1 Globalizzazione reale e globalizzazione finanziaria: aspetti teorici e problemi di regolamentazione. Pier Francesco Asso Università degli Studi di Palermo 1. Introduzione Negli ultimi cinquanta anni la politica economica internazionale ha favorito un aumento nella liberalizzazione degli scambi commerciali e delle transazioni finanziarie. Questo processo ha subito una forte e a volte traumatica accelerazione in conseguenza di mutamenti improvvisi e in parte imprevedibili che hanno interessato il quadro politico internazionale e la facilità di accesso ai diversi mercati nazionali da parte di imprese e consumatori. L'analisi e la descrizione di questo fenomeno, che comunemente viene definito con il termine di "globalizzazione", ha attirato l'attenzione di coloro che si occupano di problematiche connesse alle relazioni economiche internazionali, ma anche di una folta schiera di studiosi appartenenti alle diverse scienze politiche e sociali. Come spesso succede, si è assistito a un'esplosione nell'uso e nell'abuso del termine "globalizzazione". Cominciamo quindi proponendo una questione solo apparentemente semantica: qual'è la definizione più corretta di globalizzazione? E che cosa intendono gli economisti quando parlano di globalizzazione? Per un economista una definizione molto generale di globalizzazione potrebbe suonare grosso modo così: la globalizzazione è un regime che permette di ridurre il costo di effettuare transazioni economiche su scala mondiale e quindi di aumentare il tasso di crescita del prodotto e del benessere economico. La globalizzazione si realizza attraverso un processo (legislativo, tecnologico, politico, culturale etc.) che promuove: ? l'abbattimento di tutte le forme di restrizione agli scambi commerciali (dazio, contingente o altro) che impediscono o riducono il livello di integrazione fra i mercati; ? una maggiore mobilità dei prodotti oggetto di scambio internazionale (beni e servizi); ? la libera circolazione delle idee, delle conoscenze e dei fattori produttivi (capitale e lavoro); ? un più efficace sfruttamento nella riduzione dei costi di trasporto, di comunicazione e di informazione. Fra le caratteristiche salienti della globalizzazione vi è dunque quella di rafforzare l'integrazione fra mercati e, anzi, il suo obiettivo finale può essere identificato nella creazione di un mercato unico mondiale, nel quale i prezzi e le quantità dei beni e dei fattori produttivi oggetto di scambio non vengono distorti dalla politica commerciale e dalle decisioni imposte dalle autorità di politica economica. In ultima analisi, la globalizzazione dei mercati viene quindi a coincidere con la libertà che i soggetti economici (imprese e consumatori) hanno acquisito relativamente alla loro capacità 2 di effettuare scelte in merito ai beni e ai servizi reali e finanziari che essi decidono di produrre o desiderano di acquistare. Quali sono gli interrogativi più frequenti che gli studiosi si sono posti a proposito di questo processo di globalizzazione dei mercati e dei suoi principali protagonisti. Proviamo a presentarne un breve elenco. ? E' possibile identificare con precisione le cause che determinano la globalizzazione e gli effetti che essa produce sulla ricchezza delle nazioni, sulla sua crescita e sulla sua distribuzione? ? Quali sono le argomentazioni che inducono a ritenere che il processo di globalizzazione dei mercati sia effettivamente il (principale) responsabile di alcuni fra i più gravi problemi economici che affliggono l'umanità (povertà, fame, mortalità, inquinamento)? ? Chi è, e chi può diventare, un protagonista della globalizzazione? Soltanto le grandi imprese multinazionali oppure anche quelle di dimensioni più contenute? I consumatori dei paesi ricchi o anche coloro che vivono al di sotto del livello di povertà? E con quali effetti sul loro standard di vita e sulle aspettative di sopravvivenza? ? Chi è che rischia maggiormente di soccombere di fronte alla globalizzazione dei mercati? Lo stato nazione o il sistema dei partiti? Il lavoratore dipendente o il sindacato? Le società multinazionali o le piccole e medie imprese? ? In che modo è possibile intervenire per regolamentare gli eccessi della globalizzazione ed eliminare le distorsioni che essa produce? Chi dovrebbe farlo? Gli stati nazionali, gli organismi internazionali o chi altro? ? Quali utili lezioni è possibile trarre dall'esperienza storica? E' condivisibile la tesi che sostiene che siamo in presenza di un fenomeno che è già esistito in fasi precedenti della storia economica? E con quali similitudini? E si può forse dedurre che siamo di fronte a un fenomeno reversibile e in quale misura? Questo saggio non si propone di offrire risposte originali su tutte queste tematiche né, tantomeno, di tentare un bilancio storiografico sui dibattiti che sono fioriti intorno a esse. Più modestamente, ci limiteremo a esporre i risultati di alcune ricerche che hanno indagato sulle principali tipologie dei costi e dei benefici economici che comunemente vengono associati alla globalizzazione, e a suggerire alcuni possibili rimedi per una sua più efficace governabilità da parte delle istituzioni sovranazionali1. Ma, prima di tutto, quand'è e in che modo la parola “globalizzazione” fa il suo ingresso nella terminologia corrente e in quella specialistica? Occorre ricordare che per gli storici dell'economia la globalizzazione è un fenomeno relativamente antico. Senza voler andare troppo indietro nel tempo, illustri studiosi hanno descritto gli effetti prodotti dall'era della globalizzazione che si sviluppò nella seconda metà dell'800 a seguito dell'ondata di innovazioni tecnologiche che rivoluzionarono il sistema delle comunicazioni e dei trasporti2. Essa produsse effetti 1 Si vedano in proposito le rassegne della letteratura presentate in Bird and Rajan (2001), e nei contributi pubblicati in Pizzuti (1999) e Corsetti, Rey, Romagnoli (2001). 2 Bordo, M., B. Eichengreen and D. Irwin (1999); Baldwin and Martin (1999). 3 importanti per l'avvio e, soprattutto, per la propagazione della cosiddetta seconda rivoluzione industriale, per poi interrompersi bruscamente con l'attentato di Sarajevo e lo scoppio della prima guerra mondiale. Nei trent'anni successivi vi fu l'apoteosi della "non globalizzazione" che prese, di volta in volta, il nome di autarchia economica, bilateralismo, neomercantilismo e nazionalismo economico. Di globalizzazione si tornò timidamente a parlare negli anni della ricostruzione postbellica anche se fu soltanto nel 1957 che la parola "globalizzazione" fece il suo ingresso nell'Oxford Dictionary. Da un punto di vista analitico, negli anni cinquanta si attribuì a "globalizzazione" un significato fondato sulla contrapposizione fra due possibili modelli alternativi di integrazione economica: quello fondato su un approccio regionale o preferenziale e quello fondato appunto su un approccio globale o multilaterale. Storicamente, il primo veniva adottato da un gruppo limitato di paesi che, per motivi politici, di prossimità geografica o di consistente integrazione economica, raggiungeva un accordo per favorire il rilancio del commercio reciproco. Proprio nel 1957 questo modello fu consacrato dalla sottoscrizione del trattato di Roma e dalla conseguente creazione di un'unione doganale fra sei paesi. Come lo stesso termine "preferenziale" sottintende, tutti gli accordi regionali sono basati sulla discriminazione fra produttori e consumatori appartenenti a paesi diversi: si ha una riduzione (spesso un azzeramento) dei dazi e delle restrizioni commerciali fra i paesi che costituiscono la "regione" o l'area di libero scambio; si mantengono (e spesso si rafforzano) le barriere tariffarie e non tariffarie fra la nuova area e il resto del mondo. Proprio per questo motivo alcuni fra i più autorevoli studiosi della politica commerciale ritengono che la formazione di blocchi commerciali preferenziali finisce per ostacolare il consolidamento di un nuovo ordine economico internazionale fondato sulla libertà degli scambi 3. Tuttavia, almeno in una prima fase, essi sono spesso ritenuti più realisticamente praticabili rispetto a una politica commerciale fondata su un approccio globale e multilaterale, dove il processo di liberalizzazione viene esteso a un numero quanto più ampio di prodotti e di paesi, e trae alimento dai principi della concorrenza perfetta, della non discriminazione e dell'adozione della clausola della nazione più favorita4. Storicamente, due sono stati i propulsori fondamentali che hanno agevolato la trasformazione dei blocchi regionali in un processo più ampio di globalizzazione. Da un lato, vi è il contributo della tecnologia: l'introduzione di innovazioni che abbattono i costi di trasporto dei prodotti e quelli relativi all’acquisizione delle informazioni accelera l'integrazione fra mercati, riducendo le distanze spaziali e temporali nell'ambito delle quali si effettuano le scelte di produzione e di consumo. Le ferrovie e il telegrafo nell'800, il trasporto aereo e le nuove e sempre più efficienti tipologie di comunicazione nella seconda metà del '900 hanno condiviso parte importante nei due diversi processi di globalizzazione. In effetti, il crollo dei costi di 3 Si veda Bhagwati (1996). Grazie all'adozione di questa clausola, qualsiasi atto di liberalizzazione bilaterale dei rapporti commerciali fra 2 paesi diventa automaticamente multilaterale. Cioè tutti i benefici e le concessioni decise a favore di un paese devono essere estese a tutte le altre parti contrattuali in base al principio della non discriminazione. 