Bene Comune e solidarietà Bergamo, 5 marzo 2011 " I cristiani non si distinguono dagli altri uomini..... Essi non abitano in città tutte per loro, non si servono di qualche dialetto strano; il loro modo di vita non ha niente di particolare.... Essi sono poveri e arricchiscono molti altri... . In una parola, ciò che è l'anima nel corpo, i cristiani lo sono nel mondo”. (Lettera a Diogneto) Premessa Lasciamo sullo sfondo del nostro dialogare cinque premesse: a) la relatività: il cristiano sa, proprio a partire dal suo orizzonte di fede, che la salvezza non verrà mai dalla politica. La politica può dare risposte concrete a bisogni immediati, ma non potrà mai dare risposte di fondo quali: da dove vengo? dove vado? perché sono al mondo. La politica è tutta posta nel cercare di acquisire i mezzi, gli strumenti per realizzare meglio i fini che una persona o un gruppo hanno, dei valori che si vogliono raggiungere. La politica può organizzare i mezzi, ma non può - da sola - organizzare i fini. b) la precarietà della politica, ovvero il tenere sempre presente che la politica, come ogni realtà umana. è tutta posta nella "scena di questo mondo che passa”. Il rischio è di cadere nell'integrismo, il sogno di cristianizzare le strutture politiche che permette all'uomo di salvarsi, o nella tentazione marxista, ovvero nel credere che solo la rivoluzione può cambiare l'uomo e il mondo. L'uomo in quanto povero, cioè finito, limitato può usare strumenti poveri per costruire il mondo, poveri rispetto ai fini che si vogliono raggiungere. c) vivere la politica da laico. Laicità non è separazione: è piuttosto il “correre la solo nella parzialità della politica” (A. Moro). Non vivendo alle spalle della istituzione Chiesa, ma rischiando del mio, di ciò che sono, sempre da cristiano. Vale anche il contrario, ovviamente. Non è che una persona è cristiana solo quando è “dentro il tempio”, dove compie i suoi riti e opera con le organizzazioni ecclesiastiche. E’ piuttosto vero il contrario, quando vive nel mondo e da un contributo a avvicinare il mondo al suo Creatore. d) vivere la politica come dovere di cittadino di mettere a servizio del proprio territorio, gratuitamente, onestamente, con spirito di servizio le proprie competenze per costruire una comunità. È il tema del “senso” con cui e per cui io mi metto a disposizione della comunità. Davvero noi pensiamo che la politica sia la più alta espressione della carità cristiana, come avrebbe detto Papa Paolo VI? e) la povertà della politica. Vi è una povertà relazionale della politica, che non ha più riferimenti di appartenenza. E’ una politica che non sa più interpretare il vissuto sociale ma che sembra vivere in un suo castello dorato. E’ una povertà di responsabilità nel senso che non ha più la voglia e la capacità di decidere per il bene. E’ allora una politica povera di futuro, che brucia tutto in brevissimo tempo. Se non c’è futuro non c’è speranza. Ed infine una politica povera perché si è svuotata di tutto e vive solo di medianicità, di immagine. Ciò che si vede piace. f) Infine, come bene ha detto il prof. Lazzati, questa grande figura del cattolicesimo del novecento, è opportuno ricordare come la politica è la fatica del governo giusto della città. E’ fatica perché una persona mette in campo la sua capacità di mediare continuamente tra le diverse posizioni, cercando un equilibrio degli interessi e delle aspirazioni. Governo perché si tratta di usare il “potere” e la propria autorità non per fini personali, ma per l’interesse di tutta una comunità. Il Cardinale Tettamanzi, in occasione della festività di Sant’Ambrogio, scriveva che “Governare la città significa farsi carico delle paure della sua gente e trovare una via d’uscita”1. Giusto perché si tratta da una parte di discernere i veri problemi che una città può avere e quindi stabilire priorità e ne contempo riuscire a cogliere, nel proprio paese le grandi potenzialità e le migliori opportunità che permettano la piena liberazione dell’uomo e, quindi, permettano a tutti di poter vivere da uomini liberi. Una comunità deve essere protettiva, cioè mettere ciascuno in condizione di vivere le proprie responsabilità e di assumerne di collettive. Città, perché la politica non è astrazione, non è cultura, ma è soprattutto applicazione di una propria cultura, di un modo di vedere l’uomo., la vita, la società in un certo ambiente storico, in un certo tempo storico. 1. Concetto di Bene Comune Il concetto nasce con Aristotele in Grecia. Resta invariato per tutto il corso della filosofia classica fino a Tommaso d’Aquino poi la lacerazione attuale. 1.1. Definizione classica: Nella Mater et Magistra del Beato Papa Giovanni XXIII (15 maggio 1961), si dice che Bene Comune è “l’insieme delle condizioni sociali che consentono e favoriscono negli esseri umani lo sviluppo integrale della persona” Nella costituzione sinodale Gaudium et spes (7 dicembre 1965) si afferma che è “l’insieme di quelle condizioni della vita sociale che permettono ai gruppi come ai singoli membri di raggiungere la propria perfezione più pienamente e speditamente”. Nella enciclica Caritas in veritate ritorna questo termine e categoria di pensiero: “Bisogna tenere in grande considerazione il bene comune. Amare qualcuno è volere il suo bene e adoperarsi efficacemente per esso. Accanto al bene individuale, c’è un bene legato al vivere sociale delle persone: il bene comune. È il bene di quel “noi-tutti”, formato da individui, famiglie e gruppi intermedi che si uniscono in comunità sociale”. Nel compendio della Dottrina sociale della Chiesa si dice che: 164 Dalla dignità, unità e uguaglianza di tutte le persone deriva innanzi tutto il principio del bene comune, al quale ogni aspetto della vita sociale deve riferirsi per trovare pienezza di senso. Secondo 1 D. TETTAMANZI, Per una città comunità vita, manoscritto, Milano, 2005, 2 una prima e vasta accezione, per bene comune s'intende « l'insieme di quelle condizioni della vita sociale che permettono sia alle collettività sia ai singoli membri, di raggiungere la propria perfezione più pienamente e più celermente ».346 Il bene comune non consiste nella semplice somma dei beni particolari di ciascun soggetto del corpo sociale. Essendo di tutti e di ciascuno è e rimane comune, perché indivisibile e perché soltanto insieme è possibile raggiungerlo, accrescerlo e custodirlo, anche in vista del futuro. Come l'agire morale del singolo si realizza nel compiere il bene, così l'agire sociale giunge a pienezza realizzando il bene comune. Il bene comune, infatti, può essere inteso come la dimensione sociale e comunitaria del bene morale. Nel linguaggio politico corrente il concetto di Bene Comune è però molto marginale. E’ utilizzato quasi soltanto all’interno del pensiero d’ispirazione cattolica. Si utilizzano altri concetti, simili ma distanti (interesse generale, bene pubblico, di felicità collettiva e via dicendo). Chi da cattolico insiste su questa centrale categoria di bene comune si trova in dialettica, in contrasto con altre visioni che sono caratterizzate da un’accentuazione della vita e dimensione collettiva (lo statalismo) della vita sociale e dall’altro (soprattutto negli ultimi vent’anni) da una concezione fortemente individualistica della vita sociale. Bene comune in questo secondo caso è inteso come sommatoria del benessere e della realizzazione individuale. La somma degli individui autorealizzantisi, sarebbe alla fine il bene comune (vedi rapporto welfare e economia). Come abbiamo visto la visione cristiana si caratterizza per questo fatto: il bene comune non è la sommatoria ma è la sintesi tra il bene della comunità in quanto tale e il bene dei singoli individui. Non è sufficiente una buona organizzazione della società se i singoli individui non vengono rispettati e valorizzati, ma neanche è possibile pensare che se i singoli individui si realizzeranno nella propria libera autonomia automaticamente ne derivi una società giusta all’interno della quale i valori che essa esprime possano realizzarsi. 