Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) http://guidaunigiurisprudenza.blogspot.it/ DIRITTO PENALE PARTE-GENERALE G.FIORE 1 Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) http://guidaunigiurisprudenza.blogspot.it/ Introduzione: Nozione ed ambito del diritto penale vigente. Il diritto penale è costituito dall’insieme delle norme dell’ordinamento giuridico che prevedono e disciplinano l’applicazione di una misura sanzionatoria di carattere giuridico-penale (sanzione criminale), come conseguenza di un determinato comportamento umano. La legge stabilisce quali misure giuridiche abbiano il carattere della sanzione criminale: Il nucleo costitutivo è fondamentale dl diritto penale è dato da quelle norme dell’ordinamento giuridico statuale,che minacciano l’applicazione di una pena (pena criminale), come conseguenza giuridica di determinati comportamenti umani; Il fatto dell’uomo per cui la realizzazione la legge prevede come conseguenza giuridica l’applicazione di una pena criminale, si definisce reato. All’interno dell’area di esperienza giuridica ricoperta dal diritto penale devono farsi rientrare anche quei sottosistemi normativi che collegano a determinate situazioni e comportamenti individuali conseguenze di carattere giuridico-penale, diverse dalla pena criminale. L’ordinamento italiano vigente prevede e disciplina la possibilità di applicare, come conseguenza della commissione di un fatto preveduto dalla legge come reato determinate misure di sicurezza, come mezzo per prevenire l’ulteriore commissione di reati da parte del soggetto. Negli ultimi decenni hanno acquistato importanza le misure di prevenzione. L’applicazione di queste misure prescinde dall’accertamento dell’effettiva commissione di un reato, ma si ricollega ad una peculiare connotazione di pericolosità criminale, che l’ordinamento desume da una condotta di vita del soggetto colpito, tale da fondare un giudizio di rilevante probabilità che egli abbia commesso. Stia commettendo o possa commettere determinati reati. Pene,misure di sicurezza e misure di prevenzione costituiscono il sistema delle sanzioni criminali che esprimono la triplice articolazione di interventi, in cui l’ordinamento giuridico vigente organizza la funzione di repressione e prevenzione dei reati. Il diritto penale come sistema di tutela dei beni giuridici. Il diritto penale è caratterizzato dal fatto che esso prevede l’uso della forza non in funzione della coercibilità di uno specifico obbligo giuridico, ma come reazione dell’ordinamento giuridico statuale alla realizzazione dei comportamenti; il diritto penale assicura la tutela dei beni giuridici. L’esigenza del diritto penale circoscrive realmente il suo intervento alla sfera degli interessi che maggiormente si percepiscono come rilevanti per la vita della collettività. Inoltre, l’intervento del diritto penale deve essere necessario per la salvaguardia dei beni giuridici tutelati. Diritto penale e norme morali. Il diritto penale mira a disciplinare e indirizzare l’agire umano nella sfera sociale. La separazione di principio tra sfera morale e sfera giuridica è segnata in primo luogo dal fatto che anche il diritto penale può dirigersi soltanto contro tangibili azioni esterne; in secondo luogo, dalla indifferenza del diritto penale rispetto all’intrinseco valore di moralità o immoralità dei comportamenti comandati o vietati. Gli ordinamenti contemporanei sono contrassegnati dal principio di colpevolezza che si traduce nella predeterminazione dei criteri in base ai quali è consentito attribuire a taluno personalmente la responsabilità per un fatto preveduto dalla legge come reato. La scienza del diritto penale. La scienza del diritto penale mira a conseguire la corretta applicazione del diritto penale vigente, ricercando l’esatto significato delle sue norme e riconducendole a un sistema di principi, in via di integrazione con l’ordinamento giuridico generale e con l’ordinamento costituzionale. La scienza del diritto penale attiene anche all’ambito delle scienze criminali. 