4 4 trasmissione delle informazioni rappresenta l'elemento distintivo della ripresa della globalizzazione negli ultimi decenni del XX secolo. Dall'altro lato vi è il contributo della politica e della armonizzazione della normativa: la promozione di provvedimenti legislativi o istituzionali che riducono le barriere allo scambio e alla mobilità di prodotti e fattori produttivi ha rappresentato alla fine dell’800 e negli ultimi due decenni del ‘900 un'ulteriore spinta alla creazione di un mercato unico su scala mondiale. Tuttavia, i più autorevoli rappresentanti della scienza economica hanno mostrato maggiore interesse nella discussione degli effetti, piuttosto che delle cause, della globalizzazione. Si è spesso riconosciuto che l’introduzione di un regime globale comportava la produzione di vantaggi e di svantaggi per il singolo soggetto economico (impresa e consumatore) così come per la nazione o il mondo intero. Il paragrafo successivo è appunto dedicato a una breve esposizione dei risultati delle diverse analisi "costi - benefici" che gli economisti hanno prodotto in questi ultimi anni. 2. Vantaggi e svantaggi della globalizzazione Utilizzando una prospettiva storico - dottrinaria, cominciamo a esporre quali sono i principali vantaggi e svantaggi della globalizzazione, e a fornire alcuni spunti di riflessione su che cosa si è fatto e su che cosa non si è fatto per regolamentare questo fenomeno in modo da massimizzare i primi e minimizzare i secondi. La teoria economica ha ormai da alcuni secoli stabilito alcuni principi fondamentali per spiegare i collegamenti che esistono fra integrazione economica e crescita del reddito. Sin dagli scritti degli economisti appartenenti alla scuola classica (17761848), l'opportunità di scambiare liberamente con soggetti economici appartenenti ad altri paesi e di avviare processi di integrazione economica internazionale sono stati interpretati come una causa fondamentale di aumento nella produttività del lavoro, di miglioramento nell'efficienza dei mercati e, in questo modo, di incremento nel benessere e nella ricchezza internazionale. Negli anni della prima Rivoluzione industriale, gli economisti predicarono (invano) l'instaurazione di una maggiore libertà di commercio: se essa fosse stata stabilita con un atto del Parlamento, si sarebbe creato un regime che, meglio di altri possibili regimi alternativi, avrebbe garantito la promozione dello sviluppo economico. La libertà di scambio, in altre parole, avrebbe prodotto effetti del tutto equivalenti a quelli determinati dall'introduzione di una innovazione tecnologica o di un'invenzione all'interno di un processo produttivo. E' utile osservare che soprattutto in Adam Smith, ma anche in David Ricardo e John Stuart Mill, la liberalizzazione degli scambi raramente assuse la forma di un dogma inviolabile o di una legge naturale. Essa rappresentava piuttosto un'opzione, una regola di politica economica che gli Stati – nazione avrebbero dovuto seguire e un utile strumento analitico per approfondire le relazioni fra crescita della ricchezza, distribuzione della ricchezza e localizzazione delle attività produttive. Per di più, 5 come tutte le regole, gli economisti del passato facevano notare che anche il regime di libero scambio ammetteva eccezioni importanti in particolari contingenze: quando queste si verificavano, le politiche di limitazione del libero scambio, e cioè l'introduzione di misure protezionistiche, diventavano ottimali e richiedevano l'esistenza di ordinamenti e istituzioni deputate al loro controllo e alla loro realizzazione. Quindi, il processo di globalizzazione andava analizzato con spirito pragmatico, utilizzando un approccio che mettesse a confronto i suoi costi e i suoi benefici, i vantaggi e gli svantaggi. Un altro aspetto sul quale gli economisti si sono spesso trovati d'accordo, riguarda l'opportunità di procedere a una distinzione preliminare, che separasse la sfera della globalizzazione reale (intesa come perfetta integrazione fra mercati dove si effettuano scambi fra beni, servizi e fattori produttivi reali) dalla sfera della globalizzazione finanziaria (intesa come perfetta integrazione dei mercati dove si scambiano attività finanziarie e patrimoniali). Utilizzando questa duplice prospettiva (approccio "costi - benefici" e distinzione fra globalizzazione reale e finanziaria) cominciamo ad analizzare rapidamente quali sono i principali vantaggi della globalizzazione dal punto di vista dell'economia reale. In primo luogo, un sistema economico in cui vige la libertà di scelta e di integrazione permette di esaltare le potenzialità della divisione del lavoro e della specializzazione produttiva fondata sul modello dei vantaggi comparati. Cioè con la globalizzazione si esaltano due principi che sin dai tempi di Smith e Ricardo gli economisti hanno indicato essere fra i principali motori della crescita della ricchezza e del reddito di una nazione. La globalizzazione aumenta, per definizione, l'ampiezza del mercato e quindi le potenzialità del lavoro diviso. La globalizzazione rende possibile la specializzazione produttiva, consente di migliorare le possibilità di consumo e produzione attraverso lo scambio volontario, e agevola il conseguimento di benefici per l'individuo e la collettività a cui appartiene. Fu proprio David Ricardo a dimostrare per primo che i vantaggi economici del libero scambio potevano essere acquisiti anche da quei paesi le cui imprese erano relativamente meno efficienti nella produzione di tutti i beni rispetto ai propri partners commerciali potenziali. In sintesi, l’affermazione della globalizzazione permette ai sistemi economici di acquisire i massimi vantaggi statici dal commercio a seguito di una più ottimale allocazione dei fattori produttivi (capitale e lavoro). A differenza di un regime fondato sulla non globalizzazione, la progressiva integrazione fra i mercati reali consente di acquisire numerosi e ancor più rilevanti guadagni dinamici che favoriscono l'aumento dell'attività di produzione e di consumo e quindi del benessere collettivo. In particolare, avendo la possibilità di sfruttare i processi di accentramento e delocalizzazione degli impianti produttivi, avendo la possibilità teorica di produrre per l’intero globo, la globalizzazione consente a tutte le imprese di diventare "multinazionali" e di realizzare più compiutamente economie nella scala produttiva ed economie nell’apprendimento di nuove conoscenze. Cioé di abbattere l'incidenza dei costi unitari di produzione; di accelerare il trasferimento di tecnologia per stimolare l'attività economica in aree storicamente caratterizzate da relativa arretratezza ma da elevati rendimenti potenziali; di realizzare una riduzione 6 dei costi attraverso processi di "learning by doing". La diffusione delle conoscenze e il trasferimento della tecnologia sono dunque più facili all'interno di un regime globale, mentre risultano più ardue se non addirittura impossibili in un regime fondato sulla non globalizzazione. Inoltre, la globalizzazione produce una riduzione dei costi associati all'attività di scambio (i cosiddetti costi di transazione) attraverso un uso più efficiente delle informazioni e degli strumenti di intermediazione degli scambi (a seguito, ad esempio, della progressiva eliminazione del numero delle monete in circolazione). Infine, si ritiene che l'esistenza di mercati integrati consente di abbattere i costi (spesso non facilmente quantificabili) indotti dalla attività di ricerca di protezioni, di favoritismi e di altre forme di discriminazione e di repressione della concorrenza. Fra i quali i costi connessi all'attività di lobbying, alla ricerca di rendite personali (rent-seeking), e alla corruzione del personale politico. In definitiva, se globalizzare significa eliminare le esistenti restrizioni al commercio e allo scambio fra soggetti economici appartenenti a paesi diversi, i processi decisionali, legislativi, culturali etc. che portano alla creazione di un mercato globale consentono di realizzare un aumento della produttività di lavoro e capitale, e quindi del benessere e della ricchezza. Vediamo quali sono le principali argomentazioni avanzate dagli economisti contro la globalizzazione reale. Esse coincidono con quelli che sono ritenuti i principali vantaggi del protezionismo. Abbiamo detto che, come tutte le regole, anche questo strumento affidato ai lumi del legislatore e dell'autorità di politica economica ammette alcune eccezioni che l'economista può contribuire a definire. Nuovamente Smith, Ricardo e gli altri economisti classici seppero dedicare riflessioni importanti a queste tematiche che altri autori hanno successivamente ripreso e arricchito nell'evidenza empirica e nelle elaborazioni teoriche. In generale, si può dire che un regime fondato sulla libertà di commercio e sulla globalizzazione reale può ammettere restrizioni commerciali e misure protezionistiche nel caso di settori considerati strategici (ad esempio la difesa del territorio nazionale o, in tempi più recenti, la tutela dell'ambiente); nel caso di settori nascenti (nei quali le potenzialità economiche non possono essere pienamente sfruttate a causa della mancanza delle economie di apprendimento); nel caso di settori soggetti a forme diverse di concorrenza sleale e operanti in mercati inefficienti. E' vero che, con una certa preveggenza, gli economisti classici giudicarono con scetticismo e riserve l'esistenza di uno Stato lungimirante che fosse effettivamente capace di discernere fra settori strategici e non, fra attività nascenti e non, fra imprese colpite da comportamenti sleali e discriminanti tali da impedire il loro ingresso sui mercati internazionali. Ma tant'è, almeno in questi casi, gli economisti classici riconobbero che un processo immediato e perfetto di integrazione commerciale avrebbe potuto produrre un saldo negativo fra i benefici attesi e i costi affrontati. Passiamo ora al caso della globalizzazione finanziaria. Anche in questo caso, gli economisti si sono sforzati di definire con precisione una griglia di costi e di benefici associati al fenomento dell'integrazione fra mercati nei quali si scambiano attività e prodotti caratterizzati da un grado più o meno elevato di liquidità. La conoscenza del pensiero di Smith e Ricardo può essere illuminante, se 7 non altro per giungere alla conclusione che in materia