1.2. “Derive” storiche del concetto di Bene comune Come direbbe il prof. Giorgio Campanini, nel corso della storia abbiamo assistito a diverse derive storiche entrate in rotta di collisione con il concetto di Bene Comune. Il prof. Campanini ne cita cinque. La prima grande rottura tra pensiero cattolico e modernità relativamente al concetto di Bene Comune si ha all’inizio del rinascimento che ha portato a derive quali lo scientismo: si lega la realizzazione del bene umano, della collettività al primato e alla valorizzazione della scienza, della sola scienza sperimentale. La scienza come via maestra per conseguire la felicità individuale e pubblica e/o collettiva. E’ il mito che della tecnocrazia che presuppone che suppone che la scienza in quanto tale abbia in se stessa la forza e la capacità di realizzare il bene della comunità. La seconda deriva arriva con il romanticismo che esalta la categoria di nazione: la felicità della nazione, l’unità nazionale, l’esaltazione delle tradizioni come fattore di coesione sociale ed insieme di realizzazione di un gruppo umano. 3 La deriva marxista che vede il bene comune come il bene della classe dominante, cioè del proletariato: una sola classe ha diritto all’esistenza nella società, gli altri no. La deriva razzista: solo all’interno di una razza dominante, di una razza eletta si può realizzare il bene comune; da ultimo la deriva individualistica, la deriva radicale, la dissoluzione del concetto di bene comune in quanto tale e la sua sostituzione con la semplice sommatoria degli individui, ciascuno dei quali mira alla propria realizzazione. L’ipotesi che una società in cui tutti liberamente possano realizzarsi sia alla fine anche una società felice, una società giusta. 1.3. Bene comune e deriva economicistica Il rischio che le società industriali avanzate come la nostra stanno correndo è quello di accettare non solo la deriva individualistica (no al bene comune ma solo perseguimento del bene individuale dei singoli) ma anche di considerare l’auto realizzazione della persona esclusivamente in termini economicistici. Il concetto di bene che non a caso è rifiutato sostanzialmente dalle culture dominanti, tanto a destra e a sinistra, presuppone un giudizio di valore: dire bene significa affermare che vi è anche un male, individuale e sociale. Si afferma che la politica non è il luogo all’interno del quale si devono esprimere giudizi di valore, ciò che è bene e ciò che è male, ma si deve piuttosto utilizzare la categoria di utilità. Si valuta cioè una società in relazione non all’astratto del “bene” ma al concetto di utilità e prevalentemente di utilità economica. Si sostituisce il perseguimento del bene con quello di utilità sociale intesa in termini di aumento della ricchezza nazionale e della ricchezza individuale: il mito del prodotto interno lordo. Bene comune si realizza nel momento in cui la quantità delle risorse disponibili per un determinato gruppo umano è costantemente crescente. Questa mentalità economicistica stà corrodendo la classica categoria di bene comune con quella di utilità sociale e ritiene che il bene sia tanto meglio perseguito quanto più aumenta il volume delle risorse disponibili. Al fine del nostro incontro è importante ricordare come il nostro welfare, da sempre, concepisca l’economia e il sociale come ambiti nettamente separati: prima si garantisce la crescita, poi a favore di quella fascia che è rimasta esclusa dai vantaggi dell’arricchimento economico, interviene il sociale, la redistribuzione gestita dallo Stato. La crescita cioè è un fatto puramente economico, indipendente da una riflessione su dove questa macchina ci possa condurre. Come bene ha detto il prof. Ceruti in un vostro precedente incontro, negli ultimi anni la macchina si è inceppata ed ecco che la logica subito dice non ci sono più soldi e quindi si devono ridurre i servizi (forse sarebbe meglio dire i soldi) da dare a chi è in difficoltà. L’attuale crisi economica, crisi prima di tutto culturale ci sta dicendo che il modello sociale proposto alle persone è stato quello dell’illusione di potercela fare da soli, di non avere bisogno degli altri: oggi ci si rende conto che è necessario mettere insieme le proprie competenze, riscoprendo il territorio, la relazione. Non è facile: siamo 4 ammantati di un forte risentimento personale e sociale ed ad un venir meno di una caduta della solidarietà. Nel contempo si consegna al mondo caritatevole l’onere di risolvere alcuni problemi sociali, dimenticando che la giustizia sociale è uno cardini del concetto di cittadinanza La crisi sociale odierna nasce da quattro elementi chiave: 1. Crisi fiscale dello stato cioè l’incapacità di aumentare la spesa pubblica 2. La crisi di legittimità delle politiche sociali. Le politiche sociali non vanno di moda. La maggior parte degli attori politici non credono che sulle politiche sociali si costruisca consenso. E questo vale per tutte le politiche occidentali. Il linguaggio della politica e della esperienza umana si sono separati. 3. Terza questione: il cambiamento demografico è impressionante: estensione delle aspettative di vita cambia il welfare e riguarda la presenza dell’immigrazione. E’ un cambiamento demografico. 4. I cambiamenti nelle modalità di organizzazione del lavoro: le carriere lavorative di destrutturano e si de-stantardizzano: ciascuna è differente. Si corre il rischio di perdere la speranza perché è la fatica di affrontare in modo sistemico i cambiamenti e stare sul livello di cambiamento. Occorra dire mille cose per non perdere la speranza ma senza essere minimalisti. 