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Francesco ANTONELLI
Multietnicità e sicurezza in una prospettiva sociologica
CONTRIBUTI E SAGGI
Il processo di riforma del Ministero degli Interni, sta portando ad un generale riassetto delle competenze, delle professionalità e del modello organizzativo di
questo dicastero. Nel quadro di un rinnovato ruolo generalista dell’Amministrazione in questione, che la pone quale snodo fondamentale della complessa rete
organizzativa del nuovo assetto dei pubblici poteri, si vanno ad inscrivere alcune
mission esclusive affidate alla sua competenza. Fra queste, un ruolo senz’altro centrale è rivestito dalle attribuzioni in materia d’immigrazione, diritti civili e minoranze etniche. Sono queste, infatti, tre parole chiave nella definizione di una metastruttura societaria che gradualmente ma altrettanto inesorabilmente si va affermando anche in Italia: la multiculturalità.
La multiculturalità rappresenta l’altra faccia della Globalizzazione; così come
quest’ultimo termine omnibus va a denotare da un punto di vista socioculturale, la
spinta su scala planetaria all’omologazione dei valori e delle pratiche sociali, la
perifrasi “multiculturalità” indica la tendenza complementare alla differenziazione
e alla particolarizzazione degli uomini e dei gruppi in atto in tutto il mondo. Nella
contraddittoria realtà di questo primo scorcio di millennio, infatti, l’interpretazione della società nella quale viviamo passa per l’accettazione della sua paradossalità,
le cui tendenze possono essere rappresentate facendo riferimento alla figura retorica dell’ossimoro; è in questo schema mentale che debbono inserirsi i contemporanei processi dell’omologazione e della differenziazione, della spinta all’universalizzazione e alla particolarizzazione, della Globalizzazione e della Multiculturalità. Se
dovessimo riportare questo ragionamento al ruolo che il Ministero degli Interni
ricoprirà nel corso dei prossimi anni, dovremmo dire che i compiti istituzionali ad
esso assegnati lo collocano operativamente più all’interno dei processi della Multiculturalità che di quelli della Globalizzazione1; occuparsi di sicurezza, diritti civili,
Se applichiamo questo genere di ragionamento anche ad altre realtà dell’Amministrazione centrale, definite in
base alle competenze, ci accorgiamo che numerosi altri ministeri saranno chiamati ad operare più sui processi
della Globalizzazione che su quelli della Multiculturalità, primo fra tutti il Ministero delle Attività Produttive;
altri Dicasteri, come quello degli Esteri invece, svolgeranno probabilmente una funzione di raccordo fra le due
dimensioni.
Il ragionamento svolto, risulta utile se si vuol tentare di capire come l’Amministrazione centrale dello Stato si configurerà nei prossimi anni sotto la spinta delle diverse pressioni sociali, riproducendole in complessità all’interno
delle istituzioni e mediandole sulla base del proprio background e assetto strutturale.
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minoranze, asilo politico e anche d’emergenze, passerà sempre più nei prossimi
anni per le dinamiche del conflitto multiculturale, della differenziazione e della
particolarizzazione, ridefinendo profondamente i contorni dello stesso concetto
chiave di “Affari Interni”.
Allo stesso modo, la connotazione territoriale dei nuovi UTG nonché la
loro posizione all’interno dell’organizzazione della P.A. colloca queste articolazioni periferiche a contatto con una realtà sociale in profondo mutamento, ove
la dimensione del conflitto multiculturale assumerà sempre più un ruolo centrale.
Conoscere la realtà nella quale si opera è senz’altro un pre-requisito fondamentale d’ogni azione organizzativa veramente efficace; la conoscenza della multiculturalità, delle sue tendenze, delle sue caratteristiche e delle sue tensioni,
allora, diviene una risorsa strategica essenziale per chi è chiamato a dirigere il
Ministero degli Interni in tutte le sue articolazioni. In questa direzione va il
breve saggio di sociologia politica che segue, il quale tocca in particolare due
argomenti di grande attualità: il modo di essere delle società complesse attraversate da fenomeni multiculturali e la relazione che sussiste o che sussisterà fra produzione della sicurezza e multiculturalità.
I CONTORNI DELLA MULTICULTURALITÀ: IL CONFRONTO HIC ET NUNC
Per definire nella giusta maniera il concetto di multiculturalità, occorre partire
dalla sua unità minima e caratterizzante: l’incontrarsi o meglio il confrontarsi2 con
l’Altro da Sé, cioè con un individuo che possiede un’Identità socioculturale peculiare
e distinta dalla nostra e rispetto alla quale ci misuriamo. Nella precedente definizione
il termine chiave è confrontarsi, il quale nel nostro discorso assume una doppia valenza: da una parte, infatti, esso indica un’interazione diretta, contemporanea ed in continuo mutamento fra due soggetti, dall’altra, indica un processo di definizione dei
soggetti sulla base della coppia uguale\differente; gli attori sociali nel confrontarsi sco2
L’uso delle forme verbali al posto di quelle sostantive non è qui casuale; un verbo, infatti, indica un’azione in
svolgimento che si costruisce nel tempo, mentre un sostantivo denota una realtà già ipostatizzata. Quando si parla
di processi sociali, che per loro natura sono continuativi nel tempo ed altamente ambigui, è meglio usare la forma
verbale.
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CONTRIBUTI E SAGGI
prono analogie e differenze rispetto a Sé e all’Altro. Nel nuovo spazio sociale mondializzato, sviluppatosi a partire dalla caduta del muro di Berlino, il confrontarsi, così
definito, diventa la relazione sociale ad un tempo più frequente e più problematica
nell’ambito d’ogni contesto strutturato dei nostri Mondi-di-vita - vale a dire luoghi di
lavoro, ricreativi ecc. -. Tale relazione è più frequente, innanzitutto, a seguito della
definitiva affermazione del “Villaggio Globale” e dell’internazionalizzazione dell’economia che pone in un contatto reale o virtuale milioni di persone in tutto il mondo
nel grande mercato promosso e sviluppato nell’ambito del W.T.O., e più problematica, date le condizioni culturali e simboliche in cui avviene quest’incontro\confronto.
Queste condizioni culturali possono essere definite ed inquadrate nella giusta maniera, però, solo a partire dalla constatazione che con l’affermarsi della Globalizzazione economica ed il tramonto delle Ideologie strutturate (Bell D., 1975)
è venuta meno la possibilità dell’esternalizzazione fisica e simbolica dell’Altro.
Questo significa che oggi l’Altro è qui, con le sue differenze che non possiamo in
nessun modo tener lontane o proiettare in un futuro sostanzialmente diverso dal
presente. Si diffonde sempre più la coscienza della vicinanza dello “straniero”, dell’immigrato e della minoranza, come condizione stabile della nostra vita. Un tale
fenomeno socioculturale assume precisi contorni che è essenziale definire per una
corretta interpretazione della multiculturalità. In particolare:
1. si sono rotte le barriere fisiche e spaziali che permettevano di tener lontano l’Altro: la fine dei due Blocchi contrapposti ha, infatti, significato la fine dell’esistenza di due luoghi politici separati e relativamente impermeabili. Ora non c’è più
l’est e l’ovest, ma solo un unico grande spazio sociale planetario in cui la mobilità
geografica in ogni senso diviene sempre frequente. Il mondo oggi è pieno di gente
che scappa o va da un’altra parte, che nasce in un posto e lavora in un altro, che
ha studiato in Europa e lavora in America ecc.: è questo un fenomeno che per
ampiezza e dimensioni non ha eguali nella storia del Novecento;
2. viene meno la spinta unificatrice e simbolica dell’ideologia, della Classe e della
Nazione (Bell D., 1975), con la duplice conseguenza che l’individuo tende a rifugiarsi in forme più vicine d’appartenenza, come l’Etnia, e contemporaneamente
non può più crogiolarsi nel sogno di un futuro ove le differenze saranno eliminate, come nello stato del comunismo senza classi o all’interno della Nazione esclu-
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siva e trionfante. Cade in sostanza il sogno universale o nazionale di una società
futura omogenea, con il diffondersi del disincanto e la ricerca di nuove forme d’appartenenza. La riscoperta dell’Etnia, infatti, corrisponde al diffondersi nella società
di forme particolari ed esclusive del fare gruppo, come le sette e i gruppi fondamentalisti ove, a sogni più o meno universali d’unità utopica ed originaria, si sostituiscono utopie parziali ed esclusive di un gruppo d’eletti3. Il minor numero di
partecipanti all’utopia sembra aumentare la radicalità e l’irrazionalità di quanti
sono coinvolti nel fenomeno, potenziando di molto le leve di mobilitazione dei
leader e delle élite di questi gruppi esclusivi.
Il confronto con l’Altro diviene perciò inevitabile nel nuovo spazio sociale
unificato della globalizzazione, tendendo a strutturarsi come confronto hic et nunc,
qui ed ora, che non può essere eluso in alcuna maniera.
Da quanto detto, possiamo definire la multiculturalità come quel fenomeno
sociale nel quale il confronto e l’interazione hic et nunc con l’Altro da Sé diviene inevitabile e particolarmente problematico a causa del riemergere di spinte alla particolarizzazione del gruppo, che tendono ad estendersi a pioggia all’interno di tutte le società 4.