di globalizzazione finanziaria il verdetto emesso dai fondatori della scienza economica è sempre stato assai meno netto e assoluto rispetto a quanto avveniva sul versante della globalizzazione reale5: il laissez faire assoluto in materia di globalizzazione finanziaria non è una scelta universalmente auspicabile e i soggetti economici sono perfettamente razionali quando manifestano una spiccata tendenza a privilegiare l’acquisto di attività finanziarie interne pur in presenza di un differenziale favorevole nei rendimenti offerti dalle attività finanziarie estere (cioè quando l’investitore segue il cosiddetto home bias approach). Si tratta di una conclusione che è tuttora condivisa da molti economisti e su cui è necessario soffermarsi brevemente6. Occorre precisare preliminarmente che se i protagonisti della globalizzazione reale sono, in ultima analisi, le imprese e i consumatori, i protagonisti della globalizzazione finanziaria devono essere identificati nei risparmiatori. Sono loro che, seppure influenzati dal comportamento di alcuni soggetti (i cosiddetti "raiders") o dai consigli forniti dagli intermediari finanziari (banche, fondi di investimento, promotori finanziari) muovono la finanza internazionale e trasmettono l'ordine di investimento (o disinvestimento) che gli intermediari finanziari portano ad esecuzione. Va comunque sottolineato che, in misura sicuramente maggiore rispetto alla globalizzazione reale, gli intermediari o alcuni particolari soggetti sono in grado di possedere o acquisire a costi minori informazioni rilevanti sull'andamento dei mercati finanziari. Detto questo, esaminiamo quali sono i principali benefici economici che vengono comunemente associati a un incremento della globalizzazione finanziaria e quindi a una maggiore facilità di mobilizzare e trasferire le proprie attività patrimoniali all'interno di un mercato reso più ampio dalla globalizzazione. Sul versante dei vantaggi statici, per definizione, la globalizzazione finanziaria accresce la mobilità del risparmio e dei fondi mutuabili, che finiscono dunque per perdere il loro contatto esclusivo con lo Stato di appartenenza. Questa maggiore mobilità dei capitali permette di acquisire rendimenti più elevati per i propri investimenti e di sfruttare opportunità di impiego più profittevole. Ciò contribuisce a una migliore allocazione delle risorse finanziarie dei soggetti economici, resa possibile dalla accresciuta capacità di diversificazione del portafoglio finanziario. Inoltre, anche la globalizzazione finanziaria permette di conseguire benefici statici per la maggiore capacità degli intermediari di specializzarsi nella produzione di servizi finanziari dove la loro produttività è relativamente maggiore rispetto a quella dei concorrenti internazionali. In secondo luogo, il processo di integrazione dei mercati dei capitali rende progressivamente meno stringente il vincolo stabilito dall'uguaglianza fra risparmio e investimento interno. In un'economia chiusa, evidentemente, questo vincolo è insuperabile. L'impossibilità di realizzare investimenti privati in mancanza di un precostituito stock di risparmi disponibili finisce per soffocare le potenzialità di sviluppo delle aree arretrate, prive come sono di capitali originariamente accumulati 5 6 Su questo aspetto rinviamo a Asso (2002). Obstfeld (1998); Bird and Rajan (2001). 8 o di un efficiente sistema di intermediazione finanziaria. Al contrario, questo vincolo può essere rimosso in presenza di maggiore integrazione fra i mercati finanziari. Storicamente numerosi sono i sistemi economici che sono stati in grado di ridurre e di eliminare il differenziale nei tassi di crescita e di avviare processi dinamici di "catching up" nei confronti delle aree maggiormente sviluppate, grazie all'investimento di capitali stranieri e a decisioni di delocalizzazione produttiva rese possibili dalla globalizzazione finanziaria. In questa ottica, episodi virtuosi di globalizzazione finanziaria si verificarono in Italia negli ultimi decenni dell'800, quando il processo di industrializzazione fu efficacemente sostenuto dalla presenza di una rete di nuove istituzioni bancarie a capitale prevalentemente franco - tedesco. E' stato anche sostenuto, sempre sul fronte dei vantaggi, che l'esistenza di globalizzazione finanziaria stimola l'adozione di comportamenti ispirati al rigore e all'efficienza da parte delle autorità di politica economica. Il mercato premia i paesi virtuosi e boccia quelli che hanno sistemi economici e politici non in regola. Ciò si verifica perché i risparmiatori tendono a valorizzare maggiormente imprese e paesi i cui conti economici sono in ordine e i cui programmi di sviluppo sono realistici e promettenti; al contrario tendono a penalizzare (e quindi a disincentivare) comportamenti e politiche economiche orientate all'inefficienza, allo spreco, alla corruzione, al clientelismo. Quindi, governi e soggetti economici sottoposti a un regime di globalizzazione finanziaria acquisiscono credibilità, reputazione e capacità di attirare investimenti esteri soltanto se dimostrano con i loro comportamenti effettivi di meritare la fiducia degli investitori, non tradendola con comportamenti irresponsabili e dissoluti. Infine, fra i vantaggi della globalizzazione finanziaria viene spesso menzionata la circostanza che, nell'epoca del trionfo delle tecnologie informatiche, tutte le politiche orientate al controllo e alla repressione dei movimenti internazionali dei capitali sono inevitabilmente destinate al fallimento, soprattutto se esse vengono applicate unilateralmente da un paese o da un gruppo circoscritto di paesi. Ad esempio, l'efficacia del ricorso alla celebre Tobin tax per disincentivare i movimenti di capitale a breve termine è spesso ritenuta debole e insufficiente (anche dal suo stesso autore): tassare le transazioni finanziarie in funzione diretta rispetto alla loro velocità (e cioè aliquote elevate se l'investimento iniziale ha breve durata) finisce per avere scarso significato in presenza di una elevata volatilità delle quotazioni (che alimentano aspettative di elevati margini di guadagno) e in assenza di una coesione internazionale che riduca gli incentivi ad evaderla. L'esistenza di zone off-shore (i cosiddetti “paradisi fiscali”) e di resistenze alla armonizzazione delle aliquote anche all'interno di regimi fondati sull'Unione economica e monetaria, indeboliscono fortemente gli effetti repressivi della Tobin tax. In definitiva, se è bassa l'efficienza dei provvedimenti di politica economica che hanno l'obiettivo di ridurre il livello di globalizzazione finanziaria, l'abolizione dei controlli e delle restrizioni diventa un atto inevitabile che peraltro consente risparmi di risorse e minori occasioni di generare costi di transazione a danno dello sviluppo di nuove attività economiche. Per di più, alcuni studiosi ritengono che se il mercato finanziario tornasse a essere represso dalle 9 autorità di politica economica è verosimile che ciò comporterebbe un incremento della corruzione e della speculazione [Byrd 1998]. Fin qui abbiamo esaminato le principali fonti di guadagno prodotte dalla creazione di un mercato finanziario globale. Tuttavia, soprattutto sul versante dei costi, la globalizzazione finanziaria può produrre distorsioni e distruzioni della ricchezza di notevole entità e durata temporale tali da neutralizzare i benefici prodotti dall'integrazione. In primo luogo, molti osservano che la relazione che esiste fra la liberalizzazione dei movimenti di capitale a breve termine e tasso di crescita del reddito sia debole e poco dimostrata da un punto di vista empirico, a differenza di quanto invece si verifica sul versante degli scambi internazionali di merci e servizi. Molto spesso gli investimenti finanziari a breve termine non vengono distribuiti in maniera efficiente; non vengono impiegati laddove il rendimento è più elevato; non generano un corrispondente aumento degli investimenti reali. Quando poi effettivamente si verifica, il guadagno in termini di maggiore efficienza nella allocazione delle risorse non compensa l'aumento dei rischi provocati dalla deregolamentazione e dalla liberalizzazione dei mercati finanziari. Questi ultimi non sono meccanismi perfetti ma vengono sempre più influenzati da ondate improvvise di ottimismo e pessimismo, e dall'impiego di strumenti speculativi sempre più raffinati. Quindi l'evidenza empirica convalida la sensazione che i capitali non seguono i cosiddetti "fondamentali" dell'economia (e cioè la crescita del reddito, lo sviluppo degli investimenti o della produttività del lavoro) quanto piuttosto la moda, le influenze psicologiche o i comportamenti dei raiders7. In secondo luogo, si ritiene che la libertà nei movimenti di capitale genera instabilità economica e alimenta sentimenti di incertezza che finiscono per deprimere gli investimenti e per generare situazioni di crisi dei sistemi bancari e dei mercati azionari. E' un dato di fatto che la recente esplosione nei movimenti internazionali dei capitali negli ultimi 15 anni sia attribuibile soprattutto agli investimenti di portafoglio piuttosto che agli investimenti diretti all'estero, il cui impatto sulla crescita del reddito e dell'occupazione è maggiore. Dai dati pubblicati periodicamente dal Fondo Monetario Internazionale, emerge che su scala mondiale il rapporto investimenti di portafoglio / prodotto interno lordo è aumentato sensibilmente dal 2% nel 1885 a oltre il 10% nel 1998, mentre nello stesso periodo gli investimenti diretti all'estero mostrano una dinamica più contenuta, crescendo dal 2 al 4%. In terzo luogo, la globalizzazione finanziaria è associata al manifestarsi del rischio morale e delle asimmetrie informative che, con maggiore frequenza, si verificano quando il mercato dei capitali progressivamente diventa unico. Si ha una situazione di rischio morale quando gli operatori non prendono le dovute precauzioni per minimizzare i rischi che affrontano nell'acquistare titoli che garantiscono un più elevato rendimento nominale. Ciò avviene perché chi effettua l'investimento sa che esiste una forma implicita di assicurazione che lo tutela dal rischio di insolvenza da parte dell'ente che ha emesso il titolo ad elevato rendimento. Queste forme di 7 Bird (1998). 