Globalizzazione reale e globalizzazione finanziaria: aspetti teorici e

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Globalizzazione reale e globalizzazione finanziaria: aspetti teorici e problemi di
regolamentazione.
Pier Francesco Asso
Università degli Studi di Palermo
1. Introduzione
Negli ultimi cinquanta anni la politica economica internazionale ha favorito un
aumento nella liberalizzazione degli scambi commerciali e delle transazioni
finanziarie. Questo processo ha subito una forte e a volte traumatica accelerazione in
conseguenza di mutamenti improvvisi e in parte imprevedibili che hanno interessato
il quadro politico internazionale e la facilità di accesso ai diversi mercati nazionali da
parte di imprese e consumatori. L'analisi e la descrizione di questo fenomeno, che
comunemente viene definito con il termine di "globalizzazione", ha attirato
l'attenzione di coloro che si occupano di problematiche connesse alle relazioni
economiche internazionali, ma anche di una folta schiera di studiosi appartenenti alle
diverse scienze politiche e sociali. Come spesso succede, si è assistito a un'esplosione
nell'uso e nell'abuso del termine "globalizzazione". Cominciamo quindi proponendo
una questione solo apparentemente semantica: qual'è la definizione più corretta di
globalizzazione? E che cosa intendono gli economisti quando parlano di
globalizzazione?
Per un economista una definizione molto generale di globalizzazione potrebbe
suonare grosso modo così: la globalizzazione è un regime che permette di ridurre il
costo di effettuare transazioni economiche su scala mondiale e quindi di aumentare il
tasso di crescita del prodotto e del benessere economico. La globalizzazione si
realizza attraverso un processo (legislativo, tecnologico, politico, culturale etc.) che
promuove:
? l'abbattimento di tutte le forme di restrizione agli scambi commerciali (dazio,
contingente o altro) che impediscono o riducono il livello di integrazione fra i
mercati;
? una maggiore mobilità dei prodotti oggetto di scambio internazionale (beni e
servizi);
? la libera circolazione delle idee, delle conoscenze e dei fattori produttivi (capitale
e lavoro);
? un più efficace sfruttamento nella riduzione dei costi di trasporto, di
comunicazione e di informazione.
Fra le caratteristiche salienti della globalizzazione vi è dunque quella di rafforzare
l'integrazione fra mercati e, anzi, il suo obiettivo finale può essere identificato nella
creazione di un mercato unico mondiale, nel quale i prezzi e le quantità dei beni e dei
fattori produttivi oggetto di scambio non vengono distorti dalla politica commerciale
e dalle decisioni imposte dalle autorità di politica economica. In ultima analisi, la
globalizzazione dei mercati viene quindi a coincidere con la libertà che i soggetti
economici (imprese e consumatori) hanno acquisito relativamente alla loro capacità
2
di effettuare scelte in merito ai beni e ai servizi reali e finanziari che essi decidono di
produrre o desiderano di acquistare.
Quali sono gli interrogativi più frequenti che gli studiosi si sono posti a proposito di
questo processo di globalizzazione dei mercati e dei suoi principali protagonisti.
Proviamo a presentarne un breve elenco.
? E' possibile identificare con precisione le cause che determinano la
globalizzazione e gli effetti che essa produce sulla ricchezza delle nazioni, sulla
sua crescita e sulla sua distribuzione?
? Quali sono le argomentazioni che inducono a ritenere che il processo di
globalizzazione dei mercati sia effettivamente il (principale) responsabile di alcuni
fra i più gravi problemi economici che affliggono l'umanità (povertà, fame,
mortalità, inquinamento)?
? Chi è, e chi può diventare, un protagonista della globalizzazione? Soltanto le
grandi imprese multinazionali oppure anche quelle di dimensioni più contenute? I
consumatori dei paesi ricchi o anche coloro che vivono al di sotto del livello di
povertà? E con quali effetti sul loro standard di vita e sulle aspettative di
sopravvivenza?
? Chi è che rischia maggiormente di soccombere di fronte alla globalizzazione dei
mercati? Lo stato nazione o il sistema dei partiti? Il lavoratore dipendente o il
sindacato? Le società multinazionali o le piccole e medie imprese?
? In che modo è possibile intervenire per regolamentare gli eccessi della
globalizzazione ed eliminare le distorsioni che essa produce? Chi dovrebbe farlo?
Gli stati nazionali, gli organismi internazionali o chi altro?
? Quali utili lezioni è possibile trarre dall'esperienza storica? E' condivisibile la tesi
che sostiene che siamo in presenza di un fenomeno che è già esistito in fasi
precedenti della storia economica? E con quali similitudini? E si può forse dedurre
che siamo di fronte a un fenomeno reversibile e in quale misura?
Questo saggio non si propone di offrire risposte originali su tutte queste tematiche né,
tantomeno, di tentare un bilancio storiografico sui dibattiti che sono fioriti intorno a
esse. Più modestamente, ci limiteremo a esporre i risultati di alcune ricerche che
hanno indagato sulle principali tipologie dei costi e dei benefici economici che
comunemente vengono associati alla globalizzazione, e a suggerire alcuni possibili
rimedi per una sua più efficace governabilità da parte delle istituzioni sovranazionali1.
Ma, prima di tutto, quand'è e in che modo la parola “globalizzazione” fa il suo
ingresso nella terminologia corrente e in quella specialistica?
Occorre ricordare che per gli storici dell'economia la globalizzazione è un fenomeno
relativamente antico. Senza voler andare troppo indietro nel tempo, illustri studiosi
hanno descritto gli effetti prodotti dall'era della globalizzazione che si sviluppò nella
seconda metà dell'800 a seguito dell'ondata di innovazioni tecnologiche che
rivoluzionarono il sistema delle comunicazioni e dei trasporti2. Essa produsse effetti
1
Si vedano in proposito le rassegne della letteratura presentate in Bird and Rajan (2001), e nei contributi pubblicati in
Pizzuti (1999) e Corsetti, Rey, Romagnoli (2001).
2
Bordo, M., B. Eichengreen and D. Irwin (1999); Baldwin and Martin (1999).
3
importanti per l'avvio e, soprattutto, per la propagazione della cosiddetta seconda
rivoluzione industriale, per poi interrompersi bruscamente con l'attentato di Sarajevo
e lo scoppio della prima guerra mondiale. Nei trent'anni successivi vi fu l'apoteosi
della "non globalizzazione" che prese, di volta in volta, il nome di autarchia
economica, bilateralismo, neomercantilismo e nazionalismo economico. Di
globalizzazione si tornò timidamente a parlare negli anni della ricostruzione
postbellica anche se fu soltanto nel 1957 che la parola "globalizzazione" fece il suo
ingresso nell'Oxford Dictionary.
Da un punto di vista analitico, negli anni cinquanta si attribuì a "globalizzazione" un
significato fondato sulla contrapposizione fra due possibili modelli alternativi di
integrazione economica: quello fondato su un approccio regionale o preferenziale e
quello fondato appunto su un approccio globale o multilaterale. Storicamente, il
primo veniva adottato da un gruppo limitato di paesi che, per motivi politici, di
prossimità geografica o di consistente integrazione economica, raggiungeva un
accordo per favorire il rilancio del commercio reciproco. Proprio nel 1957 questo
modello fu consacrato dalla sottoscrizione del trattato di Roma e dalla conseguente
creazione di un'unione doganale fra sei paesi. Come lo stesso termine "preferenziale"
sottintende, tutti gli accordi regionali sono basati sulla discriminazione fra produttori
e consumatori appartenenti a paesi diversi: si ha una riduzione (spesso un
azzeramento) dei dazi e delle restrizioni commerciali fra i paesi che costituiscono la
"regione" o l'area di libero scambio; si mantengono (e spesso si rafforzano) le barriere
tariffarie e non tariffarie fra la nuova area e il resto del mondo. Proprio per questo
motivo alcuni fra i più autorevoli studiosi della politica commerciale ritengono che la
formazione di blocchi commerciali preferenziali finisce per ostacolare il
consolidamento di un nuovo ordine economico internazionale fondato sulla libertà
degli scambi 3. Tuttavia, almeno in una prima fase, essi sono spesso ritenuti più
realisticamente praticabili rispetto a una politica commerciale fondata su un
approccio globale e multilaterale, dove il processo di liberalizzazione viene esteso a
un numero quanto più ampio di prodotti e di paesi, e trae alimento dai principi della
concorrenza perfetta, della non discriminazione e dell'adozione della clausola della
nazione più favorita4.
Storicamente, due sono stati i propulsori fondamentali che hanno agevolato la
trasformazione dei blocchi regionali in un processo più ampio di globalizzazione. Da
un lato, vi è il contributo della tecnologia: l'introduzione di innovazioni che
abbattono i costi di trasporto dei prodotti e quelli relativi all’acquisizione delle
informazioni accelera l'integrazione fra mercati, riducendo le distanze spaziali e
temporali nell'ambito delle quali si effettuano le scelte di produzione e di consumo.
Le ferrovie e il telegrafo nell'800, il trasporto aereo e le nuove e sempre più efficienti
tipologie di comunicazione nella seconda metà del '900 hanno condiviso parte
importante nei due diversi processi di globalizzazione. In effetti, il crollo dei costi di
3
Si veda Bhagwati (1996).
Grazie all'adozione di questa clausola, qualsiasi atto di liberalizzazione bilaterale dei rapporti commerciali fra 2 paesi
diventa automaticamente multilaterale. Cioè tutti i benefici e le concessioni decise a favore di un paese devono essere
estese a tutte le altre parti contrattuali in base al principio della non discriminazione.
