCAN, 2009). La gestione farmacologica dello stravaso avviene attraverso l’uso dei cosiddetti antidoti
(Sarasota Memorial Hospital, 2012); essi sono agenti applicati o iniettati nella zona di stravaso per contrastare gli effetti dell’agente infiltrato. Costituiscono
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Tabella 8. Gestione successiva dello stravaso (EONS, 2007; GMCCN, 2011)
Localizzazione e neutralizzazione*
Dispersione e diluizione**
1. posizionare garze asciutte sulla cute
1. diluire 1.500 UI di ialuronidasi in 2 ml di acqua
per preparazioni iniettabili o cloruro di sodio allo 0,9%
2. applicare compresse fredde nella zona per 20-30
minuti; applicare l’impacco con fermezza ma senza
indebite pressioni
2. iniettare ialuronidasi per via sottocutanea nei punti
cardinali intorno al sito di stravaso
3. utilizzare un antidoto, se indicato, e assicurarsi
che sia prescritto
3. massaggiare delicatamente per facilitare la dispersione
4. ripetere l’impacco freddo 4 volte al giorno
per 24-48 ore
4. utilizzare una crema di idrocortisone all’1% in caso
di infiammazione locale (consigliato per cisplatino,
carboplatino, paclitaxel e docetaxel)***
5. utilizzare una crema di idrocortisone all’1% in caso
di infiammazione locale
5. posizionare garze asciutte sulla cute
6. applicare impacchi caldi nella zona colpita per 20 minuti
per favorire la dispersione del farmaco e l’assorbimento
di ialuronidasi; applicare l’impacco con fermezza
ma senza indebite pressioni
7. ripetere l’impacco caldo 4 volte al giorno per 24-48 ore
Note: la ialuronidasi aumenta l’assorbimento di anestetico locale; in caso di precedente applicazione di anestetico locale (per esempio
EMLA™) prima dell’incannulamento ed entro 6 ore dallo stravaso, occorre monitorare per segni e sintomi di anestesia sistemica (aumento
della frequenza cardiaca e diminuzione della frequenza respiratoria) e informare immediatamente il medico
*procedura valida per: amsacrin, actinomicina D, carmustina, dacarbazina, daunorubicina, doxorubicina, epirubicina, idarubicina, mitomicina C, mustina, streptozotocina
**procedura valida per: vinblastina, vincristina, vindesina, vinorelbina, mezzi di contrasto radiografici
***trattamento di stravaso con carboplatino o cisplatino: usare la procedura “dispersione e diluizione” in caso di stravaso trattato entro
24 ore, altrimenti usare la procedura “localizzare e neutralizzare” (entro 4-6 settimane dallo stravaso si deposita nei tessuti un precipitato di platino che provoca dolore, infiammazione e necrosi)
una parte importante delle strategie di “localizzazione e neutralizzazione” e di “dispersione e diluizione”
(Sarasota Memorial Hospital, 2012). Per esempio, il
dexrazoxane può contribuire a neutralizzare le antracicline mentre la ialuronidasi facilita la diluizione di
alcaloidi della vinca nei tessuti circostanti (Sarasota
Memorial Hospital, 2012). A condizione che siano utilizzati e infusi in modo appropriato, coadiuvano a prevenire la progressione verso lo stato di ulcerazione,
la formazione di vesciche e necrosi (Sarasota Memorial
Hospital, 2012). Tuttavia, va detto che le prove di efficacia che sostengono l’uso di diversi antidoti sono
spesso inconcludenti e il loro utilizzo (a favore o contro) deve essere sottoposto a un’attenta valutazione
(Sarasota Memorial Hospital, 2012). Fra le principali
controversie relative alla gestione dello stravaso ancora rimaste irrisolte annotiamo le seguenti:
• meglio una crema a base di idrocortisone o a base
di FANS? L’idrocortisone è utile se c’è un processo infiammatorio (per esempio, un eritema) ma nel
caso in cui prevalga il sintomo doloroso è probabilmente migliore il secondo tipo di crema (SCN,
2011);
• come realizzare in modo efficace l’infiltrazione di antidoto sul sito di stravaso? La tecnica “puntaspilli”
e90
è probabilmente il metodo più comune (SCN,
2011). I farmaci possono essere somministrati tramite la cannula originaria; tuttavia, ci può essere
qualche rischio nel caso in cui non si è sicuri che
tutto il suo decorso sia situato entro il circolo venoso (SCN, 2011);
• quanto antidoto occorre somministrare? Questo è
attualmente difficile da determinare fino a quando
non c’è un metodo per valutare con precisione il volume di stravaso (SCN, 2011). Alcuni antidoti possono anche causare danni al tessuto circostante,
quindi è importante avere una diagnosi accurata e
conoscere con sufficiente certezza il volume dello
stravaso per conoscere la quantità di antidoto più
opportuna da somministrare (SCN, 2011);
• si possono eseguire lavaggi con soluzione salina in
caso di stravaso vescicante? Questa è una tecnica
specialistica eseguita in anestesia generale da chirurghi plastici (SCN, 2011). Soprattutto in caso di
grandi volumi di stravaso (10-20 ml) è raccomandabile
chiedere una loro consulenza (SCN, 2011).
Gestione chirurgica e a lungo termine
I vescicanti possono causare danni ai tessuti se stravasano al di fuori del letto venoso (Tabella 10) (EONS,
L’infermiere, 2014;51:6:e80-e96
Tabella 9. Gestione non farmacologica e farmacologica dello stravaso (Sarasota Memorial Hospital, 2012)
Gestione
Farmaco
Note
Farmacologica (antidoto)
Non farmacologica
Dactinomicina
• Impacchi di ghiaccio per 15-20 minuti ogni 6 ore per le prime 24 ore
• elevare arto per 48 ore
-
Daunorubicina
• Applicare ghiaccio ma rimuovere almeno 15 Terapia con dexrazoxane entro 6 ore
minuti prima del trattamento con dexrazoxane dalla somministrazione di antracicline
• elevare e far riposare l’estremità per 24-48
ore, poi riprendere la normale attività
Dexrazoxane infuso in una
grossa vena in una zona diversa
dalla zona di stravaso; seguire
scrupolosamente le istruzioni
fornite dalla farmacia
Doxorubicina
• Applicare ghiaccio ma rimuovere almeno 15 Terapia con dexrazoxane entro 6 ore
minuti prima del trattamento con dexrazoxane dalla somministrazione di antracicline
• elevare e far riposare l’estremità per 24-48
ore, poi riprendere la normale attività
• in caso di dolore o eritema persistenti dopo 48
ore chiedere consulto per intervento di chirurgia plastica (possibile sbrigliamento)
Proteggere dai raggi solari:
dexrazoxane infuso in grossa
vena in zona diversa dalla zona
di stravaso; seguire scrupolosamente le istruzioni fornite
dalla farmacia
Epirubicina
• Applicare ghiaccio ma rimuovere almeno 15 Terapia con dexrazoxane entro 6 ore
minuti prima del trattamento con dexrazoxane dalla somministrazione di antracicline
• elevare e far riposare l’estremità per 24-48
ore, poi riprendere la normale attività
• in caso di dolore o eritema persistenti dopo 48
ore chiedere consulto per intervento di chirurgia plastica (possibile sbrigliamento)
Dexrazoxane infuso in grossa
vena in zona diversa dalla zona
di stravaso; seguire scrupolosamente le istruzioni fornite
dalla farmacia
Mecloretamina
(mostarda azotata)
Applicare ghiaccio per 6-12 ore dopo l’iniezione Iniettare 2 ml di soluzione di tiosolfato Seguire scrupolosamente le
di sodio per via sottocutanea per ogni istruzioni fornite dalla farmacia
di tiosolfato di sodio
mg di mecloretamina
Mitomicina C
• Raffreddare il sito per almeno 15-20 minuti 4 Applicare 1-2 ml di dimetilsolfossido Verificare la durata del trattatopico e lasciare asciugare; ripetere mento con il medico
volte al giorno per i primi 3 giorni
• elevare e fare riposare per 24-48 ore, poi ri- ogni 4-6 ore per 14 giorni
prendere la normale attività
Vinblastina, vincristina,
vindesina, vinorelbina
• Applicare un impacco caldo per 15-20 minuti Somministrare 1 ml di soluzione di ia- Corticosteroidi e raffreddaluronidasi per via sottocutanea
ogni 6 ore per 1-2 giorni
mento topico sembrano peg• elevare e far riposare l’estremità per 24-48
giorare l’effetto dello stravaso
ore poi riprendere la normale attività
Bendamustina
Impacchi freddi
Carboplatino
(concentrato); stravaso
≥10 mg/ml
Applicare un impacco freddo per 60 minuti ogni 8 ore per 3 giorni
Consulto con il medico se utilizzare tiosolfato di sodio o dimetilsolfossido
Cisplatino (concentrato);
stravaso ≥20 ml
e concentrazione
0,5 mg/ml
Applicare un impacco freddo per 60 minuti ogni • Iniettare 2,5 ml di sodio tiosolfato per
8 ore per 3 giorni
via endovenosa e rimuovere l’ago
• iniettare antidoto per via sottocutanea e ripetere nelle ore successive
Dosi meno concentrate non
sono considerate vescicanti;
seguire scrupolosamente le
istruzioni fornite dalla farmacia
Daunorubicina
liposomiale
Impacchi freddi
-
Chiamare il medico per altre indicazioni
-
-
Doxorubicina liposomiale Applicare ghiaccio per 10-60 minuti
-
-
Etoposide
Applicare un impacco caldo per 30-60 minuti, Somministrare 1 ml di soluzione di ia- poi ogni 15 minuti per 1 giorno
luronidasi per via sottocutanea
Isofosfamide
Applicare un impacco freddo per 60 minuti ogni 8 ore per 3 giorni
-
Mitoxantrone
Applicare un impacco freddo per 15-20 minuti ogni 6 ore per 1-2 giorni
-
Oxaliplatino
Applicare un impacco caldo al sito di stravaso: Somministrare desametasone 8 mg 2 Consultare un medico se neè preferibile e può ridurre il dolore e l’infiam- volte al giorno per massimo 14 giorni cessario
mazione locale
L’infermiere, 2014;51:6:e80-e96
e91
2007). Come per i sintomi iniziali, l’entità del danno
tessutale può variare notevolmente in funzione dei diversi regimi di trattamento e della tipologia di pazienti
(EONS, 2007).
La distruzione del tessuto circostante può essere progressiva ed evolversi molto lentamente con relativo
poco dolore (EONS, 2007). La formazione di indurimenti
o ulcere non è un fenomeno immediato (EONS, 2007).
In generale, il danno tessutale inizia con la comparsa
di infiammazione e vesciche in prossimità del sito di iniezione (EONS, 2007); a seconda del farmaco e di altri
fattori esse possono progredire in ulcerazioni ed evolvere in necrosi del tessuto locale (EONS, 2007). La necrosi può occasionalmente essere così grave da rendere irrecuperabile la funzionalità della zona interessata,
rendendo necessario un intervento chirurgico (EONS,
2007). Uno stravaso nell’avambraccio provoca danni
al tessuto cutaneo e al sottocute (EONS, 2007); se av-
viene in prossimità di nervi, legamenti o tendini, il danno può avere un impatto sulla sensibilità e sulla motilità della parte interessata (EONS, 2007). Il rinvio a un
consulto di un chirurgo plastico è indicato quando, nonostante il trattamento conservativo, la lesione da stravaso progredisce verso l’ulcerazione (Dougherty L, et
al., 2010; Hannon MG, et al., 2011). Una consulenza
di chirurgia plastica è consigliata dopo stravasi di grandi volumi di vescicanti in presenza di dolore o se la guarigione non si è verificata dopo 1-3 settimane dall’evento
(Schaverien MV, et al., 2008). Tuttavia, è ancora indefinito che cosa si intenda per stravaso di grande volume: non è chiaro dopo quanto tempo e a quale livello
di intensità di dolore si renda necessario il consulto chirurgico; un intervallo di 1-3 settimane, per esempio, è
relativamente ampio (Schaverien MV, et al., 2008). L’intervento chirurgico definito come tecnica flush out è
consigliato in caso di stravasi di grandi volumi di ve-
Tabella 10. Gestione a lungo termine dello stravaso (NEYHCA Cancer, 2013; WoSCAN, 2009)
Gestione a lungo termine
Conseguenze
I pazienti con sospetto o accertato stravaso devono essere Il dolore al sito può essere da moderato a grave accompaattentamente seguiti per poter adottare le azioni appro- gnato, di solito, da bruciore; ci può essere eritema, gonfiore,
tessuto molle e mancanza di ritorno del sangue dalla canpriate
nula. Non tutti questi sintomi possono essere presenti
L’osservazione della lesione e la documentazione dovrebbero
essere rispettivamente garantiti e aggiornati su base giornaliera per i primi giorni e poi estesi a follow-up settimanali. I pazienti andrebbero valutati per dolore, eritema, mobilità, cambiamenti della pelle e necrosi
Le vesciche locali sono indicative di almeno una lesione
della cute a spessore parziale; possono esserci anche screziature e scurimento della pelle, dolore persistente e indurimento
In caso di stravaso di farmaci di categoria “neutra”, dopo un Il precoce indurimento con o senza presenza di tessuto
esame iniziale i pazienti possono essere valutati a seconda molle è un segno affidabile di eventuale ulcerazione
del volume di liquido infiltrato e della gravità della reazione
I farmaci vescicanti possono produrre localmente una ne- Quando la pelle è danneggiata a tutto spessore la superficrosi progressiva. Ampie aree con vescicole e ulcerazioni, cie può apparire molto bianca e fredda senza riempimento
progressivo indurimento o eritema persistente e dolore se- capillare e, in seguito, può progredire in escara secca
vero sono indicazioni per la valutazione e l’eventuale asportazione chirurgica del tessuto danneggiato. L’intervento
chirurgico non andrebbe ritardato
Devono essere applicate medicazioni sterili a siti con ve- L’ulcerazione di solito non è manifesta fino a 1-2 settimane
dopo l’infortunio, quando l’escara muta per rivelare la casciche o zone necrotiche per prevenire infezioni
vità alla base dell’ulcera; le ulcere sono di tipico necrotico,
I siti ulcerati richiedono un consulto specialistico. Dovrebbe fibrotiche e giallastre alla base con un orlo circostante eriessere prescritta un’analgesia adeguata. I pazienti che tematoso persistente
hanno subito uno stravaso e che necessitano di ulteriori cicli di chemioterapia devono essere strettamente monitorati
Note: la riparazione cellulare incompleta dopo la prima lesione combinata con ulteriori danni durante le successive iniezioni può indurre
una riattivazione di tossicità cutanea e un aggravamento del danno tessutale iniziale. Questo fenomeno è più frequente con le antracicline ma è stato osservato anche con paclitaxel e mitomicina
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scicanti che prevede un’ampia escissione con l’utilizzo di innesti (Pikó B, et al., 2013). Tale tecnica è eseguita da chirurghi plastici e consiste nell’esecuzione di
un certo numero di piccole incisioni in cui vengono infusi grandi volumi di soluzione fisiologica (cloruro di sodio allo 0,9 %) con l’obiettivo di eliminare il farmaco stravasato (Dougherty L, et al., 2010; Hannon MG, et al.,
2011). La procedura sembra essere meno traumatica
e più conveniente rispetto al trattamento chirurgico ma
è più efficace se eseguita all’inizio del processo di stravaso (Dougherty L, et al., 2010; Hannon MG, et al.,
2011). Il trattamento della necrosi tessutale o del dolore irrisolto di durata maggiore a 10 giorni richiede un
intervento di sbrigliamento chirurgico (debridment) (Dougherty L, et al., 2010; Hannon MG, et al., 2011). Si ritiene che solo un terzo degli stravasi progredisca in ulcerazione; pertanto, il trattamento chirurgico è riservato
solo per gravi stravasi o in pazienti per i quali non è stata adeguatamente avviata la terapia conservativa
(Dougherty L, et al., 2010; Hannon MG, et al., 2011).