10 assicurazione fanno sì che gli operatori assumano quantità di rischio eccessive che alimentano a loro volta l'instabilità dei mercati e del sistema finanziario. Nel passato, ad esempio, il Fondo Monetario Internazionale, come prestatore di ultima istanza, è stato spesso accusato per aver fornito questa assicurazione implicita contro il rischio di insolvenza, stimolando in questo modo comportamenti eccessivamente rischiosi da parte degli investitori internazionali e comportamenti poco illuminati da parte degli Stati che non si assumono i costi politici per effettuare le riforme indispensabili alimentando l'instabilità dei propri "fundamentals" (quali ad esempio il disavanzo pubblico o il tasso d’inflazione). Il problema delle asimmetrie informative, invece, insorge quando non tutti gli operatori dispongono dello stesso livello di informazione sulle condizioni del prestito e, più in generale, del sistema economico e delle attività patrimoniali che lo rappresentano (azioni, obbligazioni, strumenti derivati) e che il risparmiatore è in grado di scegliere per effettuare i propri investimenti sul mercato globale. Ciò può verificarsi perché le informazioni sono carenti, oppure sono state artatamente manipolate oppure, quando le informazioni esistono e sono attendibili, risultano troppo costose da acquisire. Anche in questo caso si verifica la tendenza a prestare fondi in eccesso che però vengono immediatamente ritirati quando gli investitori acquisiscono l'informazione mancante o l'informazione corretta. Inoltre, in presenza di ineguale accesso alle informazioni, i soggetti economici tendono a seguire passivamente il comportamento di un investitore leader, determinando il cosiddetto "effetto gregge" che, prima o poi, con il modificarsi delle aspettative, sconvolge la stabilità dei mercati. Quindi l'esistenza di asimmetrie informative, così come la presenza del rischio morale, genera eccessi di comportamenti rischiosi e speculativi, che producono instabilità e volatilità nei movimenti internazionali dei capitali che, a loro volta, possono provocare crisi finanziarie che colpiscono intermediari finanziari e risparmiatori. Queste turbolenze che colpiscono il sistema finanziario di un paese si propagano rapidamente fino a contagiare i sistemi finanziari di altri paesi (effetti spillover) come è per esempio accaduto nel caso della crisi messicana del 1994 (Tequila effect) o di quella thailandese di tre anni dopo. In quarto luogo, sempre parlando dei possibili costi, la presenza della globalizzazione finanziaria può indebolire la capacità dei governi di imporre decisioni di politica economica. Ad esempio, in presenza di trattamenti fiscali difformi, i soggetti economici sono maggiormente in grado di evadere legalmente le proprie obbligazioni e di neutralizzare gli effetti di una politica monetaria restrittiva. Inoltre, se alcuni fattori produttivi (capitale, lavoro) diventano perfettamente mobili, vi sarà la tendenza a trasferire l'incidenza della tassazione su quelli che restano immobili (quali ad esempio la terra o le proprietà immobiliari) creando distorsioni nella distribuzione del reddito e nella politica fiscale. Anche a seguito di questa ridotta efficacia della politica economica, molti osservatori affermano che la globalizzazione finanziaria ha sensibilmente contribuito alla crescita delle ineguaglianze e della povertà su scala mondiale 8. 8 Si vedano Tanzi (1998 e 2000) e Stiglitz (2001). 11 Infine, in quinto luogo, in presenza di forte integrazione dei mercati finanziari, si è regolarmente verificato, oggi come nel passato, il crollo nei trasferimenti pubblici di capitali per motivi umanitari e il naufragio di tutti i progetti di assistenza internazionali elaborati a favore di particolari aree sottosviluppate o di sistemi economici in transizione. Dai dati pubblicati dalla Global Development Finance, emerge che i finanziamenti ufficiali a favore dei paesi in via di sviluppo sono drasticamente diminuiti nel corso degli anni novanta sia in termini assoluti che in termini relativi, passando da 56 a 30 miliardi di dollari, e crollando dal 64 al 10% dei fondi complessivamente investiti in queste aree. Fra i costi della globalizzazione finanziaria vanno dunque annoverati i mancati benefici attribuibili a una più incisiva azione di assistenza finanziaria che gruppi di stati hanno svolto nel passato per favorire la crescita e la ripresa di aree economiche arretrate o quando queste vengono sconvolte da particolari eventi esogeni, come guerre, epidemie etc. A seguito di tutte queste tipologie di costo, la liberalizzazione dei movimenti di capitale è spesso coincisa con un forte aumento dei rischi connessi alla crisi dei sistemi bancari e alla propagazione di queste crisi anche a danno di sistemi finanziari strutturalmente più solidi. In altre parole, si è assistito a un forte aumento dell'instabilità (dei mercati), della volatilità (dei corsi degli strumenti finanziari) e dell'incertezza (del clima economico) a detrimento delle decisioni di investimento e di consumo e quindi della crescita del sistema economico. Lo scoppio di una crisi finanziaria è considerato un evento molto più dannoso e costoso rispetto allo scoppio di una crisi dell'economia reale quando uno shock da domanda o da offerta colpisce un particolare settore produttivo (ad esempio, il settore delle automobili). Il costo in termini di risorse impiegate per il salvataggio di un sistema finanziario o bancario è enorme e la crisi finanziaria tende a propagarsi rapidamente quando, ad esempio, viene meno la fiducia in una moneta o nella solidità di particolari attività finanziarie (azioni, obbligazioni del debito pubblico etc.). E nel mercato dei capitali la fiducia è un bene essenziale molto difficile da riconquistare e riprodurre. Un paese può sopravvivere al fallimento di un'impresa o di un'industria, ma difficilmente può sopravvivere al fallimento di una grande banca o di un sistema finanziario. Ultima questione relativa ai costi della globalizzazione finanziaria: come si determinano questi effetti contagio? Perché una crisi finanziaria che colpisce un paese tende a propagarsi rapidamente e a colpire altri mercati finanziari mentre se una crisi economica colpisce un paese non necessariamente altri paesi vengono (immediatamente) coinvolti? In una situazione di globalizzazione finanziaria esistono numerosi canali di trasmissione di una crisi da un paese a un altro. Esaminiamone due: 1. supponiamo che le prospettive di sviluppo di un paese emergente (ad es. il Messico) siano state indebolite da un particolare shock esterno (un colpo di stato, la mancata attuazione di politiche economiche adeguate ai problemi economici interni etc.). Gli investitori internazionali perderanno la loro fiducia nei confronti del Messico e ritireranno i fondi che avevano investito sul mercato finanziario messicano (titoli e azioni), mettendo sotto pressione la moneta messicana. Ben presto si assisterà al crollo del valore del peso messicano sul mercato dei cambi, e 12 l'economia messicana si ritroverà ad avere improvvisamente un formidabile vantaggio competitivo nei confronti di tutti gli altri paesi (es. Argentina, Brasile etc.) con i quali ha intensi flussi di commercio internazionale. Sul mercato dei cambi si formeranno aspettative che anche questi paesi, prima o poi, andranno in crisi non potendo sostenere lo svantaggio competitivo che si è determinato a seguito della svalutazione del peso messicano. Le monete di Argentina e Brasile andranno sotto pressione e, molto spesso, l'esistenza di queste aspettative provocherà il forzato deprezzamento delle altre monete. La crisi valutaria che ha colpito il Messico si propaga rapidamente fino a contagiare Brasile e Argentina, ma ben presto altre monete subiranno lo stesso destino; 2. supponiamo che a seguito di una crisi che ha colpito le azioni e le obbligazioni messicane le banche internazionali vedono ridursi il valore degli investimenti in titoli messicani che detengono nel loro portafoglio. Supponiamo inoltre che queste banche abbiano acquisito titoli messicani a garanzia "collaterale" della loro attività di prestito alla clientela. Uno dei modi per ripristinare il valore del collaterale ed evitare crisi di liquidità è quello di ridurre l'esposizione delle banche nei confronti di altri paesi, strutturalmente più solidi del Messico. Così facendo le banche internazionali cominceranno a vendere titoli di stato emessi da Stati Uniti, dall'area dell'Euro o da altri paesi contribuendo significativamente alla diffusione della crisi finanziaria e all'effetto contagio. 3. A proposito di alcuni problemi di "governance" della globalizzazione Una delle conclusioni a cui siamo giunti è che la teoria economica ha evidenziato l’esistenza di costi della globalizzazione reale e ancor più della globalizzazione finanziaria. Questi costi potrebbero essere contenuti da una più efficace azione di governo della globalizzazione. Ed è a questo argomento che noi ora volgiamo la nostra attenzione. Prima di affrontare il problema della regolamentazione della globalizzazione, rispondiamo ad alcuni quesiti preliminari: ? Possiamo dire che attualmente viviamo in un regime di globalizzazione dei mercati reali e finanziari? ? Possiamo dire che gli strumenti di discriminazione fra prodotti e gli strumenti di distorsione dei prezzi internazionali che determinano de facto una segmentazione fra mercati sono stati effettivamente eliminati? ? E' ancora utile, da un punto di vista empirico e operativo, la distinzione fra globalizzazione reale e globalizzazione finanziaria? Occorre dire che il tema della misurazione del livello effettivo raggiunto dalla globalizzazione alla fine del XX secolo ha appassionato gli studiosi e numerose indagini empiriche stanno tentando di fornire risposte adeguate a queste problematiche9. Queste ricerche tendono a rispondere negativamente alle prime due domande e positivamente alla terza. In generale, si afferma che la globalizzazione ha 9 Rodrik (1997 and 2000); Bird and Rajan (2001). 