4
4
trasmissione delle informazioni rappresenta l'elemento distintivo della ripresa della
globalizzazione negli ultimi decenni del XX secolo. Dall'altro lato vi è il contributo
della politica e della armonizzazione della normativa: la promozione di
provvedimenti legislativi o istituzionali che riducono le barriere allo scambio e alla
mobilità di prodotti e fattori produttivi ha rappresentato alla fine dell’800 e negli
ultimi due decenni del ‘900 un'ulteriore spinta alla creazione di un mercato unico su
scala mondiale.
Tuttavia, i più autorevoli rappresentanti della scienza economica hanno mostrato
maggiore interesse nella discussione degli effetti, piuttosto che delle cause, della
globalizzazione. Si è spesso riconosciuto che l’introduzione di un regime globale
comportava la produzione di vantaggi e di svantaggi per il singolo soggetto
economico (impresa e consumatore) così come per la nazione o il mondo intero. Il
paragrafo successivo è appunto dedicato a una breve esposizione dei risultati delle
diverse analisi "costi - benefici" che gli economisti hanno prodotto in questi ultimi
anni.
2. Vantaggi e svantaggi della globalizzazione
Utilizzando una prospettiva storico - dottrinaria, cominciamo a esporre quali sono i
principali vantaggi e svantaggi della globalizzazione, e a fornire alcuni spunti di
riflessione su che cosa si è fatto e su che cosa non si è fatto per regolamentare questo
fenomeno in modo da massimizzare i primi e minimizzare i secondi.
La teoria economica ha ormai da alcuni secoli stabilito alcuni principi fondamentali
per spiegare i collegamenti che esistono fra integrazione economica e crescita del
reddito. Sin dagli scritti degli economisti appartenenti alla scuola classica (17761848), l'opportunità di scambiare liberamente con soggetti economici appartenenti ad
altri paesi e di avviare processi di integrazione economica internazionale sono stati
interpretati come una causa fondamentale di aumento nella produttività del lavoro, di
miglioramento nell'efficienza dei mercati e, in questo modo, di incremento nel
benessere e nella ricchezza internazionale. Negli anni della prima Rivoluzione
industriale, gli economisti predicarono (invano) l'instaurazione di una maggiore
libertà di commercio: se essa fosse stata stabilita con un atto del Parlamento, si
sarebbe creato un regime che, meglio di altri possibili regimi alternativi, avrebbe
garantito la promozione dello sviluppo economico. La libertà di scambio, in altre
parole, avrebbe prodotto effetti del tutto equivalenti a quelli determinati
dall'introduzione di una innovazione tecnologica o di un'invenzione all'interno di un
processo produttivo.
E' utile osservare che soprattutto in Adam Smith, ma anche in David Ricardo e John
Stuart Mill, la liberalizzazione degli scambi raramente assuse la forma di un dogma
inviolabile o di una legge naturale. Essa rappresentava piuttosto un'opzione, una
regola di politica economica che gli Stati – nazione avrebbero dovuto seguire e un
utile strumento analitico per approfondire le relazioni fra crescita della ricchezza,
distribuzione della ricchezza e localizzazione delle attività produttive. Per di più,
5
come tutte le regole, gli economisti del passato facevano notare che anche il regime
di libero scambio ammetteva eccezioni importanti in particolari contingenze: quando
queste si verificavano, le politiche di limitazione del libero scambio, e cioè
l'introduzione di misure protezionistiche, diventavano ottimali e richiedevano
l'esistenza di ordinamenti e istituzioni deputate al loro controllo e alla loro
realizzazione. Quindi, il processo di globalizzazione andava analizzato con spirito
pragmatico, utilizzando un approccio che mettesse a confronto i suoi costi e i suoi
benefici, i vantaggi e gli svantaggi.
Un altro aspetto sul quale gli economisti si sono spesso trovati d'accordo, riguarda
l'opportunità di procedere a una distinzione preliminare, che separasse la sfera della
globalizzazione reale (intesa come perfetta integrazione fra mercati dove si
effettuano scambi fra beni, servizi e fattori produttivi reali) dalla sfera della
globalizzazione finanziaria (intesa come perfetta integrazione dei mercati dove si
scambiano attività finanziarie e patrimoniali).
Utilizzando questa duplice prospettiva (approccio "costi - benefici" e distinzione fra
globalizzazione reale e finanziaria) cominciamo ad analizzare rapidamente quali sono
i principali vantaggi della globalizzazione dal punto di vista dell'economia reale. In
primo luogo, un sistema economico in cui vige la libertà di scelta e di integrazione
permette di esaltare le potenzialità della divisione del lavoro e della specializzazione
produttiva fondata sul modello dei vantaggi comparati. Cioè con la globalizzazione si
esaltano due principi che sin dai tempi di Smith e Ricardo gli economisti hanno
indicato essere fra i principali motori della crescita della ricchezza e del reddito di
una nazione. La globalizzazione aumenta, per definizione, l'ampiezza del mercato e
quindi le potenzialità del lavoro diviso. La globalizzazione rende possibile la
specializzazione produttiva, consente di migliorare le possibilità di consumo e
produzione attraverso lo scambio volontario, e agevola il conseguimento di benefici
per l'individuo e la collettività a cui appartiene. Fu proprio David Ricardo a
dimostrare per primo che i vantaggi economici del libero scambio potevano essere
acquisiti anche da quei paesi le cui imprese erano relativamente meno efficienti nella
produzione di tutti i beni rispetto ai propri partners commerciali potenziali. In sintesi,
l’affermazione della globalizzazione permette ai sistemi economici di acquisire i
massimi vantaggi statici dal commercio a seguito di una più ottimale allocazione dei
fattori produttivi (capitale e lavoro).
A differenza di un regime fondato sulla non globalizzazione, la progressiva
integrazione fra i mercati reali consente di acquisire numerosi e ancor più rilevanti
guadagni dinamici che favoriscono l'aumento dell'attività di produzione e di consumo
e quindi del benessere collettivo. In particolare, avendo la possibilità di sfruttare i
processi di accentramento e delocalizzazione degli impianti produttivi, avendo la
possibilità teorica di produrre per l’intero globo, la globalizzazione consente a tutte le
imprese di diventare "multinazionali" e di realizzare più compiutamente economie
nella scala produttiva ed economie nell’apprendimento di nuove conoscenze. Cioé di
abbattere l'incidenza dei costi unitari di produzione; di accelerare il trasferimento di
tecnologia per stimolare l'attività economica in aree storicamente caratterizzate da
relativa arretratezza ma da elevati rendimenti potenziali; di realizzare una riduzione
6
dei costi attraverso processi di "learning by doing". La diffusione delle conoscenze e
il trasferimento della tecnologia sono dunque più facili all'interno di un regime
globale, mentre risultano più ardue se non addirittura impossibili in un regime
fondato sulla non globalizzazione. Inoltre, la globalizzazione produce una riduzione
dei costi associati all'attività di scambio (i cosiddetti costi di transazione) attraverso
un uso più efficiente delle informazioni e degli strumenti di intermediazione degli
scambi (a seguito, ad esempio, della progressiva eliminazione del numero delle
monete in circolazione). Infine, si ritiene che l'esistenza di mercati integrati consente
di abbattere i costi (spesso non facilmente quantificabili) indotti dalla attività di
ricerca di protezioni, di favoritismi e di altre forme di discriminazione e di
repressione della concorrenza. Fra i quali i costi connessi all'attività di lobbying, alla
ricerca di rendite personali (rent-seeking), e alla corruzione del personale politico.
In definitiva, se globalizzare significa eliminare le esistenti restrizioni al commercio e
allo scambio fra soggetti economici appartenenti a paesi diversi, i processi
decisionali, legislativi, culturali etc. che portano alla creazione di un mercato globale
consentono di realizzare un aumento della produttività di lavoro e capitale, e quindi
del benessere e della ricchezza.
Vediamo quali sono le principali argomentazioni avanzate dagli economisti contro la
globalizzazione reale. Esse coincidono con quelli che sono ritenuti i principali
vantaggi del protezionismo. Abbiamo detto che, come tutte le regole, anche questo
strumento affidato ai lumi del legislatore e dell'autorità di politica economica
ammette alcune eccezioni che l'economista può contribuire a definire. Nuovamente
Smith, Ricardo e gli altri economisti classici seppero dedicare riflessioni importanti a
queste tematiche che altri autori hanno successivamente ripreso e arricchito
nell'evidenza empirica e nelle elaborazioni teoriche. In generale, si può dire che un
regime fondato sulla libertà di commercio e sulla globalizzazione reale può
ammettere restrizioni commerciali e misure protezionistiche nel caso di settori
considerati strategici (ad esempio la difesa del territorio nazionale o, in tempi più
recenti, la tutela dell'ambiente); nel caso di settori nascenti (nei quali le potenzialità
economiche non possono essere pienamente sfruttate a causa della mancanza delle
economie di apprendimento); nel caso di settori soggetti a forme diverse di
concorrenza sleale e operanti in mercati inefficienti. E' vero che, con una certa
preveggenza, gli economisti classici giudicarono con scetticismo e riserve l'esistenza
di uno Stato lungimirante che fosse effettivamente capace di discernere fra settori
strategici e non, fra attività nascenti e non, fra imprese colpite da comportamenti
sleali e discriminanti tali da impedire il loro ingresso sui mercati internazionali. Ma
tant'è, almeno in questi casi, gli economisti classici riconobbero che un processo
immediato e perfetto di integrazione commerciale avrebbe potuto produrre un saldo
negativo fra i benefici attesi e i costi affrontati.
Passiamo ora al caso della globalizzazione finanziaria.