Cfr. in particolare M.L. Maniscalco, 1997.
Stando alla definizione di multiculturalità alla quale siamo pervenuti, si può intuire come essa possa considerarsi l’altra faccia della Globalizzazione; mentre quest’ultima, infatti, può essere considerata come un processo
sociale di lungo periodo che sta costruendo una grammatica del sociale di tipo universale, specie nelle relazioni
economiche, la Multiculturalità può essere considerata come il processo opposto, di particolarizzazione e frammentazione della realtà planetaria; spinte centrifughe e centripete di tipo trasversale, allora, si riscontrano contemporaneamente in tutte le parti del mondo, ove ad un tempo abbiamo maggior omogeneità di costumi e modi
di vita ma anche maggiori necessità di differenziarsi, più interdipendenza internazionale e più spinte all’isolamento, maggior dipendenza di ogni parte dalle altre ma anche una maggiore autonomia. Per comprendere meglio
questo ragionamento soffermiamoci un attimo a riflettere sul seguente esempio: durante la guerra fredda ogni
Stato o fazione politica nel mondo riceveva e ricercava la protezione di una delle due superpotenze, senza la quale
la stessa sopravvivenza sembrava impossibile; ebbene, nel mondo dominato dalla logica del terrore, questa protezione aveva come contropartita un ampio potere d’influenza delle superpotenze sul comportamento del protetto: uno scambio vantaggioso basato su una convergenza d’interessi fondava una tale relazione di dipendenza e
disciplina politica. Oggi, invece, sebbene nel grande mercato globale i singoli Stati e gruppi siano tra loro strettamente interdipendenti e, per molti casi, solamente dipendenti dalle maggiori potenze economiche, è venuto
meno quasi ogni tipo di mutuo vantaggio politico nel sottomettersi politicamente ad una potenza e ricercare il
suo aiuto. Questo risulta particolarmente vero per i paesi del Terzo e Quarto mondo, ove al venir meno dell’influenza e della protezione è venuto spesso meno anche il freno politico agli estremisti e alle pulsioni totalmente
irrazionali della guerra. Ebbene, come si vede, all’unità del mercato globale si affiancano spinte quasi incontrollabili alla differenziazione e all’indipendenza e questo, se ci riflettiamo bene, avviene in tutte le sfere della società,
di qualsiasi società del mondo.
La complessità sociale, dunque, può essere oggi definita a partire dalla figura dell’ossimoro, la quale indica il con3
4
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CONTRIBUTI E SAGGI
Nell’ambito della multiculturalità le dinamiche del confronto e del conflitto
che la caratterizzano s’inscrivono su due piani fra loro complementari ove esso
effettivamente si svolge: quello intergruppo o macrosociale e quello microsociale o
quotidiano.
Mentre quest’ultimo fa riferimento al piano dell’incontro e del confronto fra
individui concreti e reali all’interno di contesti strutturati, tipicamente le organizzazioni, quello macrosociale si riferisce agli effetti sul sistema delle dinamiche di
gruppo, alla posizione del singolo nella collettività di riferimento e nella più ampia
società, nonché ai meccanismi di distribuzione del potere e delle risorse economiche e simboliche al suo interno.
In questo saggio tratteremo solo di quest’ultima dimensione, la quale ricomprende certamente la questione della produzione istituzionale della sicurezza all’interno di un campo multiculturale5. Nel fare questo ci concentreremo - con un
approccio inquadrabile nell’ambito della sociologia politica - principalmente sulle
relazioni etniche, in considerazione del ruolo assolutamente prioritario che queste
sembrano ricoprire nelle complesse dinamiche multiculturali. Si potrebbe dire che
la nostra intenzione è quella di esplicitare la variabile “multiculturalità” in funzione della variabile “interetnica”6, in un’ottica che privilegia l’analisi sociale delle
questioni legate alla sfera politica, quali il potere, la classe dirigente, l’ideologia, la
funzione di leadership e l’importanza della cultura sociale nelle dinamiche politiche. Non c’è dubbio, infatti, che la produzione istituzionale della sicurezza sia una
delle principali funzioni che da sempre lo Stato svolge ma che non avviene mai in
un vuoto socio-politico. Analizzare la produzione della sicurezza all’interno del
vivere contemporaneo su un uguale piano di realtà di due termini tra loro contrari: la differenza e l’uguaglianza,
la particolarità e l’omogeneità, la multiculturalità e la globalizzazione.
La metafora dell’ossimoro - necessariamente parziale ed incompleta - che qui viene proposta per leggere la complessità del mondo attuale ci ricorda che tutto oggi tende a funzionare secondo la logica dell’ologramma: tutto il
mondo è in ogni sua parte ed ogni parte è un mondo. Ad una logica basata sul principio di non contraddizione,
dunque, occorre sostituire una nuova logica basata su una sorta di nuova dialettica della complessità.
5
Per campo multiculturale si intende qui uno spazio psicosociale che si crea all’interno di una società specifica
e\o fra più società, caratterizzato dall’interdipendenza di più ambiti sociali con i fenomeni multiculturali; esso è
un ambito complesso nel quale si disegnano molteplici e reciproche influenze fra le dinamiche multiculturali e le
altre dinamiche sociali.
6
Cosa che ci porterà a parlare in seguito di “multietnicità” e di “campo multietnico” quale sotto categoria fenomenica della più ampia e generale categoria di multiculturalità.
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campo multietnico significa dunque concentrarci su quegli aspetti sociali della
multietnicità che più direttamente coinvolgono la complessiva sfera politica di una
società.
Il primo passo da compiere su questa strada è logicamente quello di definire
dal punto di vista socio-politico il gruppo etnico e le relazioni multietniche, cercando di chiarire quali specificità esse presentino oggi.
Per fare questo abbiamo scelto di utilizzare e rielaborare criticamente le conclusioni alle quali sono giunte le due principali scuole di pensiero sull’etnia: quella strumentalista e quella primordialista. Mentre la prima utilizza un’ottica di tipo
contestuale, che inserisce sempre le dinamiche multiculturali in un più ampio contesto, la seconda si avvale di una prospettiva maggiormente focalizzata “sull’interno” del gruppo etnico. Nella convinzione che entrambe le scuole siano utili ai
nostri fini, cercheremo di ricondurre in modo ragionato e critico le loro conclusioni ad una sintesi contestualizzata.
IL PRIMO STRUMENTALISMO: L’ASSIMILAZIONE COME TEMA CENTRALE
Max Weber nella monumentale opera Economia e Società definisce etnici
quei gruppi umani caratterizzati dalla credenza soggettiva in una discendenza
comune determinata dall’affinità dei tratti somatici e\o delle usanze (Weber M.,
1980). Nella prospettiva weberiana l’etnicità si basa, coerentemente con la sua
visione sociologica generale, su una dimensione essenzialmente soggettiva dei
fenomeni collettivi, per cui l’attore sociale, che in questo caso può essere definito
come “etnico”, agisce secondo i vincoli che trova e riconosce nella comunità d’appartenenza, cioè razionalmente rispetto al valore.
Per il grande Autore tedesco, inoltre, il vincolo premoderno e particolare tipico dell’Etnia era destinato ad essere sostituito con lo sviluppo della modernità, da
vincoli più universalisti e generali (Weber M., 1980).
Queste riflessioni saranno riprese e sviluppate negli anni ’50 da Robert Park,
uno dei fondatori della scuola di Chicago, e daranno vita alla c.d. tesi dell’assimilazionismo. L’idea di Park è, infatti, che: “nelle società organizzate lungo linee orizzontali la disposizione degli individui degli strati inferiori è di cercare i propri
modelli negli strati superiori. La lealtà è diretta verso gli individui, specialmente
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quelli delle classi superiori, i quali forniscono, con la loro persona e con il loro stile
di vita, i modelli per le masse popolari” (Park R., 1950; pag. 219). Perciò i gruppi etnici sono chiaramente disposti a adottare gli stili di vita americani ed è appunto questo ciò che dovrebbe avvenire con il tempo. Il problema della discriminazione e dell’Etnia in generale, come gruppo particolaristico e distintivo, viene perciò analizzato da questo autore con una logica che astrae completamente dal contesto storico-sociale: è il gruppo etnico in quanto tale che, ferme restando le condizioni sociali di base, si assimilerà. Con questo termine, infatti, Park intende: ”Un
processo di nutrizione, in qualche modo simile a quello fisiologico, (per cui,
N.d.A.) popoli diversi possono essere incorporati e far parte di una comunità o
stato. Di solito l’assimilazione procede in modo silenzioso e inconsapevole (corsivo
nostro, N.d.A.) ” (Park R., 1950; pag. 209).
Nonostante l’Autore prosegua l’analisi sottolineando alcune difficoltà di questo processo, che passano per la teorizzazione del marginal man (“figlio di due
mondi”), tutto il suo lavoro è permeato da una sostanziale fiducia ideologica nella
capacità integrativa della società americana.