1.4. Bene comune e i valori non “utili” In questo contesto sono completamente fuori dalla utilità sociale non soltanto i valori dello spirito in senso lato, i valori religiosi, quelli etici ma una serie di altri valori che sembrano del tutto ininfluenti rispetto al problema della valutazione della utilità e quindi nella valutazione complessiva del prodotto interno lordo. Sono tematiche che vengono riproposte all’attenzione della comunità da parte dei gruppi critici dell’attuale società dei consumi, in particolare dai gruppi che hanno a cuore la causa dell’ambiente, la cultura ecologistica, i quali stanno riproponendo con forza il problema di una più corretta valutazione della felicità complessiva di un gruppo umano, in relazione alla qualità della vita. E’ più avanzata, realizza maggiormente il bene pubblico e/o individuale una società sempre più provvista di beni materiali o una società che ha meno beni materiali, ma che fa emergere e affermi altri valori non monetizzabili, non misurabili? E quali sono i valori non monetizzabili che io pongo a obiettivo del mio agire? Concretamente a cosa potremmo pensare. La nostra Italia deve essere misurata e valutata in base alla disponibilità di reddito (noi siamo inferiori ad altri paesi) ma anche per la qualità del suo paesaggio, per la ricchezza del suo patrimonio culturale, per gli stili di vita che lo caratterizzano. Certo, dobbiamo guardarci dal mito del buon selvaggio, dalla natura incontaminata o dai paesi similari (il mito di Russeaou) ma al di là di questo mito romantico ci si deve domandare se il livello 5 di vita complessivo, il bene essere, il bene comune, sia garantito esclusivamente dalla disponibilità di beni economici ma anche da altri fattori. Un esempio significato a tale proposito è il rapporto tra famiglia e società. Famiglia come comunità decisamente influente sulla società: Una società molto ricca da un punto di vista materiale, in cui la famiglia è disgregata e/o dissolta, da un punto di vista della condizione dei suoi esseri e gruppi umani è veramente più avanzata perchè il suo PIL è più alto o è più arretrata nel senso che la qualità della vita dipende dalla rete dei rapporti familiari, dal dialogo nella famiglia, dal riconoscimento del coniuge e dei figli? Non è assolutamente detto, anzi è smentito da specifiche ricerche sociologiche che la gratificazione, la felicità individuale è corrispondente alla qualità dei beni che si hanno a disposizione. Avere un successo personale e avere alti stipendi, non compensa la rottura della comunità familiare, la mancanza di relazioni, l’essere esclusione dalla comunità. Il discorso vale anche per i grandi gruppi umani, per le grandi società: chi ha il PIL non è detto che siano più gratificanti e gratificate. Altro esempio significativo il rapporto tra terzo settore, quarto settore e istituzioni pubbliche. La solidarietà del volontariato è relazione non risparmio economico. 2. Politiche sociali e Istituzioni Pubbliche I compiti dei Comuni e delle Province La Costituzione proclama che “le funzioni amministrative sono attribuite ai Comuni salvo che, per assicurarne l’esercizio unitario, siano conferite a Province, Città metropolitane, Regioni e Stato, sulla base dei principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza” (art. 118, comma 1°). Già il d.lgs. 267 del 2000 affermava che “spettano al Comune tutte le funzioni amministrative che riguardino la popolazione ed il territorio comunale ... salvo quanto non sia espressamente attribuito ad altri soggetti dalla legge statale o regionale”. I settori principali sono individuati dalla legge (art. 13 d.lgs. 267): servizi alla persona e alla comunità (nella cui dizione il precedente d.P.R. 616 faceva rientrare: la polizia locale urbana e rurale, l'assistenza sociale e quella scolastica, l'igiene pubblica, come controllo delle malattie infettive, abitabilità degli alloggi, gestione dei cimiteri, ecc.); assetto ed utilizzazione del territorio (pianificazione urbanistica, concessioni edilizie, edilizia scolastica elementare e media, assegnazione degli alloggi di edilizia economica-popolare); sviluppo economico (pianificazione e licenze commerciali, mercati comunali, esercizi ricettivi non alberghieri, attività ricreative e sportive). Inoltre vi sono i servizi pubblici locali (trasporti, acqua, gas, nettezza urbana, illuminazione pubblica, ecc.). Non bisogna poi dimenticare che, nello svolgimento delle funzioni assegnate, “i Comuni, anche su base di quartiere o di frazione, valorizzano le libere forme associative e promuovono organismi di partecipazione popolare all'amministrazione locale” (art. 8, comma 1, d.lgs. 267 del 2000) e in modo analogo devono agire le Province. Primo obiettivo delle politiche sociali Un primo obiettivo delle politiche sociali è essere quello di realizzare un’effettiva uguaglianza di opportunità fra tutti gli esseri umani (in particolare almeno tra i cittadini di uno stesso paese): 6 riconoscendo che ogni persona, qualunque sia la sua condizione, è portatrice di fondamentali diritti che devono essere attuati; adoperandosi perché possano essere effettivamente rimosse tutte quelle condizioni personali o sociali negative che di fatto rendono difficile il pieno sviluppo della personalità e il concreto godimento dei diritti2. Vorrei qui fare un preciso riferimento, non tanto alla storia del welfare, quanto piuttosto a quello che a mio avviso è oggi l’attuazione “ideologica” della costruzione di uno stato sociale. Nei paesi occidentali, anche in Italia, il dibattito sui sistemi di welfare si concentra sui caratteri alternativi dei due modelli oggi dominanti e che sono gradualmente applicati su scala nazionale e regionale Sono caratteri che si basano sulla diversa valutazione che, culturalmente e politicamente, viene data al principio di solidarietà e a quello di responsabilità personale: Chi fa prevalere il principio di solidarietà e di condivisione, per promuovere il bene comune, ritiene che certi risultati possono essere conseguiti solo con un grande sforzo solidale, che veda cointeressati diversi centri di responsabilità: persone, famiglie, gruppi sociali, imprese, istituzioni. Chi invece antepone il principio di responsabilità personale a quello solidaristico ritiene che l'individuo sia il principale responsabile del proprio destino, anche quando gli svantaggi e gli ostacoli sono pressoché insormontabili, anche quando è a tutti evidente che molto spesso, fare appello alla libera scelta personale, equivale ad abbandonare al proprio destino molte persone e famiglie tagliate fuori dal paniere delle pari opportunità. Si pensi ai soggetti senza dimora o con lunghe carriere di povertà alle spalle, per i quali non è possibile pensare a forme di vita autonoma e di inserimento sociale prive di una qualche forma di accompagnamento , orientamento e sostegno da parte dei servizi sociali. Più in generale, si pensi alla povertà oggi presente, non solo quella di carattere economico (povertà assoluta o povertà relativa), ma anche a quelle forme di vulnerabilità sociale, di fragilità sociale che portano a forme di emarginazione e di devianza. In realtà sarebbe ingenuo sostenere che un’attenuata responsabilità personale possa essere sostituita da una responsabilizzazione diffusa e solidaristica. I comportamenti opportunistici, sempre in agguato, favoriscono i rischi di assistenzialismo, più presenti nei sistemi universalisti. Ma è ugualmente miope sostenere prospettive basate sulla libera scelta delle persone, 2 L’articolo 1 della Legge istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale recita: “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività mediante il servizio sanitario nazionale. La tutela della salute fisica e psichica deve avvenire nel rispetto della dignità e della libertà della persona. Il servizio sanitario nazionale è costitutito dal complesso delle