Anche in questo caso, gli economisti si sono sforzati di definire con precisione una
griglia di costi e di benefici associati al fenomento dell'integrazione fra mercati nei
quali si scambiano attività e prodotti caratterizzati da un grado più o meno elevato di
liquidità. La conoscenza del pensiero di Smith e Ricardo può essere illuminante, se
7
non altro per giungere alla conclusione che in materia di globalizzazione finanziaria il
verdetto emesso dai fondatori della scienza economica è sempre stato assai meno
netto e assoluto rispetto a quanto avveniva sul versante della globalizzazione reale5: il
laissez faire assoluto in materia di globalizzazione finanziaria non è una scelta
universalmente auspicabile e i soggetti economici sono perfettamente razionali
quando manifestano una spiccata tendenza a privilegiare l’acquisto di attività
finanziarie interne pur in presenza di un differenziale favorevole nei rendimenti
offerti dalle attività finanziarie estere (cioè quando l’investitore segue il cosiddetto
home bias approach). Si tratta di una conclusione che è tuttora condivisa da molti
economisti e su cui è necessario soffermarsi brevemente6.
Occorre precisare preliminarmente che se i protagonisti della globalizzazione reale
sono, in ultima analisi, le imprese e i consumatori, i protagonisti della globalizzazione
finanziaria devono essere identificati nei risparmiatori. Sono loro che, seppure
influenzati dal comportamento di alcuni soggetti (i cosiddetti "raiders") o dai consigli
forniti dagli intermediari finanziari (banche, fondi di investimento, promotori
finanziari) muovono la finanza internazionale e trasmettono l'ordine di investimento
(o disinvestimento) che gli intermediari finanziari portano ad esecuzione. Va
comunque sottolineato che, in misura sicuramente maggiore rispetto alla
globalizzazione reale, gli intermediari o alcuni particolari soggetti sono in grado di
possedere o acquisire a costi minori informazioni rilevanti sull'andamento dei mercati
finanziari.
Detto questo, esaminiamo quali sono i principali benefici economici che vengono
comunemente associati a un incremento della globalizzazione finanziaria e quindi a
una maggiore facilità di mobilizzare e trasferire le proprie attività patrimoniali
all'interno di un mercato reso più ampio dalla globalizzazione.
Sul versante dei vantaggi statici, per definizione, la globalizzazione finanziaria
accresce la mobilità del risparmio e dei fondi mutuabili, che finiscono dunque per
perdere il loro contatto esclusivo con lo Stato di appartenenza. Questa maggiore
mobilità dei capitali permette di acquisire rendimenti più elevati per i propri
investimenti e di sfruttare opportunità di impiego più profittevole. Ciò contribuisce a
una migliore allocazione delle risorse finanziarie dei soggetti economici, resa
possibile dalla accresciuta capacità di diversificazione del portafoglio finanziario.
Inoltre, anche la globalizzazione finanziaria permette di conseguire benefici statici
per la maggiore capacità degli intermediari di specializzarsi nella produzione di
servizi finanziari dove la loro produttività è relativamente maggiore rispetto a quella
dei concorrenti internazionali.
In secondo luogo, il processo di integrazione dei mercati dei capitali rende
progressivamente meno stringente il vincolo stabilito dall'uguaglianza fra risparmio e
investimento interno. In un'economia chiusa, evidentemente, questo vincolo è
insuperabile. L'impossibilità di realizzare investimenti privati in mancanza di un
precostituito stock di risparmi disponibili finisce per soffocare le potenzialità di
sviluppo delle aree arretrate, prive come sono di capitali originariamente accumulati
5
6
Su questo aspetto rinviamo a Asso (2002).
Obstfeld (1998); Bird and Rajan (2001).
8
o di un efficiente sistema di intermediazione finanziaria. Al contrario, questo vincolo
può essere rimosso in presenza di maggiore integrazione fra i mercati finanziari.
Storicamente numerosi sono i sistemi economici che sono stati in grado di ridurre e di
eliminare il differenziale nei tassi di crescita e di avviare processi dinamici di
"catching up" nei confronti delle aree maggiormente sviluppate, grazie
all'investimento di capitali stranieri e a decisioni di delocalizzazione produttiva rese
possibili dalla globalizzazione finanziaria. In questa ottica, episodi virtuosi di
globalizzazione finanziaria si verificarono in Italia negli ultimi decenni dell'800,
quando il processo di industrializzazione fu efficacemente sostenuto dalla presenza di
una rete di nuove istituzioni bancarie a capitale prevalentemente franco - tedesco.
E' stato anche sostenuto, sempre sul fronte dei vantaggi, che l'esistenza di
globalizzazione finanziaria stimola l'adozione di comportamenti ispirati al rigore e
all'efficienza da parte delle autorità di politica economica. Il mercato premia i paesi
virtuosi e boccia quelli che hanno sistemi economici e politici non in regola. Ciò si
verifica perché i risparmiatori tendono a valorizzare maggiormente imprese e paesi i
cui conti economici sono in ordine e i cui programmi di sviluppo sono realistici e
promettenti; al contrario tendono a penalizzare (e quindi a disincentivare)
comportamenti e politiche economiche orientate all'inefficienza, allo spreco, alla
corruzione, al clientelismo. Quindi, governi e soggetti economici sottoposti a un
regime di globalizzazione finanziaria acquisiscono credibilità, reputazione e capacità
di attirare investimenti esteri soltanto se dimostrano con i loro comportamenti
effettivi di meritare la fiducia degli investitori, non tradendola con comportamenti
irresponsabili e dissoluti.
Infine, fra i vantaggi della globalizzazione finanziaria viene spesso menzionata la
circostanza che, nell'epoca del trionfo delle tecnologie informatiche, tutte le politiche
orientate al controllo e alla repressione dei movimenti internazionali dei capitali sono
inevitabilmente destinate al fallimento, soprattutto se esse vengono applicate
unilateralmente da un paese o da un gruppo circoscritto di paesi. Ad esempio,
l'efficacia del ricorso alla celebre Tobin tax per disincentivare i movimenti di capitale
a breve termine è spesso ritenuta debole e insufficiente (anche dal suo stesso autore):
tassare le transazioni finanziarie in funzione diretta rispetto alla loro velocità (e cioè
aliquote elevate se l'investimento iniziale ha breve durata) finisce per avere scarso
significato in presenza di una elevata volatilità delle quotazioni (che alimentano
aspettative di elevati margini di guadagno) e in assenza di una coesione
internazionale che riduca gli incentivi ad evaderla. L'esistenza di zone off-shore (i
cosiddetti “paradisi fiscali”) e di resistenze alla armonizzazione delle aliquote anche
all'interno di regimi fondati sull'Unione economica e monetaria, indeboliscono
fortemente gli effetti repressivi della Tobin tax. In definitiva, se è bassa l'efficienza
dei provvedimenti di politica economica che hanno l'obiettivo di ridurre il livello di
globalizzazione finanziaria, l'abolizione dei controlli e delle restrizioni diventa un atto
inevitabile che peraltro consente risparmi di risorse e minori occasioni di generare
costi di transazione a danno dello sviluppo di nuove attività economiche. Per di più,
alcuni studiosi ritengono che se il mercato finanziario tornasse a essere represso dalle
9
autorità di politica economica è verosimile che ciò comporterebbe un incremento
della corruzione e della speculazione [Byrd 1998].
Fin qui abbiamo esaminato le principali fonti di guadagno prodotte dalla creazione di
un mercato finanziario globale. Tuttavia, soprattutto sul versante dei costi, la
globalizzazione finanziaria può produrre distorsioni e distruzioni della ricchezza di
notevole entità e durata temporale tali da neutralizzare i benefici prodotti
dall'integrazione.
In primo luogo, molti osservano che la relazione che esiste fra la liberalizzazione dei
movimenti di capitale a breve termine e tasso di crescita del reddito sia debole e poco
dimostrata da un punto di vista empirico, a differenza di quanto invece si verifica sul
versante degli scambi internazionali di merci e servizi. Molto spesso gli investimenti
finanziari a breve termine non vengono distribuiti in maniera efficiente; non vengono
impiegati laddove il rendimento è più elevato; non generano un corrispondente
aumento degli investimenti reali. Quando poi effettivamente si verifica, il guadagno
in termini di maggiore efficienza nella allocazione delle risorse non compensa
l'aumento dei rischi provocati dalla deregolamentazione e dalla liberalizzazione dei
mercati finanziari. Questi ultimi non sono meccanismi perfetti ma vengono sempre
più influenzati da ondate improvvise di ottimismo e pessimismo, e dall'impiego di
strumenti speculativi sempre più raffinati. Quindi l'evidenza empirica convalida la
sensazione che i capitali non seguono i cosiddetti "fondamentali" dell'economia (e
cioè la crescita del reddito, lo sviluppo degli investimenti o della produttività del
lavoro) quanto piuttosto la moda, le influenze psicologiche o i comportamenti dei
raiders7.
In secondo luogo, si ritiene che la libertà nei movimenti di capitale genera instabilità
economica e alimenta sentimenti di incertezza che finiscono per deprimere gli
investimenti e per generare situazioni di crisi dei sistemi bancari e dei mercati
azionari. E' un dato di fatto che la recente esplosione nei movimenti internazionali dei
capitali negli ultimi 15 anni sia attribuibile soprattutto agli investimenti di portafoglio
piuttosto che agli investimenti diretti all'estero, il cui impatto sulla crescita del reddito
e dell'occupazione è maggiore. Dai dati pubblicati periodicamente dal Fondo
Monetario Internazionale, emerge che su scala mondiale il rapporto investimenti di
portafoglio / prodotto interno lordo è aumentato sensibilmente dal 2% nel 1885 a
oltre il 10% nel 1998, mentre nello stesso periodo gli investimenti diretti all'estero
mostrano una dinamica più contenuta, crescendo dal 2 al 4%.