Qualora si renda necessario, occorre eseguire un’asportazione ampia e tridimensionale di tutti i tessuti coinvolti con copertura temporanea eseguita con medicazione biologica (Dougherty L, et al., 2010; Hannon
MG, et al., 2011). Una volta che la ferita è pulita, l’applicazione dell’innesto cutaneo viene eseguita di solito entro 2-3 giorni (Dougherty L, et al., 2010; Schulmeister L, 2011; Hannon MG, et al., 2011). La tempistica appropriata di un intervento chirurgico resosi necessario a seguito di uno stravaso non è ancora chiaramente definita; alcuni medici sono a favore di un approccio conservativo (Schaverien MV, et al., 2008). Un
diligente e frequente follow-up è fondamentale per
l’identificazione precoce di vesciche o ulcere che necessitano uno sbrigliamento o interventi di chirurgia plastica più aggressivi (Schaverien MV, et al., 2008); pur
tuttavia, aspettare e osservare non è un approccio appropriato qualora un paziente abbia dolore persistente, gonfiore ed eritema, vesciche o una necrosi iniziale (Schaverien MV, et al., 2008). Inoltre, un danno funzionale permanente può risultare da un’esposizione prolungata al farmaco vescicante e ritardare l’intervento
chirurgico può richiedere ripetuti sbrigliamenti e un’ampia escissione (Schaverien MV, et al., 2008). L’atteggiamento più prudente è rappresentato da una consulenza chirurgica precoce e un intervento conservativo locale entro 24 ore per la gestione dello stravaso
combinati fra loro, anche perché, a oggi, non sono disponibili sperimentazioni cliniche randomizzate che abbiano confrontato, per lo stravaso da vescicante, un
trattamento conservativo con uno chirurgico (Schaverien MV, et al., 2008). La progressione delle lesioni
da stravaso con formazione di vesciche, ulcerazioni o
necrosi determina un’importante sintomatologia do-
L’infermiere, 2014;51:6:e80-e96
lorosa (Hadaway L, 2007). Le sole terapie non farmacologiche (per esempio gli impacchi caldi o freddi) è
improbabile che allevino il disagio (Hadaway L, 2007).
Sebbene gli analgesici non oppioidi possano essere di
qualche utilità, i pazienti che riferiscono dolore da moderato a severo di solito richiedono un oppioide per ottenere un adeguato controllo del dolore, soprattutto
quando il sintomo interferisce con il movimento degli
arti o le attività quotidiane (Hadaway L, 2007). Il dosaggio deve essere aggressivo per ottenere il sollievo
richiesto, quindi gli effetti collaterali correlati dovrebbero essere previsti e adeguatamente gestiti (Hadaway
L, 2007).
Segnalazione
E’ importante documentare in modo completo e accurato l’episodio di stravaso e il periodo di followup a esso conseguente per consentire una gestione
ottimale del danno (WoSCAN, 2009). L’incidente dovrebbe essere documentato attraverso un modulo di
segnalazione spontanea degli effetti avversi (incident
reporting) e fotografie della zona interessata, da ripetere a ogni follow-up (WoSCAN, 2009). Le foto devono essere di qualità soddisfacente, scattate da diverse distanze e direzioni e con un’esposizione corretta; può essere utile delimitare la zona interessata
con un pennarello indelebile (WoSCAN, 2009). Una
buona foto può consentire anche future elaborazioni digitali dell’immagine (Pikó B, et al., 2013; WoSCAN,
2009). La documentazione relativa all’avvenuto stravaso serve per diversi scopi (EONS, 2007):
• fornire un resoconto accurato di quanto è successo (anche nel caso in cui vi sia un contenzioso);
• tutelare gli operatori sanitari coinvolti nell’incidente;
• raccogliere informazioni specifiche sulle caratteristiche manifestate dallo stravaso;
• evidenziare eventuali aree di miglioramento della
pratica clinica.
Tutto il processo di segnalazione deve vedere il paziente attivamente coinvolto nel monitoraggio della lesione fino alla sua completa risoluzione (Dougherty L,
2008). Gli infermieri svolgono un ruolo chiave nella prevenzione, nell’identificazione e nella gestione di uno
stravaso (GMCCN, 2011). Essi devono fornire adeguate informazioni al paziente e valutare l’insorgenza di segni e sintomi di sospetto stravaso allo scopo
di limitarne l’incidenza e la severità delle conseguenze
(EONS, 2007). Uno stravaso mal gestito o non trattato può provocare dolore cronico, necessitare di un
intervento di chirurgia plastica ed esitare in danni a livello sensoriale e funzionale anche permanenti (Dougherty L, 2010; Doellman D, et al., 2009).
Un esempio di modulo di segnalazione degli eventi avversi è presentato in appendice 1 a pagina e96.
e93
DISCUSSIONE
L’obiettivo della presente revisione narrativa della letteratura è di illustrare le più recenti raccomandazioni
di buona pratica clinica per la prevenzione e gestione degli eventi di stravaso da farmaci vescicanti. I fattori di rischio possono essere correlati al paziente (Dougherty L, 2010; Pikó B, et al., 2013; Wengström Y, et
al., 2008), all’agente farmacologico (Pikó B, et al., 2013),
alla procedura e al trattamento (ACR, 2013; GOSH,
2012; Pikó B, et al., 2013; GMCCN, 2011); ve ne sono
inoltre di specifici che riguardano l’infusione attraverso vena centrale (Schulmeister L, 2009, 2011). Il fattore di rischio più frequente è la riduzione del numero di siti di venipuntura ottimali a causa di vene logorate e/o insufficiente disponibilità di accessi venosi
(Dougherty L, 2010; Pikó B, et al., 2013; Wengström
Y, et al., 2008). La selezione non ottimale della vena
per l’inserimento dell’agocannula e un flusso di farmaco
troppo rapido, non idoneo al diametro della vena, sono
tra i maggiori fattori di rischio per l’insorgenza di stravaso, correlabili rispettivamente alla procedura di incannulamento e al trattamento curativo (ACR, 2013;
GOSH, 2012; Pikó B, et al., 2013; GMCCN, 2011). Uno
dei fattori di rischio correlato all’infusione del farmaco in vena centrale è rappresentato dall’esecuzione,
da parte dell’infermiere, di un lavaggio con siringhe di
volume inferiore a 10 ml: ciò determina un sovraccarico di pressione in corrispondenza del sito che favorisce il verificarsi dell’evento (Schulmeister L, 2011). La
prevenzione si attua sia attraverso un’adeguata formazione e un aggiornamento del personale infermieristico preposto sia tramite l’educazione del paziente al riconoscimento precoce dei segni e dei sintomi
di un possibile stravaso (WoSCAN, 2009; Schulmeister L, 2010; Dougherty L, 2008). E’ importante la rilevazione delle tipologie di pazienti a rischio quale fondamentale forma di prevenzione, specie se appartenenti alle fasce di età estreme e/o con deficit cognitivi e/o sensoriali (WoSCAN, 2009; Schulmeister L,
2010; Dougherty L, 2008). Qualora si utilizzino anestetici
topici, la scelta dovrebbe ricadere su quelli a breve durata di azione, in quanto non mascherano l’insorgenza dei sintomi (Schulmeister L, 2010). Si sottolinea la
necessità di verificare il buon ritorno di sangue con una
siringa da 10 ml dal dispositivo di accesso venoso prima dell’inizio del trattamento (WoSCAN, 2009; Dougherty L, 2008). La pervietà di un dispositivo di accesso
endovenoso non dovrebbe mai essere testata infondendo un farmaco antineoplastico, soprattutto se con
potere vescicante; allo scopo si possono utilizzare una
soluzione fisiologica (cloruro di sodio al 0,9%) o destrosio al 5% (Schulmeister L, 2010). La gestione dello stravaso deve seguire una precisa sequenza di interventi sia nell’immediato, in modo lievemente diffe-
e94
rente se esso si sia verificato da vena periferica o centrale (GOSH, 2012; GMCCN, 2011; WoSCAN, 2009;
Doellman D, et al., 2009), sia in seguito all’evento acuto. In caso di stravaso è previsto l’utilizzo di trattamenti
non farmacologici e farmacologici, spesso combinati e complementari fra di loro (EONS, 2007; Sarasota
Memorial Hospital, 2012; GMCCN, 2011). Le tecniche
non farmacologiche consistono in applicazioni fredde o calde in base alla necessità di eseguire una strategia di “localizzazione e neutralizzazione” oppure di
“dispersione e diluizione” dell’agente farmacologico
(EONS, 2007; Sarasota Memorial Hospital, 2012;
GMCCN, 2011). Il trattamento farmacologico utilizza
antidoti; tuttavia, occorre un’attenta valutazione del loro
ruolo in quanto le prove che ne sostengono l’uso sono
spesso inconcludenti (EONS, 2007; Sarasota Memorial Hospital, 2012; GMCCN, 2011). I farmaci biologici mirati di nuova generazione sono dissimili dai
classici agenti citostatici, quindi di difficile collocazione
e classificazione in termini di potenziale potere vescicante; ciò comporta pareri controversi sul trattamento corretto in caso di loro stravaso (Pikó B, et al.,
2013). Allo stato attuale in letteratura esistono ancora ambiti oggetto di controversie che riguardano
(SCN, 2011):
• l’utilizzo topico di una crema a base di idrocortisone
o di FANS;
• il modo più efficace per realizzare l’infiltrazione di
antidoto sul sito di stravaso;
• la quantità ottimale di antidoto da somministrare;
• l’opportunità di eseguire lavaggi con soluzione
salina.
Dati i potenziali effetti devastanti derivanti da un danno a seguito di stravaso da agente vescicante, è raccomandabile, qualora esso si verifichi, procedere alla
compilazione di un modulo di segnalazione degli effetti
avversi che contenga i dati identificativi del paziente e
dettagliate informazioni relative ai segni e ai sintomi occorsi, sede e caratteristiche del presidio di accesso vascolare e area colpita (EONS, 2007; GOSH, 2012; Hadaway LC, 2009; SWSH Cancer Network, 2009).
CONCLUSIONI
La forma di prevenzione più efficace per evitare l’insorgenza di uno stravaso da farmaci vescicanti consiste in un’adeguata formazione teorica e sul campo
e in un aggiornamento continuo del personale infermieristico preposto. E’ di fondamentale importanza
anche l’informazione e l’educazione al paziente: per
il professionista infermiere essa costituisce un prezioso
alleato nel precoce riconoscimento dell’evento. Le
componenti preventiva e di riconoscimento precoce
hanno un ruolo predominante rispetto alla gestione
successiva all’insorgenza di stravaso: questo sia per-
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ché la mancanza di prove di efficacia ben documentate non consente una sua standardizzazione sia perché le prove di efficacia a supporto del ruolo degli antidoti sono per ora inconcludenti.
Conflitti di interesse dichiarati: gli autori dichiarano che
la proposta di pubblicazione non è già stata oggetto di pubblicazione o contemporaneamente proposta ad altre riviste;
non vi è conflitto di interessi relativamente all’articolo proposto; non sono stati ricevuti finanziamenti per la realizzazione dell’articolo da parte di industrie farmaceutiche, biomediche, imprese o enti pubblici o privati.
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e95
Appendice 1. Esempio di modulo di segnalazione degli effetti avversi (incident reporting) (EONS, 2007; GOSH, 2012;
Hadaway LC, 2009; SWSH Cancer Network, 2009)
Dati identificativi del paziente: ……………………………………………………………………………....................................................................
Unità operativa: …………………………………………………………………………………………….......................................................................
Data e ora dello stravaso: ………………………………………………………………………………..........................................................................
Tempo trascorso dall’inizio dell’infusione: ………………………………………………………………......................................................................
Nome del farmaco componente la soluzione travasata: ……………………………………………………...............................................................
Segni e sintomi
- colorazione della cute: ………………………………………………….............................................
- dimensioni dell’area coinvolta: …………………………………………...........................................
(delimitare con penna dermografica)……………………………………….........................................
Sito e presidio di accesso vascolare
Tipo (per esempio catetere venoso periferico, catetere venoso centrale, hickman, port,
eccetera): ……………………………………………………………………………...............................
Sito di accesso (se possibile con disegno): ………………………………….....................................
Dimensioni (calibro e lunghezza): …………………………………....................................................
Gauge e lunghezza dell’ago non carotante (se port): ……………..................................................