funzioni, delle strutture, dei servizi e delle attività destinati al mantenimento ed al recupero della salute fisica e psichica di tutta la popolazione senza distinzione di condizioni individuali o sociali e secondo modalità che assicurino l’eguaglianza dei cittadini nei confronti del servizio. L’articolo 1 della Legge quadro 328/00 recita: La Repubblica assicura alle persone e alle famiglie un sistema di interventi e servizi sociali, promuove interventi per garantire la qualità della vita, pari opportunità, non discriminazione e diritti di cittadinanza, previene, elimina o riduce le condizioni di disabilità, di bisogno e di disagio individuale e familiare, derivanti da inadeguatezza di reddito, difficoltà sociali e condizioni di non autonomia, in coerenza con gli articoli 2 (La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali, ove si svolge la sua personalità e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale), 3 (Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge…… E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana….) e 38 (Ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha diritto al mantenimento e all’assistenza sociale…….). 7 evitando di riconoscere che nei paesi in cui sono state attuate evidenziano molti punti di debolezza e di sostanziale iniquità. Secondo obiettivo delle politiche sociali Un secondo obiettivo delle politiche sociali è sempre stato quello di sviluppare la solidarietà tra le persone, perché molti fondamentali bisogni dell’essere umano non possono essere appagati né dal diritto né da una rete, anche perfetta, di servizi, ma possono trovare una risposta solo nell’incontro di una persona con una persona, di una vita con una vita. Il terzo settore nasce come portatore di “relazione umana, profezia perché anticipatore di risposte a bisogni emergenti. Oggi è considerato più nella sua versione di impresa sociale. Un tema che subito si affianca a questo è appunto lo sviluppo del Terzo settore, che ha avuto una forte esplosione a partire dagli anni ’80. Terzo settore che gradualmente diventa impresa sociale, ovvero impresa che si colloca tra il mercato e lo Stato, che colloquia e collabora con entrambi ma che si dota di una sua autonomia decisionale, economica e giuridica, proprio perché fonda le sue radici su un’etica della solidarietà, su un’etica del no profit. Mi interessa richiamare il ruolo del volontariato. Mai come in questi ultimi tempi gli si sta affidando uno specifico ruolo nella attuazione delle politiche sociali. Non c’è legge, non c’è progetto di politica sociale che non veda coinvolto, almeno formalmente il volontariato. E’ una risorsa fortissima per il territorio. Ma è una risorsa che mano a mano diventa più professionalizzante e tecnicamente competente, perde di vista sia l’aspetto quantitativo, sia l’aspetto della gratuità, dello stile. Rappresenta sempre di più una risorsa che si vuole inserita nel sistema sociale. Per alcuni addirittura diventa una risorsa fund raising, cioè specializzata non tanto nel diffondere una cultura di solidarietà, quanto piuttosto una meccanismo per raccogliere soldi, per fare marketing, per fare mercato. E io aggiungo, per fare servizi a basso costo. Un ulteriore motivo di approfondimento, legato appunto a quanto appena detto, è proprio legata alla constatazione del venir meno di una grande spinta solidaristica. Alla solidarietà tra le persone e i gruppi, si stà sostituendo una sorta di diffuso contrattualismo, non solo nel senso di scambi interpersonali per cui si da e si riceve, ma anche nel senso che chi più ha potere contrattuale ha maggiori possibilità di rapportarsi con gli altri da una posizione di forza che rende sperequato il rapporto. Mi capita spesso di sottolineare come la nostra società sia caratterizzata da una crisi della rappresentanza: i meno rappresentati, i più poveri tra i poveri nessuno li rappresenta e, quindi, nessuno li tutela. E’ il rischio della costruzione dei Piani di Zona. I poveri “più forti” diventano priorità, diventano motivo di attenzione; gli altri non esistono, diventano figli di un volontariato riparatore ma non capace di garantire e tutelare la giustizia sociale, il diritto alla cittadinanza. Terzo obiettivo Un terzo obiettivo delle politiche sociali è sempre stato quello di assicurare a tutti effettiva cittadinanza: non solo l’appagamento dei diritti fondamentali ma anche la concreta possibilità di sentirsi e di essere soggetti di storia individuale e collettiva. Possiamo veramente e seriamente affermare: 8 che il cittadino conta veramente nelle scelte e negli indirizzi della vita sociale? Che la partecipazione è oggi non puramente formale ma effettiva? Che le possibilità di controllo del potere e del suo modo di gestirlo sono reali? Che l’appartenenza all’intera comunità non sia posposta all’appartenenza a gruppi o clientele cui solo vengono assicurati privilegi? Potremmo rileggere alcune parti della storia dello stato sociale alla luce di questa capacità di avere assicurato a tutti effettiva cittadinanza e non solo a gruppi più forti, o economicamente o socialmente che contano di più in un territorio. L’ambito delle politiche sociali Secondo uno studioso sociale (Donati – 1998)3 sette sono le voci che comprendono il pacchetto dei “diritti sociali di cittadinanza”: 1. Le politiche di garanzia e di sostegno del reddito. Sono le politiche chiamate di sicurezza sociale che normalmente sono costruire attorno a tre grandi sottosistemi: il sistema previdenziale, il sistema delle assicurazioni, in parte obbligatorie ed in parte discrezionali, il sistema fiscale. 2. Le politiche sanitarie che si distinguono in due specifici filoni: la prestazione in servizi (che comprendono l’assistenza medica, i farmaci e la possibilità di fare esami sanitari) e la prestazione in denaro che aiuta la persona ammalata a mantenere il suo reddito nel periodo in cui non è in grado di lavorare. I modelli sanitari prevedono o il Servizio Sanitario Nazionale oppure il modello assicurativo. 3. Le politiche dei servizi sociali, cioè gli aiuti a persone socialmente deboli e non in grado di far fronte autonomamente a bisogni di vita quotidiana. 4. Le politiche per l’alloggio che dovrebbero tendere a garantire a tutti i cittadini la possibilità di usufruire di un alloggio, considerato un fattore importante per il benessere. 5. Le politiche attive per il lavoro. Il lavoro non inteso solo come fonte di reddito, ma anche come momento per maturare la propria identità ed autostima. 6. Le politiche per l’istruzione 7. Le politiche ambientali 3. Il fallimento di una visione economica del Bene Il rapporto tra crescita del prodotto interno lordo e qualità della vita e per noi bene comune è messo in discussione oggi dalla crisi economica e sociale che ci ha consegnato la storia. Bene comune non equivale in alcun modo alla crescita economica di un gruppo, anche se è necessario che un minimo di risorse è necessario siano poste a disposizione di tutti gli individui. Abbiamo appena celebrato lo scorso anno l’anno europeo di lotta alla povertà. Nel documento prodotto da Caritas Europa, come contributo a questo anno inizia così: “La povertà è uno scandalo”. Forse, per essere più efficaci alle diverse forme di esclusione sociale che affliggono anche il nostro territorio e quelli di tutto il pianeta, dovremmo porre questa affermazione all’inizio di ogni e qualsiasi ragionamento. 