In terzo luogo, la globalizzazione finanziaria è associata al manifestarsi del rischio
morale e delle asimmetrie informative che, con maggiore frequenza, si verificano
quando il mercato dei capitali progressivamente diventa unico. Si ha una situazione di
rischio morale quando gli operatori non prendono le dovute precauzioni per
minimizzare i rischi che affrontano nell'acquistare titoli che garantiscono un più
elevato rendimento nominale. Ciò avviene perché chi effettua l'investimento sa che
esiste una forma implicita di assicurazione che lo tutela dal rischio di insolvenza da
parte dell'ente che ha emesso il titolo ad elevato rendimento. Queste forme di
7
Bird (1998).
10
assicurazione fanno sì che gli operatori assumano quantità di rischio eccessive che
alimentano a loro volta l'instabilità dei mercati e del sistema finanziario. Nel passato,
ad esempio, il Fondo Monetario Internazionale, come prestatore di ultima istanza, è
stato spesso accusato per aver fornito questa assicurazione implicita contro il rischio
di insolvenza, stimolando in questo modo comportamenti eccessivamente rischiosi da
parte degli investitori internazionali e comportamenti poco illuminati da parte degli
Stati che non si assumono i costi politici per effettuare le riforme indispensabili
alimentando l'instabilità dei propri "fundamentals" (quali ad esempio il disavanzo
pubblico o il tasso d’inflazione).
Il problema delle asimmetrie informative, invece, insorge quando non tutti gli
operatori dispongono dello stesso livello di informazione sulle condizioni del prestito
e, più in generale, del sistema economico e delle attività patrimoniali che lo
rappresentano (azioni, obbligazioni, strumenti derivati) e che il risparmiatore è in
grado di scegliere per effettuare i propri investimenti sul mercato globale. Ciò può
verificarsi perché le informazioni sono carenti, oppure sono state artatamente
manipolate oppure, quando le informazioni esistono e sono attendibili, risultano
troppo costose da acquisire. Anche in questo caso si verifica la tendenza a prestare
fondi in eccesso che però vengono immediatamente ritirati quando gli investitori
acquisiscono l'informazione mancante o l'informazione corretta. Inoltre, in presenza
di ineguale accesso alle informazioni, i soggetti economici tendono a seguire
passivamente il comportamento di un investitore leader, determinando il cosiddetto
"effetto gregge" che, prima o poi, con il modificarsi delle aspettative, sconvolge la
stabilità dei mercati. Quindi l'esistenza di asimmetrie informative, così come la
presenza del rischio morale, genera eccessi di comportamenti rischiosi e speculativi,
che producono instabilità e volatilità nei movimenti internazionali dei capitali che, a
loro volta, possono provocare crisi finanziarie che colpiscono intermediari finanziari
e risparmiatori. Queste turbolenze che colpiscono il sistema finanziario di un paese si
propagano rapidamente fino a contagiare i sistemi finanziari di altri paesi (effetti
spillover) come è per esempio accaduto nel caso della crisi messicana del 1994
(Tequila effect) o di quella thailandese di tre anni dopo.
In quarto luogo, sempre parlando dei possibili costi, la presenza della globalizzazione
finanziaria può indebolire la capacità dei governi di imporre decisioni di politica
economica. Ad esempio, in presenza di trattamenti fiscali difformi, i soggetti
economici sono maggiormente in grado di evadere legalmente le proprie obbligazioni
e di neutralizzare gli effetti di una politica monetaria restrittiva. Inoltre, se alcuni
fattori produttivi (capitale, lavoro) diventano perfettamente mobili, vi sarà la
tendenza a trasferire l'incidenza della tassazione su quelli che restano immobili (quali
ad esempio la terra o le proprietà immobiliari) creando distorsioni nella distribuzione
del reddito e nella politica fiscale. Anche a seguito di questa ridotta efficacia della
politica economica, molti osservatori affermano che la globalizzazione finanziaria ha
sensibilmente contribuito alla crescita delle ineguaglianze e della povertà su scala
mondiale 8.
8
Si vedano Tanzi (1998 e 2000) e Stiglitz (2001).
11
Infine, in quinto luogo, in presenza di forte integrazione dei mercati finanziari, si è
regolarmente verificato, oggi come nel passato, il crollo nei trasferimenti pubblici di
capitali per motivi umanitari e il naufragio di tutti i progetti di assistenza
internazionali elaborati a favore di particolari aree sottosviluppate o di sistemi
economici in transizione. Dai dati pubblicati dalla Global Development Finance,
emerge che i finanziamenti ufficiali a favore dei paesi in via di sviluppo sono
drasticamente diminuiti nel corso degli anni novanta sia in termini assoluti che in
termini relativi, passando da 56 a 30 miliardi di dollari, e crollando dal 64 al 10% dei
fondi complessivamente investiti in queste aree. Fra i costi della globalizzazione
finanziaria vanno dunque annoverati i mancati benefici attribuibili a una più incisiva
azione di assistenza finanziaria che gruppi di stati hanno svolto nel passato per
favorire la crescita e la ripresa di aree economiche arretrate o quando queste vengono
sconvolte da particolari eventi esogeni, come guerre, epidemie etc.
A seguito di tutte queste tipologie di costo, la liberalizzazione dei movimenti di
capitale è spesso coincisa con un forte aumento dei rischi connessi alla crisi dei
sistemi bancari e alla propagazione di queste crisi anche a danno di sistemi finanziari
strutturalmente più solidi. In altre parole, si è assistito a un forte aumento
dell'instabilità (dei mercati), della volatilità (dei corsi degli strumenti finanziari) e
dell'incertezza (del clima economico) a detrimento delle decisioni di investimento e
di consumo e quindi della crescita del sistema economico. Lo scoppio di una crisi
finanziaria è considerato un evento molto più dannoso e costoso rispetto allo scoppio
di una crisi dell'economia reale quando uno shock da domanda o da offerta colpisce
un particolare settore produttivo (ad esempio, il settore delle automobili). Il costo in
termini di risorse impiegate per il salvataggio di un sistema finanziario o bancario è
enorme e la crisi finanziaria tende a propagarsi rapidamente quando, ad esempio,
viene meno la fiducia in una moneta o nella solidità di particolari attività finanziarie
(azioni, obbligazioni del debito pubblico etc.). E nel mercato dei capitali la fiducia è
un bene essenziale molto difficile da riconquistare e riprodurre. Un paese può
sopravvivere al fallimento di un'impresa o di un'industria, ma difficilmente può
sopravvivere al fallimento di una grande banca o di un sistema finanziario.
Ultima questione relativa ai costi della globalizzazione finanziaria: come si
determinano questi effetti contagio? Perché una crisi finanziaria che colpisce un
paese tende a propagarsi rapidamente e a colpire altri mercati finanziari mentre se una
crisi economica colpisce un paese non necessariamente altri paesi vengono
(immediatamente) coinvolti?
In una situazione di globalizzazione finanziaria esistono numerosi canali di
trasmissione di una crisi da un paese a un altro. Esaminiamone due:
1. supponiamo che le prospettive di sviluppo di un paese emergente (ad es. il
Messico) siano state indebolite da un particolare shock esterno (un colpo di stato,
la mancata attuazione di politiche economiche adeguate ai problemi economici
interni etc.). Gli investitori internazionali perderanno la loro fiducia nei confronti
del Messico e ritireranno i fondi che avevano investito sul mercato finanziario
messicano (titoli e azioni), mettendo sotto pressione la moneta messicana. Ben
presto si assisterà al crollo del valore del peso messicano sul mercato dei cambi, e
12
l'economia messicana si ritroverà ad avere improvvisamente un formidabile
vantaggio competitivo nei confronti di tutti gli altri paesi (es. Argentina, Brasile
etc.) con i quali ha intensi flussi di commercio internazionale. Sul mercato dei
cambi si formeranno aspettative che anche questi paesi, prima o poi, andranno in
crisi non potendo sostenere lo svantaggio competitivo che si è determinato a
seguito della svalutazione del peso messicano. Le monete di Argentina e Brasile
andranno sotto pressione e, molto spesso, l'esistenza di queste aspettative
provocherà il forzato deprezzamento delle altre monete. La crisi valutaria che ha
colpito il Messico si propaga rapidamente fino a contagiare Brasile e Argentina,
ma ben presto altre monete subiranno lo stesso destino;
2. supponiamo che a seguito di una crisi che ha colpito le azioni e le obbligazioni
messicane le banche internazionali vedono ridursi il valore degli investimenti in
titoli messicani che detengono nel loro portafoglio. Supponiamo inoltre che queste
banche abbiano acquisito titoli messicani a garanzia "collaterale" della loro attività
di prestito alla clientela. Uno dei modi per ripristinare il valore del collaterale ed
evitare crisi di liquidità è quello di ridurre l'esposizione delle banche nei confronti
di altri paesi, strutturalmente più solidi del Messico. Così facendo le banche
internazionali cominceranno a vendere titoli di stato emessi da Stati Uniti,
dall'area dell'Euro o da altri paesi contribuendo significativamente alla diffusione
della crisi finanziaria e all'effetto contagio.
3. A proposito di alcuni problemi di "governance" della globalizzazione
Una delle conclusioni a cui siamo giunti è che la teoria economica ha evidenziato
l’esistenza di costi della globalizzazione reale e ancor più della globalizzazione
finanziaria. Questi costi potrebbero essere contenuti da una più efficace azione di
governo della globalizzazione. Ed è a questo argomento che noi ora volgiamo la
nostra attenzione. Prima di affrontare il problema della regolamentazione della
globalizzazione, rispondiamo ad alcuni quesiti preliminari:
? Possiamo dire che attualmente viviamo in un regime di globalizzazione dei
mercati reali e finanziari?
? Possiamo dire che gli strumenti di discriminazione fra prodotti e gli strumenti di
distorsione dei prezzi internazionali che determinano de facto una segmentazione
fra mercati sono stati effettivamente eliminati?
? E' ancora utile, da un punto di vista empirico e operativo, la distinzione fra
globalizzazione reale e globalizzazione finanziaria?