CRISI DELL’ASSIMILAZIONISMO: IL GRUPPO ETNICO COME GRUPPO DI PRESSIONE. LA
PROSPETTIVA POLITICA
Questa corrente di studio e pensiero sui gruppi etnici rovescia completamente l’impostazione di base della teoria assimilazionista, tanto nei suoi presupposti eccessivamente soggettivisti quanto in quelli spiccatamente ideologici. Collocando, infatti, l’analisi dei gruppi etnici in un contesto prettamente relazionale
e normativo, Cohen definisce il gruppo etnico: “una collettività di persone che a)
condividono alcuni modelli di comportamento normativo e b) fanno parte di una
popolazione più grande e interagiscono con persone che provengono da altre collettività nel contesto di un sistema sociale comune” (Cohen A., 1973; pag. 136).
Egli colloca questa definizione in un ambito prettamente politico, per cui il
gruppo etnico è concepito come gruppo di pressione sul potere, atto ad ottenere
determinati vantaggi e ad evitare alcuni svantaggi nella distribuzione delle risorse
sociali. Abbiamo, dunque, qui un modello che si basa su due presupposti, rispondendo ad altrettante domande: da una parte il gruppo etnico, come tale, vincola
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normativamente l’individuo (presupposto che risponde all’esigenza definitoria),
dall’altra, esso persiste in quanto permette la mobilitazione e la pressione politica
in vista del soddisfacimento di un interesse comune ai membri del gruppo (presupposto che spiega la persistenza dell’Etnia). È questa una visione del gruppo
etnico e del suo ruolo nella e rispetto alla più ampia società, che lo inserisce direttamente in una complessiva prospettiva conflittuale dei rapporti sociali. Questo
elemento è particolarmente marcato in autori quali Glazer e Moynihan, i quali nel
loro “Ethnicity. Theory and experience” (1975) così descrivono i conflitti etnici:
“Possiamo azzardare l’ipotesi secondo la quale i conflitti etnici sono diventati una
forma mediante la quale vengono condotti conflitti d’interesse fra stati e negli
stati” (Glazer e Moynihan, 1975; pag. 8).
Sebbene essi riconoscano una qualche rilevanza alla dimensione culturale, la
loro chiave di lettura del gruppo etnico e dei conflitti etnici è chiaramente basata
su una tipologia del gruppo d’interesse rispetto al quale il gruppo etnico costituisce solo un caso particolare.
CRISI DELL’ASSIMILAZIONISMO: GRUPPO ETNICO E STRUTTURA DI CLASSE
Anche per questa prospettiva la fenomenologia del gruppo etnico deve essere collocata all’interno del contesto sociale della modernità. Anche alla base di queste vi è una visione essenzialmente conflittuale dei rapporti sociali, tuttavia, a differenza della prospettiva politica, queste teorie risolvono completamente il gruppo
etnico e la sua fenomenologia in una qualche realtà sociale considerata più pregnante e strutturale. Così gli autori marxiani e marxisti considerano il gruppo etnico come parte della sovrastruttura societaria, le cui dinamiche, al pari d’altri fenomeni, dipendono dal conflitto di classe e dai rapporti di produzione; altri autori,
invece, in special modo Gellner, rovesciando l’impostazione economicista del
marxismo, considerano l’Etnia funzione del livello generale d’integrazione culturale presente nella società quale fattore di distribuzione nella stratificazione sociale degli individui e dei gruppi.
Per la prospettiva marxiana il conflitto etnico è sempre un caso specifico del
conflitto di classe e quindi riconducibile a fattori economici. Due sono le più rilevanti analisi compiute da questo gruppo d’autori: quella relativa al c.d. split labor
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CONTRIBUTI E SAGGI
market (S.L.M.) e quella concernente il colonialismo interno; esse sono state formulate a partire da indagini compiute anche in contesti diversi da quello statunitense, in particolare nel sud America e in Europa.
La prima di queste prospettive, quella relativa allo S.L.M., afferma che le
fratture che si verificano su linee etniche all’interno della società nascono da una
divisione di base della classe sociale sfruttata, cioè i proletari e i sottoproletari, i
quali si contendono l’accesso al mercato del lavoro. In questa situazione il conflitto sarebbe una specie di guerra fra poveri, che coinvolge “quote forti” e “quote
deboli” di lavoratori; alla prima categoria generalmente appartengono i lavoratori
autoctoni o membri della medesima Etnia della classe dominante, mentre alla
seconda appartengono lavoratori immigrati o non membri della medesima Etnia
della classe dominante7. Questa prospettiva ripropone in chiave diversa la teoria
economica della segmentazione del mercato del lavoro, interpretandola alla luce
del conflitto etnico e di classe; esso in ultima analisi nascerebbe per via della lotta
che si crea fra gli sfruttati per l’accaparramento delle scarse risorse che, mediante
le dinamiche del mercato del lavoro, sono sapientemente distribuite e centellinate
dal sistema capitalista.
La seconda teoria, quella relativa al colonialismo interno, vanta un’origine
più antica e se vogliamo illustre. Essa, infatti, fu inizialmente formulata da Antonio Gramsci negli anni del carcere, e applicata specialmente all’analisi della c.d.
“quistione meridionale”8. Secondo questa teoria, ripresa in particolare da Hechter
in merito all’America latina, in ogni Stato ove vi siano gruppi di cultura diversa,
tipicamente etnica, si verifica una profonda sperequazione nell’accesso alle risorse
sociali e nei redditi; in particolare, così come avviene sul piano internazionale, vi
sarebbe in quegli Stati una sorta di divisione del lavoro in cui alcune etnie risulterebbero sempre sfruttate (colonizzate) ed altre sempre sfruttatrici (colonizzatrici).
Ciò riproduce chiaramente lo schema della lotta di classe, con la differenza che ad
una distribuzione nello spazio sociale degli individui e delle classi, se n’affianca
un’altra, ricalcandola, di tipo territoriale e culturale; quest’ultima però non avreb7
8
Cfr. E. Bonacich, pag. 17-64, in Marret C. e Leggon C. (a cura di), 1979.
Cfr. Antonio Gramsci, 1966.
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be alcuna specifica autonomia, ma riprodurrebbe fedelmente le dinamiche e i rapporti presenti nella prima9.
Su una linea analoga, sebbene inserita in una prospettiva diversa, si colloca
l’opera complessiva di Gellner10, il quale analizza il nesso esistente fra appartenenza etnica e collocazione nella struttura sociale. Per questo Autore, infatti, il processo d’industrializzazione con il suo peso dirompente ha rotto legami e istituzioni tradizionali, assegnando all’identificazione e all’appartenenza un ruolo centrale.
È così che i gruppi s’identificano per linee culturali al fine di conservare o migliorare la propria posizione sociale. Il possesso e il controllo di determinate risorse
sociali strategiche allora, quali il potere e la ricchezza, sono controllate da quei
gruppi la cui cultura è dominante; la colonizzazione interna avviene dunque sulla
base delle specifiche condizioni culturali presenti nella società; esse fanno sì che le
lotte etniche per l’accaparramento delle risorse siano in ultima analisi sempre conflitti culturali.
I LIMITI DELL’APPROCCIO STRUMENTALISTA
Come abbiamo visto, gli strumentalisti tendono tutti a collocare il fenomeno
etnico, la sua rinascita e il suo permanere nelle società moderne, all’interno di un
più ampio contesto sociale, caratterizzato di volta in volta o dall’agire di forze sociali profonde o dall’esistenza di determinate strutture: il punto di vista adottato è
dunque di tipo “oggettivo”. Il principale merito di questa prospettiva sta nell’aver
sottolineato la consustanzialità esistente fra dinamiche intra e infra gruppo e strutture sociali: gli strumentalisti hanno cioè colto con grande lucidità i fondamenti
socio-ambientali dei conflitti multietnici, ponendone alla base sempre una qualche
situazione di deprivazione relativa, determinata dalle strutture di potere e dominio
della società.
In questa prospettiva, si potrebbe dunque affermare che il gruppo etnico non
è mai variabile “indipendente” ma dipendente, essendo sempre correlata nella sua
9
10
Cfr. ancora Melucci A. e Diani M., pag. 32 op. cit.
Cfr. Gellner E., 1983 e 1993.
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esistenza a qualche altro tipico fenomeno della modernità, come i rapporti di produzione capitalista o le strutture politiche e di potere proprie della società partecipativa. Una tale impostazione, nonostante l’apparenza, riduce il ruolo delle élite a
semplice funzione notarile eterodiretta da forze oggettive: i processi di gruppo vengono intesi come semplici epifenomeni delle strutture e delle conflittualità fondamentali della società moderna. In questo ambito la cultura sociale di tipo etnico
viene considerata alla stregua dell’ideologia e della falsa coscienza, essendo posta in
posizione strumentale rispetto ad una lotta di potere definita dalle condizioni e dai
fenomeni oggettivi della società moderna.