3 P. DONATI, Ripensare il welfare, Ed Angeli, Milano, 1998 9 Ha senso assumere un impegno di lotta alla povertà solo se abbiamo il coraggio di riconoscerla come intollerabilmente scandalosa. Se non vogliamo solo disquisire della povertà degli altri, bisogna che si sconfigga qualsiasi atteggiamento rassegnato (“sarà sempre così”) o colpevolizzante (“se la sono voluta”)4. L’attuale crisi economica, pure presente è piuttosto una crisi culturale: è l’illusione di potercela fare da soli, di non avere bisogno degli altri ed invece si è costretti a mettere insieme le competenze; vi è un forte risentimento personale e sociale ed un venir meno di una caduta della solidarietà; si consegna al mondo caritatevole l’onere di risolvere alcuni problemi sociali, dimenticando che la giustizia sociale è uno cardini del concetto di cittadinanza. Un primo elemento da sottolineare riguarda proprio i “vulnerabili”. Costoro sono paragonati ai miserabili, a persone da nascondere dal contesto territoriale e culturale, persone da inviare alle associazioni caritatevoli. E’ così oppure no. Non dimentichiamo che circa il 10% delle persone lombarde ha nelle sue disponibilità circa il 50% di tutto il reddito prodotto in Lombardia. Circa il 50 % dei lombardi ha disposizione il 10% di tutto il reddito. La crisi economica non è un’operazione da beneficienza compassionevole. Ma quello di cui noi stiamo parlando avviene anche qui nel cuore del sistema produttivo del capitalismo italiano, cioè la Lombardia, la ricca terra lombarda. Non è quindi un qualcosa che riguarda stati del terzo mondo, oppure il tanto bistrattato sud italiano, ma è qui, a casa nostra, nella invisibilità dei nostri paesi Un terzo elemento interroga su come si diventa vulnerabili: per perdita di occupazione; non ci sono ammortizzatori sociali, specialmente per tante persone assunte con contratti strani e quindi rimasti facilmente a casa senza coperture economiche; per i fallimenti delle piccole impresine, dei progetti di vita delle persone. Alla fine discutiamo della “lotta” tra garantiti” e non garantiti nei confronti della crisi, situazione che diventa questione sociale nei territori. Alla fine allora chi diventa facilmente vulnerabile sono i precari, gli operai, i piccoli commercianti e i piccoli imprenditori. Ciò avviene in un contesto sociale profondamente mutato negli ultimi dieci anni. Con un dodici/quindici per cento di immigrati pensare ancora a vecchi stereotipi pare fuori luogo: è cambiato il concetto di classe sociale, di ceto e, per certi versi anche di nazionalità. La vera crisi sociale è probabilmente tra chi ha dei diritti acquisiti e non li vuole “mollare” e chi, soprattutto giovani si trova a non avere nulla o quasi. “Fino a quando voi mi lasciate a questo posto mi opporrò con energia massima a tutti i soprusi dei ricchi e dei potenti. Non lascerò senza difesa la parte debole della città…. Tutta la vera politica sta qui: difendere il pane e la casa della più gran parte del popolo italiano… Il pane (e quindi il lavoro) è sacro; la casa è sacra; non si tocca impunemente né l’uno né l’altro. Questo non è marxismo: è 4, AA.VV., Dalla crisi nuove sfide per il territorio, CARITAS AMBROSIANA, 2010 10 Vangelo”5. Questo è quanto diceva Giorgio La Pira, Sindaco di Firenze in un tempo nel quale le possibilità di intervento di un Sindaco in alcune materie, quali la casa e il lavoro erano davvero molto limitate (è la fantasia della politica che sa ricercare strade nuove quando si hanno capacità e voglia di ricercarle. Se pensiamo al compito dei politici, degli amministratori locali, come non ricordare che, per il Sindaco Giorgio la Pira, l’architettura della città terrena nasce dalla contemplazione e dalla imitazione della città celeste. E la città celeste è anzitutto il luogo della pace e della comunione. Un progetto “semplice” per la città: la città deve poter dare a tutti nell’ordine, una Chiesa per pregare, una casa per amare, un’officina per lavorare, una scuola per imparare, un ospedale per guarire. Anche le dimensioni della città terrena sono dettate dalla città celeste. Esse sono l’altezza (il mondo dei valori), la lunghezza (la storia passata), la larghezza (la sua apertura sul mondo). Il suo impegno era così statutariamente orientato. In particolare la sua attenzione fu diretta all’ultima delle tre dimensioni6. “Le città hanno un loro volto caratteristico e, per così dire, una loro anima e un loro destino: esse non sono occasionali mucchi di pietre, ma sono le misteriose abitazioni di uomini e, vorrei dire di più, in un certo modo le misteriose abitazioni di Dio: gloria Domini in te videbitur”7. 4. Altri problemi aperti nel concetto di Bene Comune Attorno al tema di bene comune, accenniamo ad altri due problemi aperti, sui quali il magistero della Chiesa ha molti insistito a a partire dalla “populorum progessio”: si è realizzato una estensione del concetto tradizionale di bene comune. Nella tradizione classica si vede come il bene comune è riferito tradizionalmente alla città, alla polis, al bonum commune civitati in Tommaso d’Aquino. Ovvio che all’interno della polis greca o del comune medioevale non si potesse concepire la dimensione universalistica del bene comune. Si sono verificate due “dilatazioni” del concetto di bene comune: la dilatazione nello spazio e nel tempo. 4.1 Estensione nello spazio del concetto di Bene Comune In che senso si deve parlare di bene comune relativo allo spazio? Il grande tema della populorum progressio , della sollecitudo rei sociali e dei caritas in veritate: è l’idea e la convinzione che oramai il mondo è una grande e unica famiglia. Lo è sempre stata ma questa percezione era impossibile quando non si aveva nessuna conoscenza degli uomini e delle donne che vivevano in altre parti del mondo (pensiamo solo al rapporto tra Cristoforo Colombo e le popolazioni delle isole dell’America centrale. Si entrava a contatto con un mondo e i teologi discutevano se gli indios avevano e meno un’anima. Dalla risposta formulata dipendeva il concreto trattamento degli indios, se cioè considerarli specie umana o altro). Oggi si afferma l’esistenza di una famiglia umana universale radicata nella coscienza comune, soprattutto 5 G. LA PIRA, Lettera al Segretario della Democrazia Cristiana, in Dossier Lazzati, pag. 23s G. FROSINI, In politica da cristiani, Editrice Esperienze, Frossano (CN), 1994, pag. 55 e ss 7 G. LA PIRA, Le città sono vive (Discorso pronunciato a Ginevra il 12 aprile 1954), Ed. La Scuola, Brescia, 1978, p. 27 6 11 delle giovani generazioni che avvertono questa esigenza di farsi carico di cosa succede nelle varie parti del mondo. Altra cosa è affermare genericamente la comune umanità di tutti gli uomini, altra cosa è affrontare i rapporti tra le diverse parti del mondo. Prendere sul serio il principio di un’unica famiglia, della fraternità, importa una revisione profondo dei propri stili di vita, del proprio rapporto con l’economia, delle