Occorre dire che il tema della misurazione del livello effettivo raggiunto dalla
globalizzazione alla fine del XX secolo ha appassionato gli studiosi e numerose
indagini empiriche stanno tentando di fornire risposte adeguate a queste
problematiche9. Queste ricerche tendono a rispondere negativamente alle prime due
domande e positivamente alla terza. In generale, si afferma che la globalizzazione ha
9
Rodrik (1997 and 2000); Bird and Rajan (2001).
13
proceduto a due velocità: essa è stata assoluta e improvvisa nel mercato dei capitali
dove ha interessato la quasi totalità dei paesi e la quasi totalità dei prodotti finanziari
oggetto di scambio. Negli anni novanta, i movimenti internazionali dei capitali sono
diventati la manifestazione più evidente di ciò che comunemente si intende per
globalizzazione. Al contrario, nel mercato dei prodotti e dei servizi, il livello effettivo
di globalizzazione è rimasto relativamente modesto seppure progressivamente
crescente se si pensa che soltanto un numero ristretto di paesi (circa 20) e di settori
produttivi (pari al 30% del prodotto mondiale) può dirsi veramente coinvolto.
Risultati così difformi trovano una possibile spiegazione nelle cause esterne che
hanno prodotto accelerazioni e ritardi nel processo di creazione del mercato globale e
che abbiamo richiamato in precedenza. Nel caso della globalizzazione finanziaria,
infatti, è possibile identificare un mix fra responsabilità politiche e shocks di tipo
tecnologico. Fra le prime si devono considerare i processi di liberalizzazione dei
movimenti di capitale imposti su scala mondiale dal connubio Wall Street - Fondo
Monetario Internazionale, oppure la ripresa dello spirito europeistico che avvenne a
partire dalla seconda metà degli anni ottanta, con la conseguente abolizione dei
controlli sui movimenti valutari. Resta il fatto che, fino agli anni 80 e con l'eccezione
di Usa e Germania, molti paesi avevano adottato legislazioni restrittive sui movimenti
di capitale, che furono abolite in tutti i paesi avanzati e in buona parte dei paesi in via
di sviluppo. La liberalizzazione finanziaria, è bene precisarlo, è stata pressochè
assoluta, nel senso che mentre il commercio di merci, anche se è giuridicamente
"libero" da tariffe e contingenti, può venire condizionato da regolamenti
amministrativi, clausole contrattuali e altre forme di discriminazione, la moneta e i
capitali quando vengono liberalizzati è difficile "ingabbiarli". Fra le cause
tecnologiche, il ritmo di accelerazione nell'integrazione è stato sicuramente reso
possibile dalle innovazioni tecniche e informatiche che hanno rivoluzionato il
funzionamento dei mercati finanziari, il loro grado di interdipendenza, lo scambio
delle informazioni e l'impatto che le informazioni hanno nella determinazione dei
prezzi. Nel caso invece della globalizzazione reale le decisioni politiche hanno
mantenuto un'importanza relativamente superiore, e l'incremento nel livello di
liberalizzazione è sempre stato guidato dall'alto, tenuto sotto controllo, e diretto
soprattutto alla convenienza dei soggetti economici dotati di maggiore potere e
influenza.
In particolare, negli ultimi decenni, la globalizzazione reale ha preso la forma di:
? una forte discesa del protezionismo tariffario soprattutto nei settori industriali
caratterizzati da alto valore aggiunto e da elevato contenuto tecnologico che
interessano gli scambi che avvengono fra paesi economicamente avanzati;
? una modesta riduzione del protezionismo tariffario e non tariffario su produzioni
tipiche dei paesi in via di sviluppo e in particolare nel settore agricolo e nei settori
industriali a basso valore aggiunto e, almeno inizialmente, una modesta riduzione
del protezionismo sui servizi oggetto di commercio internazionale;
? una forte crescita del rapporto fra le esportazioni mondiali e il Pil, a testimonianza
che la crescita della ricchezza e del benessere è fortemente dipendente
dall'aumento dell'interscambio commerciale. Se si confrontano gli anni cinquanta
14
con gli anni novanta del secolo scorso, si ha immediatamente la percezione del
maggior livello di integrazione e di apertura: infatti, nel 1950, questo rapporto,
calcolato a prezzi costanti, superava appena il 6%, mentre nel 1995 era giunto al
16%. Rispetto al 1950, sempre in termini reali, le esportazioni erano cresciute di
ben 20 volte, mentre il Pil era aumentato di circa 8 volte (Rodrik 2000, p. 178).
Già da questi dati è possibile notare una contraddizione che questi studi hanno
contribuito a evidenziare10. La globalizzazione "sana", cioè quella che crea aumenti
nella produttività nei fattori e nella ricchezza, è un fenomeno ancora tutto sommato
incompleto, geograficamente circoscritto, che pare aver avvantaggiato soprattutto le
economie più avanzate e particolari settori o gruppi di imprese. Al contrario la
globalizzazione più rischiosa, quella che nel giudizio degli economisti e degli storici
economici non ha ancora acquisito meriti incontrovertibili in materia di creazione di
maggiore ricchezza e produttività, sembra essere ormai imperante, è effettivamente
estesa a tutto il globo, e resta difficilmente governabile da parte delle istituzioni
nazionali e internazionali. Tradotto in termini quantitativi, le transazioni giornaliere
aventi un carattere puramente finanziario superano di oltre 50 volte le transazioni
giornaliere aventi un carattere reale e hanno raggiunto un ammontare superiore ai
2000 miliardi di dollari: cioè per ciascun dollaro che viene scambiato per acquistare
beni e servizi, più di 50 vengono utilizzati per acquistare attività finanziarie. Se si
osserva questa realtà da un'altra prospettiva, l'ammontare di liquidità internazionale
investita sui mercati finanziari è invece superiore di beni quindici volte rispetto
all'ammontare complessivo delle riserve ufficiali detenute da tutte le banche centrali,
rendendo del tutto vana la possibilità di intervento anche concertato a difesa di una
particolare valuta del sistema monetario internazionale.
Molte sono le proposte avanzate dalla letteratura specializzata per ridurre questo
squilibrio fra globalizzazione reale e globalizzazione finanziaria, migliorare la qualità
della globalizzazione reale, riducendo i rischi di quella finanziaria. Si possono
frequentemente leggere suggerimenti e proposte per creare una World Financial
Organization o una World Financial Authority che abbiano compiti di sorveglianza e
regolamentazione dei mercati e delle istituzioni finanziarie al fine di garantire il
rispetto di comportamenti ispirati alla prudenza e al contenimento dei rischi. Vi è chi
ha proposto l'istituzione di una World Tax Organization e chi ha sostenuto
l'opportunità di dar vita a una Global Environmental Organization per affrontare,
rispettivamente, le dimensioni internazionali dei problemi collegati all'imposizione
fiscale per disincentivare comportamenti economici rischiosi o il problema del
deterioramento ambientale. Altri più semplicemente hanno proposto di rafforzare la
rete istituzionale esistente (il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Mondiale,
l'Organizzazione Mondiale del Commercio), rendendola più sensibile ai problemi che
il processo di globalizzazione ha contribuito ad esacerbare in materia di distribuzione
della ricchezza, instabilità finanziaria o di lotta alla povertà.
Nella parte restante di questo lavoro ci occuperemo della Organizzazione mondiale
del commercio (o World Trade Organization, Wto) che è stata costituita nel 1995 a
10
Bird and Rajan (2001).
15
conclusione dell'Uruguay round. In particolare, ci proponiamo di illustrare quali sono
le principali funzioni del Wto, i suoi poteri, i risultati prodotti nel corso dei primi
cinque anni di attività, e alcune riforme che sarebbe necessario introdurre per
regolamentare in maniera più efficace la globalizzazione.
Il Wto costituisce la sede di negoziati commerciali multilaterali e di confronto fra gli
Stati riguardo al processo della globalizzazione reale. Nel suo ambito si realizzano
nuovi negoziati che producono accordi commerciali fra paesi membri e ci si
confronta in merito all'interpretazione e all'applicazione degli accordi commerciali
raggiunti.
Il Wto rappresenta il risultato di un lungo processo di consolidamento e di sviluppo
delle relazioni economiche internazionali fondate sui principi della liberalizzazione,
del multilateralismo e della non discriminazione. Storicamente l’idea di creare una
cornice istituzionale per regolamentare i rapporti commerciali internazionali nasce
con il processo di ricostruzione postbellica e trova nella costituzione del Gatt un
primo tentativo di soluzione. Infatti, la prospettiva di cedere sovranità nazionale a
favore di istituzioni internazionali in materia di politica commerciale portò alla
sottoscrizione, nel 1947, di un Accordo generale sulle tariffe e il commercio (General
Agreement on Tariffs and Trade, Gatt). Il Gatt rappresentò il primo tentativo di
ricostituzione di un ordine economico internazionale su scala globale che contribuisse
al superamento dei traumi che erano state prodotti da oltre 15 anni di guerre
commerciali, di discriminazioni e di accordi bilaterali fondati sul baratto e sugli
scambi amministrati.
Nella sua formulazione iniziale il Gatt si caratterizzò per la presenza di pochi paesi (i
partecipanti iniziali erano poco più di 20), per la possibilità di intervenire su pochi
strumenti della politica commerciale (fondamentalmente gli strumenti di prezzo, cioè
i dazi e la tariffa), e su pochi settori (fondamentalmente i settori manufatturieri
avanzati); e per l'esistenza di forti carenze in materia di disciplina e risoluzione delle
controversie commerciali fra paesi membri.
Seppure condizionato da questi limiti strutturali, il Gatt esercitò queste sue funzioni
nel corso di una serie di "rounds" durante i quali i paesi membri approvarono accordi
che, come detto, riuscirono a determinare una riduzione significativa nelle tariffe
medie sullo scambio dei prodotti industriali avanzati.