Nonostante gli innegabili meriti che questo modo di ragionare ha avuto, esso
appare troppo semplicistico nel collegare meccanicamente specifiche condizioni
socio-ambientali al verificarsi di certi effetti, e troppo riduzionista nell’identificare
la cultura sociale con la “semplice” ideologia; da questa impostazione risulta una
visione del gruppo etnico in quanto tale e delle sue dinamiche intersociali da
“Black box”, in cui si sa ciò che c’è fuori e ciò che viene immesso, ma non si sa cosa
avvenga nello specifico all’interno della scatola. In chiosa, nel sottolineare l’importanza del contesto sociale, lo strumentalismo ha messo sullo sfondo il suo stesso oggetto di studio, cioè il gruppo etnico.
DENTRO LA “BLACK BOX”: ÉLITE, CULTURA SOCIALE ED IDEOLOGIA
L’ aver rinchiuso metaforicamente il gruppo etnico come tale all’interno di
una scatola nera ha avuto una ricaduta particolarmente seria sul modo di intendere il rapporto sussistente fra sfera espressiva del gruppo e sfera politica. La prima è
stata ridotta a semplice ideologia, come se le élite, sulla base delle correnti oggettive e profonde della società, potessero e dovessero controllare la produzione della
cultura sociale, intesa come semplice strumento di lotta politica. Ora, è sicuramente vero che le élite politico-sociali utilizzano la cultura a fini ideologici, e che
il loro comportamento come il loro successo è influenzato da fattori sociali generali e oggettivi, ma è altrettanto vero che, se questo è possibile, lo si deve essenzialmente all’esistenza di un’autonoma sfera espressiva del gruppo, che va al di là
della semplice ideologia. Non si potrebbe mobilitare nessuno nel gruppo etnico,
in altre parole, se le leve ideologiche non poggiassero sulle consolidate basi dell’i-
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dentità e della condivisione simbolico-psicologica del modo d’essere e distribuirsi
di una più vasta cultura sociale. Per comprendere allora il perché del successo di
molti appelli ideologici al conflitto multiculturale, occorre innanzi tutto vedere la
cultura sociale come fenomeno complesso, vasto e condiviso, che si differenzia dall’ideologia soprattutto per la sua diversa origine, “spontanea” e ramificata nella storia reale del gruppo. Se un conflitto multiculturale esplode e migliaia di persone
muoiono per esso, infatti, non è certo pensabile che ciò avvenga solamente per gli
artifici di chissà quale diabolico persuasore: se i massacri che le lotte multiculturali portano con sé hanno luogo, ciò è dovuto anche al modo in cui si percepiscono
e si collocano i membri del gruppo rispetto a Sé e agli altri, ai loro valori e ai loro
atteggiamenti. Sono questi, infatti, i fattori sui quali l’ideologia poggia e fa leva,
indirizzandoli in un modo anziché in un altro. La persuasione dei leader, diabolica, benigna, giusta o ingiusta che sia, agisce quindi solo posteriormente rispetto ai
fattori culturali complessi che ne costituiscono il materiale. Allo stesso modo,
anche i fattori oggettivi presenti nella società non vengono passivamente recepiti
dal gruppo e dalle sue élite come se fossero accidenti del cielo, ma in modo mediato e filtrato dalle specifiche condizioni socio-culturali del gruppo. Allora, risulta
evidente che qualunque azione d’attivazione ideologica e politica della cultura del
gruppo non è mai scontata né necessaria nelle sue forme: essa è, infatti, solo e sempre una delle tante possibilità che si hanno di interpretare e canalizzare una cultura sociale, le sue caratteristiche, le sue spinte profonde, ma mai l’unica, data l’autonomia e la strutturale ambiguità di qualunque cultura. Nel mondo odierno,
come vedremo meglio in seguito, le culture sociali di tipo etnico, proprio perché
tali, sono state l’humus privilegiato di coltura di alcuni tipi di ideologie strutturate. Le più tradizionali sono quelle di tipo nazionalista, mentre quelle a sfondo
fondamentalista sono le più recenti, ma a ben vedere non è affatto scontato che
ciò avvenga. Nelle dinamiche del confronto fra etnie diverse e\o fra queste e la
più ampia società, dunque, entrano sempre in gioco due fattori simbolicoespressivi egualmente compresenti: quello ideologico e quello propriamente
culturale. Quest’ultimo fa riferimento al modo profondo di essere di un gruppo e a quegli elementi discordanti a disposizione dell’élite per la canalizzazione ideologica. La comprensione della configurazione culturale del gruppo etni-
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co, perciò, coincide con la comprensione tanto delle dinamiche di mediazione
dei fattori sociali esterni quanto dei meccanismi sui quali agiscono “machiavellicamente” e sempre in base a scelte, le varie élite nella loro opera di direzione. La prospettiva primordialista fornisce gli strumenti concettuali per una
tale duplice comprensione.
L’APPROCCIO PRIMORDIALISTA
L’approccio primordialista considera “dall’interno” il gruppo etnico. L’interesse specifico di questa prospettiva è stato quello di ricostruire le complesse dinamiche socio-culturali che caratterizzano l’Etnia rispetto ad altre forme sociali, collocandole in una prospettiva diacronica. Nel fare questo, i primordialisti inseriscono il gruppo etnico all’interno di una complessa visione della cultura e dell’identità che le considera, da una parte, come prodotti di una lunga sedimentazione storica, e dall’altra come fondati su forze strutturali della personalità umana. La
complessiva visione che ne nasce è quella di un gruppo etnico caratterizzato da un
modo particolare dei suoi membri di vivere e sentire la propria identità sociale, con
tutte le conseguenze che ciò comporta.
Secondo l’impostazione che ci siamo dati la più rilevante è senz’altro quella
relativa alla cultura di gruppo, che, al livello idealtipico, ruota tutta intorno al forte
e particolare senso d’identità: la cultura della quale si appropria l’ideologia dei
gruppi dirigenti, dandogli così forma, senso e direzione, è dunque questa cultura
fortemente identitaria, carica di significati mitico-simbolici ed assai “calda” dal
punto di vista emotivo dei singoli.
Il concetto d’identità etnica posto al centro dall’analisi primordialista acquista dunque anche per noi una straordinaria importanza.
L’IDENTITÀ ETNICA E LE SUE CARATTERISTICHE
Per comprendere fino in fondo l’identità etnica e la sua centralità occorre
contestualmente partire dall’analisi del concetto generale d’identità socioculturale.
Questa attiene al modo d’essere specifico di un attore sociale, all’autopercezione di
sé e al modo in cui egli è percepito dagli altri, nonché ai referenti collettivi negativi e positivi che lo caratterizzano. La formazione dell’identità sociale può essere
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Francesco ANTONELLI
schematicamente divisa in cinque fasi diverse:
a) Prima infanzia
b) Seconda infanzia e adolescenza
c) Gioventù
d) Fase adulta
e) Fase dell’invecchiamento.
Considerando il processo di socializzazione come un processo che si snoda
per tutta la vita, l’attore sociale continuamente costruisce e ricostruisce la propria
identità sociale come conseguenza dell’interazione con l’Altro e sulla base dell’apprendimento, dell’interiorizzazione e dell’adattamento costruttivo alla cultura del
gruppo. Da questo punto di vista possiamo distinguere analiticamente due aspetti di un tale processo:
1) Lato soggettivo: processo d’autocostruzione del sé da parte dell’individuo
2) Lato oggettivo: processo riguardante l’azione degli altri sull’individuo.
Essi sono nella realtà intimamente correlati e solo per comodità scientifica
possono essere distinti. Sulla base di queste riflessioni si può dire che i primordialisti considerino l’identità etnica dal puro punto di vista oggettivo e ascritto, cioè
puramente culturale. Così, infatti, definisce l’Etnia A.D. Smith: “come un gruppo
sociale i cui membri condividono un senso d’origine comune, rivendicando un
passato storico e un destino comune e distintivo, possiedono uno o più attributi
peculiari e percepiscono un senso d’unità collettiva e di solidarietà” (Smith A.D.,
1992; pag. 114). Data questa definizione si può comprendere come l’accento sia
posto sul modo comunitario di essere dei rapporti sociali e dei legami etnici, nonché sui loro segni visibili e distintivi. Per i primordialisti queste configurazioni
sociali non sono naturalmente una costruzione artificiale, ma una corrente profonda della personalità umana. In altre parole il legame comunitario e i relativi rapporti sociali esisterebbero nel gruppo etnico in quanto derivanti da un ineffabile e
simbolico significato attribuito ad essi dall’attore sociale, nonostante egli sia largamente inconsapevole di questo. Come scrive Shils, il “padre” del primordialismo:
“L’attaccamento ad un altro membro della propria parentela (ed Etnia, N.d.A.)
non è una pura finzione dell’interazione. […] Esso è così a causa di un certo significato ineffabile attribuito al legame del sangue” (Shils E., 1957; pag. 142). La cul-
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CONTRIBUTI E SAGGI
tura del gruppo etnico dunque, come suo segno esteriore e strutturato, costituisce
ad un tempo la manifestazione di queste forze originari ed inconsce, e il modo con
il quale il gruppo si propone e definisce a sé e agli altri. Su questa scia si collocano tanto le opere di Geertz (1963a,b) quanto d’Isaacs (1974), volte allo studio e
alla definizione di queste culture primordiali.