Numero di tentativi prima di un accesso valido: ……………………………….................................
Farmaci somministrati e sequenza: ………………………...............................................................
Tecnica di somministrazione (bolo o infusione, a gravità o con pompa): ......................................
Ritorno di sangue: ……………….....................................................................................................
Area colpita
Quantità di farmaco stravasato (approssimativa): ………………....................................................
Fotografia dello stravaso: ……………………………………….........................................................
Dimensioni dello stravaso (diametro, lunghezza, larghezza):..........................................................
Aspetto della zona colpita: ……………………………………...........................................................
Informazioni e prescrizioni ricevute dal medico: ………………………………………….........................................................................................
Indicazione dettagliata di data e ora delle notifiche mediche (tempo, informazioni discusse e pareri ricevuti): .............................................................
Aspirazione possibile o meno (compresa quantità di vescicante Eseguita elevazione arto:………………................................................
presumibilmente aspirata): …………...................................................... Eseguite applicazioni fredde/calde:…….............................................
Collocazione (venosa e/o sottocutanea): ................................................. Somministrato antidoto e dose prescritta:...........................................
Volume: .……………………………....................................................... Somministrati corticosteroidi e dosi prescritte:...................................
Altre segnalazioni:…………………........................................................
Esito del consulto chirurgico: ……………………………………………………………………………………………………..............................................
Osservazioni del paziente, commenti, dichiarazioni: …………………………………….........................................................................................
Indicazione di consegna del foglio informativo al paziente: ……………………………..........................................................................................
Istruzioni per follow-up: …………………………………………………………………………………………………….....................................................
Nominativi e firma di tutti i professionisti coinvolti nella gestione del paziente: …………......................................................................................
Firma dell’infermiere somministratore e di colui che ha gestito lo stravaso: …………...........................................................................................
Note: oltre alla documentazione iniziale, l’area colpita da stravaso deve essere controllata e qualsiasi modifica documentata ogni 8 ore;
l’insorgenza di edema, eritema, prurito, bruciore, dolore, o perdita di fluido deve essere trascritta nel modulo di segnalazione degli effetti avversi (incident reporting)
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L'Infermiere n°6 / 2014
La Kangaroo mother care: è una pratica utile per il
prematuro?
di Daniela Magnani, Simona Orlandini, Cristian Palazzolo, Paola Ferri
Corso di laurea in Infermieristica, Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia sede di Modena
Corrispondenza: [email protected]
Introduzione
La Kangaroo Mother Care (KMC) è una pratica introdotta nel 1978 da Edgar Rey, presso
l’Istituto Materno Infantile di Santa Fe, a Bogotà, Colombia, come alternativa alle cure
convenzionali offerte ai neonati prematuri. Inizialmente fu concepita per ovviare alla
mancanza di incubatrici e si basava sul contatto pelle a pelle con la madre 24 ore su 24,
con alimentazione esclusiva con latte materno. Il neonato veniva posizionato verticalmente
sull’addome materno, con il capo tra i seni (in modo da favorire l’allattamento) e ancorato
in modo tale da potervi rimanere in sicurezza, giorno e notte. La denominazione di tale
pratica prende origine dalle similitudini con la modalità adottata dai marsupiali per
prendersi cura dei loro piccoli. Effettuata con queste modalità, la KMC consente al
neonato di mantenere una corretta temperatura corporea, mentre la madre rappresenta la
principale fonte di cibo e di stimoli, fino a che il bambino non raggiunge un peso e una
maturazione tali, da consentirgli una vita extra-uterina, al pari dei bambini nati a termine.
Nel tempo la KMC si è diffusa in tutto il mondo, in vari contesti, da quelli rurali senza
risorse, a quelli più avanzati. Nei contesti avanzati ad alto tasso di tecnologia, con ampia
disponibilità di incubatrici, viene applicata con grosse differenze rispetto al metodo
originale. Le differenze includono la discontinuità del trattamento (intrapreso a
intermittenza, per poche ore al giorno) e la non esclusività dell’allattamento materno.
Inoltre, la KMC in questi setting viene intrapresa solo se il neonato è abbastanza stabile
dal punto di vista emodinamico e respiratorio. Rari sono i contesti in cui la KMC viene
applicata a neonati in ventilazione meccanica (Conde-Agudelo & Diaz-Rossello, 2014).
La KMC è quindi una pratica salvavita nei Paesi a basso reddito, dove le tecnologie
sanitarie scarseggiano, ma non è chiaro se questa pratica sia utile in Paesi ad alto reddito.
E’ stata pertanto effettuata un'analisi della letteratura allo scopo di ricercare evidenze
sull’efficacia della KMC in un contesto tecnologico, come alternativa alle cure
convenzionali in incubatrice.
I vantaggi della KMC
La KMC mostra vantaggi in termini di mortalità, rilevata alla dimissione e a 40-41
settimane di età gestazionale corretta, nonché all’ultimo follow-up, quando effettuata a
intermittenza, in contesti ad alta tecnologia, in neonati stabilizzati (Conde-Agudelo & DiazRossello, 2014).
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L'Infermiere n°6 / 2014
Nei neonati LBW (basso peso alla nascita) stabilizzati, la KMC è stata associata a una
riduzione statisticamente significativa delle sepsi e di altre patologie severe, tra cui quelle
a carico delle vie respiratorie, anche al follow-up a sei mesi (Conde-Agudelo & DiazRossello, 2014).
Non sono, invece, state rilevate differenze significative tra neonati sottoposti a KMC e
neonati del gruppo di controllo, per quanto riguarda sviluppo psicomotorio e sensoriale
(Conde-Agudelo & Diaz-Rossello, 2014).
I neonati estremamente prematuri possono mantenere una temperatura adeguata durante
il contatto pelle a pelle e rimanere stabili prima, durante e dopo la sessione di KMC. Le
piccole diminuzioni di temperatura causate dai trasferimenti, non sono associate ad
aumenti del consumo di ossigeno (Tuoni et al., 2012).
La saturazione di ossigeno nel sangue si mantiene stabile durante la KMC, così come
diminuiscono le desaturazioni. Durante i trasferimenti i bambini mostrano segni di stress a
causa della differenza di temperatura e quindi la richiesta di ossigeno può aumentare, ma
questo si risolve in tempi brevi (Mori et al., 2010).
Nei bambini che praticano la KMC si rileva un maggiore aumento di peso, lunghezza e
circonferenza cranica. Tuttavia non vengono osservate differenze alla dimissione o a 4041 settimane o a 12 mesi di età corretta (Conde-Agudelo & Diaz-Rossello, 2014; Ghavane
et al., 2012; Tuoni et al., 2012).
I neonati sottoposti a KMC vanno meno incontro a ipotermia, ipoglicemia, infezioni
nosocomiali, se confrontati con il gruppo di bambini assistiti unicamente in incubatrice. Il
contatto pelle a pelle, inoltre, riduce significativamente l’incidenza di apnee e di malattie
del tratto respiratorio inferiore (Suman et al., 2008; Conde-Agudelo & Diaz-Rossello,
2014).
Nei neonati sottoposti a KMC per almeno un’ora al giorno, si riscontra un maggior tasso di
allattamento al seno, nonché una sua maggiore durata. I risultati migliori vengono
confermati anche ai follow-up a uno e tre mesi, mentre le differenze perdono la
significatività statistica al follow-up a sei e dodici mesi (Boo et al., 2007; Conde-Agudelo &
Diaz-Rossello, 2014).
La KMC migliora la qualità della relazione tra mamma e bambino, il processo di
genitorialità e la sicurezza delle madri nell’accudire il proprio bambino. Le madri che
praticano la KMC guardano di più il bambino, lo toccano più spesso, sono più attente ai
suoi segnali e si adattano meglio ai suoi bisogni, oltre a presentarsi meno depresse e a
percepire il loro bambino come meno “anormale”. Anche il padre risulta essere
maggiormente coinvolto, competente e dimostra maggior senso di responsabilità nelle
famiglie che hanno sperimentato la KMC (Conse-Agudelo & Diaz-Rossello, 2014).
A tre mesi i genitori che praticano la KMC sono più sensibili e mostrano un attaccamento
maggiore al bambino. I bambini sono più attenti e mostrano meno probabilità di distogliere
lo sguardo da quello materno (Gathwala et al., 2008).
Il comportamento di bambini che sperimentano la KMC per almeno un’ora al giorno, risulta
più organizzato, con periodi più brevi di sonno attivo e periodi più lunghi di sonno tranquillo
e di veglia (Ludington-Hoe, 2006).
La KMC si è rivelata efficace nel ridurre la durata della degenza, di 2-5 giorni, in dieci studi
inclusi nella revisione Cochrane di Conde-Agudelo & Diaz-Rossello (2014). Nella stessa
revisione vengono riportati i dati di due studi che descrivono una riduzione dei costi
complessivi fino al 50%, nei neonati sottoposti a KMC.
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Considerazioni
Sono diversi gli studi che evidenziano un maggiore impatto positivo della KMC (vedi
Tabella 1), rispetto alle cure convenzionali in incubatrice, in termini di mortalità, meno
rilevante è invece il suo effetto sullo sviluppo neuro-comportamentale e psicosomatico. Ha
inoltre un effetto protettivo rispetto a sepsi e altre gravi patologie, ipotermia, ipoglicemia,
apnee, durata della degenza, allattamento e attaccamento madre-bambino, con effetti
positivi anche sul coinvolgimento paterno, dopo la dimissione.
Nei Paesi sviluppati sono stati condotti pochi studi randomizzati controllati. Sarebbe
importante implementare ulteriori studi con campioni di dimensioni adeguate, finalizzati a
valutare l’efficacia della KMC intermittente vs le cure convenzionali in incubatrice.
Altrettanto importante sarebbe la valutazione del rapporto tra costi e benefici della KMC
praticata in terapie intensive di terzo livello.
Complessivamente i benefici della KMC sono numerosi, non ha effetti collaterali e per
questo dovrebbe essere incentivata anche in un’ottica umanizzazione dell’assistenza
(Nyqvist et al., 2010).
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Tabella 1 - Sintesi di alcuni studi
Autori
Tipo di studio Popolazione
Outcome
Dodd, 2005
Revisione
sistematica
32 studi inclusi Parametri di
accrescimento
Attaccamento
madre-bambino
Saturazione
ossigeno e
variazioni
temperatura
durante la pratica
Aumento
attaccamento nei
neonati in KMC
Risultati non
significativi sui
parametri di
accrescimento
Desaturazioni e
abbassamenti di
temperatura all’uscita
dall’incubatrice, risolti
in breve durante KMC
Ludington-Hoe et
al., 2006
RCT
71 neonati
Qualità del sonno
Maggiore
organizzazione del
sonno nel gruppo in
KMC
Boo & Jamli, 2007
RCT
146 neonati
Crescita
Allattamento al
seno
Aumento della
circonferenza cranica
e del tasso di
allattamento al seno
nei neonati in KMC
Suman et al., 2008
RCT
206 neonati
Crescita
Allattamento
esclusivo al seno
Ipotermia
Ipoglicemia
Sepsi
Durata degenza
Benefici nel gruppo in
KMC per tutti i
parametri studiati,
tranne la durata della
degenza, per la quale
non sono state
riportate differenze
significative
Gathwala et al.,
2008
RCT
110 neonati
Attaccamento
madre-bambino
Attaccamento facilitato
nei neonati trattati con
KMC
Ghavane et al.,
2012
RCT
140 neonati
Crescita
Allattamento al
seno
Nessuna differenza
nei due gruppi
Mori et al., 2010
Meta-analisi
23 studi inclusi Saturazione
ossigeno e
variazioni
temperatura
durante la pratica
Aumento temperatura
e diminuzione
desaturazioni durante
KMC
Tuoni et al., 2012
RCT
91 in KMC vs
71 in
incubatrice
Differenze
statisticamente non
significative nei due
gruppi
Crescita
Durata degenza
Relazione madrebambino
Conclusioni
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Conde-Agudelo &
Meta-analisi
Diaz-Rossello, 2014
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18 studi inclusi Mortalità
Infezioni
Ipotermia
Durata degenza
Parametri crescita
Attaccamento
madre-bambino
Sviluppo
neurologico e
sensoriale
KMC associato a
riduzione di mortalità,
infezioni, ipotermia e
durata della degenza
e ad aumento di
parametri
accrescimento e
attaccamento madrebambino
Le differenze
nell’accrescimento si
appianano al follow-up
Differenze non
significative per
sviluppo neurologico e
sensoriale e crescita
al follow-up
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Aspetti assistenziali
emozionale
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della
resilienza:
il
sostegno
di Maurilio Pallassini (1), Elisa Arezzini (2)
(1) Infermiere, Responsabile Didattica Professionalizzante CdLM in Scienze Infermieristiche e
Ostetriche, Università degli Studi di Siena
(2) Infermiera, U.O. Medicina Interna Ospedale San Donato, US8 - Arezzo
Corrispondenza: [email protected]
Resilienza e malattia
Il fenomeno della resilienza viene studiato da molti anni e ne sono ben note le
caratteristiche, la complessità e la multidimensionalità (Limardi et al., 2013; Earvolino –
Ramirez, 2007; Gillespie, Chaboyer, Wallis, 2007). Mentre i primi studi tendevano a
connotare la resilienza come una proprietà rara, posseduta da individui eccezionali, lavori
successivi hanno suggerito possa trattarsi di una caratteristica ordinaria, derivante da tratti
stabili di personalità e dall’azione dei sistemi adattivi di base, che non si manifesta nello
stesso modo in tutti individui, né per lo stesso individuo nelle diverse situazioni di vita o
nelle differenti età (Masten, 2014; Fitzpatrick, 2013; Herrenkol, 2013; Wekerle et al., 2013).
A questo proposito è opportuno anche citare Masten (2001), che riduceva la resilienza ad
uno stato di ordinary magic, mentre Oliverio Ferraris (2003, 2004) la definiva
operativamente forza d'animo, denominazioni che, ancora oggi, possiedono il vantaggio di
ricondurre il concetto nell’ambito dell’universalmente osservabile, nella comune
quotidianità.