Sotto tutti gli altri aspetti il Gatt si rivelò un esperienza fallimentare: per quanto
riguarda i paesi poveri e quelli in via di sviluppo, ad esempio, i settori economici
tradizionali (l'agricoltura, l'industria tessile) che potevano essere occasione di crescita
e sviluppo dei paesi poveri restarono a lungo al di fuori del processo di
regolamentazione internazionale affidato al Gatt. L'applicazione di contingenti e
restrizioni quantitative fu formalmente proibita, anche se si introdusse una clausola
che le ammettevano nel caso generico in cui "le importazioni minacciavano di
scardinare il mercato interno". La possibilità di effettuare politiche di dumping della
produzione nazionale e di sovvenzionare direttamente le esportazioni furono ridotte.
Inoltre, in occasione delle recessioni internazionali che furono originate dai due
shocks petroliferi, il processo di crescita del multilateralismo e di riduzione delle
16
discriminazioni prodotte dal protezionismo amministrativo e dalle barriere non
tariffarie sembrò arrestarsi bruscamente.
Resta il fatto che, per superare queste e altre deficienze e per ridurre l’incapacità del
Gatt di intervenire su nuovi settori e su nuove forme di protezionismo commerciale,
nel corso dell'Uruguay round (1995) si procedette alla costituzione del Wto che fin
dall'inizio raccolse l'adesione di un gran numero di paesi. Oggi sono ormai più di 140
che complessivamente coprono oltre il 90% del commercio mondiale.
Se il Gatt era un contratto volontario sottoscritto fra i paesi partecipanti, sin dalla sua
configurazione iniziale al Wto fu attribuita la capacità di imporre ai suoi membri
obblighi più vincolanti ed esecutivi. Si stabilì che la nuova istituzione avrebbe avuto
ampia possibilità di intervento su settori nuovi e tradizionali dell'attività economica
(compresi i servizi, i diritti di proprietà intellettuale, e gli investimenti diretti
all'estero), su qualsiasi strumento di politica commerciale (comprese le barriere non
tariffarie e le barriere amministrative), nonché una nuova disciplina dei meccanismi
di risoluzione delle controversie che ha comportato un sensibile rafforzamento dei
suoi poteri di arbitrato e di sanzione dei comportamenti non conformi agli accordi
sottoscritti.
Quali sono dunque le principali funzioni della nuova organizzazione?
In termini generali il Wto è un'istituzione che opera per ridurre i rischi di reversibilità
del processo di globalizzazione. Infatti, negli anni venti del secolo scorso, la
mancanza di una solida cornice istituzionale che garantisse la sopravvivenza del
processo di globalizzazione è stata ritenuta una delle cause della sua interruzione
traumatica, del crollo del commercio estero e della crisi economica mondiale.
Il principio cardine dell'ordinamento del Wto è quello di favorire la liberalizzazione
del commercio internazionale attraverso l'abbattimento dei costi economici e non del
protezionismo. Alcuni studi recenti hanno calcolato che i costi del protezionismo
sono tuttora molto elevati, se si pensa che i consumatori dei paesi ricchi pagano circa
400 miliardi di dollari l'anno per sovvenzionare produzioni agricole locali che
altrimenti non reggerebbero la concorrenza internazionale e se si pensa che
l'eliminazione delle barriere su prodotti tessili e dell'abbigliamento potrebbe produrre
un aumento del benessere mondiale pari a 50 miliardi di dollari l'anno (fonte Oecd).
Sulla base di queste considerazioni, dalla sua nascita il Wto ha tentato di imprimere
una forte accelerazione al processo di liberalizzazione dei mercati internazionali. Il
Wto ha incoraggiato la riduzione delle tariffe e la sostituzione delle restrizioni
quantitative con restrizioni tariffarie (il cosiddetto processo di tariffazione), come
preludio alla più completa liberalizzazione degli scambi 11.
Per realizzare questo processo di liberalizzazione delle transazioni, il Wto stabilisce
protocolli che prevedono l'applicazione e il rispetto di nuovi procedimenti per ridurre
le barriere tariffarie e non tariffarie che tuttora colpiscono i prodotti oggetto di
scambio internazionale. Questi protocolli devono essere approvati all'unanimità per
11
Il Wto ha fatto proprie le conclusioni del dibattito teorico sulla "non equivalenza" fra tariffe e contingenti, che si è
concluso a favore della preferenza per gli strumenti di prezzo rispetto agli strumenti quantitativi. Le principali
motivazioni di questa preferenza sono fondate sulla minore discriminazione, sulla maggiore efficienza, e sui minori
incentivi di rent seeking che le tariffe garantiscono rispetto ai contingenti.
17
poi essere applicati all'interno degli ordinamenti nazionali dei paesi membri e
generalmente stabiliscono tempi ben definiti per l'introduzione delle nuove misure di
politica commerciale, in modo da evitare traumatici processi di aggiustamento indotti
da una esposizione improvvisa di un settore alla concorrenza internazionale. Una
volta approvati, la loro validità è estesa a tutti i paesi membri pena la comminazione
di sanzioni o l'esclusione dall'Organizzazione. Il Wto opera quindi all'interno di un
processo decisionale non particolarmente snello e la cui efficacia rischia di essere
fortemente ridimensionata dalla continua richiesta dell'unanimità dei consensi.
Quando ciò non avviene, il processo decisionale e il trasferimento di nuovi poteri
sotto la giurisdizione del Wto si interrompe, come è avvenuto nel corso del recente
fallimento del Seattle round. Tuttavia, il meccanismo dell'unanimità è stato fino ad
ora difeso e mantenuto, anche perché esso determina, da un lato, un forte aumento del
potere contrattuale dei paesi membri appartenenti alle aree economicamente meno
sviluppate e, dall'altro, permette ai paesi ricchi di negoziare contemporaneamente con
tutti i principali partners commerciali.
Un altro aspetto innovativo dei processi decisionali condotti all'interno di questa
istituzione è che tutti gli accordi elaborati dal Wto vengono negoziati secondo il
principio dell'impegno unico e con il rispetto della clausola del trattamento nazionale
e della non discriminazione.
Il principio dell'impegno unico implica che i paesi membri sono obbligati ad
esprimersi (accettando o rifiutando) sull'intero accordo che viene sottoposto alla loro
approvazione (e non su singole parti di esso) e sono altresì obbligati a introdurre le
necessarie riforme interne per adeguarsi al contenuto dell'accordo. Con questo
principio si intende ridurre il ricorso a trattamenti speciali e differenziali a favore di
un paese o di un gruppo di paesi che erano invece previsti dal Gatt per rendere più
graduale il processo di liberalizzazione a tutti gli aggiustamenti strutturali che esso
comporta. Esiste ancora la possibilità di ottenere deroghe al principio dell'impegno
unico che sono, tuttavia, concesse sulla base di procedure istituzionali molto più
rigide rispetto a quanto accadeva sotto l’egida del Gatt. Per ottenerle è necessaria
l'approvazione di una maggioranza qualificata del 75% dei paesi membri, l'evidenza
di circostanze eccezionali che le giustificano, la fissazione di una data di scadenza, e
la possibilità di sottoporre la decisione di concessione a un riesame periodico.
Il rispetto della clausola del trattamento nazionale implica che le imprese e i prodotti
dei paesi membri devono ricevere lo stesso trattamento che lo Stato riserva alle
proprie imprese nazionali in materia di autorizzazioni, regolamenti amministrativi,
standards produttivi, imposizione fiscale etc. La presenza del Wto dovrebbe
contribuire a "legare le mani" ai governi nazionali, impedendo loro di incorrere nella
tentazione di "peccare" concedendo favori, privilegi e sovvenzioni a beneficio dei
produttori nazionali o di speciali gruppi di pressione (questa funzione implicita svolta
dal Wto è definita "l'effetto Ulisse").
Infine, il rispetto della clausola di non discriminazione implica l'adozione di un
approccio multilaterale che eviti il ricorso a forme di accordi parziali fra gruppi di
paesi membri. Nel caso però in cui alcuni paesi membri decidono di sottoscrivere un
accordo preferenziale (quali ad esempio la costituzione di un'area di libero scambio
18
oppure l'ingresso di nuovi paesi all'interno di un'unione economica e monetaria
preesistente) il Wto acconsente, ma impone l'obbligo di avviare un processo di
armonizzazione della politica commerciale uniformando barriere tariffarie e non
tariffarie al livello più basso fra quelle esistenti a seguito del nuovo accordo. Ad
esempio, un allargamento a est dell'Unione europea che amplierebbe nei fatti l'area di
libero scambio creata con il Mec e l'atto unico, comporterebbe una liberalizzazione
accelerata della politica agricola comunitaria, a causa della presenza di nuovi paesi
membri che adottano barriere protezionistiche più contenute su un gran numero di
prodotti agricoli.
Se dunque queste funzioni rappresentano un significativo potenziamento di quelle
originariamente presenti nel Gatt, che cosa succede se un paese membro non si
adegua a questi obblighi e, più o meno consapevolmente, agevola una loro violazione
da parte dei soggetti economici? Una fra le principali novità del Wto è, appunto,
costituita dal nuovo meccanismo di risoluzione delle controversie commerciali (il
cosiddetto "dispute settlement process"). Con queste nuove procedure, i paesi membri
sono tenuti a risolvere eventuali controversie commerciali in merito all'applicazione o
all'interpretazione di un accordo sulla base di un meccanismo rigidamente prestabilito
e valido per tutti.