2 Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) http://guidaunigiurisprudenza.blogspot.it/ La scienza del diritto penale si configura come approccio empirico-naturalistico fornito dalla criminologia che è costituita dall’insieme organico delle conseguenze sperimentali sul reato,sul reo,sulla condotta sociale negativamente rilevante e sul suo controllo. Scienza del diritto penale e “ teorie della pena”. Le teorie tradizionali della pena vengono distinte in due gruppi fondamentali: teorie assolute e teorie relative. Alle teorie assolute corrisponde l’enunciato “ si punisce perché si è peccato” esse sono connesse all’idea di una giusta retribuzione per il male compiuto, esse sono designate anche come teorie retributive o teorie della giustizia; alle teorie relative corrisponde l’enunciato “ si punisce affinché non si pecchi” si definiscono teorie della prevenzione. Partizioni della scienza del diritto penale. Il diritto penale si distingue fra una parte generale e una parte speciale. Nello studio della parte generale si ricercano e si elaborano i principi,le categorie concettuali e gli istituti giuridici ai quali si riconosce una validità generale rispetto a tutti i reati o ad intere categorie di reati. La parte speciale si occupa dei singoli fatti previsti come reato e presuppone la conoscenza e l’utilizzazione dei concetti elaborati nella parte generale. Per quanto riguarda l’ordinamento italiano vigente,la parte generale del diritto penale è riflessa nel Libro Primo del codice penale. Le materie che formano oggetto della parte generale vengono ripartite secondo il loro oggetto, e cioè: La legge penale: quale inventario ragionato delle regole sulla produzione, interpretazione e applicazione della legge; Il reato: come analisi del fatto penalmente rilevante, quale insieme dei presupposti richiesti per l’applicazione delle pene, delle misure di sicurezza e delle misure di prevenzione; Le sanzioni: in quanto teoria sistematica della pena e delle altre conseguenze giuridiche del reato. Le fonti normative del diritto penale italiano. Fonti normative del diritto penale sono: Il codice penale approvato con il r.d. 19 ottobre 1930, n. 1398 e entrato in vigore dal 1 luglio 1930. L e norme in esso contenute si applicano anche alle materie regolate da altre leggi penali, in quanto non sia da queste stabilito altrimenti; Disposizioni costituzionali che al diritto penale fanno,direttamente o indirettamente, nella misura in cui enunciano principi regolativi fondamentali del diritto penale vigente; Codici penali militari di pace e di guerra, approvati con r.d. 20 febbraio 1941, n. 303 e in vigore dal 1 ottobre 1941. Le norme in essi contenute si applicano ai militari appartenenti ad armi, corpi, navi,aeromobili o servizi in generale, destinati ad operazioni di guerra; Diritto penale complementare o speciale costituiti da innumeroveli leggi; Misure di sicurezza trovano la loro disciplina all’interno dello stesso c.p. mentre le misure di prevenzione sono disciplinate in testi a se stanti. 3 Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) http://guidaunigiurisprudenza.blogspot.it/ PARTE SECONDA LA LEGGE PENALE CAPITOLO PRIMO:LEGGE PENALE E STATO DI DIRITTO Il principio di legalità. Negli ordinamenti giuridici moderni, la funzione di garanzia della legge, in materia penale, si riassume nel principio di legalità dei reati e delle pene. Nell’ordinamento italiano, in virtù del principio di legalità penale sia il fatto che costituisce reato sia la sanzione che si ricollega alla sua commissione devono essere espressamente previsti dalla legge. Il principio di legalità è il principio che vieta di punire qualunque fatto che, al momento della commissione, non sia espressamente previsto come reato e di sanzionarlo con pene che non siano espressamente previste dalla legge. Il principio di legalità, nell'ambito del diritto penale, è posto a presidio delle libertà fondamentali dell'individuo e si estrinseca in quattro sottoprincipi che ne costituiscono altrettante espressioni: riserva di legge, la regola della passività e determinatezza della fattispecie penale, il divieto dell’interpretazione analogica, l’irretroattività della legge penale. La riserva di legge in materia penale. La riserva di legge è il principio secondo cui i reati, pene e misure di sicurezza non possono avere altra fonte che non sia la legge. Il principio della riserva di legge nel diritto penale è posto a garanzia delle libertà individuali delle persone e si concretizza nella necessità che il precetto e la sanzione che formano oggetto della fattispecie incriminatrice siano individuati dalla legge. La riserva di legge nel diritto penale si riferisce solo alla legge statale con esclusione di quella regionale che può, tuttavia, produrre effetti