13 proceduto a due velocità: essa è stata assoluta e improvvisa nel mercato dei capitali dove ha interessato la quasi totalità dei paesi e la quasi totalità dei prodotti finanziari oggetto di scambio. Negli anni novanta, i movimenti internazionali dei capitali sono diventati la manifestazione più evidente di ciò che comunemente si intende per globalizzazione. Al contrario, nel mercato dei prodotti e dei servizi, il livello effettivo di globalizzazione è rimasto relativamente modesto seppure progressivamente crescente se si pensa che soltanto un numero ristretto di paesi (circa 20) e di settori produttivi (pari al 30% del prodotto mondiale) può dirsi veramente coinvolto. Risultati così difformi trovano una possibile spiegazione nelle cause esterne che hanno prodotto accelerazioni e ritardi nel processo di creazione del mercato globale e che abbiamo richiamato in precedenza. Nel caso della globalizzazione finanziaria, infatti, è possibile identificare un mix fra responsabilità politiche e shocks di tipo tecnologico. Fra le prime si devono considerare i processi di liberalizzazione dei movimenti di capitale imposti su scala mondiale dal connubio Wall Street - Fondo Monetario Internazionale, oppure la ripresa dello spirito europeistico che avvenne a partire dalla seconda metà degli anni ottanta, con la conseguente abolizione dei controlli sui movimenti valutari. Resta il fatto che, fino agli anni 80 e con l'eccezione di Usa e Germania, molti paesi avevano adottato legislazioni restrittive sui movimenti di capitale, che furono abolite in tutti i paesi avanzati e in buona parte dei paesi in via di sviluppo. La liberalizzazione finanziaria, è bene precisarlo, è stata pressochè assoluta, nel senso che mentre il commercio di merci, anche se è giuridicamente "libero" da tariffe e contingenti, può venire condizionato da regolamenti amministrativi, clausole contrattuali e altre forme di discriminazione, la moneta e i capitali quando vengono liberalizzati è difficile "ingabbiarli". Fra le cause tecnologiche, il ritmo di accelerazione nell'integrazione è stato sicuramente reso possibile dalle innovazioni tecniche e informatiche che hanno rivoluzionato il funzionamento dei mercati finanziari, il loro grado di interdipendenza, lo scambio delle informazioni e l'impatto che le informazioni hanno nella determinazione dei prezzi. Nel caso invece della globalizzazione reale le decisioni politiche hanno mantenuto un'importanza relativamente superiore, e l'incremento nel livello di liberalizzazione è sempre stato guidato dall'alto, tenuto sotto controllo, e diretto soprattutto alla convenienza dei soggetti economici dotati di maggiore potere e influenza. In particolare, negli ultimi decenni, la globalizzazione reale ha preso la forma di: ? una forte discesa del protezionismo tariffario soprattutto nei settori industriali caratterizzati da alto valore aggiunto e da elevato contenuto tecnologico che interessano gli scambi che avvengono fra paesi economicamente avanzati; ? una modesta riduzione del protezionismo tariffario e non tariffario su produzioni tipiche dei paesi in via di sviluppo e in particolare nel settore agricolo e nei settori industriali a basso valore aggiunto e, almeno inizialmente, una modesta riduzione del protezionismo sui servizi oggetto di commercio internazionale; ? una forte crescita del rapporto fra le esportazioni mondiali e il Pil, a testimonianza che la crescita della ricchezza e del benessere è fortemente dipendente dall'aumento dell'interscambio commerciale. Se si confrontano gli anni cinquanta 14 con gli anni novanta del secolo scorso, si ha immediatamente la percezione del maggior livello di integrazione e di apertura: infatti, nel 1950, questo rapporto, calcolato a prezzi costanti, superava appena il 6%, mentre nel 1995 era giunto al 16%. Rispetto al 1950, sempre in termini reali, le esportazioni erano cresciute di ben 20 volte, mentre il Pil era aumentato di circa 8 volte (Rodrik 2000, p. 178). Già da questi dati è possibile notare una contraddizione che questi studi hanno contribuito a evidenziare10. La globalizzazione "sana", cioè quella che crea aumenti nella produttività nei fattori e nella ricchezza, è un fenomeno ancora tutto sommato incompleto, geograficamente circoscritto, che pare aver avvantaggiato soprattutto le economie più avanzate e particolari settori o gruppi di imprese. Al contrario la globalizzazione più rischiosa, quella che nel giudizio degli economisti e degli storici economici non ha ancora acquisito meriti incontrovertibili in materia di creazione di maggiore ricchezza e produttività, sembra essere ormai imperante, è effettivamente estesa a tutto il globo, e resta difficilmente governabile da parte delle istituzioni nazionali e internazionali. Tradotto in termini quantitativi, le transazioni giornaliere aventi un carattere puramente finanziario superano di oltre 50 volte le transazioni giornaliere aventi un carattere reale e hanno raggiunto un ammontare superiore ai 2000 miliardi di dollari: cioè per ciascun dollaro che viene scambiato per acquistare beni e servizi, più di 50 vengono utilizzati per acquistare attività finanziarie. Se si osserva questa realtà da un'altra prospettiva, l'ammontare di liquidità internazionale investita sui mercati finanziari è invece superiore di beni quindici volte rispetto all'ammontare complessivo delle riserve ufficiali detenute da tutte le banche centrali, rendendo del tutto vana la possibilità di intervento anche concertato a difesa di una particolare valuta del sistema monetario internazionale. Molte sono le proposte avanzate dalla letteratura specializzata per ridurre questo squilibrio fra globalizzazione reale e globalizzazione finanziaria, migliorare la qualità della globalizzazione reale, riducendo i rischi di quella finanziaria. Si possono frequentemente leggere suggerimenti e proposte per creare una World Financial Organization o una World Financial Authority che abbiano compiti di sorveglianza e regolamentazione dei mercati e delle istituzioni finanziarie al fine di garantire il rispetto di comportamenti ispirati alla prudenza e al contenimento dei rischi. Vi è chi ha proposto l'istituzione di una World Tax Organization e chi ha sostenuto l'opportunità di dar vita a una Global Environmental Organization per affrontare, rispettivamente, le dimensioni internazionali dei problemi collegati all'imposizione fiscale per disincentivare comportamenti economici rischiosi o il problema del deterioramento ambientale. Altri più semplicemente hanno proposto di rafforzare la rete istituzionale esistente (il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Mondiale, l'Organizzazione Mondiale del Commercio), rendendola più sensibile ai problemi che il processo di globalizzazione ha contribuito ad esacerbare in materia di distribuzione della ricchezza, instabilità finanziaria o di lotta alla povertà. Nella parte restante di questo lavoro ci occuperemo della Organizzazione mondiale del commercio (o World Trade Organization, Wto) che è stata costituita nel 1995 a 10 Bird and Rajan (2001). 15 conclusione dell'Uruguay round. In particolare, ci proponiamo di illustrare quali sono le principali funzioni del Wto, i suoi poteri, i risultati prodotti nel corso dei primi cinque anni di attività, e alcune riforme che sarebbe necessario introdurre per regolamentare in maniera più efficace la globalizzazione. Il Wto costituisce la sede di negoziati commerciali multilaterali e di confronto fra gli Stati riguardo al processo della globalizzazione reale. Nel suo ambito si realizzano nuovi negoziati che producono accordi commerciali fra paesi membri e ci si confronta in merito all'interpretazione e all'applicazione degli accordi commerciali raggiunti. Il Wto rappresenta il risultato di un lungo processo di consolidamento e di sviluppo delle relazioni economiche internazionali fondate sui principi della liberalizzazione, del multilateralismo e della non discriminazione. Storicamente l’idea di creare una cornice istituzionale per regolamentare i rapporti commerciali internazionali nasce con il processo di ricostruzione postbellica e trova nella costituzione del Gatt un primo tentativo di soluzione. Infatti, la prospettiva di cedere sovranità nazionale a favore di istituzioni internazionali in materia di politica commerciale portò alla sottoscrizione, nel 1947, di un Accordo generale sulle tariffe e il commercio (General Agreement on Tariffs and Trade, Gatt). Il Gatt rappresentò il primo tentativo di ricostituzione di un ordine economico internazionale su scala globale che contribuisse al superamento dei traumi che erano state prodotti da oltre 15 anni di guerre commerciali, di discriminazioni e di accordi bilaterali fondati sul baratto e sugli scambi amministrati. Nella sua formulazione iniziale il Gatt si caratterizzò per la presenza di pochi paesi (i partecipanti iniziali erano poco più di 20), per la possibilità di intervenire su pochi strumenti della politica commerciale (fondamentalmente gli strumenti di prezzo, cioè i dazi e la tariffa), e su pochi settori (fondamentalmente i settori manufatturieri avanzati); e per l'esistenza di forti carenze in materia di disciplina e risoluzione delle controversie commerciali fra paesi membri. Seppure condizionato da questi limiti strutturali, il Gatt esercitò queste sue funzioni nel corso di una serie di "rounds" durante i quali i paesi membri approvarono accordi che, come detto, riuscirono a determinare una riduzione significativa nelle tariffe medie sullo scambio dei prodotti industriali avanzati. Sotto tutti gli altri aspetti