proprie attitudini, per esempio in tema di riconoscimento dei diritti dell’uomo, in ogni parte del mondo. Molti comportamenti, molti stili di vita dell’occidente, sono antitetici al perseguimento e alla realizzazione del bene comune, della comunità degli uomini. La organizzazione delle società occidentali si è fondata (ci piaccia o meno) sulla categoria della esclusione di altre società, esclusione che ha assunto dapprima la forma del dominio e/o del colonialismo e successivamente con l’abbandono delle società diverse da quella occidentale. Il concetto di bene comune universale, implica invece l’inclusione di questi gruppi sociali. Ma l’inclusione è dolorosa, è faticosa, è difficile. Implica una revisione profonda degli stili di vita, di organizzare la vita sociale. Se prendiamo sul serio il concetto di bene comune universale, (Populorum progressio di Paolo VI) vediamo che tutto il nostro modo di concepire la società, dalla politica commerciale, alla migrazione, è assoggettato ad una profonda revisione. Il fondamento etico di questo concetto di “bene comune universale” che non deve rimanere semplicemente un astratto ideale, un principio al quale genericamente fare riferimento, ma un criterio orientatore delle decisioni politiche all’interno di ciascuno stato, di una grande comunità di stati (Europa). Quali siano le compatibilità e quali la incompatibilità tra la ricerca dei beni comuni particolari e il bene comune universale, perché comportamenti posti in essere in alcune aree del mondo vanno in senso contrario agli interessi di altre aree del mondo. E’ un bene particolare quello delle aree sviluppate che entra in collisione con quello delle aree povere a crescere almeno a livello di riposta a bisogni primari. Questo conflitto è di solito inavvertito: quasi nessuno dei cittadini della ricca Europa si rende conto di come i suoi comportamenti e stili di vita hanno su altre aree del mondo. Paradigma di questa schizofrenica fra comportamenti locali e globalizzazione è il tema del rapporto tra immigrazione e le istituzioni pubbliche locali E’ l’idea di una nuova cultura solidaristica come presupposto e base di una nuova “etica della responsabilità” in cui, per riprendere e parafrasare la famosa regola etica di Kant; regola d’oro “agisci in modo che tutti gli uomini possano godere dei diritti che ti sono riconosciuti e usufruire dei beni di cui tu stesso godi”: 12 E’ la regola della solidarietà e fraternità, attuata e regolarizzata attraverso nuovi stili di vita a livello mondiale ma anche locale. Da una situazione particolaristica si giunge ad una situazione universale b) La solidarietà come principio sociale e come virtù morale8 193 Le nuove relazioni di interdipendenza tra uomini e popoli, che sono, di fatto, forme di solidarietà, devono trasformarsi in relazioni tese ad una vera e propria solidarietà etico-sociale, che è l'esigenza morale insita in tutte le relazioni umane. La solidarietà si presenta, dunque, sotto due aspetti complementari: quello di principio sociale9 e quello di virtù morale10. La solidarietà deve essere colta, innanzi tutto, nel suo valore di principio sociale ordinatore delle istituzioni, in base al quale le “strutture di peccato”11 che dominano i rapporti tra le persone e i popoli, devono essere superate e trasformate in strutture di solidarietà, mediante la creazione o l'opportuna modifica di leggi, regole del mercato, ordinamenti. La solidarietà è anche una vera e propria virtù morale, non un “sentimento di vaga compassione o di superficiale intenerimento per i mali di tante persone, vicine o lontane. Al contrario, è la determinazione ferma e perseverante di impegnarsi per il bene comune: ossia per il bene di tutti e di ciascuno, perché tutti siamo veramente responsabili di tutti”12. La solidarietà assurge al rango di virtù sociale fondamentale poiché si colloca nella dimensione della giustizia, virtù orientata per eccellenza al bene comune, e nell'« impegno per il bene del prossimo con la disponibilità, in senso evangelico, a "perdersi" a favore dell'altro invece di sfruttarlo, e a "servirlo" invece di opprimerlo per il proprio tornaconto (cf. Mt 10,40-42; 20,25; Me 10,4245; Le 22,25-27) »13. 4.2. Estensione nel tempo del concetto di Bene Comune La seconda frontiera è ancora poco affrontata: è più difficile e complessa. La dilatazione del bene comune, nel tempo, oltre il tempo degli attuali viventi, ai “diritti” delle nuove generazioni che verranno dopo di noi. Perché tra virgolette? La nostra cultura giuridica si è sempre fondata sulla coincidenza tra il godimento di un diritto e l’esistenza in vita. Si ferma a questo spazio. I diritti sono titolari perché viventi. E chi viene dopo?? Coloro che devono ancora nascere, sono uomini e donne senza diritti. E tuttavia se noi decliniamo il principio di responsabilità in senso proprio, dobbiamo renderci conto che una corretta interpretazione del concetto di bene comune implica un’assunzione anche di responsabilità noi confronti delle generazioni dei futuri viventi. Nessuna generazione di uomini ha ipotizzato la presenza di diritti nelle future generazioni: non hanno un titolare, nessuno che si fa carico della loro tutela. E i diritti dell’aria pulita, a contemplare un bene artistico di chi sono? Se voglio demolire una struttura architettonica per far posto ad una strada o a un supermercato, a chi ne 8 AA.VV. Compendio della dottrina sociale della Chiesa, Libreria Editrice Vaticana, 2004, Città del Vaticano, pag. 107 e ss. 9 Cfr. Catechismo della Chiesa Cattolica, 1939-1941. 10 Cfr. Catechismo della Chiesa Cattolica, 1942. 11 GIOVANNI PAOLO II, Lett. enc. Sollicitudo rei socialis, 36.37: AAS 80 (1988) 561-564; cfr. GIOVANNI PAOLO II, Esort. ap. Reconciliatio et paenitentia, 16: AAS 77 (1985) 213-217. 12 GIOVANNI PAOLO II, Lett. enc. Sollicitudo rei socialis, 38: AAS 80 (1988) 565-566, 13 GIOVANNI PAOLO II, Lett. enc. Sollicitudo rei socialis, 38: AAS 80 (1988) 566. Cfr. inoltre: GIOVANNI PAOLO II, Lett. enc. Laborem exercens, 8: AAS 73 (1981) 594- 598; GIOVANNI PAOLO II, Lett. enc. Centesimus annus, 57: AAS 83 (1991) 862-863. 13 rispondo? Qual è il valore della “memoria storica” Coloro che nasceranno dopo di noi non hanno nessun potere decisivo. Le generazioni future hanno dei diritti. Concettualmente lo dobbiamo riconoscere ma non hanno nessuna possibilità di farsi rivalere. Ma anche un secondo tema: il tema della tutela degli interessi di chi non ha voce. Le amministrazioni pubbliche chi vogliono primariamente tutelare? 