In questa ottica naturale, per quello che riguarda gli aspetti clinici, in una recente revisione
Stewart e Yuen (2011) rilevano che i fattori associati e predittivi di resilienza nelle malattie
fisiche non sono diversi da quelli identificati negli studi sulla resilienza in altre forme di
avversità, fatto questo che non sorprende dato che, a prescindere dalla tipologia di
avversità, sono gli stessi fattori (genetici, ambientali, emozionali, di coping, in associazione
con le esperienze passate) che contribuiscono allo sviluppo degli atteggiamenti resilienti
(Herrenkol, 2013). La stessa revisione ha individuato associazioni con aspetti direttamente
correlati alla malattia come la buona cura di sé, la migliore aderenza ai trattamenti, la
migliore qualità della vita, la positiva percezione della malattia, una più elevata soglia del
dolore probabilmente mediata dall’affettività positiva (Finan e Garland, 2014), nonché
alcuni esiti prettamente organici come una migliore situazione immunitaria. Gli individui
identificati come resilienti appaiono tendenzialmente in grado di mantenere o riguadagnare
buoni livelli di benessere generale, riferiscono crescita personale e cambiamenti positivi
del sé. Alcuni importanti limiti sono riferiti alle alte percezioni di autoefficacia e di controllo
interno, altamente vantaggiose nelle malattie moderatamente gravi e, in qualche modo,
controllabili, ma potenzialmente rischiose nelle patologie a prognosi incerta laddove
valutazioni irrealistiche della situazione potrebbero generare vissuti di delusione e di
disadattamento. Inoltre, pazienti con malattie che hanno un impatto grave sulla capacità
fisica necessiteranno in ogni caso di un forte sostegno sociale, pertanto le variabili
correlate all'auto padronanza e al controllo interno potrebbero essere per loro poco utili.
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In ogni caso, pur tenendo conto dei limiti descritti, sembra assodato che una grande forza
d’animo consente a quasi tutte le tipologie di pazienti di affrontare più efficacemente e
vivere meglio la loro malattia; molti saranno anche in grado di liberare capacità inespresse
e di scoprire nuovi orizzonti di senso come beneficio della crescita interiore correlata al
fronteggiamento della malattia (Stewart e Yuen, 2011). Visti gli effetti benefici correlati agli
alti livelli di resilienza, occorre chiedersi se esiste la possibilità per gli operatori sanitari, per
gli infermieri in particolare, di intervenire nel sostegno della forza d’animo nel corso del
fronteggiamento della malattia. In secondo luogo, se questa possibilità esiste, occorre
individuare le metodologie e gli strumenti da adottare per concretizzare nella pratica clinica
queste funzioni supportive.
Supportare la resilienza: le metodiche
Il primo quesito è retorico. Non esistono dubbi sul fatto che la resilienza possa essere
costruita e rafforzata. Una condizione fondamentale è il positivo superamento di
precedenti avversità, i cui effetti sono ben descritti in letteratura dal modello dello steeling
effect (Rutter, 2012), principio declinato nelle metodiche formative di stress – inoculation
(Hughes, 2012) o nelle esperienze di stress a U rovesciata (Russo et al., 2012). Sono
anche reperibili lavori che descrivono modelli di sviluppo strutturati come la SBCB
Therapy (Padeski, Mooney, 2012) imperniato su tecniche cognitivo-comportamentali o lo
SMART-OP, un modello auto-gestito basato su contenuti multimediali prestrutturati (Rose
et al., 2013).
I modelli e le metodiche formative descritte, centrate sull’apprendimento nel corso di
modulate esperienze di stress in contesti simulati, molto probabilmente efficaci sul medio lungo termine, sembrano poco adatte all’applicazione nella complessità dei contesti clinici
dove predomina l’impossibilità di graduare l’intensità delle esperienze e l’ingestibilità dei
tempi. Il caregiver interessato a sostenere la forza d’animo del malato dovrebbe utilizzare
tecniche meno strutturate. Secondo Stewart e Yuen (2011) i singoli pazienti dovrebbero
essere incoraggiati a rievocare e riflettere sulle situazioni problematiche da loro affrontate
con successo nel passato, rielaborazione che potrebbe aumentarne il senso di autostima
e di autoefficacia. Il condizionale è richiesto dalla consapevolezza che l’accettazione e la
rivalutazione degli eventi traumatici non è facile né scontata: la riflessione per la
costruzione di senso è un processo faticoso che richiede un duro lavoro su se stessi e un
forte sistema di sostegno sociale (Fitzpatrick, 2013; Herrenkol, 2013).
Supportare la resilienza: il sostegno sociale
Per quello che riguarda il sostegno sociale della persona malata le indicazioni della
letteratura riguardano l’incoraggiamento di un senso di ottimismo realistico e di speranza,
nonché di padronanza, sia nei confronti della malattia che delle capacità di farvi fronte; per
questo ultimo aspetto risulta particolarmente utile coinvolgere i pazienti nella cura di sé,
nella gestione del dolore e della terapia, nelle scelte di trattamento riabilitativo e nella
ricerca di informazioni (Stewart e Yuen, 2011). Il sostegno sociale è un fattore ambientale
fondamentale per riuscire a mantenere e aumentare la forza d’animo di fronte alle
avversità. Evidenza, questa, oramai indiscutibile, che riguarda anche le persone anziane e
gli ammalati (Stewart e Yuen, 2011; Grodstein, 2013; Edward, 2013; Herrenkol, 2013). Per
i malati il sostegno sociale, in tutti i suoi aspetti, sia di fattività pratica, che emozionale e
cognitivo, può provenire da familiari, amici, colleghi di lavoro ed anche da persone che
affrontano o hanno superato malattie affini, nonché, pur in relativa carenza di indicazioni
inerenti i metodi e il ruolo da assumere, dal personale sanitario (Stewart, Yuen, 2011).
In ogni caso, nel rispondere ai quesiti posti, pare plausibile affermare che esiste la
possibilità di sostenere gli ammalati nel corso del loro personale percorso di crescita,
favorendo la rielaborazione delle precedenti positive esperienze, incoraggiando
l’autonomia personale e la manifestazione di sentimenti di speranza e ottimismo.
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Rimane solo da chiedersi: in quale contesto sanitario e quali operatori hanno a loro
disposizione il tempo e le capacità per dedicarsi alla creazione di un rapporto di fiducia
tale da consentire la condivisione delle storie di vita e il conseguente efficace
incoraggiamento? Gli infermieri possiedono queste capacità ma è improbabile ne abbiano
il tempo. Occorre individuare un'altra strada.
Supportare la resilienza: il sostegno emozionale
La resilienza individuale è malleabile e particolarmente sensibile al contesto sociale. Le
evidenze suggeriscono che le caratteristiche individuali e quelle ambientali si combinano
nel contribuire a sostenere la resilienza (Herrenkohl, 2013). In particolare risulta
fondamentale l’attitudine dell’ambiente sociale nell’indurre emozioni positive (Fitzpatrick,
2009; Steptoe et al., 2009).
In letteratura sono stati utilizzati una serie di termini diversi per descrivere l’affettività
positiva come felicità o vitalità emotiva, solitamente associati a tratti di speranza, serenità
e soddisfazione di sé e della propria vita, con una notevole sovrapposizione tra i vari
costrutti tutti strettamente correlati tra loro (Steptoe et al., 2009). Fredrickson (2001)
intendeva l’affettività positiva come l’insieme delle emozioni (intense, a breve termine) e
dei sentimenti (tenui, a medio-lungo termine) discreti e fenomenologicamente distinti,
come la gioia, l’interesse, la soddisfazione di sé, l’orgoglio o l’affetto, tutti caratterizzati
dalla capacità di indurre benessere (flourish) fisico e psicologico.
La relazione tra affettività positiva e resilienza nei momenti critici è chiarita dal modello
classico di amplificazione e costruzione di risorse (broaden-and-build theory) formulato
proprio da Fredrickson (2001). Il modello, lineare ed elegante nella sua semplicità, è stato
formulato tenendo conto di una larga gamma di studi allora disponibili e, nel corso degli
anni, è stato più volte riconfermato (Kok et al., 2013). Il modello si fonda sulla nozione di
modulazione fisiologica delle emozioni positive e su tre effetti correlati. In primo luogo
l’effetto di reversibilizzazione, ovvero la capacità delle emozioni positive di modulare le
conseguenze delle emozioni negative (Fredrickson, 2001). Oltre a indurre un effetto
psicologico di sollievo, le emozioni positive creano benessere dal punto di vista fisico, con
una più bassa produzione di cortisolo, migliori livelli di pressione arteriosa e frequenza
cardiaca ed anche una migliore configurazione negli indicatori di infiammazione (Steptoe
et al., 2009). Al contrario le emozioni negative tendono ad attivare il sistema nervoso
autonomo determinando, fra le altre modificazioni, aumento della frequenza cardiaca,
della vasocostrizione e della pressione arteriosa. Negli anni novanta esperimenti di
laboratorio (Fredrickson, Levenson, 1998) avevano già dimostrato che sperimentare
emozioni positive, sia ad alta che a bassa intensità, poteva placare i perduranti effetti
cardiovascolari delle emozioni negative. In secondo luogo, in modo probabilmente
connesso all’effetto di reversibilizzazione, le emozioni positive modificano anche il modo di
pensare delle persone tramite un effetto di amplificazione cognitiva: Fredrickson (1998) ha
sostenuto, e il suo gruppo di lavoro sostiene ancora (Kok et al., 2013), che, mentre le
emozioni negative aumentano l’attività autonomica e restringono il campo dell’attenzione
per sostenere adattive tendenze all’azione, come ad esempio l’attacco e la fuga, le
emozioni positive riducono l’attivazione allargando il campo d’attenzione, del pensiero e i
repertori comportamentali esplorativi.
Una larga gamma di studi, a cavallo tra gli anni ottanta e novanta, ha fornito evidenze su
tali modificazioni, in particolare sull’induzione di modelli di pensiero inusuali (Isen et al.,
1985), flessibili (Isen e Daubman, 1984) e creativi (Isen et al., 1987); Kahn e Isen (1993)
avevano anche dimostrato che le emozioni positive aumentano le preferenze delle
persone per la varietà e allargano il loro ventaglio di scelte comportamentali accettabili.
Inoltre l’amplificazione cognitiva che accompagna gli stati emotivi positivi espande e
migliora le modalità di fronteggiamento delle avversità.
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Ancora, alcuni esperimenti di laboratorio avevano dimostrato che le emozioni positive
indotte facilitano la focalizzazione e l’elaborazione di informazioni importanti, di rilievo per
il sé (Aspinwall, 1998). Infine, l’effetto di costruzione di risorse. La reversibilizzazione e
l’amplificazione cognitiva producono effetti benefici nel breve termine. Nel tempo, con
ripetute esperienze di emozioni positive, può divenire tendenza abituale uno stile di coping
con prospettive allargate. Il modello suggerisce che esperienze ricorrenti di emozioni
positive, tramite gli effetti di reversibilizzazione, amplificazione e costruzione, possano
aiutare la concretizzazione di questo tratto favorevole caratterizzato da una ampia gamma
di risorse: fisiche (abilità fisiche, salute, longevità), sociali (legami amicali, reti di supporto),
intellettuali (competenza, complessità), e psicologiche (resistenza, ottimismo, creatività).
Sintetizzando: sfruttando l’effetto immediato previsto dal principio della modulazione
fisiologica delle emozioni positive pare possibile sostenere la forza d’animo delle persone
malate.
Rimane un punto da chiarire: nell’intreccio di rabbia, tristezza, timore e ansietà usualmente
correlato a tutti i gradienti di malattia, come possono essere indotte emozioni positive?
Secondo i criteri del comune buon senso le sensazioni soggettive di benessere
sembrerebbero ingiustificate e, soprattutto, inadeguate. Tuttavia è noto da tempo che nelle
circostanze avverse le emozioni positive si presentano in concomitanza con le negative
(Folkmann, Moskowitz, 2000). Uno studio su resilienza ed emozioni dopo gli attacchi
terroristici dell’11 settembre 2001 (Fredrickson et al., 2003) presenta alcuni esempi che
potremmo trasporre nei contesti di malattia: la gratitudine per chi si prende cura di noi, il
più profondo affetto verso i propri cari a seguito dell’incertezza sul futuro, un nuovo
interesse per gli altri a seguito del cambiamento delle priorità vitali, una più profonda
spiritualità e la ricerca di senso o di nuovi significati dell’esistere.
In conclusione, il concetto di resilienza è complesso e multidimensionale, inoltre sono
ancora molti gli aspetti oscuri nella relazione tra emozioni positive, resilienza e salute fisica
(Steptoe et al., 2009; Stewart e Yuen, 2011; Kok et al., 2013). Ciononostante, le
conoscenze prodotte negli ultimi venti anni forniscono le opportunità concettuali per
intervenire nel sostegno dei processi di resilienza direttamente nei contesti clinicoassistenziali.
Conclusioni: una (scomoda) proposta
Gli ambiti di lavoro degli infermieri sono molteplici. Variano per complessità e per tipologia
di utenza e non sembrano esistere categorizzazioni efficaci nel descriverne la variabilità.
In tale discontinuità porre indicazioni specifiche su come sostenere la forza d’animo
dell’utenza pare obiettivamente impossibile.
Tuttavia, le poche generiche indicazioni sin qui riportate mostrano che è possibile
supportare i processi di resilienza sostentando l’affettività positiva e il benessere
dell’utenza, a prescindere dalle sue diverse peculiarità e caratteristiche. In tal senso
occorre tenere presente che gli infermieri già possiedono le competenze supportive che
caratterizzano da sempre, dall’inizio della loro formazione, l’agire e il pensare
professionale. La professione infermieristica è professione di aiuto. Ogni infermiere è
potenzialmente in grado di sostenere la positiva affettività di ogni persona con cui ha,
seppur breve, contatto. Cosa fare?
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In primo luogo, in termini generali, i fondamenti professionali infermieristici possono
produrre di per sé benessere emozionale:
 le manifestazioni di profonda considerazione, di interesse e di rispetto totale della
dignità, sostenendo l’autostima individuale, susciteranno sempre sentimenti positivi
negli altri;
 nei contesti istituzionali informare compiutamente gli assistiti, farli sentire ben
accetti e protetti, soddisfarne efficacemente e prontamente i bisogni allevierà i
sentimenti di ansia e insicurezza;
 educare, istruire e coinvolgere i pazienti nella cura di sé, nella gestione della
malattia e della terapia sosterrà i loro sentimenti di autoefficacia e di padronanza.