il Gatt si rivelò un esperienza fallimentare: per quanto riguarda i paesi poveri e quelli in via di sviluppo, ad esempio, i settori economici tradizionali (l'agricoltura, l'industria tessile) che potevano essere occasione di crescita e sviluppo dei paesi poveri restarono a lungo al di fuori del processo di regolamentazione internazionale affidato al Gatt. L'applicazione di contingenti e restrizioni quantitative fu formalmente proibita, anche se si introdusse una clausola che le ammettevano nel caso generico in cui "le importazioni minacciavano di scardinare il mercato interno". La possibilità di effettuare politiche di dumping della produzione nazionale e di sovvenzionare direttamente le esportazioni furono ridotte. Inoltre, in occasione delle recessioni internazionali che furono originate dai due shocks petroliferi, il processo di crescita del multilateralismo e di riduzione delle 16 discriminazioni prodotte dal protezionismo amministrativo e dalle barriere non tariffarie sembrò arrestarsi bruscamente. Resta il fatto che, per superare queste e altre deficienze e per ridurre l’incapacità del Gatt di intervenire su nuovi settori e su nuove forme di protezionismo commerciale, nel corso dell'Uruguay round (1995) si procedette alla costituzione del Wto che fin dall'inizio raccolse l'adesione di un gran numero di paesi. Oggi sono ormai più di 140 che complessivamente coprono oltre il 90% del commercio mondiale. Se il Gatt era un contratto volontario sottoscritto fra i paesi partecipanti, sin dalla sua configurazione iniziale al Wto fu attribuita la capacità di imporre ai suoi membri obblighi più vincolanti ed esecutivi. Si stabilì che la nuova istituzione avrebbe avuto ampia possibilità di intervento su settori nuovi e tradizionali dell'attività economica (compresi i servizi, i diritti di proprietà intellettuale, e gli investimenti diretti all'estero), su qualsiasi strumento di politica commerciale (comprese le barriere non tariffarie e le barriere amministrative), nonché una nuova disciplina dei meccanismi di risoluzione delle controversie che ha comportato un sensibile rafforzamento dei suoi poteri di arbitrato e di sanzione dei comportamenti non conformi agli accordi sottoscritti. Quali sono dunque le principali funzioni della nuova organizzazione? In termini generali il Wto è un'istituzione che opera per ridurre i rischi di reversibilità del processo di globalizzazione. Infatti, negli anni venti del secolo scorso, la mancanza di una solida cornice istituzionale che garantisse la sopravvivenza del processo di globalizzazione è stata ritenuta una delle cause della sua interruzione traumatica, del crollo del commercio estero e della crisi economica mondiale. Il principio cardine dell'ordinamento del Wto è quello di favorire la liberalizzazione del commercio internazionale attraverso l'abbattimento dei costi economici e non del protezionismo. Alcuni studi recenti hanno calcolato che i costi del protezionismo sono tuttora molto elevati, se si pensa che i consumatori dei paesi ricchi pagano circa 400 miliardi di dollari l'anno per sovvenzionare produzioni agricole locali che altrimenti non reggerebbero la concorrenza internazionale e se si pensa che l'eliminazione delle barriere su prodotti tessili e dell'abbigliamento potrebbe produrre un aumento del benessere mondiale pari a 50 miliardi di dollari l'anno (fonte Oecd). Sulla base di queste considerazioni, dalla sua nascita il Wto ha tentato di imprimere una forte accelerazione al processo di liberalizzazione dei mercati internazionali. Il Wto ha incoraggiato la riduzione delle tariffe e la sostituzione delle restrizioni quantitative con restrizioni tariffarie (il cosiddetto processo di tariffazione), come preludio alla più completa liberalizzazione degli scambi 11. Per realizzare questo processo di liberalizzazione delle transazioni, il Wto stabilisce protocolli che prevedono l'applicazione e il rispetto di nuovi procedimenti per ridurre le barriere tariffarie e non tariffarie che tuttora colpiscono i prodotti oggetto di scambio internazionale. Questi protocolli devono essere approvati all'unanimità per 11 Il Wto ha fatto proprie le conclusioni del dibattito teorico sulla "non equivalenza" fra tariffe e contingenti, che si è concluso a favore della preferenza per gli strumenti di prezzo rispetto agli strumenti quantitativi. Le principali motivazioni di questa preferenza sono fondate sulla minore discriminazione, sulla maggiore efficienza, e sui minori incentivi di rent seeking che le tariffe garantiscono rispetto ai contingenti. 17 poi essere applicati all'interno degli ordinamenti nazionali dei paesi membri e generalmente stabiliscono tempi ben definiti per l'introduzione delle nuove misure di politica commerciale, in modo da evitare traumatici processi di aggiustamento indotti da una esposizione improvvisa di un settore alla concorrenza internazionale. Una volta approvati, la loro validità è estesa a tutti i paesi membri pena la comminazione di sanzioni o l'esclusione dall'Organizzazione. Il Wto opera quindi all'interno di un processo decisionale non particolarmente snello e la cui efficacia rischia di essere fortemente ridimensionata dalla continua richiesta dell'unanimità dei consensi. Quando ciò non avviene, il processo decisionale e il trasferimento di nuovi poteri sotto la giurisdizione del Wto si interrompe, come è avvenuto nel corso del recente fallimento del Seattle round. Tuttavia, il meccanismo dell'unanimità è stato fino ad ora difeso e mantenuto, anche perché esso determina, da un lato, un forte aumento del potere contrattuale dei paesi membri appartenenti alle aree economicamente meno sviluppate e, dall'altro, permette ai paesi ricchi di negoziare contemporaneamente con tutti i principali partners commerciali. Un altro aspetto innovativo dei processi decisionali condotti all'interno di questa istituzione è che tutti gli accordi elaborati dal Wto vengono negoziati secondo il principio dell'impegno unico e con il rispetto della clausola del trattamento nazionale e della non discriminazione. Il principio dell'impegno unico implica che i paesi membri sono obbligati ad esprimersi (accettando o rifiutando) sull'intero accordo che viene sottoposto alla loro approvazione (e non su singole parti di esso) e sono altresì obbligati a introdurre le necessarie riforme interne per adeguarsi al contenuto dell'accordo. Con questo principio si intende ridurre il ricorso a trattamenti speciali e differenziali a favore di un paese o di un gruppo di paesi che erano invece previsti dal Gatt per rendere più graduale il processo di liberalizzazione a tutti gli aggiustamenti strutturali che esso comporta. Esiste ancora la possibilità di ottenere deroghe al principio dell'impegno unico che sono, tuttavia, concesse sulla base di procedure istituzionali molto più rigide rispetto a quanto accadeva sotto l’egida del Gatt. Per ottenerle è necessaria l'approvazione di una maggioranza qualificata del 75% dei paesi membri, l'evidenza di circostanze eccezionali che le giustificano, la fissazione di una data di scadenza, e la possibilità di sottoporre la decisione di concessione a un riesame periodico. Il rispetto della clausola del trattamento nazionale implica che le imprese e i prodotti dei paesi membri devono ricevere lo stesso trattamento che lo Stato riserva alle proprie imprese nazionali in materia di autorizzazioni, regolamenti amministrativi, standards produttivi, imposizione fiscale etc. La presenza del Wto dovrebbe contribuire a "legare le mani" ai governi nazionali, impedendo loro di incorrere nella tentazione di "peccare" concedendo favori, privilegi e sovvenzioni a beneficio dei produttori nazionali o di speciali gruppi di pressione (questa funzione implicita svolta dal Wto è definita "l'effetto Ulisse"). Infine, il rispetto della clausola di non discriminazione implica l'adozione di un approccio multilaterale che eviti il ricorso a forme di accordi parziali fra gruppi di paesi membri. Nel caso però in cui alcuni paesi membri decidono di sottoscrivere un accordo preferenziale (quali ad esempio la costituzione di un'area di libero scambio 18 oppure l'ingresso di nuovi paesi all'interno di un'unione economica e monetaria preesistente) il Wto acconsente, ma impone l'obbligo di avviare un processo di armonizzazione della politica commerciale uniformando barriere tariffarie e non tariffarie al livello più basso fra quelle esistenti a seguito del nuovo accordo. Ad esempio, un allargamento a est dell'Unione europea che amplierebbe nei fatti l'area di libero scambio creata con il Mec e l'atto unico, comporterebbe una liberalizzazione accelerata della politica agricola comunitaria, a causa della presenza di nuovi paesi membri che adottano barriere protezionistiche più contenute su un gran numero di prodotti agricoli. Se dunque queste funzioni rappresentano un significativo potenziamento di quelle originariamente presenti nel Gatt, che cosa succede se un paese membro non si adegua a questi obblighi e, più o meno consapevolmente, agevola una loro violazione da parte dei soggetti economici? Una fra le principali novità del Wto è, appunto, costituita dal nuovo meccanismo di risoluzione delle controversie commerciali (il cosiddetto "dispute settlement process"). Con queste nuove procedure, i paesi membri sono tenuti a risolvere eventuali controversie commerciali in merito all'applicazione o all'interpretazione di un accordo sulla base di un meccanismo rigidamente prestabilito e valido per tutti. In generale, nella gestione del Dispute Settlement Process, il Wto agisce come una sorta di "authority" del commercio mondiale che ha il compito di interpretare gli accordi, stabilire i casi in cui si è verificata una loro violazione da parte di paesi membri e determinare le forme sanzionatorie a carico dei colpevoli. Il processo per la risoluzione delle controversie è articolato in numerose fasi "processuali" distinte e i cui tempi sono rigidamente prestabiliti. Le