5. Costruzione una cultura politica orientata al bene comune Come abbiamo visto c’è una mentalità sempre più diffusa e maggioritaria che identifica il bene comune con la massimizzazione dei beni economici: il mito del prodotto interno lodo, il mito dello sviluppo, la nostra società deve crescere, il suo cammino di crescita. Decodifichiamo il termine “crescita” e chi ne ricorre mai pensa alla capacità di contemplazione, alla crescita di cultura musicale, alla comprensione di una opera d’arte, alla crescita di godere la bellezza di un paesaggio. Si parla di crescita solo in economia e sviluppo materiale. Per i credenti occorre una reazione decisa in nome della concezione cattolica di bene comune: la crescita e lo sviluppo di una società non sono concepibili in termini soltanto economicistici: crescere in una nuova cultura della solidarietà. Crescere nella dimensione relazionale della fraternità (Caritas in veritate parla molto di fraternità). I grandi esperti politologi sorridono a questa idea della fraternità: pensiamo a produrre a lavorare e costruire, la fraternità è un optional, ne possiamo fare a meno. Di fronte a queste affermazioni la cultura cattolica sappia recuperare la dimensione insostituibile della solidarietà la fraternità, soprattutto in una società particolarmente “risentita” come l’attuale. Certamente c’è un “piccolo” scoglio da affrontare: il problema della ricerca del consenso, il consenso sociale in particolare. Molti di noi a priori sono d’accordo sull’idea di solidarietà e fraternità: riduco anche il mio stipendio purchè possa vivere bene in una comunità. Questo tipo di proposta incontra i sorrisi dei soloni della politica e a volte l’opaco silenzio dei cittadini comuni. Le politiche che puntano sulla qualità della vita, sull’incentivazione del livello delle relazioni, sul godimento di beni anche di tipo spirituale, hanno sicuramente un limitato consenso sociale: i consensi, i voti, vanno a chi propone più crescita, più aumento di stipendio, più risorse disponibili. Tutti ne siamo contagiati da questa politica economicistica. Chi vuole perseguire la causa del bene comune e concorrere a superare la riduzione economicistica del bene comune, si deve far carico di un mutamento del sentire comune dei cittadini, che sono ormai diffusamente contagiati da questa mentalità economicistica. 14 Proporre una diversa visione della politica, fondata non sul perseguimento degli interessi immediati ma sulla capacità di guardare lontano e porre al centro l’attenzione alla persona umana, con un passaggio da una concezione debole ad una concezione forte di politica, politica legata ai valori ma anche ad una ragionevole capacità operativa, in funzione dell’ottenimento del consenso, tipico di una democrazia. Il ruolo delle comunità cristiane in quanto tali è quello di essere coscienza critica della democrazia. La democrazia è assoggettata al rischio delle cadute, delle assoggezioni, delle perdite di valori. Si guarda oltre superando la logica particolaristica, pure legittima ma troppo legata ad una concezione economistica. La via maestra è la formazione di persone sensibili a questi temi: è un compito formativo che la Chiesa ha in parte abbandonato, dalle omelie alla catechesi:; vi è un arretramento complessivo della comunità cristiana alla attenzione agli aspetti sociali della vita. Siamo in una concezione privatistica, di parte in causa con la paura di sentirsi accusata di partecipare. Quattro atteggiamenti e/o nodi: La territorializzazione Territorializzazione: stante i problemi riduciamo la gestione del welfare e portiamolo sul territorio, laddove si vedono meglio la specificità dei bisogni e le risorse e i potenziali , cioè le risorse che si potrebbero attivare (dai patrimoni immobiliari, alle rendite, dalle risorse formali a quelle informali). L’integrazione Secondo principio: integrazione. Sui territori si mettono insieme ciò che si ha, ciò che si può unire evitando che una persona sia costretta a girovagare per trovare la risposta ad un suo bisogno. Introdurre dei principi di programmazione che dicessero una cosa banale: è la società locale, nei suoi corpi intermedi, istituzionali e non a programmare strategicamente. Non è compito dell’individuo perché esso è troppo affaticato ai rischi che corrono. Si introduce il termine nuovo di vulnerabilità: ciò che è problematico non è il povero, il disagio ma il rischio di cadere in disagio, l’essere vulnerabile. La parola chiave diventa “implementare” nei territori. Sono fatiche impressionanti che vanno comprese nella loro ragione profonda: uno Stato che erogava prestazioni, aveva una sua programmazione centralizzata, fa fatica a trovare le competenze per programmare socialmente e cercando risorse che non sono solo sue proprie. E una società civile abituata a chiedere, a rivendicare, a lamentarsi che fa fatica a trovare le competenze per entrare nella programmazione sociale, per pensare il welfare dei propri territori. Anche a Bergamo ci sono ad esempio territori con una spesa sociale abissale rispetto a paesi limitrofi, in positivo ma anche in negativo. Qualche posto spende tre volte tanto un posto che è semplicemente di fianco. Luoghi in cui la promozione sussidiaria del terzo settore è valore aggiunto, altri in cui ci sono gerarchie dure conflitti forti e inconcepibili con esclusione di soggetti a vantaggio di altri. 15 La giustizia sociale I diritti sociali dicono il bisogno di dare a ciascun cittadino quanto gli è dovuto non per concessione ma per giustizia. Dobbiamo di nuovo ritornare indietro nel tempo. Quando i welfare sono stati creati la logica era quella di un investimento. L’idea era che a ridurre le diseguaglianze e a proteggere dai rischi, lo stato, la collettività, le comunità avrebbero ricevuto qualcosa indietro, anche da un punto di vista economico. Il welfare era una logica di investimento: welfare vuol dire più benessere e quindi più consumi; più benessere uguale meno povertà, ecc. Progressivamente la spesa sociale da spesa di investimento è diventata solo come costo, in una logica di brevissimo periodo. Questo investimento è fatto oggi ma non si vede il “ritorno” se non tra cinque e dieci anni. Ma io non posso aspettare un possibile consenso politico tra cinque –dieci anni. Oggi la protezione sociale ha dei sistemi di brevissimo tempo, legata alla crisi. Il ciclo è quello della politica, degli eletti: si fa fatica a pensare investimenti nel medio e lungo periodo. Una coesione sociale che tessa i legami non solo fra i più forti, in cui nel tessere i legami si sia molto precisi: una società per tutti, anche per gli ultimi. Non ci nascondiamo dietro un dito: di cosa siamo debitori, più che creditori da parte dei gruppi rom, il gruppo più odiato dal razzismo attuale? Certo che ci sono problemi, grossi problemi, anche di devianza e criminalità. Come rimettiamo insieme i pezzi della società? La partecipazione La partecipazione del terzo settore è diventata un campo di tensione centrale. É stata promossa e ostacolata, ricercata e temuta dentro il processo di costruzione del consenso: è il decreto che definisce delibere, determine e circolari. Sono perciò in chiave amministrativa, con delega alla Giunta e senza possibilità di dibattito. L’assenza di discussione ha atrofizzato le capacità di critica del terzo settore. Disattenzione dei media , la tecnicizzazione del welfare per decreto, hanno indebolito la capacità di promuovere un linguaggio inclusivo. Sempre meno si parla del valore della gratuità, dell’onestà, del servizio, della fiducia, della legalità e della reciprocità elementi etici di una presenza da laici sia a livello personale che in forma organizzata. Conclusioni Aleggia sempre la domanda di fondo: come si concretizza il Bene Comune nella costruzione di una comunità? In altri termini, come è possibile promuovere una cittadinanza fondata sul bene comune? Il riconoscimento che tutti sono titolari di eguali diritti non può bastare se si mantengono condizioni che ne rendono impossibile l’esercizio. Non basta infatti all’uomo di oggi vedere garantita la sua libertà dallo stato e cioè dagli eventuali arbitri del potere statale. Non è sempre neppure sufficiente che sia garantita la sua libertà nello stato attraverso il riconoscimento di un’autonomia dell’individuo e di una diffusa incidente partecipazione alle scelte fondamentali della sua vita. È necessario che in misura sempre più ampia l’effettiva libertà del cittadino sia garantita attraverso e per mezzo dello stato, impegnato a realizzare compiutamente lo sviluppo di ogni persona umana14. 