scriminanti, riconoscendo, nelle sue materie di competenza esclusiva, diritti ai propri cittadini. La riserva di legge non si riferisce solo ai provvedimenti normativi licenziati dal Parlamento ma anche agli atti aventi forza di legge, come i decreti legislativi e i decreti legge. Quanto alle leggi delegate, si è rivelato che,rispetto ad esse, il potere legislativo si limita a formulare criteri direttivi più o meno dettagliati, ma la concretizzazione del precetto è rimessa poi al potere esecutivo; quanto al decreto legge, le perplessità sembrerebbero maggiori perché le esigenze di ponderazione richieste dalla normazione penale sembrerebbero in contrasto con le ragioni di necessità e d’urgenza. Con riferimento al diritto comunitario, deve escludersi che lo stesso possa stabilire nuove fattispecie incriminatrici e ciò, sia alla luce dell'art. 25 della Cost che riserva la materia al Legislatore statale, sia alla luce dell'art. 189 del Trattato di Roma che limita l'intervento normativo comunitario al campo dei rapporti economici e ad alcune libertà fondamentali. Posto, però, il principio generale del primato del diritto comunitario, esso potrà integrare alcuni elementi della fattispecie incriminatrice o determinarne la disapplicazione qualora contrastante con norme poste da regolamenti comunitari. Si è posta, in dottrina, la questione dei rapporti tra la consuetudine ed il principio della riserva di legge nel diritto penale. Esclusa la possibile operatività della consuetudine incriminatrice ed abrogatrice (desuetudine), parte della dottrina ammette la possibilità che la consuetudine crei nuove esimenti o cause di non punibilità (consuetudine integrativa). La riserva di legge implica la predeterminazione legislativa anche della sanzione ad esso applicabile; essa non solo deve essere legislativamente predeterminata e la predeterminazione riguardi sia le pene principali che quelle accessorie, ma deve essere prestabilita in forma non generica e articolata entro i limiti minimi e massimi ragionevoli. Principio di tipicità dell’azione punibile. Il legislatore, nel prevedere un reato, deve descrivere, sulla base dell’esperienza comune, un processo della realtà, in modo tale che, quando esso in concreto si verifichi, sia agevolmente 4 Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) http://guidaunigiurisprudenza.blogspot.it/ riconoscibile la sua corrispondenza all’azione vietata dalla legge sotto la minaccia della pena; così da scongiurare fin dove possibile l’arbitrio del giudice e dell’interprete. La norma, insomma, deve fornire una descrizione più o meno dettagliata, del fatto punibile,mediante la previsione, astratta e generale, dei suoi caratteri essenziali: così da delineare una fattispecie immediatamente riconoscibile quando si verifichi nella realtà fenolica. Principio di tassatività e determinatezza della fattispecie legale. Il principio di tassatività nell'ambito del diritto penale, è uno dei corollari del principio di legalità. Ed infatti, se sotto il profilo formale il principio di legalità impone che, a mente degli artt. 1 cp e 25 cost, nessuno possa essere punito se non per un fatto che sia preveduto dalla legge, in via non retroattiva, come reato, il principio di tassatività attiene alla tecnica di formulazione della fattispecie e richiede che la stessa sia descritta in modo chiaro e non lasci discrezionalità nell'individuazione della condotta punibile al Giudice. principio di tassatività non implica che, sotto il profilo della tecnica di redazione della fattispecie incriminatrice, non si possano creare i c.d. reati a forma aperta che si contrappongono ai reati a forma vincolata in quanto, contrariamente a questi ultimi che descrivono la condotta punibile, descrivono solo il risultato vietato essendo punibile qualsivoglia condotta commissiva od omissiva che produca il risultato stesso. Il Legislatore utilizza la tecnica di redazione della fattispecie penale a forma aperta quando il reato è posto a tutela di beni giuridici di primaria importanza (si pensi al delitto d'omicidio che punisce chiunque cagioni la morte di un uomo a prescindere dalle concrete modalità di produzione dell'evento). Neppure contrasta con il principio di tassatività il ricorso, da parte del Legislatore, nella formulazione della fattispecie, ad elementi normativi di carattere giuridico o extragiuridico. Gli elementi normativi della fattispecie penale si contrappongono