principali sono: ? L'apertura della controversia: ciò avviene da parte di un paese membro, eventualmente affiancato da altri paesi membri che ritengono di essere stati danneggiati dalla politica commerciale di un terzo paese che avrebbe commesso violazioni di un accordo sottoscritto o ritardi nella sua applicazione; ? La ricerca di una soluzione amichevole extragiudiziale ("out of court settlement") ? La costituzione di un panel di esperti chiamati alla formazione del giudizio ? La formazione e costituzione delle prove ? L'emanazione della sentenza ? Il ricorso in appello ? Il rispetto del dispositivo della sentenza e la sua applicazione ? La concessione da parte del Wto di poteri e di strumenti di rappresaglia unilaterale che il paese vincitore della controversia può applicare a danno della controparte nel caso in cui continui ad esservi contestazione sulla applicazione della sentenza da parte del paese colpevole. Queste misure di compensazione del danno possono essere applicate a settori diversi, anche se affini, rispetto a quello che ha originato la controversia. Quali sono i principali risultati prodotti da questo nuovo sistema di risoluzione delle controversie? A cinque anni dalla sua istituzione, si può dire che i paesi membri stanno facendo un crescente uso dei meccanismi per risolvere le controversie 19 commerciali, a dimostrazione di una diffusa fiducia nella sua efficacia. In questo periodo di tempo il Wto ha affrontato oltre 250 casi di controversie commerciali, a fronte dei 300 interventi effettuati dal Gatt nei 50 anni della sua esistenza. La codificazione delle procedure e dei tempi massimi di espletamento dei singoli passaggi ha reso il sistema più efficiente, automatico e trasparente. Il sistema è in grado di trattare i casi più complessi relativi ai nuovi accordi Wto. Un risultato significativo che emerge dalle tabelle che regolarmente vengono pubblicate nel sito ufficiale del Wto, riguarda la circostanza che la maggior parte delle procedure avviate sono state risolte amichevolmente con "out of court settlements". Ciò dipende dal fatto che la maggiore efficienza del sistema e il rischio di essere condannati dal panel Wto hanno prodotto effetti positivi nella ricerca di soluzioni extragiudiziarie e nella ricerca dei necessari aggiustamenti per pervenire al rispetto degli accordi sottoscritti. Viene spesso sottolineato nei rapporti ufficiali del Wto che i casi risolti dal sistema non riguardano soltanto le controversie che sono sorte fra paesi ricchi e industrializzati. E' vero che, in termini relativi, le controversie più importanti rigurdano l'interscambio fra Unione Europea e Stati Uniti, che rappresentano le due maggiori potenze commerciali del mondo. Tuttavia, vi sono numerose istanze di controversie sorte fra paesi in via di sviluppo e paesi ricchi che si sono risolte con il riconoscimento delle ragioni dei paesi poveri e la richiesta di adeguamento all'accordo da parte dei paesi ricchi. Anche questo fatto ha contribuito a rafforzare la credibilità del Wto e a indurre comportamenti ispirati al rispetto delle obbligazioni reciproche. Ad esempio, il 44% dei casi completati al gennaio 1999 erano stati sollevati dai paesi in via di sviluppo. Infine, nella maggior parte dei giudizi, la controparte sconfitta ha adottato le riforme necessarie per adeguarsi agli accordi. In altre parole, chi ha violato l’accordo è stato punito e ha accettato le sanzioni comminate. Quali sono, secondo gli studiosi delle relazioni economiche internazionali, gli obiettivi che il Wto e i nuovi meccanismi di risoluzione delle controversie non sono stati in grado di realizzare? In primo luogo, si sono incontrate notevoli difficoltà nella gestione di dispute non tradizionali. Il Wto e il Dsm sono stati utilizzati per affrontare questioni che solo perifericamente appartengono alla sfera del commercio internazionale e dove il saldo finale fra i costi e i benefici della globalizzazione (o del protezionismo) risulta essere ancora più incerto. Si tratta di controversie che nascono non tanto perché un paese membro ha agito in violazione di accordi preesistenti per ragioni che rientrano nei tradizionali obiettivi del protezionismo e della distorsione della concorrenza internazionale (quali ad esempio la sovvenzione indiretta di produttori nazionali o la tassazione di produttori esteri). Esse invece riguardano i conflitti che si sono scatenati fra le ragioni della globalizzazione e la salvaguardia di valori e obiettivi non strettamente quantificabili da un punto di vista commerciale, quali i diritti umani, i diritti degli animali, i diritti dei lavoratori o di particolari minoranze, la difesa dell'ambiente, la tutela della salute, il consumo di beni prodotti attraverso mutazioni genetiche. 20 Sinteticamente, questi conflitti originano in situazioni in cui i paesi membri possono essere caratterizzati da funzioni del benessere sociale molto diverse fra loro12; dove le funzioni del benessere sociale dipendono da parametri tipicamente economici (quali, ad esempio, il reddito pro capite), ma anche da parametri non economici (la sensibilità nei confronti dei problemi dell'ambiente e dell'inquinamento, delle specie animali in via di estinzione, del rispetto per le minoranze etc.). Oppure conflitti sono insorti quando i paesi membri, seppure caratterizzati da funzioni del benessere sociale relativamente simili, sono costretti a decidere in condizioni di incertezza scientifica o in mancanza di informazioni attendibili su quali possono essere le ripercussioni che il libero scambio commerciale produce su determinati valori non strettamente economici. Spesso il Wto è stato accusato di operare in un vuoto morale, non riconoscendo legittimità a qualsiasi politica di restrizione della globalizzazione, neppure quando questa viene imposta per motivi etici, ambientali etc. Il Sistema di risoluzione delle controversie è stato giudicato insufficiente in quanto non ha mai "invertito" l'onere della prova chiamando in causa il paese che opera contro il rispetto dei valori non economici, obbligandolo a dimostrare che la liberalizzazione effettivamente non produce effetti negativi su questi valori. In tutti questi casi, l'esperienza recente ha mostrato l'inadeguatezza del Wto a intervenire. Tuttavia, trascurando le dispute che hanno per oggetto la violazione di valori e diritti non strettamente economici, nel paragrafo successivo ci limiteremo ad affrontare l'inadeguatezza del Wto in merito agli effetti che l'attuale processo di globalizzazione produce su valori e categorie economiche e in primo luogo sulla diffusione della povertà nel mondo. 4. Globalizzazione e povertà Nell'anno 2000 più di un miliardo di persone vive con meno di 1 dollaro al giorno. La globalizzazione dei mercati e il vigente ordine economico internazionale sono spesso accusati di non aver risolto i più urgenti problemi che affliggono l'umanità. Alcuni osservatori ritengono che essi possono contribuire a mettere a repentaglio le sue prospettive di sopravvivenza. In particolare, la povertà e l'ineguaglianza nella distribuzione del reddito; la sostenibilità e la salvaguardia dell'ambiente; la tutela della salute, dell'istruzione e di alcuni fra i più fondamentali diritti dell'uomo corrono il rischio di essere aggravati dalla tendenza, per molti aspetti inarrestabile, all'integrazione e alla liberalizzazione delle principali attività economiche. Nel caso della globalizzazione finanziaria, l'esistenza di una relazione diretta fra aumento della liberalizzazione dei mercati e aumento della povertà viene oramai riconosciuta dalle autorità internazionali. In un recente rapporto della Banca Mondiale (World Bank 2000) si legge che "l'integrazione finanziaria espone i paesi in via di sviluppo a shocks esogeni. Questi shocks riducono spesso i vantaggi dal commercio e contribuiscono significativamente ad aumentare la povertà nel breve e nel medio termine. Questo fatto sottolinea l'importanza di risolvere il problema della volatilità al 12 Calzolari e Immordino (2001). 21 fine di massimizzare gli effetti positivi che la crescita determina nella lotta alla povertà". In effetti, nonostante i progressi registrati negli ultimi decenni in termini di crescita del reddito e del benessere, alcuni di questi problemi sono oggi sensibilmente più acuti e più drammatici rispetto a quanto apparivano, ad esempio, negli anni sessanta. Almeno da un punto di vista empirico, se il processo di integrazione è andato avanti, e il tasso di crescita dell’economia mondiale è aumentato, anche la povertà nel mondo e le disuguaglianze sono aumentate. Se si guarda, ad esempio, al rapporto fra redditi pro capite dei paesi più ricchi e dei paesi più poveri, si osserva una crescita impressionante da 11:1 nel 1870, a 38:1 nel 1960, 1 52:1 nel 1985, a 68:1 nel 1996 (Onida 1998). Tuttavia, il problema dell'esistenza di un'eventuale correlazione positiva fra i due fenomeni è tuttora sull'agenda della ricerca scientifica e del dibattito politico, anche se è opportuno effettuare alcune considerazioni in merito. In generale, il dibattito sulla relazione fra globalizzazione da un lato, e povertà, standards di vita e diritti dell'uomo dall'altro risulta spesso oscurato da atteggiamenti superficiali e fortemente ideologizzati. Questo, è opportuno notarlo, avviene su entrambi i fronti che vedono schierati detrattori e sostenitori. Da un lato i critici della liberalizzazione dei mercati sostengono che concorrenza e integrazione sono sempre causa di sciagura per coloro che si trovano in una posizione di "inferiorità comparata", in quanto poveri, sfruttati o emarginati. Dall'altro lato, i critici del protezionismo e dell'intervento restrittivo dello Stato affermano che i guadagni dal commercio esistono, vanno sicuramente a vantaggio di pochi fortunati ma prima o poi finiscono per ricadere a valle a beneficio della grande massa che vive nella povertà, nell'indigenza, nella malattia. In altre parole, il povero agricoltore