Ma quali sono gli specifici caratteri e meccanismi tipici dell’Etnia? A questa
domanda risponde assai esaurientemente l’opera complessiva di A.D. Smith. Nel
suo fondamentale lavoro, Le origini etniche della Nazione (1992), quest’Autore,
dopo aver definito l’Etnia come un modo comunitario e primordiale di configurare i rapporti sociali, individua sei caratteri specifici del legame etnico e del modo
di essere dei suoi rapporti sociali.
a) Mito della discendenza comune: esso dona senso e significato alle esperienze del
gruppo e dei suoi membri come singoli, fornendogli anche una linea di continuità
generazionale ben definita.
b) Memorie condivise: funge da collante fra i membri del gruppo e fra le sue generazioni, donandogli un carattere unico e irripetibile.
c) Valori e cultura: sono il contenuto manifesto e tangibile dell’identità, ciò che al
livello sensibile è più tipico del gruppo etnico come gruppo particolarmente
distintivo rispetto agli altri.
d) Nome collettivo e simboli: è costituito da tutto ciò (bandiere, canzoni o inni,
etc.) che semplicemente e immediatamente rappresenta e distingue il gruppo etnico all’esterno e all’interno.
e) Un territorio: può essere immaginario o concreto, posseduto dal gruppo oppure no. Ciò che conta è che esso sia percepito dal gruppo etnico come suo habitat
ideale.
f ) Specifico senso di solidarietà: indica il prevalere all’interno della comunità del
senso dell’unione su quello della divisione, della collaborazione e della cooperazione, accompagnata necessariamente dal rispetto delle tradizionali gerarchie sul
conflitto.
Accanto a queste sei caratteristiche interne del gruppo etnico, ve ne sarebbero altre due per Smith che ne definiscono l’atteggiamento tipico verso l’esterno:
l’etnocentrismo e l’etnicismo: con il primo termine si fa riferimento all’atteggia-
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Francesco ANTONELLI
mento cognitivo del gruppo, mentre con il secondo ci si riferisce all’atteggiamento pragmatico.
L’etnocentrismo porta i membri del gruppo a distinguere in via pregiudiziale il “Noi” dal “Loro”, attribuendo contenuto assiologico e morale diverso alle
azioni e alle esperienze degli outsider rispetto alle azioni ed esperienze degli insider;
ciò porta a catalizzare tutti, o la gran parte dei sentimenti positivi, nel gruppo d’appartenenza, riservando quelli negativi per gli outsider.
L’etnicismo concerne invece la mobilitazione del gruppo contro la disgregazione interna o la minaccia esterna, che porta a rinvigorire ed a esaltare i caratteri
collettivi del gruppo nei riguardi di un referente negativo interno o esterno percepito comunque come un’attiva minaccia.
Le specifiche caratteristiche della configurazione etnica del gruppo sociale
sarebbero dunque tre: “una interna”, il fortissimo senso dell’identità e dell’appartenenza sociale, e due “esterne”, l’etnicismo e l’etnocentrismo. Come si vede queste tre caratteristiche in quanto definiscono il modo di essere dei rapporti sociali
etnici, ne delineano anche i contorni culturali nei termini del clima socio-psicologico che si respira nel gruppo. Esso, in particolare, fornisce quel patrimonio di
sicurezza necessario ai membri del gruppo stesso rispetto all’imprevedibilità del
comportamento umano e degli eventi, stabilendo in modo abbastanza netto i confini del gruppo, del lecito e dell’illecito, del conforme e del deviante.
LE ORIGINI SOCIALI DELL’ETNIA
Nonostante il legame etnico sia da considerare per i primordialisti come un
prodotto naturale del modo di essere “profondo” dell’uomo, tuttavia vi sono tre
specifiche condizioni storico-sociali che, secondo Smith, hanno favorito nel corso
della storia il suo insorgere: la sedentarietà, la religione organizzata e la guerra
(Smith A.D., 1992). Per quanto riguarda il primo fattore, la sedentarietà che insorge al posto del nomadismo, esso contribuisce a sviluppare un senso d’appartenenza comune nel gruppo, come risposta alla profonda nostalgia per la vita avventurosa e mitica di prima. Il contributo della religione organizzata, invece, si esplica
in diverse direzioni: in primo luogo, mediante l’elaborazione e l’istituzionalizzazione di una coerente cosmogonia, nella quale il gruppo trova sempre un posto
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CONTRIBUTI E SAGGI
centrale; poi la netta definizione dei confini del gruppo, del “Noi” e del “Loro”,
dell’interno del gruppo visto come il “Bene” e dell’esterno visto come il “Male”;
infine la formazione di un’intellettualità organica al gruppo e specializzata, il clero,
che mediante l’uso del potere mitico-simbolico in tutte le sue forme (riti, rituali,
cerimonie ecc.), assicura la continuità e la stabilità identitaria del gruppo nel
tempo. Ma forse, più di tutti, è la guerra ad aver contribuito all’affermazione dello
spirito etnico. Essa agisce, infatti, tanto come mezzo di mobilitazione interna al
gruppo, che ne rinnova l’identità, quanto come specifico “stress esterno” che attiva meccanismi identitari di difesa e di rinvigorimento del “Noi”.
IL MODELLO DEL GRUPPO ETNICO
Da quanto detto, possiamo brevemente riassumere i contorni del tipo puro
“gruppo etnico” e delle sue dinamiche caratteristiche, basandoci sulle conclusioni
rivisitate dei primordialisti e degli strumentalisti.
Il gruppo etnico in quanto tale e la sua cultura, allora, appaiono caratterizzati da:
forte ed esclusivo senso dell’identità, avvertito come carattere profondo dell'esistenza individuale e sociale;
etnocentrismo;
etnicismo.
Questo modo di produrre e riprodurre le relazioni sociali all’interno del
gruppo influenza come un filtro la recezione delle condizioni oggettive della
società, che come tali vengono sempre reinterpretate. Una tale opera ermeneutica,
però, non avviene mai automaticamente e meccanicamente, ma passa sempre per
l'opera attiva delle classi dirigenti del gruppo stesso, che ne guida ed indirizza le
energie in forme di mobilitazione ideologica.
I conflitti multietnici o a sfondo etnico che ne derivano tendono sempre ad
assumere la forma di una qualche lotta per il superamento di una percepita forma
di deprivazione materiale, simbolica, psicologica o politica che il gruppo patisce,
nelle forme e nei modi in cui la complessa dinamica della mobilitazione politica
avviene dall’interno.
Un tale modello astratto diviene più concreto all’interno di precisi modelli
societari che ne hanno storicamente declinato i contorni. In particolare, il gruppo
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Francesco ANTONELLI
etnico e le sue dinamiche hanno acquisito una loro forma storica caratteristica
nella modernità e nella postmodernità, “l’era socioculturale” che stiamo vivendo.
ETNIA E MODERNITÀ
Nonostante le origini sociali dello spirito etnico e la stessa configurazione,
siano da considerarsi universali, esse acquistano uno specifico valore nel corso della
Modernità. È in particolare nell’incontro fra Nazione, intesa come costruzione
sociale artificiale ed eterodossa, ed Etnia, intesa come configurazione socio-psicologica originaria e spontanea, che deve ricercarsi tale specificità. Innanzitutto,
secondo i primordialisti, l’etichetta “nazionale” che si affibbiano gli Stati nasconde realtà socio-culturali complesse e articolate che, per essere ricondotte ad una
sintesi ideale, necessitano di un continuo intervento da parte delle élite politiche,
culturali ed economiche. La Nazione è appunto questa sintesi, continuamente
costruita e ricostruita per essere funzionale agli interessi e alle ideologie di chi dirige la società.
Secondo Smith (1992), infatti, la formazione della Nazione moderna trova
le sue pre-condizioni in tre rivoluzioni, le quali, seguendo archi temporali diversi
anche in base ai luoghi geografici, hanno, rispettivamente, interessato altrettante
sfere sociali: quella amministrativa, quella culturale e quella economica. Tutte e tre
questi processi rivoluzionari, concernenti diverse dimensioni sociali, hanno avuto
in realtà un medesimo punto d’arrivo: la costruzione di una dimensione economica e politica formalmente unitaria. In questo contesto la rivoluzione culturale
moderna ha inteso creare, all’interno delle unità politico-economiche, quel minimo d’integrazione necessaria. Ciò è avvenuto mediante l’affermarsi dell’idea di
Nazione11. Riguardo dunque al rapporto fra Etnia e Nazione Smith così si esprime: “in quanto forza di solidarietà e mobilitazione la ‘Nazione’ deve acquisire alcuni degli attributi delle etnie preesistenti e assimilare molti dei loro miti, memorie
e simboli” (Smith A.D., 1992; pag. 316) e ancora: “nell’epoca moderna le etnie
devono diventare politicizzate, devono entrare e rimanere nell’arena politica […]
Con questo Smith non vuol ricostruire un percorso storico, ma semplicemente indicare il ruolo che nella
modernità assumono le diverse sfere della produzione sociale.
11
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CONTRIBUTI E SAGGI
esse sono costrette ad abbandonare l’isolamento, la passività e l’accomodamento
culturale precedente, e a diventare attive, mobilitate e politicamente dinamiche”
(Smith A.D., 1992; pag. 325).