agli elementi descrittivi che sono fatti immediatamente percepibili della realtà materiale. Gli elementi normativi, invece, quanto alla loro accezione semantica, fanno riferimento: o ad altri campi del diritto (si pensi alla nozione civilistica di altruità nell'ambito del delitto del furto);o a norme sociali o di costume (si pensi alla nozione del buon costume e del comune sentimento del pudore). Con riferimento agli elementi normativi della fattispecie penale, delicate problematiche sorgono in relazione all'eventuale abrogazione o modificazione della norma integratrice della fattispecie penale in quanto si discute se, in tal caso, sia immediatamente applicabile l'art. 2 del cp in materia di successione delle leggi penali ove l'abrogazione o la modificazione della norma extrapenale abbia fatto venir meno, per il futuro, l'illiceità penale di condotte precedentemente punibili. La giurisprudenza e la dottrina dominante hanno optato per una soluzione da verificare caso per caso, occorrendo infatti indagare se l'aborgazione o la modificazione della norma extra penale abbiano fatto venir meno il disvalore della condotta precedentemente punita. Il divieto di analogia. L'analogia è il meccanismo con il quale determinate casistiche, non specificatamente disciplinate normativamente, sono regolate secondo la normativa che disciplina casi simili (analogia legis) o in base ai principi desumibili dall'ordinamento giuridico (analogia iuris). Nell'ambito del diritto penale il meccanismo giuridico dell'analogia trova un ostacolo nel necessario rispetto del principio di legalità e del suo corollario costituito dal principio di tassatività. Sul piano della normazione positiva, poi, l'analogia, nell'ambito del diritto penale, è espressamente esclusa dall'art. 14 delle preleggi che stabilisce: "le leggi penali e quelle che fanno eccezione ai principi generali non si applicano oltre i casi e i tempi in esse considerati". L'esclusione dell'applicazione dell'analogia (sia legis che iuris) nel diritto penale, si desume, poi, dagli artt. 1 e 199 del cp, a mente dei quali nessuno può essere sottoposto a pena o a misura di 5 Giammo Helps You! 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L’analogia è applicabile alle scriminanti, in quanto le norme che le prevedono non hanno carattere eccezionale, ma sono espressione di principi generali. un’ipotesi di causa di giustificazione non codificata, ma frutto di applicazione analogica, è la pratica sportiva: la conseguenza è che non sono punibili condotte lesive che si realizzano durante l’ordinario svolgimento della competizione (Cass. 2765/2000). Ciò nonostante il ricorso all’analogia è esclusa per talune cause di giustificazione in quanto la legge le prevede nella loro massima portata logica (ad esempio, l’esercizio del diritto) ovvero in termini tali da impedire che altre ipotesi extra-legali siano riconducibili alla ratio della scriminante (ad esempio, il consenso dell’avente diritto). La dottrina prevalente, inoltre, esclude il procedimento analogico anche per le c.d. immunità: infatti, le norme che le prevedono sono eccezionali, poiché derogano al principio dell’ obbligatorietà della legge penale per tutti coloro che si trovano nel territorio. Attraverso l’analogia si applica ad un caso non coperto da alcuna norma la disposizione che disciplina una caso simile. Diversa è la nozione di interpretazione estensiva, in base alla quale ad una norma può essere data un’interpretazione più ampia, ma pur sempre nel rispetto della lettera della legge: ad esempio il termine «figli» viene riferito sia a quelli legittimi, che naturali ed adottivi. Poiché come detto in diritto penale l’interpretazione estensiva non è vietata, ne consegue, a titolo esemplificativo, che l’aggravante del furto, prevista dall’art. 625, n. 6, c.p. «fatto commesso sul bagaglio dei viaggiatori» è applicabile estensivamente se il fatto è commesso sul bagaglio del personale di servizio viaggiante di un treno o di un aereo. Costituirebbe, invece, analogia (vietata) e non interpretazione estensiva, applicare la disposizione al furto di borse in danno del personale non viaggiante in servizio presso le stazioni e gli aeroporti. L’art. 14 disp. prel. non pone alcuna limitazione alla interpretazione estensiva, che, pertanto, è ammissibile per tutte le disposizioni, comprese quelle penali ed eccezionali; questo procedimento, infatti, non estende la norma a