Da questo punto di vista non pare necessario dover esprimere speciali abilità psicologiche,
vestirsi da clown o trasformarsi in ministri di culto.
In secondo luogo, in termini specifici, gli infermieri possono porsi domande, riflettere e
trovare soluzioni praticabili su come sostenere il benessere emozionale di ogni singolo e
diverso paziente nella sua particolare situazione clinica ed esistenziale. Pur non
conoscendo a fondo le concept analisys e le tecniche educative di costruzione della
resilienza, individuare soluzioni personalizzate sarà quasi sempre possibile.
È questa la parte scomoda della proposta. Scomoda perché è possibile lavorare, anche
bene, senza la necessità di porsi nuovi problemi o di accollarsi responsabilità ulteriori. Tra
l’altro, in questo sforzo, risultano poco utili le pianificazioni assistenziali standard o le
classificazioni degli interventi. Occorre piuttosto utilizzare pienamente le capacità creative
attinenti la spesso sottovalutata dimensione dell’arte professionale, esperienzialmente e
clinicamente situata, fondata su attente osservazioni e su intuizioni mal descrivibili o
trasmissibili a parole.
Pensare creativamente è faticoso. D’altra parte appare questa la via maestra per dare, o
ridare, un senso allo specifico agire professionale, e, in definitiva, a proposito di relazione
tra affettività positiva e forza d’animo, anche al proprio vivere. Forse è uno sforzo che vale
la pena fare.
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La libera professione infermieristica: un'indagine in
Toscana
di Mirko Tonelli (1), Ludovica Tamburini (2), Manuela Marcucci (3), Diletta Calamassi (4)
(1) Infermiere Livingston Group S.r.L.
(2) Infermiera AUSL 5 Pisa
(3) Infermiera Dirigente AUSL 11 Empoli
(4) Infermiera Formatore AUSL 11 Empoli
Corrispondenza: [email protected]
La libera professione infermieristica
Negli ultimi anni il numero di infermieri libero professionisti è notevolmente aumentato. Al
31.12.2012 gli infermieri contribuenti iscritti ad ENPAPI, a livello nazionale, erano 25.976
su 413.661 infermieri iscritti ai Collegi IPASVI (1). In Toscana, i dati aggiornati al
31/12/2009 (fonte ENPAPI) indicano 872 iscritti, senza distinzione tra contribuenti e non,
su un totale di iscritti ai Collegi IPASVI di 1799 (2).
Gli iscritti contribuenti ENPAPI stanno crescendo di anno in anno e le ragioni di questa
crescita sono molteplici: tagli alla spesa pubblica, rinnovato riconoscimento sociale della
professione infermieristica, richiesta da parte dei cittadini di prestazioni
sanitarie/infermieristiche. Tanto che oggi la libera professione rappresenta una delle
possibili scelte lavorative per il neo-laureato.
Le percezioni degli infermieri libero professionisti della Regione Toscana
Nell’anno 2013 è stata condotta un’indagine tra gli infermieri libero professionisti iscritti ai
Collegi IPASVI della Regione Toscana.
Lo scopo è stato quello di indagare quanto la libera professione sia diffusa nel territorio
regionale, quali siano le difficoltà incontrate e le aspettative degli infermieri che la
esercitano. Al contempo, si è cercato di esplorare anche il livello di conoscenza della
normativa vigente, sia per il settore specifico della professione infermieristica, che per
quello inerente l’attività imprenditoriale e libero professionale in genere. Attraverso la
somministrazione di un questionario appositamente predisposto, abbiamo ricevuto ritorno
da 529 soggetti, che si sono espressi su: la forma di libera professione esercitata e i motivi
della scelta; gli aspetti relativi all’aggiornamento professionale; i giudizi soggettivi in merito
ai servizi offerti dal Collegio IPASVI di appartenenza; la soddisfazione per la propria attività
lavorativa; la conoscenza su specifici aspetti normativi.
Gli infermieri toscani libero professionisti aderenti alla indagine costituiscono circa il 10%
degli infermieri iscritti a ENPAPI per la Regione Toscana (percentuale calcolata sui dati
relativi all’anno 2009, fonte dati bilancio consuntivo ENPAPI 2012) ed il 5% del totale degli
infermieri iscritti ai Collegi IPASVI della Toscana. L’età dei rispondenti è compresa in un
range che va dai 22 ai 67 anni, ma oltre la metà di questi è compresa nella fascia di età tra
i 23 e i 40 anni (65,6%). Il 62,6% del campione totale è di sesso femminile e il 37,4% di
sesso maschile.
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Nella Tabella 1 è rappresentata la distribuzione degli infermieri in relazione al Collegio
IPASVI di appartenenza.
Tabella 1 - Collegio IPASVI di appartenenza
Frequenza
Percentuale
Massa
1
1,1%
Arezzo
4
4,4%
Firenze
58
63,7%
Livorno
1
1,1%
11
12,1%
Pisa
4
4,4%
Pistoia
5
5,5%
Prato
7
7,7%
Totale
91
100,0%
Lucca
Relativamente alla formazione di base, 60 sono in possesso della Laurea in
Infermieristica, 19 del Diploma Regionale di infermiere professionale, 7 del Diploma
Universitario e 5 di un titolo estero riconosciuto. Dei rispondenti totali, 10 hanno dichiarato
di aver conseguito un Master di I livello, 8 di essere in possesso di un ulteriore titolo
universitario e 19 di avere anche un’altra qualifica professionale.
Per quanto riguarda la modalità di esercizio dell’attività libero professionale, la forma
individuale rappresenta la scelta più frequente (68,8%), seguono la forma associata
(18,7%), quella cooperativa (8,8%) e la società tra professionisti (1,1%). Il restante 6,6%
ha dichiarato di operare con altre modalità. In 16 svolgono attività libero professionale da
meno di 1 anno, in 47 da 1 a 3 anni, in 15 da 4 a 6 anni ed in 13 da 7 e più anni.
Dei rispondenti, 80 mostrano di essere aggiornati sugli obblighi derivanti dall’ECM, mentre
in merito alla partecipazione ad eventi formativi il numero di coloro che anno risposto “Si” è
sceso a 65 soggetti. I motivi della mancata partecipazione ad eventi formativi sono
principalmente rappresentati da: costi, mancanza di tempo e rilascio di un numero limitato
di crediti ECM. Rispetto all'acquisizione degli ECM previsti dalla normativa, per il 2012 i
professionisti che hanno acquisito meno di 25 crediti sono 25, in 23 tra 25 e 50, in 24
sopra i 50 e in 19 non sanno. Prima del 2012 solo il 31% del campione è riuscito ad
acquisire tutti i crediti ECM (il 39% non è riuscito, il 27% non sa), mentre il 40% non riesce
ad acquisire il numero di ECM previsto annualmente (21% sempre senza difficoltà, 19% si
ma con difficoltà), contro un 47% che invece non riesce (15% mai, 32% non tutti gli anni).
Nelle Tabelle 2 e 3 vengono presentati i dati relativi al giudizio personale circa l’area di
maggiore competenza/formazione posseduta dal professionista e le tematiche formative
ritenute più interessanti.
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Tabella 2 - Formazione e conoscenze prevalenti
Frequenza
Aspetti etici e deontologici legati alla libera professione
Percentuale
7
7,7%
23
25,3%
Management
5
5,5%
Modelli organizzativi per le aree ospedaliera e territoriale,
implementati nella Regione Toscana (Sanità d’iniziativa e intensità
di cure)
1
1,1%
Qualità e sicurezza
6
6,6%
34
37,4%
Responsabilità professionale e normativa specifica riguardante la
libera professione
6
6,6%
Altro
9
9,9%
Clinica (Percorsi diagnostici-terapeutici-assistenziali per persone
affette da patologie specifiche)
Relazione e comunicazione
Tabella 3 - Tematiche di interesse per l'aggiornamento professionale
Frequenza
Aspetti etici e deontologici legati alla libera professione
Percentuale
4
4,4%
45
49,5%
Management
1
1,1%
Modelli organizzativi per le aree ospedaliera e territoriale,
implementati nella Regione Toscana (Sanità d’iniziativa e intensità
di cure)
5
5,5%
Qualità e sicurezza
9
9,9%
Relazione e comunicazione
1
1,1%
21
23,1%
5
5,5%
Clinica (Percorsi diagnostici-terapeutici-assistenziali per persone
affette da patologie specifiche)
Responsabilità professionale e normativa specifica riguardante la
libera professione
Altro
Per il 62% dei rispondenti, la laurea non prepara adeguatamente a svolgere l’attività libero
professionale.
Sulle motivazioni che hanno portato alla scelta di lavorare in libera professione sono state
indicate: la volontà di lavorare in maniera indipendente (34), l’impossibilità di lavorare
come dipendente di una pubblica amministrazione (33), per aspettative create da altri (7).
In merito alla soddisfazione lavorativa, il 40% si dice soddisfatto dall’aspetto economico, il
66% dall’attività lavorativa ed il 53% dalla crescita professionale. Il 60,55 di chi ha risposto
al questionario ha buone/sufficienti aspettative rispetto alla crescita economica, il 68,2%
rispetto alle prospettive di carriera e il 69,3% rispetto alla qualità del posto di lavoro.
In 57 su 91 (62,6%) suggerirebbero l’attività libero professionale ai neolaureati in
infermieristica.
Oltre la metà del campione (52) ha giudicato i carichi di lavoro adeguati, per 19 soggetti
risultano eccessivi e per 20 risultano insufficienti.
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Tra le principali difficoltà nello svolgimento dell’attività professionale vengono indicate: la
retribuzione (44%), il riconoscimento sociale (42%) il reperimento dei clienti (38%).
Nel 65,9% gli utenti sono rappresentati da ultrasessantacinquenni, contro il 34,1% di utenti
con età inferiore a 65 anni.
I contesti operativi prevalenti sono RSA (28,6%), domicilio (23,1%), più raramente cliniche
private/convenzionate (12,1%), ambulatori convenzionati (7,7%), ospedale (5,5%),
ambulatorio proprio (3,3%), altro (19,8%). Le attività svolte con maggior frequenza (75,8%)
sono rappresentate da prestazioni tecniche (ad esempio medicazioni di lesioni,
somministrazione della terapia parenterale).
La documentazione utilizzata nel rapporto con la clientela è rappresentata da cartella
infermieristica/diario (53%), contratto scritto (15%), richiesta del curante (8%), altro (24%).
In merito al rapporto con i Medici di Medicina Generale, questo è definito positivo dal
48,4% (7 ottimo, 37 buono di collaborazione), negativo nel 28,6%, mentre un 23,1% non
ha rapporti con i medici.
Il 53% vede positivamente l’inserimento nel sito del Collegio IPASVI di appartenenza di
una pagina dedicata alla libera professione, il 52% non è al corrente dell’esistenza nel
Collegio di un gruppo di sostegno per i libero professionisti, il 46% ritiene di essere
abbastanza orientato dal Collegio nell’attività libero professionale. Rispetto a che cosa
dovrebbe fare il Collegio IPASVI per supportare l’attività libero professionale, gli intervistai
indicano, in ordine di importanza: fornire informazioni sulle opportunità di lavoro, sulla
normativa vigente, sulle disposizioni amministrative, organizzando un maggior numero di
eventi formativi a costi contenuti.
In merito alle conoscenze specifiche inerenti la normativa di settore e gli obblighi derivanti
dall’esercizio dell’attività libero professionale il 78% degli intervistati ritiene obbligatoria
l’assicurazione per i libero professionisti, contro un 14% per i quali è facoltativa.
Relativamente alla comunicazione al Collegio IPASVI, il 37% ritiene obbligatoria quella
sulla pubblicità sanitaria e il 68% quella sull’avvio dell’attività libero professionale.
Per il 40,7% la L. 243/2004 è la legge delega in materia pensionistica, mentre un 47,3%
non sa rispondere.
Secondo il 51% l’ENPAPI è l’ente che eroga prestazioni pensionistiche di vecchiaia,
invalidità ed indennità di maternità ai propri assicurati, per il 35,2% eroga anche
prestazioni assistenziali a beneficio dei propri assicurati connesse alla presenza di uno
stato di bisogno, di uno stato di malattia ed a titolo di contributo per spese funebri.
Conclusioni
L’indagine condotta ha fatto emergere numerosi aspetti critici che possono divenire spunti
di miglioramento. In primis l’aspetto relativo al conseguimento degli ECM. Questi non sono
necessari solo per disposizione di legge, ma rappresentano uno strumento di
qualificazione professionale e di garanzia nei confronti della collettività. Il conseguimento
degli ECM per le professioni sanitarie, ad oggi, è vissuto solamente come un obbligo da
parte degli addetti ai lavori. Potrebbe invece rappresentare un’efficace strumento
meritocratico a vantaggio degli infermieri che costantemente si impegnano nel proprio
aggiornamento professionale.
In altre parole, se il cittadino conoscesse l’esistenza dei crediti ECM e del perché sono
obbligatori, potrebbe scegliere gli infermieri anche sulla base di un evidenza di crediti
acquisiti. In tal senso ci si augura che il nuovo accordo sul sistema di formazione continua
in medicina e l’operatività del CO.GE.A.P.S (Consorzio Gestione Anagrafica delle
Professioni Sanitarie) permetta ad ogni infermiere un monitoraggio efficace del proprio
debito formativo.
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Nel complesso colpisce come i liberi professionisti si dichiarino soddisfatti della loro attività
lavorativa e giudichino positivamente le loro prospettive in termini economici, di carriera e
di qualità del posto di lavoro. Nell’ottica di perseguire la crescita sociale della figura
dell’infermiere, soprattutto al di fuori degli ambiti ospedalieri, riteniamo sia di fondamentale
importanza la presenza di efficaci e veloci canali di comunicazione tra le parti, ovvero tra
Collegi e Infermieri. Oggi tali canali ci sono, (grazie ad internet, con la possibilità di inviare
e ricevere in tempo reale e-mail e di far parte dei social network), occorre solamente
svilupparli e sfruttarli a pieno.