L’Etnia è dunque intesa, nella modernità, come avente due ruoli diversi ma
strettamente correlati fra loro: da una parte quello di strumento d’attivazione della
Nazione, e dall’altro di specifico attore sociale dell’arena socio-politica.
IL GRUPPO ETNICO NELLA SOCIETÀ POSTMODERNA
Il permanere dell’Etnia con tutto il suo carico mitico-simbolico, primordiale
ed emozionale, acquista una specifica valenza socio-culturale nella postmodernità.
In essa, infatti, l’Etnia si slega dal contesto ambientale e\o socio-biologico che storicamente l’aveva caratterizzata, divenendo una delle possibili forme o configurazioni sociali del fare gruppo. In sostanza accanto ai tradizionali gruppi etnici, connotati da determinati attributi somatici, linguistici, culturali e storici, altri di
“nuova origine” se ne affiancano, rendendo lo spirito etnico non tanto uno specifico attributo ascrittivo di alcuni gruppi particolari, quanto una fase che certi gruppi possono attraversare. L’Etnia si sgancia così dalla biologia per risolversi totalmente nella cultura.
Le caratteristiche socio-culturali dell’Etnia, messe in luce dai primordialisti, si ritrovano così in molte comunità locali, che pur non essendo etnie “storiche” presentano tutte le caratteristiche dell’Etnia (identità, etnocentrismo, etnicismo). Lo spirito etnico tende a diffondersi nelle comunità locali presenti nella
società per una pluralità di condizioni contestuali che in questa sede non possiamo neppure elencare. Basti qui notare che nella postmodernità l’Etnia permette di rispondere a molti bisogni sociali, tra cui la necessità di vivere una vita
più intensa e significativa, il bisogno di identificarsi in qualcosa di significativo,
nonostante la crisi delle ideologie e la laicizzazione della società, il desiderio di
sentire più controllabile e sicura la propria realtà rendendola più vicina, nonché
l’aspirazione all’autonomia e all’autogoverno del proprio gruppo di prossimità.
Benché questi non siano fattori casuali ma semplici condizioni culturali, essi
danno bene l’idea delle forti spinte presenti nelle attuali società avanzate al
diffondersi dello spirito etnico.
992
Francesco ANTONELLI
L’esplosione dell’Etnia nella postmodernità va ad aggiungere, quindi, alla
triade nazione-etnia-nazionalismo, tipica della modernità, una nuova triade così
configurabile: comunità locale-etnia-localismo.
Come abbiamo già detto, però il diffondersi dello spirito etnico al di fuori dei
suoi tradizionali confini non va ad esaurire il permanere delle “vecchie” etnie. Oggi più
di ieri, infatti, i gruppi etnici tradizionali tendono a consolidarsi e a rinvigorirsi grazie
a quelle medesime spinte culturali di ordine generale che abbiamo visto sopra. L’etnia
classica, quindi, trova nelle specifiche dinamiche della società postmoderna un’ambiente ideale per consolidarsi, offrendo un sicuro punto di riferimento e protezione in
una realtà sempre più complessa e sfuggente, ove la mobilità delle persone ed il rapidissimo cambiamento rischiano di far perdere alla gente il senso del proprio essere.
Le condizioni culturali della postmodernità, dunque, diffondono presso le
comunità locali lo spirito d’etnia e consolidano quello delle tradizionali etnie, confermando la giustezza dell’intuizione di fondo dei primordialisti e cioè che l’Etnia,
lungi dall’essere una costruzione sociale artificiale, è sempre un fenomeno profondo della cultura sociale e della personalità umana.
Per tutta questa ampia casistica sul modo di essere dell’Etnia nella postmodernità, vale probabilmente l’interpretazione che, di fronte al suo primo comparire, ne diede uno dei più grandi sociologici del secolo appena conclusosi, Talcot
Parsons, con la sua teoria della “de-differenziazione”12. Per il celebre sociologo,
infatti, in un mondo nel quale l’individuo ricopre molteplici ruoli - e, aggiungiamo noi, rischia di divenire sempre più uniforme e alienato - nessuno dei quali
veramente significativo e in grado di caratterizzarlo, si producono meccanismi
selettivi che assicurano l’identità attraverso il ritorno ad appartenenze primarie.
Una delle principali è senz’altro lo spirito etnico.
SICUREZZA E MULTICULTURALITÀ
Nella società attraversata da spinte multiculturali, i cui confini tendono a sfumarsi e in parte a perdersi nello spazio sociale unificato e nel mercato globale,
12
Cfr. Parsons T. op.cit.
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CONTRIBUTI E SAGGI
diviene particolarmente problematica la produzione della sicurezza da parte dello
Stato. Esso, infatti, non può più programmarla senza tener conto delle sfide che
una multietnicità così diffusa e conflittuale gli pongono, né può pensare di tener
distinti i due piani della sicurezza interna e di quella esterna, data la trasversalità
internazionale che lo stesso conflitto multietnico disegna. Si delinea di conseguenza per ciascuno Stato una sfera geostrategica della sicurezza, che coinvolge e
ricalca antiche e nuove fratture socio-culturali poste all’interno di un unico spazio
planetario. In questa nuova dimensione il principale elemento di novità è rappresentato dalla ridefinizione in complessità del concetto di sicurezza: esso diviene
partecipato e di tipo psicosociale e come tale collocato sempre all’interno di specifici contesti. Nella società multiculturale, infatti, i livelli base della conflittualità,
da cui deriva il senso della sicurezza o dell’insicurezza social-statuale, sono sempre
profondi e mediati da specifiche condizioni culturali attivate politicamente.
Minaccia, sicurezza ed insicurezza, quindi, sono dati di “percezione collettiva” più
che condizioni “oggettive”, e come tali coinvolgono molto più di prima l’emotività e l’istintività delle masse. Allo stesso modo il problema sociale della sicurezza
nella società multiculturale, lungi dal riproporre un semplicistico scontro fra “barbari” e “borghesi”, pone domande di fondo sulle nostre istituzioni democratiche e
sulla loro tenuta in situazioni di diffusa conflittualità non razionale. Il binomio
sicurezza-diritti, quindi, si ripropone all’interno della dimensione multiculturale
secondo contorni del tutto nuovi che vanno al di là delle tradizionali impostazioni strategiche e giuridiche. In particolare, diviene necessario partire dal contesto o
dai contesti sociali, istituzionali ed economici, nei quali occorre produrre sicurezza. Il più importante di tali contesti ecologici è senz’altro rappresentato dall’ambiente democratico-formale caratteristico dei nostri sistemi politici. Mentre, infatti, storicamente la democrazia è stata vista come metodo per risolvere pacificamente i conflitti socio-politici in situazioni di pluralismo o come obiettivo politico da raggiungere, nella società multietnica del confronto hic et nunc essa si presenta in modo diverso e più ambiguo. Da una parte essa costituisce un sistema di
valori che permette un positivo pluralismo sociale non definito: il sistema di diritti liberal-democratico, infatti, riconosce la possibilità dell’esistenza di un’identità
di gruppo e al limite di tutte le possibili identità, ma non ne indica nessuna come
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Francesco ANTONELLI
aprioristica; dall’altra, proprio in virtù di queste sue caratteristiche strutturali, essa
costituisce una precisa pressione ambientale - da non confondere in alcuna maniera con il concetto di causa13 - verso la conflittualità multietnica e quindi verso il
diffondersi dell’insicurezza. Le stesse situazioni di deprivazione di cui parlavamo
prima, che derivano dal combinato effetto delle condizioni socio-culturali del
gruppo (lato cognitivo) e dalle strutture sociali (lato oggettivo), si inscrivono all’interno di questo contesto assumendo, come vedremo, una peculiarità del tutto propria.
La produzione della sicurezza, e al contrario la diffusione dell’insicurezza
nella società attraversata da fenomeni multietnici, è quindi da inserire all’interno
di queste complessive coordinate.
IL
SISTEMA DEI DIRITTI COME AMBIENTE DEL CONFLITTO MULTICULTURALE: LA
LOTTA PER L’IDENTITÀ
La nostra democrazia liberale con il suo sistema di diritti e libertà costituisce
l’ambiente ove operano i gruppi etnici e culturalmente distintivi della società multietnica, offrendo loro quelle risorse sociali indispensabili per l’affermazione e la
riproduzione delle proprie pratiche identitarie. Pensiamo ad esempio alla diversità
religiosa di alcuni di questi gruppi: la libertà di culto si pone in questo caso come
una risorsa sociale che permette ai membri del gruppo stesso di praticare la propria religione e per questa via di ritrovare e riaffermare la propria identità e diversità rispetto al resto della popolazione. È per il tramite dell’esercizio dei diritti di
libertà, allora, che un gruppo sociale diviene visibile e distinto all’interno di una
più ampia comunità, sebbene la sua diversità identitaria, come abbiamo visto, non
derivi certo dall’esistenza di un particolare regime politico. Tuttavia l’esistenza o
meno di un certo regime non è indifferente per le dinamiche del gruppo etnico:
solo la democrazia, infatti, sia dal punto di vista normativo che da quello storico,
legittima e sancisce giuridicamente l’esistenza della diversità sociale (pluralismo),
13
Per pressione ambientale infatti, ci si riferisce al modo di essere di un certo contesto, e di come esso faccia emergere, favorire o ostacolare l’emergere di certi fenomeni; la causa si riferisce dunque all’origine presumibile del
fenomeno mentre la pressione ambientale si riferisce al dispiegarsi degli effetti.