14 MORO A.C., Quarant’anni di politiche sociali in Italia: l’apporto della Fondazione Zancan, in Studi Zancan, politiche e servizi alle persone, n. 3 – 2004, Edizione Fondazione Zancan. 16 Per chi vuole agire nel sociale e comprendere la società c’è anzitutto il bisogno di comprendere la società e le sue trasformazioni ed evitare di consegnarci al timore alla incertezza. C’è bisogno di fare memoria: non è ingenuità o buonismo, o peggio ancora il vivere nel ricordo: lo slogan potrebbe essere: cercare di pensare con fiducia e fare tesoro di quanto ci sta alle spalle. Il Catechismo della Chiesa Cattolica (nn. 1906-1910) ci ricorda che per bene comune si deve intendere l'insieme di quelle condizioni della vita sociale che permettono ai gruppi, come ai singoli membri, di raggiungere la propria perfezione più pienamente e più speditamente. Il bene comune esige la prudenza da parte di ciascuno e, più ancora, da parte di coloro che esercitano l'ufficio dell'autorità. Esso comporta tre elementi essenziali: a. rispetto della persona, in forza del quale i pubblici poteri sono tenuti a rispettare i diritti fondamentali e inalienabili della persona umana. La società ha il dovere di permettere a ciascuno dei suoi mèmbri di realizzare la propria vocazione. In particolare, il bene comune consiste nelle condizioni di esercizio delle libertà naturali che sono indispensabili al pieno sviluppo della vocazione umana: tali il diritto alla possibilità di agire secondo il retto dettato della propria coscienza, alla salvaguardia della vita privata e alla giusta libertà anche in campo religioso; b. il benessere sociale e lo sviluppo del gruppo. Lo sviluppo è la sintesi di tutti i doveri sociali. Certo, spetta all'autorità farsi arbitra, in nome del bene comune, fra i diversi interessi particolari. Essa però deve rendere accessibile a ciascuno ciò di cui ha bisogno per condurre una vita veramente umana: vitto, vestito, salute, lavoro, educazione e cultura, informazione conveniente, diritto a fondare una famiglia ecc.; c. la pace, cioè la stabilità e la sicurezza di un ordine giusto. Suppone quindi che l'autorità garantisca, con mezzi onesti, la sicurezza della società e quella dei suoi mèmbri. Infine se ogni comunità umana possiede un bene comune che le consente di riconoscersi come tale, è nella comunità politica che si trova la sua realizzazione più completa. È compito dello Stato difendere e promuovere il bene comune della società civile, dei cittadini e dei corpi intermedi. Colpisce ancora oggi, a distanza di quarant’anni dalla chiusura del Concilio Vaticano II, osservare come è di una impressionante attualità l’enciclica Gaudium et Spes. Parlando dei comportamenti della Chiesa verso il mondo, non è possibile non ricordare, infatti, come i padri conciliari manifestavano un grande equilibrio tra due modelli di comportamento: a. Il primo è quello della fuga, proprio di quei cristiani e di quelle comunità che spiritualizzano la propria fede fino al disinteresse per la realtà sociale e politica, convinti che la vita cristiana ha a che fare con un al di là completamente staccato dall’al di qua. Come non pensare subito alle tante frasi che spesso anche sacerdoti oggi dicono su temi di stretta attualità sociale e culturale: sono argomenti politici e quindi non ne parliamo, non ne dobbiamo parlare, anzi, non ci interessa di parlarne. b. Vi è però un secondo modello, è l’attivismo sociale che è tipico di comunità che hanno ridotto l’impegno cristiano ed ecclesiale ad una finalità sociale, intramondana: la vita cristiana è una delle tante forme di promozione sociale, di impegno nel mondo. E’ la Chiesa ridotta ad organizzazione di aiuto a chi è più in difficoltà, immigrati compresi. La Gaudium et Spes ritiene i due modelli sopra citati non cristianamente autentici: la comunità dei credenti vive nel mondo, quindi non può fuggire da esso perché la 17 salvezza di Cristo è per il mondo; tuttavia essa è nel mondo ma non è del mondo, non si identifica né si confonde con la comunità umana, né deve ridurre il suo operare ad una mera azione sociale, per quanto nobile possa essere. Mi viene subito in mente, a tal proposito, la bellissima lettera di Diogneto: … “I cristiani non si distinguono dagli altri uomini né per il territorio, né per la lingua, né per i costumi, Non abitano città proprie, né usano un gergo particolare, né conducono uno speciale genere di vita… Pur vivendo in città greche o barbare, come a ciascuno è toccato, e uniformandosi alle abitudini del luogo nel vestito, nel vitto e in tutto il resto, danno l’esempio di una vita sociale mirabile, o meglio – come dicono tutti – paradossale. Abitano nella propria patria, ma come pellegrini; partecipano alla vita pubblica come cittadini, ma da tutto sono staccati come stranieri; ogni nazione è la loro patria e ogni patria è una nazione straniera… Obbediscono alle leggi vigenti, ma con la loro vita superano le leggi. Amano tutti e da tutti sono perseguitati. Sono poveri e arricchiscono molti; sono privi di tutto e in tutto abbondano…. In una parola, ciò che è l'anima nel corpo, i cristiani lo sono nel mondo Vorrei chiudere questa comunicazione con un’affermazione del profeta Isaia: “Per amore del mio popolo non tacerò”15. Spesso papa Giovanni Paolo II ha direttamente o meno citato questa frase per sottolineare come la Chiesa sia invitata a parlare, a predicare il Vangelo mediante la parola e i gesti. Essa non può dunque tacere, con il rischio di venir meno alla sua missione. Noi, quanto siamo disposti a prendere posizione e pagare di persona perché il Vangelo di giustizia e di pace sia realizzato? Il papa Giovanni Paolo II, ritornando sul tema dell’opzione preferenziale per i poveri, nella Centesimus Annus affermava: “la preoccupazione stimolante verso i poveri, i quali secondo la significativa formula, sono i poveri del Signore, deve tradursi, a tutti i livelli, in atti concreti fino a giungere con decisione a una serie di necessarie riforme”. “L’amore per l’uomo e, in primo luogo, per il povero, nel quale la Chiesa vede Cristo, si fa concreto nella promozione della giustizia”16. È, in altri termini, il desiderio di contribuire alla costruzione della “città terrena secondo i valori della giustizia, della solidarietà e della pace”. Marco Zucchelli Collaboratore per le Politiche Sociali Caritas Diocesana Bergamasca 15 16 Is 62,1 GIOVANNI PAOLO II, Centesimus Annus, Roma, 1991, n. 58 18