BIBLIOGRAFIA
- ENPAPI, Bilancio consuntivo, Roma, 2012.
- Federazione Nazionale dei Collegi IPASVI, sito istituzionale della Federazione nazionale IPASVI,
www.ipasvi.it/chi-siamo/iscritti.htm, u.c 09/10/2013.
- Collegio IPASVI di Como, Dicembre 2006, Indagine conoscitiva della situazione occupazionale e
professionale degli infermieri nel territorio di Como, Agorà, n.33.
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La gestione del paziente con frattura dell'anello pelvico:
un'esperienza
di Francesca Guidoni (1), Valentina Monetti (2), Paola Rocca (3), Luciana Torre (4)
(1) (2) Infermiere, SCDU Ortopedia e Traumatologia - AOU San Luigi Gonzaga di Orbassano
(3) Fisioterapista - AOU San Luigi Gonzaga di Orbassano
(4) Coordinatore Infermieristico, SCDU Ortopedia e Traumatologia - AOU San Luigi Gonzaga
di Orbassano
Corrispondenza: [email protected]
Le lesioni dell’anello pelvico
Le lesioni dell’anello pelvico non sono frequenti: rappresentano solo il 5-8% dei traumi
maggiori, ma sono presenti nel 20% dei pazienti politraumatizzati. Essendo generalmente
conseguenti a traumi ad alta energia cinetica, sono gravate da un’alta morbilità e mortalità.
Le cause principali sono: incidenti automobilistici/motociclistici (70-80%), caduta dall’alto
(10-30%), traumi da schiacciamento (5-10%) (Scaglione et al., 2012, Walker 2011, Zinghi
et al., 2004). Ne consegue che le fratture pelviche rappresentano una difficile sfida non
solo per l’ortopedico ma per tutta l’equipe infermieristica assistenziale: spesso il paziente
con frattura di bacino è un paziente politraumatizzato ad alta complessità assistenziale
(Walker, 2011).
Le lesioni dell’anello pelvico sono importanti soprattutto per quanto riguarda la fase acuta
post-traumatica (Scaglione et al., 2012; Hauschchild et al., 2008), dove la mortalità per
emorragia pelvica è del 5-30% ed è la prima causa di morte. L’alta energia richiesta per
provocare il trauma fa sì che la frattura si presenti con un’importante scomposizione dei
frammenti ossei. In una seconda fase, ridurre correttamente la frattura è il passo
fondamentale per limitare gli esiti, sia quelli riguardanti l’apparato muscoloscheletrico che
quelli correlati alla funzionalità urologica e sessuale. Per questo motivo le fratture
dell’anello pelvico presentano un out-come non sempre favorevole che può
compromettere in modo significativo la vita quotidiana del paziente (spesso giovane),
ragione per cui le società internazionali di ortopedia suggeriscono che questo tipo di
patologie vengano trattate presso centri specializzati (Scalglione et al., 2012).
La S.C.D.U Ortopedia e Traumatologia dell’A.O.U San Luigi Gonzaga di Orbassano è
centro di riferimento per la patologia traumatica dell’anca e per le fratture dell’anello
pelvico. Vengono eseguiti in media 70 interventi l’anno ed è nostra esperienza che
un’accurata gestione del paziente in un’equipe multidisciplinare (ortopedico, infermiere,
fisioterapista) è determinante per la riuscita.
Il trattamento della fase acuta post traumatica avviene generalmente in Pronto soccorso e
prevede il mantenimento della stabilità di tutte le funzioni vitali che possono essere
alterate in seguito a traumi ad elevata energia cinetica. Il morsetto pelvico d’emergenza o
il semplice fissatore esterno permettono un efficace stabilizzazione già 10-15 minuti dopo
il ricovero in sala d’emergenza. Non è nostro intento trattare la fase acuta post traumatica,
ma bensì soffermarci sugli interventi infermieristici atti a ridurre le complicazioni legate alla
fase di recupero.
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Classificazione e trattamento delle fratture
La valutazione clinica e radiografica del bacino, basata sull’identificazione del grado di
stabilità o di instabilità, è la piattaforma di partenza per tutte le decisioni successive.
Gli schemi di classificazione delle fratture sono fondamentali. non solo per identificare e
descrivere la lesione, ma soprattutto pianificarne il trattamento e predirne l’esito.
I due schemi più popolari attualmente in uso sono il sistema di Tile e il sistema di YoungBurgess (Adams et al., 2007; Burgess et al., 1990; Tile et al., 1995;). Entrambi sono stati
incorporati nel sistema utilizzato dell’Ortophaedics Trauma Association. (Figura 1)
Figura 1 - Classificazione Tile
Il trattamento definitivo prevede la stabilizzazione delle fratture e/o delle lussazioni che
compongono la lesione dell’anello pelvico: fratture del sacro, lussazioni sacroiliache,
fratture-lussazioni della sacroiliaca (crescent fractures), fratture delle branche ileopubica e
ischiopubica o aperture della sinfisi pubica. La stabilizzazione avviene entro le 24/72h,
solitamente mediante viti e/o placche e/o fissatore esterno (Castelli et al., 2009).
Nella Tabella 1 abbiamo riportato le tre categorie principali di frattura e il relativo
trattamento.
Anche gli esiti negativi a lungo termine delle lesioni dell’anello pelvico trovano, in alcuni
casi, indicazioni a trattamenti chirurgici utili a migliorare la sintomatologia dolorosa o la
deambulazione del paziente.
Management infermieristico delle potenziali complicazioni
Le fratture scomposte del bacino, se non trattate adeguatamente, possono portare a
dolore cronico e invalidante, compromissione della deambulazione, disfunzione urinaria e
sessuale.
Le fratture acetabolari determinano spesso coxartrosi post traumatica a medio – lungo
termine. Lesioni neurologiche e/o vascolari sono frequenti in entrambi i casi. (Capella et
al., 2014; Coppola, 2000; Walker, 2011). Circa un terzo delle lesioni instabili dell’anello
pelvico sono complicate da lesioni che interessano il tratto ureto-genitale (Aihara et al.,
2002; Taffett, 1997), in modo particolare per le fratture della sinfisi pubica. Circa il 6% delle
donne e l’11% degli uomini riportano danni al sistema genito urinario, incontinenza
urinaria, impotenza (40%). E’ fondamentale un’individuazione precoce del danno.
Il recupero dopo fratture dell’anello pelvico è un processo lento, che può portare a delle
complicazioni a lungo termine, principalmente legate all’allettamento forzato in posizione
supina o all’impossibilità di flettere il busto oltre i 40° (Walker, 2011; Frakes et al., 2004).
Stabilizzata la frattura, le prospettive del paziente migliorano per la possibilità di assumere
la stazione eretta.
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Tabella 1 - Tipologia frattura e trattamento
TIPO DI FRATTURA
TRATTAMENTO
Fratture stabili (gruppo A).
Sono fratture stabili, in quanto o non
interrompono l’anello pelvico, oppure lo
interrompono nel solo versante anteriore, ma
sono composte.
Normalmente
non
è
necessaria
la
stabilizzazione
chirurgica,
il
trattamento
funzionale non provocherà ulteriori spostamenti.
Il trattamento consiste in alcuni giorni di riposo a
letto, terapia farmacologica (analgesici ed
eparinici) e successiva deambulazione.
Fratture instabili in senso rotatorio (Gruppo B).
Sono fratture in cui l’ALP è almeno
parzialmente integro, per cui sono stabili in
senso verticale e instabili sul piano orizzontale.
Nella lesione B1 (open book, cioè a libro
aperto), una compressione sagittale interrompe
l’arco anteriore e provoca l’apertura anteriore
dell’articolazione sacro-iliaca.
Nella lesione B2 (closed book, cioè a libro
chiuso), una compressione laterale interrompe
l’arco anteriore e sollecita in chiusura anteriore
l’articolazione sacro-iliaca.
Nella lesione B3 un trauma ad alta energia
agisce con controspinta dal lato opposto,
provocando un’interruzione dell’arco anteriore e
una lesione posteriore bilaterale. Se il trauma è
sagittale, allora si avrà un open book bilaterale
con diastasi grave della sinfisi pubica; se
invece il trauma è laterale allora si ha un closed
book dal lato del trauma e un open book dal
lato opposto.
La stabilizzazione del cingolo pelvico anteriore di
solito è sufficiente per la deambulazione precoce
con carico parziale.
La differenziazione tra lesioni di tipo B e lesioni
di tipo C può essere poco chiara durante la
prima valutazione, specialmente nelle fratture da
compressione
laterale
con
minima
scomposizione, perciò è necessario effettuare
controlli radiologici seriati dopo l’inizio della
deambulazione, per verificare che non ci sia
stato alcun spostamento posteriore.
Lesioni ad instabilità totale (Gruppo C).
Nelle lesioni di tipo C si ha una lesione
completa dell’ALP, da cui ne deriva
un’instabilità non solo rotatoria ma anche
verticale. Il meccanismo lesionale è di taglio
verticale (vertical shear), per cui si ha la risalita
dell’emipelvi con frequenti lesioni associate del
plesso lombosacrale e conseguenti danni
neurologici. Per questi motivi le lesioni di tipo C
sono le più gravi.
Il cingolo pelvico richiede la stabilizzazione sia
posteriore che anteriore, per il ripristino dei
rapporti anatomici, la deambulazione precoce e
per evitare complicazioni. Qualsiasi parte del
cingolo pelvico in cui sia diagnosticabile una
reale instabilità dovrebbe essere sottoposta a
stabilizzazione chirurgica, per fornire sia la
stabilità, sia una sicurezza sufficiente per
permettere la deambulazione.
La nostra equipe assistenziale si è posta come obiettivo la riduzione delle complicazioni
quali indicatori di interventi infermieristici efficaci. Pertanto sono stati individuati i seguenti
nurse sensitive outcomes su cui agire:
1. Assenza di lesioni da pressione
L’allettamento prolungato pone ad alto rischio di lesioni da pressione. All’ingresso nel
servizio il paziente con frattura di bacino viene posto su M.A.D ad aria. La valutazione
attraverso scala di Braden a cui viene sottoposto all’ingresso non sempre indica la
necessità di tale materasso, ma la totale impossibilità alla mobilizzazione è prerogativa
assoluta all’uso. L’impossibilità al decubito laterale rende particolarmente difficile
l’ispezione della cute che viene eseguita per quanto possibile giornalmente. Particolare
attenzione viene posta ai talloni ed alla nuca.
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Un’adeguata nutrizione, correlata all’utilizzo degli ausili prima citati, permette una buona
gestione delle lesioni da pressione (Walker 2011; Frakes 2004).
2. Prevenzione dei danni da ileo paralitico
In assenza di lesioni addominali concomitanti, nei primi giorni dopo il trauma la dieta del
paziente sarà leggera fino alla completa ricanalizzazione; in seguito potrà assumere una
dieta libera. La nutrizione svolge un ruolo essenziale per potenziare la ripresa a seguito
del trauma.
La nutrizione enterale è da preferire a quella parenterale per il minor rischio di
complicazioni infettive; è comunque da integrare se il paziente non introduce almeno il
50% dell’apporto calorico giornaliero previsto (Jacobs, 2003).
La defecazione è vissuta come un momento particolarmente disagevole e doloroso.
Soventemente il dolore nella mobilizzazione rende impossibile l’uso della padella, creando
imbarazzo e malessere al paziente che vive il momento con estremo disagio. Garantire la
privacy ed un ambiente tranquillo, assicurando un buon controllo del dolore, è
indispensabile. Importante è garantire che l’eliminazione avvenga in modo regolare;
spesso la prima volta il paziente va aiutato con l’esecuzione di un clistere evacuativo,
successivamente si provvederà a stimolare la regolarizzazione dell’alvo con diete ricche di
fibre, adeguato apporto idrico e eventuale supporto farmacologico (lassativi per via orale).
3. Riduzione del rischio TVP
Il rischio di TVP è una complicazione nota e frequente in pazienti con frattura dell’anello
pelvico (Kelsey et al., 2000; Buerger et al., 1993; Rogers et al., 2001). E’ legata soprattutto
all’immobilizzazione e alla conseguente stasi venosa, danno epiteliale e danno diretto ai
vasi. La prevenzione messa in atto dal nostro centro prevede terapia con EBPM, associata
alla compressione plantare intermittente (foot pump), che viene iniziata all’ingresso nel
servizio e mantenuta per tutta la degenza. Si è riscontrato che la compliance all’uso delle
foot pump in modo continuo non è ottimale, pertanto il paziente deve essere incoraggiato
e stimolato ad indossarle il più possibile.
E’ evidente come le principali complicazioni sensibili ad interventi infermieristici siano,
sostanzialmente ed intrinsecamente, legate all’allettamento del paziente.
La mobilizzazione precoce assume un ruolo cardine per il raggiungimento degli obiettivi
prefissati ed è nostra esperienza che la riabilitazione eseguita in collaborazione con il
fisioterapista permetta di mobilizzare in sicurezza il paziente stabilizzato già in 2° giornata,
qualora sia concesso un carico parziale. A seconda dell’intervento subito, se al paziente è
concesso il carico parziale (su arto non leso) ma non la flessione del busto, il
raggiungimento della stazione eretta avviene passando direttamente dalla posizione
supina a quella eretta senza passare dalla posizione seduta.
Questo intervento, se eseguito con pochi semplici accorgimenti, è sicuro sia per il paziente
che per l’operatore. Il passaggio brusco della posizione supina a quella eretta può dare
origine ad ipotensione e/o lipotimia, soprattutto le prime volte. Questa eventualità deve
essere contemplata, pertanto la manovra non va mai eseguita con un solo operatore, in
modo da poter riportare il paziente nel letto, nel caso, agevolmente.
La procedura
Qualunque mobilizzazione che coinvolge gli arti inferiori deve essere eseguita in postura
supina. Il lato del letto sul quale si eseguirà il passaggio da supino a in piedi è quello
relativo all’arto inferiore che può caricare. In questo modo la leva costituita dall'arto in
carico è facilitata, in quanto il piede appoggia meglio al pavimento.