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CONTRIBUTI E SAGGI
essendo questo il tratto più caratteristico e distintivo delle forme di stato democratico rispetto ad altri regimi.
La forma di stato democratica, nel senso in cui noi definiamo questo termine, struttura l’arena sociale in uno spazio pubblico nel quale le identità sono visibili ed operano in quanto tali. Essa ci obbliga a tenere in conto l’esistenza dell’Altro, che sul piano giuridico-formale ha il nostro stesso diritto alla scelta e manifestazione della propria identità. Gli effetti di un tale sistema politico-giuridico sull’ambiente sociale sono evidenti: la diversità non può essere rifiutata in alcuna
maniera in linea di diritto, né tantomeno può essere eliminata; la pluralità delle
identità allora diviene un tratto strutturale della democrazia che stabilisce come
normale il confronto fra diversi, dandogli la possibilità di essere visibili.
Mentre precedentemente il pluralismo delle identità etniche era stato in
qualche modo temperato nella sua radicalità dalle specifiche condizioni del sistema internazionale e della cultura fortemente ideologizzata, ora il rovesciamento di
queste stesse condizioni, sfociato nell’affermarsi dello spazio sociale mondializzato
e del confronto hic et nunc, crea una convergenza fra l’aspetto formale ed ideologico della democrazia e le specifiche condizioni socioculturali del Mondo Globale. L’affermarsi del confronto hic et nunc su scala mondiale ha insomma reso convergente l’aspetto ideale e quello reale del pluralismo etnico, ridefinendolo secondo caratteri del tutto nuovi. Ora da una parte l’etnia è “libera” di esprimersi secondo logiche proprie e non più all’interno di certi predeterminati schematismi e vincoli di convenienza politica e, dall’altra, essa si diffonde come specifica forma
socio-culturale in tutte le società del mondo. Questo produce un po' dappertutto
conflitti sanguinosi e rovinose contrapposizioni, quasi come pegno da pagare alla
fine dell’equilibrio del terrore. Ma è solo all’interno della democrazia che l’etnia e
la multietnicità trovano il riconoscimento formale, senza però trovarvi un eguale e
conseguente riconoscimento sociale. Allora, mentre nelle altre forme politiche ecologicamente intese, il problema principale del confronto multietnico sta nello stesso regime politico – autoritario o totalitario – che tende a saldarsi con le correnti
più intransigenti della società, nell’ambiente democratico i problemi del confronto sorgono nel sociale, strutturato ecologicamente da quella stessa democrazia che
permette la visibilità e l’esercizio legale dell’identità etnica. Si crea, quindi, una
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Francesco ANTONELLI
potenziale contrapposizione fra le opportunità formali che il sistema democratico
dei diritti offre ai gruppi etnici e l’accettazione sociale dell’identità, fra immagine
pubblica e percezione, fra pluralismo formale e pluralismo reale. Di queste contrapposizioni di cruciale importanza sono state date varie interpretazioni, ma la
più efficace ci sembra quella elaborata da Charles Taylor nel libro scritto in collaborazione con Jurgen Habermas “Lotte per il riconoscimento” (Taylor Ch., Habermas J., 1992). Secondo il noto Autore canadese, infatti, il problema in esame
affonda le sue radici nelle stesse origini della modernità e in particolare nel passaggio dalla società del privilegio a quella della libertà formale. Nel nuovo spazio
pubblico democratico creato da questo passaggio tutti possiedono la libertà riconosciuta dalla Legge di scegliere la propria Identità sociale e di creare per questa
via un proprio progetto di vita. Tuttavia, a differenza di quanto avveniva nell’Ancien Regime, nessun’identità possiede un riconoscimento a priori, una legittimazione sociale di diritto, ma solo la possibilità formale di esistere. Questo ha portato, al termine di lunga evoluzione, a quella fondamentale divaricazione esistente
nelle società complesse fra legittimazione sociale e legittimazione formale, fra diritti formali e condizioni reali di vita dei gruppi etnici o distintivi presenti all’interno di uno spazio statuale. Sono questi, infatti, quei gruppi che per definizione si
pongono come separati da una presunta maggioranza culturale ed identitaria: il
classico conflitto fra conformisti ed anticonformisti si ritrova qui riproposto in termini ancora più complessi, che coinvolgono la sfera più intima e profonda della
convivenza umana, vale a dire quella dell’identità. È dunque solo in democrazia
che si verifica la situazione del misconoscimento, inteso come gap esistente fra la
realtà dell’accettazione identitaria e la sua formalità, fra riconoscimento formale e
disconoscimento sociale.
Il rapporto di misconoscimento sociale, così, porta a quella che Fanon definiva, a proposito dei paesi colonizzati dell’Africa, l’imposizione da parte del dominatore al dominato - o con un linguaggio più consono al nostro ambito d’analisi,
del soggetto forte al soggetto debole - di un’immagine negativa e avvilente di Sé.
Nell’incontro sociale, infatti, come insegnano le correnti costruttiviste ed interazioniste della sociologia, l’individuo vede riflesso il proprio Sé nell’Altro, il quale
ci rimanda un’immagine di noi che è diversa dalla nostra autopercezione; tale
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immagine contribuisce in modo determinante a strutturare l’autostima e l’identità
personale. Nella situazione sociale del misconoscimento, il soggetto debole è attaccato proprio nella sua autostima, ricevendo un rinforzo simile a quello del condizionamento operante a rimanere escluso dalla più ampia società. Il messaggio di
tipo connotativo14 che viene veicolato dice semplicemente al soggetto debole che la
sua identità è poca cosa, non all’altezza dell’identità forte. Nel misconoscimento la
situazione di deprivazione relativa di tipo simbolico diviene dunque particolarmente intensa, perché riguarda lo stesso diritto ad esistere dell’identità misconosciuta e la capacità del gruppo di offrire protezione emotiva e simbolica al singolo.
Ma il misconoscimento della propria identità collettiva ha anche un’altra
conseguenza fondamentale: quella di generare situazioni di deprivazione relativa
anche sul piano materiale. Quando un’identità sociale viene ghettizzata o perseguitata - come accade nei regimi tradizionali, autoritari e totalitari - o mal tollerata - come avviene nelle situazioni di misconoscimento presenti in democrazia - si
riproducono sempre situazioni strutturali di limitazione d’accesso alle risorse
materiali della società e alle opportunità.
L’individuo, la cui identità è misconosciuta, si sente escluso ed insicuro, estraneo in un mondo estraneo. È allora che l’incontro con l’Altro da Sé può generare nella
società multietnica spinte centrifughe ed episodi di devianza diffusa che rischiano di
creare una sorta di “nuovo feudalesimo”, parafrasando Gaetano Mosca.
In questa divaricazione tendenziale fra situazione formale e situazione sociale, fra legittimazione giuridica e misconoscimento, molti hanno a ragione ravvisato una riedizione postmoderna della tradizionale disputa intorno all’insufficienza
della democrazia liberale e formale nel garantire la sostanzialità dei diritti da lei
previsti. Ciò che si denunciava allora era in sostanza l’inadeguatezza dei diritti di
cittadinanza di fronte alle disuguaglianze materiali della società borghese nel
garantire una dignitosa esistenza a tutti i membri della comunità statuale in quanto tali. Questa disputa, che tanta parte ha avuto nella storia sociale del ‘900, ha
Nella comunicazione umana vi sono due tipi di funzioni: la prima è denotativa, ed indica la funzione di trasmissione di un contenuto oggettivo; la seconda è invece connotativa, ed indica la funzione di trasmissione e
costruzione sociale del contenuto simbolico ed emozionale del messaggio oggettivo. La denotazione indica dunque un contenuto, mentre la connotazione indica un contesto complessivo in cui il contenuto stesso è inserito.
14
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portato ad un ampliamento dei diritti di cittadinanza, tra i quali hanno fatto la loro
comparsa i c.d. diritti sociali, vere pietre angolari delle democrazie contemporanee.
I diritti sociali, come storicamente sono stati intesi, si dimostrano però oggi
insufficienti nel sanare la situazione di misconoscimento caratteristica delle società
multietniche. Quei diritti e il conseguente ampliamento della cittadinanza da essi
apportato, infatti, s’inscrive nella sola sfera economico-materiale del sociale: lo
scopo per cui i diritti sociali furono adottati era quello di sanare o comunque temperare gli effetti della disuguaglianza economica.
Il problema che oggi abbiamo è diverso: quella che si dovrebbe sanare, per
estendere la democrazia reale ed impedire i conflitti sociali a sfondo etnico, è una
situazione di deprivazione simbolica.