In generale, nella gestione del Dispute Settlement Process, il Wto agisce come una
sorta di "authority" del commercio mondiale che ha il compito di interpretare gli
accordi, stabilire i casi in cui si è verificata una loro violazione da parte di paesi
membri e determinare le forme sanzionatorie a carico dei colpevoli. Il processo per la
risoluzione delle controversie è articolato in numerose fasi "processuali" distinte e i
cui tempi sono rigidamente prestabiliti. Le principali sono:
? L'apertura della controversia: ciò avviene da parte di un paese membro,
eventualmente affiancato da altri paesi membri che ritengono di essere stati
danneggiati dalla politica commerciale di un terzo paese che avrebbe commesso
violazioni di un accordo sottoscritto o ritardi nella sua applicazione;
? La ricerca di una soluzione amichevole extragiudiziale ("out of court settlement")
? La costituzione di un panel di esperti chiamati alla formazione del giudizio
? La formazione e costituzione delle prove
? L'emanazione della sentenza
? Il ricorso in appello
? Il rispetto del dispositivo della sentenza e la sua applicazione
? La concessione da parte del Wto di poteri e di strumenti di rappresaglia unilaterale
che il paese vincitore della controversia può applicare a danno della controparte
nel caso in cui continui ad esservi contestazione sulla applicazione della sentenza
da parte del paese colpevole. Queste misure di compensazione del danno possono
essere applicate a settori diversi, anche se affini, rispetto a quello che ha originato
la controversia.
Quali sono i principali risultati prodotti da questo nuovo sistema di risoluzione delle
controversie? A cinque anni dalla sua istituzione, si può dire che i paesi membri
stanno facendo un crescente uso dei meccanismi per risolvere le controversie
19
commerciali, a dimostrazione di una diffusa fiducia nella sua efficacia. In questo
periodo di tempo il Wto ha affrontato oltre 250 casi di controversie commerciali, a
fronte dei 300 interventi effettuati dal Gatt nei 50 anni della sua esistenza.
La codificazione delle procedure e dei tempi massimi di espletamento dei singoli
passaggi ha reso il sistema più efficiente, automatico e trasparente. Il sistema è in
grado di trattare i casi più complessi relativi ai nuovi accordi Wto.
Un risultato significativo che emerge dalle tabelle che regolarmente vengono
pubblicate nel sito ufficiale del Wto, riguarda la circostanza che la maggior parte
delle procedure avviate sono state risolte amichevolmente con "out of court
settlements". Ciò dipende dal fatto che la maggiore efficienza del sistema e il rischio
di essere condannati dal panel Wto hanno prodotto effetti positivi nella ricerca di
soluzioni extragiudiziarie e nella ricerca dei necessari aggiustamenti per pervenire al
rispetto degli accordi sottoscritti.
Viene spesso sottolineato nei rapporti ufficiali del Wto che i casi risolti dal sistema
non riguardano soltanto le controversie che sono sorte fra paesi ricchi e
industrializzati. E' vero che, in termini relativi, le controversie più importanti
rigurdano l'interscambio fra Unione Europea e Stati Uniti, che rappresentano le due
maggiori potenze commerciali del mondo. Tuttavia, vi sono numerose istanze di
controversie sorte fra paesi in via di sviluppo e paesi ricchi che si sono risolte con il
riconoscimento delle ragioni dei paesi poveri e la richiesta di adeguamento
all'accordo da parte dei paesi ricchi. Anche questo fatto ha contribuito a rafforzare la
credibilità del Wto e a indurre comportamenti ispirati al rispetto delle obbligazioni
reciproche. Ad esempio, il 44% dei casi completati al gennaio 1999 erano stati
sollevati dai paesi in via di sviluppo. Infine, nella maggior parte dei giudizi, la
controparte sconfitta ha adottato le riforme necessarie per adeguarsi agli accordi. In
altre parole, chi ha violato l’accordo è stato punito e ha accettato le sanzioni
comminate.
Quali sono, secondo gli studiosi delle relazioni economiche internazionali, gli
obiettivi che il Wto e i nuovi meccanismi di risoluzione delle controversie non sono
stati in grado di realizzare? In primo luogo, si sono incontrate notevoli difficoltà nella
gestione di dispute non tradizionali. Il Wto e il Dsm sono stati utilizzati per affrontare
questioni che solo perifericamente appartengono alla sfera del commercio
internazionale e dove il saldo finale fra i costi e i benefici della globalizzazione (o del
protezionismo) risulta essere ancora più incerto. Si tratta di controversie che nascono
non tanto perché un paese membro ha agito in violazione di accordi preesistenti per
ragioni che rientrano nei tradizionali obiettivi del protezionismo e della distorsione
della concorrenza internazionale (quali ad esempio la sovvenzione indiretta di
produttori nazionali o la tassazione di produttori esteri). Esse invece riguardano i
conflitti che si sono scatenati fra le ragioni della globalizzazione e la salvaguardia di
valori e obiettivi non strettamente quantificabili da un punto di vista commerciale,
quali i diritti umani, i diritti degli animali, i diritti dei lavoratori o di particolari
minoranze, la difesa dell'ambiente, la tutela della salute, il consumo di beni prodotti
attraverso mutazioni genetiche.
20
Sinteticamente, questi conflitti originano in situazioni in cui i paesi membri possono
essere caratterizzati da funzioni del benessere sociale molto diverse fra loro12; dove le
funzioni del benessere sociale dipendono da parametri tipicamente economici (quali,
ad esempio, il reddito pro capite), ma anche da parametri non economici (la
sensibilità nei confronti dei problemi dell'ambiente e dell'inquinamento, delle specie
animali in via di estinzione, del rispetto per le minoranze etc.). Oppure conflitti sono
insorti quando i paesi membri, seppure caratterizzati da funzioni del benessere sociale
relativamente simili, sono costretti a decidere in condizioni di incertezza scientifica o
in mancanza di informazioni attendibili su quali possono essere le ripercussioni che il
libero scambio commerciale produce su determinati valori non strettamente
economici. Spesso il Wto è stato accusato di operare in un vuoto morale, non
riconoscendo legittimità a qualsiasi politica di restrizione della globalizzazione,
neppure quando questa viene imposta per motivi etici, ambientali etc. Il Sistema di
risoluzione delle controversie è stato giudicato insufficiente in quanto non ha mai
"invertito" l'onere della prova chiamando in causa il paese che opera contro il rispetto
dei valori non economici, obbligandolo a dimostrare che la liberalizzazione
effettivamente non produce effetti negativi su questi valori. In tutti questi casi,
l'esperienza recente ha mostrato l'inadeguatezza del Wto a intervenire.
Tuttavia, trascurando le dispute che hanno per oggetto la violazione di valori e diritti
non strettamente economici, nel paragrafo successivo ci limiteremo ad affrontare
l'inadeguatezza del Wto in merito agli effetti che l'attuale processo di globalizzazione
produce su valori e categorie economiche e in primo luogo sulla diffusione della
povertà nel mondo.
4. Globalizzazione e povertà
Nell'anno 2000 più di un miliardo di persone vive con meno di 1 dollaro al giorno.
La globalizzazione dei mercati e il vigente ordine economico internazionale sono
spesso accusati di non aver risolto i più urgenti problemi che affliggono l'umanità.
Alcuni osservatori ritengono che essi possono contribuire a mettere a repentaglio le
sue prospettive di sopravvivenza. In particolare, la povertà e l'ineguaglianza nella
distribuzione del reddito; la sostenibilità e la salvaguardia dell'ambiente; la tutela
della salute, dell'istruzione e di alcuni fra i più fondamentali diritti dell'uomo corrono
il rischio di essere aggravati dalla tendenza, per molti aspetti inarrestabile,
all'integrazione e alla liberalizzazione delle principali attività economiche. Nel caso
della globalizzazione finanziaria, l'esistenza di una relazione diretta fra aumento della
liberalizzazione dei mercati e aumento della povertà viene oramai riconosciuta dalle
autorità internazionali. In un recente rapporto della Banca Mondiale (World Bank
2000) si legge che "l'integrazione finanziaria espone i paesi in via di sviluppo a
shocks esogeni. Questi shocks riducono spesso i vantaggi dal commercio e
contribuiscono significativamente ad aumentare la povertà nel breve e nel medio
termine. Questo fatto sottolinea l'importanza di risolvere il problema della volatilità al
12
Calzolari e Immordino (2001).
21
fine di massimizzare gli effetti positivi che la crescita determina nella lotta alla
povertà".
In effetti, nonostante i progressi registrati negli ultimi decenni in termini di crescita
del reddito e del benessere, alcuni di questi problemi sono oggi sensibilmente più
acuti e più drammatici rispetto a quanto apparivano, ad esempio, negli anni sessanta.
Almeno da un punto di vista empirico, se il processo di integrazione è andato avanti,
e il tasso di crescita dell’economia mondiale è aumentato, anche la povertà nel
mondo e le disuguaglianze sono aumentate. Se si guarda, ad esempio, al rapporto fra
redditi pro capite dei paesi più ricchi e dei paesi più poveri, si osserva una crescita
impressionante da 11:1 nel 1870, a 38:1 nel 1960, 1 52:1 nel 1985, a 68:1 nel 1996
(Onida 1998). Tuttavia, il problema dell'esistenza di un'eventuale correlazione
positiva fra i due fenomeni è tuttora sull'agenda della ricerca scientifica e del dibattito
politico, anche se è opportuno effettuare alcune considerazioni in merito.