Per facilitare il passaggio da supino a in piedi si vince l’inerzia con l’uso di una traversa
che avvolge il cingolo scapolare.
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Figura 2
L’arto inferiore senza carico dovrà esser sostenuto per:
 Ridurre il dolore
 Mantenere in posizione neutra l’anca (posizione zero)
 Mantenere il corretto allineamento coxo – femorale – tronco
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Figura 3
Per prepararsi al passaggio in statica eretta, è necessario spostare il paziente in posizione
supina quasi trasversale rispetto al letto, mantenendo in abduzione l’arto inferiore che può
caricare e in adduzione quello senza carico con l’anca in posizione neutra, fino al
raggiungimento del bordo letto.
Per vincere l’inerzia è necessario l’appoggio stabile e sicuro del piede che può caricare e
del posizionamento del letto ad un’altezza che favorisca la propulsione del tronco.
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Figura 4
Durante questa fase è importante che la persona che sostiene l’arto senza carico, lo
abbassi velocemente verso il pavimento. Il paziente, con la forza dei propri bicipiti brachiali
e mantenendo in estensione la colonna vertebrale, si alza velocemente facendo leva con
l’arto inferiore in carico.
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Figura 5
Raggiunta la statica eretta. Il girello anti-brachiale garantisce la sicurezza.
La manovra attuata in collaborazione tra infermieri e fisioterapisti rappresenta un momento
importante nel percorso riabilitativo. Nei giorni che precedono la dimissione si procede ad
addestrare un care giver alla manovra, per la continuità domiciliare della riabilitazione.
il passaggio da supino a in piedi è facilmente eseguibile a domicilio, richiedendo soltanto
un girello anti brachiale, una scarpa chiusa con suola di gomma per l’arto sano e un
protocollo di esercizi da praticare in autonomia.
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I pazienti che subiscono un trauma dell’anello pelvico costituiscono una sfida importante
sia per l’equipe medica che infermieristica. La complessità assistenziale richiede
un’attenta valutazione e monitoraggio del paziente, pertanto il ruolo dell’infermiere
all’interno di un equipe multidisciplinare è fondamentale. L’articolo vuole essere una guida
per aiutare a ridurre i danni conseguenti a questo tipo di frattura che spesso possono
essere invalidanti.
BIBLIOGRAFIA
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New York: Informa Healthcare Publishers 141-59.
- Aihara R, et al. (2002) Fracture locations influence the likelihood of rectal and lower urinary tract injuries in
patients sustaining pelvic fractures. J Trauma, 52, 205-209.
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pelvic fractures. Am Surg, 59,505–508.
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L'Infermiere n°6 / 2014
L'infermiere visto dai degenti di una terapia intensiva
post-operatoria cardiochirurgica
di Silvio Simeone (1), Marco Perrone (2), Grazia Dell'Angelo (3), Carlo Vosa (4)
(1,2,3) Infermieri Terapia Intensiva Post Operatoria di Cardiochirurgia A.O.U. Federico II,
Napoli
(4) Professore universitario e responsabile dell'Unità operativa complessa di Cardiochirurgia
A. O. U. Federico II, Napoli
Corrispondenza: [email protected]
Premessa
La figura dell’infermiere ha avuto una costante evoluzione negli ultimi tempi. L’assistenza
infermieristica è stata spesso valutata utilizzando indicatori specifici di costi,
riospedalizzazioni, infezioni ed altro (Al-Rawajfah OM, 2014) (Giakoumidakis K e Eltheni R
et al., 2014).
Da un punto di vista qualitativo attenzione è stata posta al periodo post operatorio, ma
pochi studi hanno indagato come la figura dell’infermiere è percepita dai degenti di ICU I
Intensive Care Unit) ancor meno di ICU di cardiochirurgia.
La nostra esperienza
E’ da queste considerazioni che è nata l’esigenza di comprendere, attraverso un’indagine
come è percepito l’infermiere dai degenti della nostra unità operativa. Per farlo abbiamo
utilizzato un approccio di tipo fenomenologico (Cohen et al., 2000).
Nell’indagine abbiamo coinvolto tutti i pazienti maggiorenni che parlavano la lingua italiana
prima del loro trasferimento ad altro reparto di degenza. Come caratteristico dell’approccio
fenomenologico (Cohen, 2000) abbiamo iniziato con il "bracketing" da parte di tutti gli
infermieri coinvolti nell’indagine.
L’uso di questa tecnica di “riflessione critica” ci ha permesso di mettere “tra parentesi” le
nostre idee sull’oggetto dell’ indagine riducendo così la possibilità di influenzare la corretta
estrapolazione dei temi.
Dopo l’acquisizione del consenso a partecipare all’indagine abbiamo intervistato i pazienti:
a ciascuno, 10 in totale, è stato chiesto di raccontare come avevano percepito il ruolo
dell’infermiere all’interno del reparto.
Durante l’intervista è stato mantenuto un’atteggiamento di accoglienza (Simeone et al.,
2014; Vellone et al., 2008, 2012). Il contenuto di ciascuna intervista è stato registrato e
successivamente trascritto in ogni sua parte; durante e immediatamente dopo la
conclusione dell’intervista gli intervistatori hanno scritto delle fieldnotes riguardanti
l'ambiente, l'impostazione del colloquio, il linguaggio del corpo e le loro riflessioni. Le
interviste hanno avuto una durata compresa tra i 20 e i 40 minuti.
Alla trascrizione delle interviste è seguita “l’immersione nei dati” da parte degli
intervistatori: sono stati rilette accuratamente le interviste e le filenotes. Così facendo
abbiamo ottenuto la saturazione dei dati, ovvero la ridondanza dei temi, (Polit e Beck,
2014) e l’archiviazione delle 10 interviste.
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L'Infermiere n°6 / 2014
Dopo avere estrapolato i temi ci siamo confrontati su quanto emerso da ciascuno
intervistatore e non abbiamo registrato discordanze. La validità dei temi estratti è stata
raggiunta chiedendo poi conferma, attraverso un colloquio, ai pazienti che hanno
partecipato all’indagine. Infine, abbiamo sistematizzato i dati raccolti.
I risultati
Come precedentemente detto le persone coinvolte nell’indagine sono state dieci: otto
maschi e due femmine. L’età media era di 63 anni con un livello di educazione medio-alto
(Tabella 1).
Tabella 1 - Le persone intervistate
COD
SEX AGE TITLE STUDY
TIPO INTERV
FIGLI
GG DEGENZA IN TI
1
AA 01 M
47
LAUREA
CABG X 2
1 FIGLIO 2
2
AB 02 M
75
ELEMENTARE
CAD X 2
2 FIGLI
3
3
AC 03 M
70
MEDIA
CAD X 2
2 FIGLI
3
4
AD 04 M
50
SUPERIORE
CAD X 3
3 FIGLI
4
5
AE 05 M
58
PROFESSIONALE CAD X 3
2 FIGLI
2
6
AF 06 F
72
ELEMENTARE
3 FIGLI
3
7
AG 07 M
63
PROFESSIONALE CAD X 2
4
8
AH 08 M
67
MEDIA
CAD+SOTVALMITR 3 FIGLI
3
9
AI 09
M
65
LAUREA
CAD X 3
2 FIGLI
3
10 AL 10 F
63
SUPERIORE
CADX3
2 FIGLI
2
CAD X 3
Tutti i pazienti erano stati sottoposti ad intervento di rivascolarizzazione miocardica con
interessamento medio di 2,5 vasi; solo uno era stato anche sottoposto ad intervento di
sostituzione valvolare. La degenza media è stata pari a tre giorni.
I temi emersi dall’intervista sono stati quattro: il ripensamento da parte delle persone
intervistate sul ruolo dell’infermiere, la depersonalizzazione dell’assistenza, la carenza di
personale e la scarsa propensione all’educazione sanitaria.
Ripensamento sul ruolo dell’infermiere
Tutte le persone intervistate hanno rivalutato l’opinione pregressa che avevano degli
infermieri e del loro operato, mostrando anche soddisfazione nel fatto di avere sempre una
figura vigile su di loro. AB 02 ci ha detto: “…non pensavo il vostro lavoro fosse tanto
complesso, tanto complicato e con innumerevoli responsabilità; devo essere sincero,
avevo di voi infermiere un’idea totalmente sbagliata…”. AC 03, invece, [con un sorriso di
soddisfazione sul volto, apparso verso il termine della frase qui riportata]: “…ero convinto
che la vostra professione fosse ancora quella degli anni 70; ero quasi incredulo quando ho
visto come voi ed i medici scambiavate opinioni, quasi prendevate insieme delle
decisioni…”. Un altro paziente AE 05, “... ero convinto che foste dei nullafacenti, meri
esecutori, quando ne avevate voglia…invece devo dire che ho trovato ad assistermi
professionisti seri, preparati, coscienti”. Infine, AF 06, ”... il fatto di avere un infermiere
sempre accanto mi ha dato sicurezza. Forse proprio questo ha contribuito a farmi
cambiare idea su di voi [indicando l’intervistatore e inquadrando quindi la categoria
professionale degli infermieri]”.
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Depersonalizzazione dell’assistenza
Dalle interviste è emerso che siamo degli ottimi professionisti ma troppo tecnici;
professionisti che sembrano perdere di vista l’aspetto comunicativo. AA01 ha detto:
”Spesso voi siete indaffarati, con tante cose da fare e non riuscite a trovare il tempo per
ascoltare profondamente un ammalato”. AE 05: ”… Inoltre, specialmente in determinate
fasi, è quasi come se voi foste concentrati sul da farsi anziché sul sentirci, sull’ascoltare e
capire i nostri bisogni…i “bip” delle apparecchiature sembrano attirare maggiormente la
vostra attenzione rispetto ad una nostra parola…”…”…non sempre siamo guardati negli
occhi quando parliamo…”.
Carenza di Personale
Le persone intervistate hanno notano tutte come il numero di persone dedite all’assistenza
diretta risulti inferiore al reale fabbisogno dell’unità operativa; o quanto meno all’assistenza
olistica richiesta. AI 09: ”siamo sicuri di avervi sempre vicino, ma forse il fatto che siate
sempre gli stessi tende a far focalizzare la vostra attenzione solo su alcuni aspetti
assistenziali e non su tutto..”.
C’è chi ha provato ad attribuire a tale carenza alcune defaiance individuate nell’assistenza
ricevuta, proprio come il tema estrapolato prima (“depersonalizzazione dell’assistenza”).
AG 07: “essendo voi sempre gli stessi al lavoro forse date per scontati alcuni
atteggiamenti nostri, alcune richieste. E’ un po’ come se, secondo voi, già ci conosceste…
come se fossimo tutti uguali…insomma sembra quasi che alle volte ci diate un’assistenza
preconfezionata: si deve fare questo,questo e questo, se il signore fa cosi si deve fare
cosi e basta…ma dovreste chiedervi perché reagite così? perchè piangete? Non tutti lo
fanno”. Ed ancora AE 05: ”capisco che il fatto di non darci sempre l’attenzione richiesta
possa derivare dal tipo di reparto; insomma, è ovvio che siete pochi e non riuscite a fare
bene tutto, o quantomeno focalizzate l’attenzione sulle cose più importanti…ripeto, magari
essendo in più [numero di infermieri dediti all’assistenza diretta]”.
Scarsa propensione all’educazione sanitaria
Le persone intervistate hanno ricondotto il ricevere poche e frammentarie nozioni circa il
loro decorso post operatorio a una carenza da parte dell’infermiere. AB 02: ”forse si
dovrebbe migliorare leggermente l’aspetto dell’ascolto e della comunicazione..io ad
esempio ricordo con un po’ di antipatia i vostri no alla mia richiesta di acqua; poi mi è stato
spiegato perché non potevo bere, ma all’inizio forse voi davate troppe cose per scontato”.
AH 08 ha detto invece: ”…insomma il non essere preparati al dopo, a quello che ci aspetta
sia nelle prossime ore sia nei prossimi giorni crea ansia, quasi paura…”.
La trascrizione riportata di seguito esplicita in modo chiaro cosa i pazienti intendono:
sembra quasi che le informazioni circa procedure od il continuo del decorso post
operatorio debbano essere richieste. Le informazioni date sono poche e non sempre
chiari. Infatti, AG 07 aggiunge: ”da migliorare certamente la comunicazione, le spiegazioni
che ci vengono date…sono poche e frammentate…date a pezzetti. Poi non sempre
chiare, dobbiamo chiedere noi spiegazioni, chiedere cosa verrà poi…”.
Conclusioni
Dalle interviste è emerso molto chiaramente come la figura del professionista infermiere
sia stata ampiamente rivalutata dai pazienti intervistati; allo stesso modo sono state messe
in evidenza alcune lacune relative alla comunicazione/informazione. Questa rivalutazione
è avvenuta però solo successivamente all’assistenza ricevuta. I pazienti vengono
influenzati dalle pregresse esperienze ospedaliere negative (Hunt, 1999) sia personali che
non (Guirardello, Romero-Gabriel et al., 1999). Quelli da noi intervistati avevano dei
pregiudizi e non conoscevano l’evoluzione della figura dell’infermiere.
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I pazienti da noi intervistati hanno lamentato inoltre una frammentaria informazione,
asserendo a volte di sentirsi curati con “assistenze standardizzate”. Percepire
un’assistenza depersonalizzata fa credere ai degenti di non essere importanti per i loro
infermieri, valutando poi negativamente le cure infermieristiche ricevute (Davis, 2005)
(Hunt, 1999).
I risultati che abbiamo ottenuto ci hanno gratificato e hanno stimolato l’intera equipe
assistenziale a migliorare ulteriormente la presa in carico degli assistiti.
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L'Infermiere n°6 / 2014
Autonomia e collaborazione,
intervento infermieristico
gli
ambiti
di
Annalisa Pennini
McGraw-Hill, Milano
pagine 304, euro 28,00
L’idea che muove questo nuovo testo della collega Pennini è
di voler enfatizzare l’area collaborativa degli interventi
infermieristici, accanto all’area più decantata dell’autonomia
professionale. In questo saggio si vuole evidenziare come le
due modalità d’esercizio professionale abbiano egual valore,
dignità e spazio, e che come due personaggi di una vicenda,
non possano esistere uno senza l'altro.