Molti hanno indicato come soluzione istituzionale del problema una rinnovata azione dello Stato nella società, che dovrebbe portare all’ulteriore ampliamento della cittadinanza. Ad essere inclusi formalmente e sostanzialmente
dovrebbero essere, questa volta, i diritti collettivi o di gruppo; essi sono tutti quei
diritti all’identità e all’appartenenza, all’autogoverno e all’autonomia socioculturale, di cui dovrebbe essere titolare giuridico un gruppo. L’identità collettiva del
gruppo, allora, si configurerebbe come sorta di meta-diritto sovraordinato o
comunque paritario rispetto a quello individuale all’identità.
Queste proposte hanno suscitato numerose polemiche e sono tuttora al centro di un intenso dibattito sul futuro della democrazia.
In attesa che vengano trovate soluzioni istituzionali davvero adeguate al problema della divaricazione fra misconoscimento e democrazia formale ci sembra più
opportuno concentrarci su un aspetto più limitato della problematica, che sinora
mi sembra sia stato trascurato troppo dalla letteratura: il problema della sicurezza.
È nostra convinzione, infatti, che la sicurezza sia al centro del complesso ed ambiguo gioco di influenze del misconoscimento sociale, e come tale possa costituire
una delle più potenti leve per far fronte, anche se in maniera del tutto parziale, alle
problematiche del confronto multietnico in democrazia.
SICUREZZA, MISCONOSCIMENTO E LOTTE PER L’IDENTITÀ
Nella situazione sociale del misconoscimento sopra descritta, ciò che viene a
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CONTRIBUTI E SAGGI
mancare in modo drammatico è sicuramente la sicurezza. In primo luogo la sicurezza di colui al quale manca la legittimazione sociale della propria identità (soggetto debole). In questa condizione, infatti, come dimostrano numerosi studi, il
soggetto si sente continuamente minacciato e percepisce in modo fortemente
negativo il Mondo esterno al suo gruppo, tendendo perciò o alla chiusura quasi
settaria o a fenomeni di devianza. In secondo luogo manca la sicurezza del c.d. soggetto forte, il quale si sente a sua volta minacciato dalla presenza “visibile” dell’Altro da Sé.
A conferma del nostro ragionamento si prendano i seguenti due dati riferiti
alla situazione italiana: il primo riguarda lo stretto collegamento, privo di una reale
base oggettiva, che la maggioranza degli italiani istituisce fra criminalità ed immigrazione; il secondo concerne invece il diffuso senso d’insicurezza nella quale versano gli immigrati che, secondo un recente rapporto del CENSIS, hanno spesso
paura “anche di prendere l’autobus”. Se confrontiamo questi dati con quelli del
resto d’Europa, specie con quelli dei paesi d’emigrazione storica, ci accorgiamo che
sono molto simili ai nostri e che lo straniero o comunque l’appartenente ad una
minoranza è percepito come una minaccia alla sicurezza. Lo stesso avviene tuttora
negli USA, nazione multietnica per eccellenza. Tutto questo mostra con chiarezza
lo stretto legame che s’istituisce fra misconoscimento, lotte per il riconoscimento
e sicurezza. Volendo arricchire d’ulteriori dati le nostre riflessioni, possiamo rifarci allo studio storico davvero imponente di Leon Poliakof sull’antisemitismo. Il
grande storico ha, infatti, documentato con molta dovizia come, indipendentemente dal paese considerato, gli ebrei fossero sempre perseguitati e criminalizzati
in primo luogo per la loro identità sociale, cui venivano attribuite pratiche tremende e diaboliche, che non avevano alcun riscontro oggettivo. In quei casi, infatti, il vero “mostro” da cui volevano difendersi i gruppi maggioritari era la stessa esistenza della diversità nella propria comunità.
LA SICUREZZA COME BENE PUBBLICO SIMBOLICO
Quanto detto mette bene in luce la natura eminentemente simbolica che la
sicurezza assume, in generale nella società complessa postmoderna, ed in particolare in quella multiculturale. La sicurezza è, infatti, primariamente uno stato socio-
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psicologico del cittadino, una percezione e rappresentazione collettiva del proprio
Mondo sociale, per cui vale il noto teorema di Thomas secondo il quale ciò che è
creduto reale è reale nelle sue conseguenze. Come tale essa, pur essendo un bene
pubblico, non presenta le due note caratteristiche dell’indivisibilità e della non
rivalità nel consumo indicate dalla scienza economica. In primo luogo perché,
come si deduce dai precedenti dati, la produzione di sicurezza generalizzata - attuata prevalentemente dagli apparati di polizia dello Stato ma non solo - risulta fortemente inadeguata alle esigenze dei fruitori del servizio, specie in una società multiculturale. Ciò accade perché, essendo la sicurezza un bene simbolico, è sempre
elaborata cognitivamente da un gruppo particolare e non già da singoli individui
genericamente intesi. In secondo luogo dalla sicurezza prodotta possono e sono
spesso esclusi interi gruppi, dato che un modo di fare sicurezza può cognitivamente essere adeguato alle esigenze di una collettività e non esserlo per un’altra.
Si delinea così un più ampio concetto di sicurezza “multietnica”, che può
essere inteso come miglioramento costante e partecipato delle relazioni simboliche
e sociali intra e infra gruppi, volto a disinnescare situazioni di percepita o reale
deprivazione simbolica.
Non esiste perciò un modo univoco di fare sicurezza, ma tanti modi o mix di
componenti economiche, educative, politiche e coattive, di volta in volta ritenute
adeguate per produrre mirata ed efficace sicurezza simbolico-emotiva.
Ciò dovrebbe permettere di sviluppare presso i gruppi etnici coinvolti una
cultura maggiormente consensuale nei confronti della più ampia società e degli
altri gruppi, permettendo un maggior controllo degli istinti distruttivi.
LA SICUREZZA COME STRUMENTO OPERATIVO E RISORSA STRATEGICA NELLA LOTTA
AL MISCONOSCIMENTO
Un tale modo di concepire la sicurezza acquista senz’altro un gran valore strategico nella società multiculturale. Se, infatti, la catena del misconoscimento genera in un primo momento l’insicurezza come suo epifenomeno, essa diviene in
seguito un fattore di rinforzo positivo del conflitto multiculturale. Percepire la
propria situazione come insicura, infatti, genera deprivazione ed ulteriore emarginazione finendo per rafforzare lo stesso misconoscimento identitario. È in questo
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CONTRIBUTI E SAGGI
modo che il problematico confronto multiculturale hic et nunc fra gruppi cade nel
circolo vizioso della conflittualità autopoietica, con possibilità d’ulteriore radicalizzazione. Il rischio è soprattutto che le parti, sentendosi insicure nella reciproca
convivenza, s’isolino e si respingano vicendevolmente.
Dato che molte delle variabili coinvolte nel processo descritto sono difficilmente manipolabili, come combattere il circolo vizioso del misconoscimento
impedendo che il senso d’insicurezza si trasformi in radicale conflittualità ed incomunicabilità delle parti?
La risposta è rintracciabile nella manipolazione di quella che appare essere la
variabile più influenzabile: appunto l’insicurezza. Sebbene, come abbiamo visto,
essa non sia tra le cause dirette del misconoscimento sociale, la fornitura mirata
della sicurezza aiuta senz’altro a strutturare un ambiente ideale al confronto hic et
nunc fra i soggetti della relazione, impedendo la sua degenerazione.
La sicurezza diviene come tale tanto un efficace strumento operativo quanto
una risorsa strategica per tentare di rompere il circolo del misconoscimento.
Due sono le strutture a rete che oggi lo Stato possiede per implementare nel
modo più efficace le precedenti indicazioni di politica istituzionale: in primo
luogo la rete organizzativa del Ministero degli interni, che con gli UTG e le questure possiede ramificazioni interdipendenti su tutto il territorio; e in secondo
luogo la pluralità d’enti territoriali a diversi livelli che oggi sempre più possiedono
ampie risorse e competenze. Di queste due reti il nodo fondamentale è costituito
dal Prefetto, centro di collegamento e motore istituzionale delle sinergie sviluppabili fra Stato centrale ed enti territoriali. Un problema serio come quello di fornire sicurezza mirata e adeguata alle esigenze del territorio e dei gruppi, in funzione
della rottura del misconoscimento, richiede infatti due momenti di programmazione diversi: il primo è di carattere nazionale, generale e strategico, che fornisca il
quadro entro cui il momento operativo deve aver luogo; l’altro è quello territoriale e locale, ove quotidianamente e in modo specifico le lotte per il riconoscimento e per l’identità hanno luogo. Questo secondo livello programmatico richiede,
infatti, autonomia d’azione e coordinamento fra i soggetti pubblici e privati impegnati sul campo, proprio perché è quello più vicino alla concreta realtà sociale. È
al livello locale, in altre parole, che meglio e con un maggior grado di responsività,
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può essere intrapresa un’efficace azione di fornitura di sicurezza mirata che includa la variabile multietnica. È importante che ciò avvenga lungo la strada che questo saggio ha voluto solo vagamente indicare, cioè quella di un impegno sostanziale e lungimirante dei poteri verso l’elaborazione e l’implementazione di un concetto ampio di sicurezza. La sicurezza non è, infatti, solo uso della forza o deterrenza, ma anche e soprattutto ridefinizione del contesto delle relazioni sociali.
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