In generale, il dibattito sulla relazione fra globalizzazione da un lato, e povertà,
standards di vita e diritti dell'uomo dall'altro risulta spesso oscurato da atteggiamenti
superficiali e fortemente ideologizzati. Questo, è opportuno notarlo, avviene su
entrambi i fronti che vedono schierati detrattori e sostenitori. Da un lato i critici della
liberalizzazione dei mercati sostengono che concorrenza e integrazione sono sempre
causa di sciagura per coloro che si trovano in una posizione di "inferiorità
comparata", in quanto poveri, sfruttati o emarginati. Dall'altro lato, i critici del
protezionismo e dell'intervento restrittivo dello Stato affermano che i guadagni dal
commercio esistono, vanno sicuramente a vantaggio di pochi fortunati ma prima o
poi finiscono per ricadere a valle a beneficio della grande massa che vive nella
povertà, nell'indigenza, nella malattia. In altre parole, il povero agricoltore nel
momento in cui acquista gradi di libertà per rifornirsi sui mercati mondiali e per
vendere i propri prodotti a un numero potenzialmente infinito di consumatori (e non
soltanto al dispotico governo nazionale a prezzi amministrati) crea inevitabilmente le
premesse per aumentare il proprio benessere e la propria capacità di produrre.
Ora l'evidenza empirica dimostra che entrambi questi punti di vista rappresentano
generalizzazioni estreme, spesso errate e sicuramente parziali sul funzionamento dei
meccanismi che legano i due fenomeni. La realtà della globalizzazione è
estremamente complessa e non può essere descritta con conclusioni universali. Più
pragmaticamente, molti ricercatori si sono recentemente interrogati sul fatto se la
globalizzazione e la sua “governance” possano essere causa di un ulteriore
peggioramento nella distribuzione del reddito e quindi causa di un incremento della
povertà e della sua diffusione [Onida (1998), Finger (2001), Lorentzen (2002) e
bibliografia ivi citata].
Dalla lettura di questi lavori si ha conferma che il recente processo di globalizzazione
realizzato sotto la supervisione del Wto non ha facilitato in misura rilevante l'accesso
al mercato globale dei sistemi economici in via di sviluppo. Gli interessi economici
dei paesi poveri continuano a restare subordinati e discriminati rispetto agli interessi
economici dei paesi ricchi i quali, sotto la compiacente supervisione del Wto,
continuano a utilizzare strumenti tradizionali di discriminazione e distorsione di
prezzi e quantità a svantaggio di beni che sono potenzialmente oggetto di scambio
22
internazionale e che vengono prodotti dai paesi economicamente arretrati (Lorentzen
2002).
Le ragioni per cui i paesi in via di sviluppo sono tuttora ostacolati dagli accordi
dell'Uruguay round e dalla loro applicazione sono molteplici. Cominciamo dalle più
banali: l'introduzione del meccanismo di risoluzione delle controversie e il processo
di implementazione degli accordi richiedono impegni finanziari considerevoli che
prendono la forma di una pletora di costi aggiuntivi che riducono il guadagno
dall'integrazione e che comprendono:
? costi per l'acquisizione delle informazioni;
? costi per l'acquisizione delle capacità tecniche per avviare e seguire le dispute;
? costi per introdurre i provvedimenti e le riforme stabilite dall’accordo;
? costi per il mantenimento delle delegazioni presso la nuova Organizzazione.
Se questi costi risulteranno più che compensati dai benefici prodotti dal maggior
grado di integrazione e di trasparenza è una questione che, allo stato attuale, resta
tutta da dimostrare. Inoltre, i paesi in via di sviluppo non hanno mancato di
dimostrare il loro scetticismo e le loro critiche nei confronti dell'introduzione delle
nuove materie sotto l'egida del Wto. Essi ritengono che introdurre regolamentazioni
restrittive sugli standards connessi all'ambiente o alle condizioni lavorative non sia
altro che assecondare i desideri dei paesi ricchi che riescono, in questo modo, a
imporre forme di protezionismo mascherato e a mantenere elevate le barriere
all'ingresso di nuove produzioni altamente competitive che potrebbero provenire dai
paesi più poveri.
Arriviamo agli argomenti più scottanti. E' noto che le economie dei paesi poveri o in
via di sviluppo sono largamente dipendenti da produzioni agricole, dall'esportazione
di prodotti di base e dell'industria leggera (principalmente tessile, abbigliamento e
alimentare). I paesi ricchi hanno deluso le aspettative del resto del mondo
relativamente alla completa liberalizzazione dei settori nei quali molti paesi arretrati
avrebbero potuto proficuamente specializzarsi e vedere crescere con successo le
proprie imprese. In altre parole il protezionismo nel settore tessile, in agricoltura,
nelle produzioni di articoli in pelle, nell'abbigliamento è restato elevato in termini
assoluti e relativi, con gravi danni per i paesi poveri. Le prove per la dimostrazione di
questo assunto sono riportate con dovizia di particolari e di dati statistici in una
recente ricerca del Wto [Wto 2001]. In essa si osserva che la quota dei prodotti "duty
free" è tuttora molto bassa nei settori dove i paesi poveri godono di vantaggi
produttivi che potrebbero sfruttare maggiormente se queste produzioni fossero
ricondotte all'interno di un mercato più ampio e più libero. Una completa
liberalizzazione del commercio estero sui loro prodotti comporterebbe un incremento
annuale dei "gains from trade" pari a 155 miliardi di dollari, cioè oltre tre volte
quanto essi ricevono annualmente sotto forma di aiuti pubblici (Wto 2001). Secondo
un altro studio condotto dall'università del Michigan una riduzione di un terzo delle
barriere commerciali che ancora affliggono i beni prodotti dai paesi in via di sviluppo
provocherebbe un'espansione dell'economia mondiale pari a oltre 600 miliardi di
dollari, che diventerebbero 2000 se l'eliminazione delle restrizioni fosse assoluta.
Quali sono le principali argomentazioni a sostegno di queste tesi?
23
In primo luogo, il processo di liberalizzazione dei contingenti, delle restrizioni
quantitative e delle barriere non tariffarie che ostacolano l'ingresso dei produttori nel
mercato globale è risultato tortuoso, eccessivamente graduale e inadeguato alle
potenzialità di crescita delle esportazioni dei paesi in via di sviluppo. Ad esempio il
processo di tariffazione dei contingenti sui prodotti tessili a seguito della abolizione
dell'accordo multifibre sta procedendo con grande lentezza.
In secondo luogo, anche la riduzione delle tariffe in questi settori è avvenuta a ritmi
più blandi, condizionati all'utilizzazione di fattori produttivi e semilavorati "made in
Usa", e mantenendo dei "picchi tariffari" che non hanno riscontro in settori industriali
più evoluti: rispetto ad altri settori produttivi, quelli nei quali sono specializzati i
paesi poveri sono complessivamente colpiti da dazi più elevati.
In terzo luogo, i settori più aperti alla concorrenza dei paesi poveri sono tuttora colpiti
da forme esose di tariff escalation che, aumentando l'incidenza della tassa man mano
che il processo produttivo avanza, rende particolarmente ardua la possibilità di
realizzare livelli crescenti di valore aggiunto13. Ciò limita la possibilità di avviare un
processo di industrializzazione all'interno della aree arretrate fondato sullo
sfruttamento di attività di base o di produzioni agricole.
In conclusione, la mancata realizzazione della globalizzazione in questi mercati e una
poco efficiente regolamentazione da parte del Wto sono considerate cause importanti
di ostacolo all'industrializzazione e al superamento del livello di povertà che affligge
intere aree geografiche del mondo. In questo modo si è contribuito a mantenere in
vita imprese concorrenti che operano nei sistemi economici avanzati e a ritardare lo
sviluppo delle esportazioni e della crescita dei paesi in via di sviluppo.
Vediamo alcuni esempi dell'incidenza del fenomeno che va sotto il nome di tariff
escalation. Dai dati prodotti dal Wto (2001) emerge che, relativamente ai settori
dell'abbigliamento, della pelle e delle calzature, le tariffe sulle esportazioni di materie
prime da parte dei paesi in via di sviluppo sono alquanto inferiori rispetto alle tariffe
imposte sull'esportazione di prodotti semilavorati, i quali sono a loro volta colpiti da
tariffe più basse rispetto a quelle imposte sull'esportazione dei prodotti finali.
Un caso particolarmente eclatante è l'Australia dove, mediamente e per il settore
tessile, questi tre livelli tariffari sono, rispettivamente pari a 1,5%, 23% e 36%; ma
anche l'UE, gli Usa e il Giappone sono caratterizzati da un atteggiamento di politica
commerciale fondato sulla tariff escalation. Tutto ciò si inserisce in un panorama reso
più difficile dagli effetti indotti da altri provvedimenti di tipo restrittivo, che riducono
la possibilità dei paesi poveri di partecipare alla globalizzazione (leggi
sull'emigrazione, sugli standards ambientali etc.).
In definitiva, il soggetto economico che vive in un paese povero non è in grado di
vendere alle condizioni migliori i prodotti che sa fare meglio; non è in grado di
vendere i fattori produttivi di cui dispone a più buon mercato (attraverso
l'emigrazione della forza lavoro) e magari è costretto a vivere in un ambiente reso più
ostile e degradato dall'uso eccessivo e dagli sprechi di gas e di altre fonti di energia
13
In altre parole il tasso effettivo di protezione (che indica il livello di protezione effettivamente accordata alla
formazione di valore aggiunto da parte di un settore produttivo) risulta essere fortemente positivo per i settori
concorrenti che si trovano nei paesi industrialmente avanzati.
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utilizzate da parte dei paesi industrializzati. Questa forma di globalizzazione reale
riduce le potenziali economie di scala per i paesi poveri mentre impone loro alcune
diseconomie esterne che li danneggiano.
Per contribuire a ridurre povertà e disuguaglianza, la politica commerciale deve
diventare effettivamente globale, nel senso che deve essere regolamentata per
consentire a tutti i paesi eguale condizioni di accesso al mercato globale. Attualmente
viviamo, soprattutto nei settori di produzione dei beni reali e dei servizi, in un regime
di globalizzazione parziale e discriminante soprattutto nei confronti dei più deboli e
che tende a favorire la capacità di produzione ed esportazione dei paesi
industrializzati e delle imprese multinazionali.
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