Nell’area collaborativa, secondo l’autrice, si evidenzia
maggiormente “la capacità di intervento maturo, consapevole
e integrato dell’infermiera” (pag. xii) perché mentre
nell’autonomia si ritrova l’ambito principale di riconoscimento
della professione, nella collaborazione con gli altri
professionisti della salute si esprime la maturità professionale
dell’infermiere e la sua stessa autonomia acquisisce un valore
aggiunto.
Il testo è organizzato in due parti. La prima presenta le definizioni dei termini in questione
e i necessari richiami all’orizzonte teorico, normativo e pratico della professione; la
seconda contiene gli approcci, i metodi e gli strumenti che sostengono l’infermiere nei suoi
interventi autonomi e collaborativi. Una ricca sezione di appendici conclude e concretizza
entrambe le parti.
Il punto di partenza fondamentale della riflessione di Pennini è il constatare nella pratica
infermieristica l’esistenza di un’area collaborativa importante che si è andata evidenziando
tanto nelle riflessioni teoriche quanto nella normativa e nelle esperienze concrete di ogni
infermiere. Il modello di partenza è riconosciuto nel testo di Carpenito-Moyet Piani di
assistenza infermieristica e documentazione. Diagnosi infermieristiche e problemi
collaborativi (CEA, Milano, 2006, prima ed. orig. 1983). In questo testo, come è noto, i
problemi fondamentali del paziente sono distinti in due categorie proprio in base
all’autonomia decisionale dell’infermiere: l’area autonoma, nella quale l’infermiere esplicita
i problemi dell’assistito in termini di “diagnosi infermieristiche” e l’area collaborativa, nella
quale l’infermiere possiede le competenze solo per esprimere una parte del processo
diagnostico e decisionale necessario a risolvere il problema espresso dal paziente, che
appunto per questo viene definito “problema collaborativo”.
Da questo punto di partenza – arricchito dai contributi di autori quali M. Gordon, D.M.
Doran e A. Donabedian – l’autrice sviluppa un “Modello di decisione-azione della funzione
autonoma e collaborativa” che ha la finalità di orientare l’attività infermieristica italiana
nella attuale fase di sviluppo professionale.
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In estrema sintesi, il modello si scompone, per ogni area dell’autonomia e della
collaborazione, in tre livelli di approfondimento: i) il livello del giudizio e decisione
sull’intervento; ii) il livello del giudizio e decisione su chi effettuerà l’intervento e iii) Il livello
di azione su chi effettivamente effettuerà l’intervento pianificato.
In quest’ultimo livello, il contributo originale del testo risiede nell’aver individuato e
approfondito nell’area collaborativa l’esistenza di un’ulteriore possibilità operativa per
l’infermiere accanto alla già nota collaborazione “con prescrizione” (pag. 20), ovvero la
collaborazione nel team di cura “senza prescrizione” (pag . 21). Nel primo caso l’infermiere
ha, come è noto, la responsabilità unicamente sul “come” eseguire l’intervento, in quanto il
“cosa” è competenza di altri professionisti. Nel secondo, invece, il problema del paziente è
tale da non poter essere risolto da alcuna singola prescrizione professionale, ma richiede
l’intervento di più professionisti della salute che devono decidere, ognuno per il loro
proprio o in modo integrato con gli altri colleghi, il piano curativo migliore da attuare per il
paziente. In questo team l’infermiere ha, al pari degli altri professionisti, la responsabilità e
l’autonomia di portare il proprio contributo decisionale.
Secondo l’autrice nell’area dell’autonomia professionale si concretizza in modo privilegiato
la visione del prendersi cura (care) dell’assistenza infermieristica, mentre nell’area
collaborativa emerge in modo privilegiato l’area curativa intesa come trattamento di
matrice biomedica (cure) dell’assistenza infermieristica.
Questo è l’unico punto del testo della collega sul quale mi permetto di dissentire. Per come
è spiegato, potrebbe sembrare che il caring sia appannaggio esclusivo della pratica
infermieristica, e quasi negato alle altre professioni, mentre invece noi sappiamo che il
caring è un paradigma che riguarda ogni curante, professionista o laico, e che coinvolge
addirittura il clima organizzativo di una realtà lavorativa.
Inoltre, e più sottilmente, questa distinzione suggerisce che un ampio margine dell’attività
infermieristica – quello collaborativo – sia escluso dal caring. E viceversa, che quando ho
un atteggiamento di caring nei confronti del paziente io non usi in modo privilegiato il mio
bagaglio di tecniche e di procedure. Tale posizione contraddice sia l’esperienza di ogni
bravo infermiere sia la letteratura, che invita a considerare ogni gesto clinico, anche quello
tecnico, come occasione di caring (vedasi ad esempio: P. Benner, P. Hooper-Kyriakidis, D.
Stannard, Clinical wisdom and interventions in Critical Care: a thinking-in-action approach,
W.B. Saunders Company, Philadelphia, PA, 1999; L. Mortari, L. Saiani, Gesti e pensieri di
cura, McGraw-Hill, Milano, 2013): la differenza tra caring e curing, in altre parole, non è il
contenuto del gesto, ma il suo significato per la persona assistita.
Ampi capitoli del libro sono dedicati alla professione vista in termini normativi, storici,
deontologici e sociali, oltre che sotto il profilo più propriamente disciplinare. I quadri teorici
di riferimento sono essenzialmente legati alla saggistica di lingua italiana, e questo se da
un lato è un limite (ad esempio impedisce l’approfondimento di ogni tema, dagli agganci
alle teorie del nursing, alle riflessioni sul metodo clinico, al processo di decisione clinica o
allo sviluppo delle competenze professionali), dall’altro potrebbe consentire a un ampio
pubblico di colleghi italiani di avvicinarsi a queste tematiche che, come si è capito, non
riguardano esclusivamente l’ambito manageriale o pratico della nostra professione.
L’utilità del testo è certamente quella di presentare un quadro di insieme che fotografa la
realtà professionale italiana offrendo spunti di riflessione sul piano normativo, disciplinare
e manageriale, in un momento nel quale molti colleghi faticano a trovare punti di repere
nel vorticoso sviluppo della nostra giovane professione.
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Personalmente penso che proprio per tali ragioni l’utilità della tesi sostenuta da Pennini
potrebbe essere nel prossimo futuro direttamente proporzionale alla capacità che avremo
di rafforzare proprio l’area di autonomia professionale. E’ bene ricordare infatti il monito di
Agazzi (Evandro Agazzi, Cultura scientifica e interdisciplinarità, Ed. La Scuola, Brescia,
1994, pag. 107-108), per il quale la vera interdisciplinarietà (e il suo riflesso
interprofessionale) si realizza a partire dal rispetto delle singole discipline. Viceversa,
senza la piena padronanza del singolo professionista di un preciso e solido apparato
disciplinare (teorie, metodi, strumenti e modelli organizzativi efficaci nella risoluzione dei
problemi assistenziali del paziente), si rischia di chiamare collaborazione ciò che in realtà
è subordinazione culturale o, peggio, deresponsabilizzazione professionale. Ma questo
rischio è ben chiaro all’autrice che, nel paragrafo dedicato al “Governo del processo
assistenziale”, richiamando Renzo Zanotti (Filosofia e teoria del nursing nella moderna
concettualità del nursing professionale, Piccin, Padova, 2010), spiega che “si governa
davvero il processo assistenziale quando si è consapevoli del risultato che questo può
apportare agli assistiti, quando la questione centrale diviene il ‘beneficio determinabile’ dal
nursing” (pag. 241), perché è questo che rende possibile l’indipendenza culturale e pratica
dell’infermiere.
Duilio F. Manara
Direttore della didattica professionale, Corso di Laurea in Infermieristica
Università Vita-Salute San Raffaele, Milano
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Mangiare per crescere, consigli per genitori in
gamba
Mauro Destino, Federico Marolla
Il Pensiero Scientifico Editore, 2014
pagine 352, euro 18,00
Un biologo specialista in Scienza dell’Alimentazione (Mauro
Destino) ed un pediatra di famiglia dedicato alla formazione e
alla ricerca (Federico Merolla), sono gli autori di questo libro,
un mix perfetto per un testo destinato al mondo di tutti coloro
che, a diverso titolo, si prendono cura dell’alimentazione del
bambino e dell’adolescente.
Ricco di narrazioni ed aneddoti, il testo consente una
ricorrente introspezione sul proprio stile alimentare.
Gli autori fotografano le abitudini alimentari del nostro Paese,
mettendo in evidenza un cambio radicale di tradizioni. La
memoria, ricca di melanconia, va al rituale del pranzo di una
volta, quando, all’atteso “tutti in tavola” faceva seguito una
consuetudine ricca di gesti abituali ma, al contempo,
rassicuranti. La felicità della famiglia nel riunirsi intorno al
tavolo da pranzo, andava oltre il semplice soddisfacimento di un bisogno primario.
Un’immagine antica che ha il sapore degli spot pubblicitari di oggi che, con una formula
vincente, ripropongono scene di vita familiare durante momenti quotidiani dedicati al
nutrimento.
“L’alimentazione ha un ruolo fondamentale per il nostro organismo. Rappresenta la vita
stessa.
Le conseguenze di una cattiva o insufficiente alimentazione sono le malattie e la morte”
(pag. 11).
E’ con questo messaggio netto che viene descritto il dilemma legato ai problemi alimentari
della società moderna, non più attribuibili alla fame ma alla cattiva educazione alimentare,
alla mancanza totale di regole, ad abitudini che perseverano nell’errore. L’ analisi di un
caso, una classica scena di vita domestica, renderà tangibile il nesso di casualità tra
sovrappeso e cattive abitudini alimentari che perdurano nei primi anni di vita del bambino.
Viene messo in evidenza che nessun manuale potrà mai essere sufficiente per dettare le
regole di una sana alimentazione.
Le differenze che esistono in ciascun individuo, le diversità presenti in ogni famiglia,
rendono impossibile dettare regole universali. “La verità è che la soluzione all’educazione
alimentare non può che risiedere in famiglia con le parole, i sentimenti e i modi di essere
dei genitori” (pag. 20).
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Alimentazione sana e famiglia diventano, quindi, un monismo indiscusso e inscindibile.
Il testo continua offrendo cenni sui principi alimentari, sull’ assorbimento, il metabolismo:
informazioni tecniche che non divengono mai troppo dotte da allontanare e scoraggiare il
lettore.
Al contrario, la lettura piacevole e ricca di messaggi essenziali, spazia dalla fisiologia
all’analisi antropologica alimentare.
La seconda parte del libro “Alimentazione in pratica” intraprende un paragrafo
decisamente interessante. Dal titolo “Una donna in buona salute fa la differenza” è un vero
e proprio vademecum per la donna, prima, durante e dopo la gravidanza. Consigli ed
informazioni arricchiti da evidenze. Gli autori si interrogano, per esempio, se gli accreditati
benefici di un’alimentazione ricca di pesce, possa giustificare l’ingestione di mercurio
contenuto in questi animali “a causa dell’inquinamento industriale” (pag. 73).
Gli ovvi benefici procurati al bambino dall’assunzione del latte materno, vengono esplicitati
con dovizia di particolari nel paragrafo 7. Consigli e schede illustrative che rispondono a
tutte quelle incertezze che, sempre, affollano la mente della neo-mamma, integrano
efficacemente il testo. La gradevolezza della lettura potrebbe sembrare turbata da una
testimonianza: la mamma del piccolo Tiziano che, con toni risoluti, dichiara il suo pensiero:
“Ho allattato 17 mesi la prima bambina e sono 17 mesi che allatto il secondo. Non ho
ceduto ai ricatti, ho perso il lavoro ma ne ho trovato un altro. Una mamma capace di
allattare è una mamma capace di superare ogni ostacolo” (pag. 88). La donna racconta la
storia del suo piccolo con tanta veemenza. Qui si potrebbe aprire un dilemma anche tra i
sostenitori dell’allattamento al seno, su quanto si possa su un’analisi approssimative,
correre il rischio di giudicare le donne che non possono percorrere analoghi percorsi.
Anche loro amano il loro piccolo ma talvolta, per tangibili motivi, o per la mancanza di un
sostegno adeguato, tempestivo e competente, possa essere necessario il ricorso al latte
artificiale, senza nulla togliere all’amore materno.
Gli autori, nel paragrafo dal titolo “Quando si usa il latte artificiale” (pag. 91) analizzano
anche questa evenienza mettendo in evidenza le regole da rispettare per una corretta
alimentazione artificiale. La mamma di Tiziano racconta, poi, di un mese trascorso in
isolamento in ospedale, ma non si comprende la circostanza nella quale le figure sanitarie
che menziona, avrebbero commesso gli errori da lei citati “Le infermiere e le pediatre
insistevano (addirittura sostenevano fosse colpa mia se stava male)…” (pag. 89).
Ma nelle pagine successive il libro continua ad ottenere i suoi effetti positivi. Una
cronistoria alimentare (e non solo) della vita del bambino che cresce per diventare
un’adolescente. Dalle prime pagine del libro gli aspetti sociologici e psicologici non
vengono mai trascurati, questo dato diventa ancora più evidente nell’analisi della vita
alimentare dell’adolescente. Per i genitori pagine da leggere e leggere nuovamente fino ad
assimilazione totale. Qualcuno diceva “essere genitori è il mestiere più difficile del mondo”,
una frase scontata ma ricca di verità. Questo è un libro utile quindi per chi si occupa
dell’alimentazione infantile (pediatri, infermieri, educatori, etc.), ma anche da suggerire alle
mamme e ai papà che si sentono parte di questa problematicità e che possono vivere le
abitudini alimentari/stili di vita del proprio figlio come un incognita di ardua soluzione.
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L'Infermiere n°6 / 2014
Il testo si chiude con un giocoso “e finalmente tutti a tavola!” (pag. 331). Una raccolta di
menù divisi per stagione ed arricchiti da appetitose ricette.
Mariagrazia Greco
Direttore attività Didattiche e di Tirocinio
C.L. Infermieristica Pediatrica
Università degli Studi di Napoli Federico II
Polo Didattico Santobono-Pausilipon - Napoli
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