nel momento in cui acquista gradi di libertà per rifornirsi sui mercati mondiali e per vendere i propri prodotti a un numero potenzialmente infinito di consumatori (e non soltanto al dispotico governo nazionale a prezzi amministrati) crea inevitabilmente le premesse per aumentare il proprio benessere e la propria capacità di produrre. Ora l'evidenza empirica dimostra che entrambi questi punti di vista rappresentano generalizzazioni estreme, spesso errate e sicuramente parziali sul funzionamento dei meccanismi che legano i due fenomeni. La realtà della globalizzazione è estremamente complessa e non può essere descritta con conclusioni universali. Più pragmaticamente, molti ricercatori si sono recentemente interrogati sul fatto se la globalizzazione e la sua “governance” possano essere causa di un ulteriore peggioramento nella distribuzione del reddito e quindi causa di un incremento della povertà e della sua diffusione [Onida (1998), Finger (2001), Lorentzen (2002) e bibliografia ivi citata]. Dalla lettura di questi lavori si ha conferma che il recente processo di globalizzazione realizzato sotto la supervisione del Wto non ha facilitato in misura rilevante l'accesso al mercato globale dei sistemi economici in via di sviluppo. Gli interessi economici dei paesi poveri continuano a restare subordinati e discriminati rispetto agli interessi economici dei paesi ricchi i quali, sotto la compiacente supervisione del Wto, continuano a utilizzare strumenti tradizionali di discriminazione e distorsione di prezzi e quantità a svantaggio di beni che sono potenzialmente oggetto di scambio 22 internazionale e che vengono prodotti dai paesi economicamente arretrati (Lorentzen 2002). Le ragioni per cui i paesi in via di sviluppo sono tuttora ostacolati dagli accordi dell'Uruguay round e dalla loro applicazione sono molteplici. Cominciamo dalle più banali: l'introduzione del meccanismo di risoluzione delle controversie e il processo di implementazione degli accordi richiedono impegni finanziari considerevoli che prendono la forma di una pletora di costi aggiuntivi che riducono il guadagno dall'integrazione e che comprendono: ? costi per l'acquisizione delle informazioni; ? costi per l'acquisizione delle capacità tecniche per avviare e seguire le dispute; ? costi per introdurre i provvedimenti e le riforme stabilite dall’accordo; ? costi per il mantenimento delle delegazioni presso la nuova Organizzazione. Se questi costi risulteranno più che compensati dai benefici prodotti dal maggior grado di integrazione e di trasparenza è una questione che, allo stato attuale, resta tutta da dimostrare. Inoltre, i paesi in via di sviluppo non hanno mancato di dimostrare il loro scetticismo e le loro critiche nei confronti dell'introduzione delle nuove materie sotto l'egida del Wto. Essi ritengono che introdurre regolamentazioni restrittive sugli standards connessi all'ambiente o alle condizioni lavorative non sia altro che assecondare i desideri dei paesi ricchi che riescono, in questo modo, a imporre forme di protezionismo mascherato e a mantenere elevate le barriere all'ingresso di nuove produzioni altamente competitive che potrebbero provenire dai paesi più poveri. Arriviamo agli argomenti più scottanti. E' noto che le economie dei paesi poveri o in via di sviluppo sono largamente dipendenti da produzioni agricole, dall'esportazione di prodotti di base e dell'industria leggera (principalmente tessile, abbigliamento e alimentare). I paesi ricchi hanno deluso le aspettative del resto del mondo relativamente alla completa liberalizzazione dei settori nei quali molti paesi arretrati avrebbero potuto proficuamente specializzarsi e vedere crescere con successo le proprie imprese. In altre parole il protezionismo nel settore tessile, in agricoltura, nelle produzioni di articoli in pelle, nell'abbigliamento è restato elevato in termini assoluti e relativi, con gravi danni per i paesi poveri. Le prove per la dimostrazione di questo assunto sono riportate con dovizia di particolari e di dati statistici in una recente ricerca del Wto [Wto 2001]. In essa si osserva che la quota dei prodotti "duty free" è tuttora molto bassa nei settori dove i paesi poveri godono di vantaggi produttivi che potrebbero sfruttare maggiormente se queste produzioni fossero ricondotte all'interno di un mercato più ampio e più libero. Una completa liberalizzazione del commercio estero sui loro prodotti comporterebbe un incremento annuale dei "gains from trade" pari a 155 miliardi di dollari, cioè oltre tre volte quanto essi ricevono annualmente sotto forma di aiuti pubblici (Wto 2001). Secondo un altro studio condotto dall'università del Michigan una riduzione di un terzo delle barriere commerciali che ancora affliggono i beni prodotti dai paesi in via di sviluppo provocherebbe un'espansione dell'economia mondiale pari a oltre 600 miliardi di dollari, che diventerebbero 2000 se l'eliminazione delle restrizioni fosse assoluta. Quali sono le principali argomentazioni a sostegno di queste tesi? 23 In primo luogo, il processo di liberalizzazione dei contingenti, delle restrizioni quantitative e delle barriere non tariffarie che ostacolano l'ingresso dei produttori nel mercato globale è risultato tortuoso, eccessivamente graduale e inadeguato alle potenzialità di crescita delle esportazioni dei paesi in via di sviluppo. Ad esempio il processo di tariffazione dei contingenti sui prodotti tessili a seguito della abolizione dell'accordo multifibre sta procedendo con grande lentezza. In secondo luogo, anche la riduzione delle tariffe in questi settori è avvenuta a ritmi più blandi, condizionati all'utilizzazione di fattori produttivi e semilavorati "made in Usa", e mantenendo dei "picchi tariffari" che non hanno riscontro in settori industriali più evoluti: rispetto ad altri settori produttivi, quelli nei quali sono specializzati i paesi poveri sono complessivamente colpiti da dazi più elevati. In terzo luogo, i settori più aperti alla concorrenza dei paesi poveri sono tuttora colpiti da forme esose di tariff escalation che, aumentando l'incidenza della tassa man mano che il processo produttivo avanza, rende particolarmente ardua la possibilità di realizzare livelli crescenti di valore aggiunto13. Ciò limita la possibilità di avviare un processo di industrializzazione all'interno della aree arretrate fondato sullo sfruttamento di attività di base o di produzioni agricole. In conclusione, la mancata realizzazione della globalizzazione in questi mercati e una poco efficiente regolamentazione da parte del Wto sono considerate cause importanti di ostacolo all'industrializzazione e al superamento del livello di povertà che affligge intere aree geografiche del mondo. In questo modo si è contribuito a mantenere in vita imprese concorrenti che operano nei sistemi economici avanzati e a ritardare lo sviluppo delle esportazioni e della crescita dei paesi in via di sviluppo. Vediamo alcuni esempi dell'incidenza del fenomeno che va sotto il nome di tariff escalation. Dai dati prodotti dal Wto (2001) emerge che, relativamente ai settori dell'abbigliamento, della pelle e delle calzature, le tariffe sulle esportazioni di materie prime da parte dei paesi in via di sviluppo sono alquanto inferiori rispetto alle tariffe imposte sull'esportazione di prodotti semilavorati, i quali sono a loro volta colpiti da tariffe più basse rispetto a quelle imposte sull'esportazione dei prodotti finali. Un caso particolarmente eclatante è l'Australia dove, mediamente e per il settore tessile, questi tre livelli tariffari sono, rispettivamente pari a 1,5%, 23% e 36%; ma anche l'UE, gli Usa e il Giappone sono caratterizzati da un atteggiamento di politica commerciale fondato sulla tariff escalation. Tutto ciò si inserisce in un panorama reso più difficile dagli effetti indotti da altri provvedimenti di tipo restrittivo, che riducono la possibilità dei paesi poveri di partecipare alla globalizzazione (leggi sull'emigrazione, sugli standards ambientali etc.). In definitiva, il soggetto economico che vive in un paese povero non è in grado di vendere alle condizioni migliori i prodotti che sa fare meglio; non è in grado di vendere i fattori produttivi di cui dispone a più buon mercato (attraverso l'emigrazione della forza lavoro) e magari è costretto a vivere in un ambiente reso più ostile e degradato dall'uso eccessivo e dagli sprechi di gas e di altre fonti di energia 13 In altre parole il tasso effettivo di protezione (che indica il livello di protezione effettivamente accordata alla formazione di valore aggiunto da parte di un settore produttivo) risulta essere fortemente positivo per i settori concorrenti che si trovano nei paesi industrialmente avanzati. 24 utilizzate da parte dei paesi industrializzati. Questa forma di globalizzazione reale riduce le potenziali economie di scala per i paesi poveri mentre impone loro alcune diseconomie esterne che li danneggiano. Per contribuire a ridurre povertà e disuguaglianza, la politica commerciale deve diventare effettivamente globale, nel senso che deve essere regolamentata per consentire a tutti i paesi eguale condizioni di accesso al mercato globale. Attualmente viviamo, soprattutto nei settori di produzione dei beni reali e dei servizi, in un regime di globalizzazione parziale e discriminante soprattutto nei confronti dei più deboli e che tende a favorire la capacità di produzione ed esportazione dei paesi industrializzati e delle imprese multinazionali. 25 Bibliografia 1. Asso, P. F. (2002). "The Home Bias Approach in the History of Economic Thought. Issue in Finanzial Globalization from Adam Smith to John Maynard Keynes", in J. Lorentzen (ed.), Market and Authorities. Essays in Memory of Susan Strange, Aldershot: Elgar. 2. Baldwin, R.E. and P. Martin (1999). Two Waves of Globalization: Superficial Similarities, Fundamental Differences, Cambridge: National Bureau of Economic Research. 3. 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