casi non regolati, ma la rende applicabile a tutti quelli cui essa deve riferirsi. Norme penali in bianco. Il problema delle c.d. norme penali in bianco, problema particolarmente rilevante principalmente in riferimento alla loro costituzionalità, nasce dalla controversa interpretazione delle disposizioni che prevedono, nel nostro ordinamento, il c.d. principio di legalità e, in particolare, quella sua specificazione che è il principio della riserva di legge. Costituiscono norme penali in bianco quelle che, contenendo già un precetto e una sanzione (determinata almeno nei limiti massimi), rinviano per la specificazione o integrazione del contenuto del precetto ad un atto normativo di grado inferiore o a un provvedimento della p.a. o ad una legge extrapenale. Se la norma di legge rinvia per la determinazione o specificazione della condotta vietata, ad una fonte secondaria preesistente e ben definita allora il principio di legalità non è leso perché la legge predetermina interamente il precetto di carattere non legislativo; se la legge rimette ad una fonte secondaria la determinazione della regola di condotta penalmente sanzionata, il contrasto con la riserva di legge è del tutto evidente. Diversamente accade se la legge predetermina in via generale la condotta vietata demandando però ad altra fonte di specificare i presupposti per il suo verificarsi. L’integrazione normativa può risultare ammissibile solo se la legge predetermina almeno i criteri in base ai quali la fonte secondaria concorri alla specificazione del precetto. In altri casi in cui una fonte secondaria sia chiamata ad integrare il contenuto di un precetto penale, la legittimità costituzionale del relativo atto legislativo statuale dipende dalla misura della 6 Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) http://guidaunigiurisprudenza.blogspot.it/ predeterminazione legislativa della regola di condotta penalmente sanzionata. Sulla questione di costituzionalità, la corte costituzionale ha precisato che il principio di legalità non può ritenersi violato quando sia una legge dello stato a stabilire i caratteri, i presupposti, il contenuto e i limiti dell’atto o del provvedimento non legislativo che concorre alla determinazione della condotta vietata. Principio di irretroattività. L’art.2 c.p, disciplina l’efficacia nel tempo della legge penale e della successione delle leggi, ipotesi quest’ultima che ricorre quando una legge nuova regola in modo del tutto differente una materia precedentemente disciplinata da altra norma normativa. In particolare il primo comma sancisce il principio di irretroattività della legge penale, in linea con le disposizioni generali contenute nell’art. 11 delle disp. prel. c.c. in campo penale, però, il principio opera in maniera più rigida, in quanto trova presidio anche nell’art. 25 della Costituzione, in base al quale « nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso ». Come si vede la regola della irretroattività trova rigida applicazione solo per le norme penali incriminatrici. In campo penale, però, il principio opera in maniera più rigida, in quanto trova presidio anche nell’art. 25 cost. in base al quale “ nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso”. Come si vede la regola della irretroattività trova rigida applicazione solo per le norme penali incriminatici. Successione di leggi penali. Gli ulteriori commi dell’art. 2 c.p. disciplinano la successione di leggi, prevedendo in tale caso l’applicazione della norma più favorevole, nel rispetto del generale principio del favor rei. in sintesi le disposizioni dell’art. 2 possono essere ricostruite nel loro contenuto, nel modo che segue: •nuove incriminazioni (art. 2, comma 1, c.p.): quando una nuova norma elevi a reato un fatto che in precedenza non era previsto come tale, si applica il principio della irretroattività della legge, per cui ogni legge che prevede nuove figure di reato si applica solo ai fatti commessi dopo la sua entrata in vigore (v. anche art. 25, c. 2°, Cost.); •abolizione di incriminazioni precedenti (art. 2, comma 2, c.p.): quando una nuova norma non prevede più come reato un fatto che in precedenza era considerato tale, si applica il principio della retroattività della legge nuova più favorevole al reo. L’abolitio criminis incide sul giudicato, facendo cessare l’esecuzione della pena e gli altri effetti penali della condanna; • se la nuova legge è solo modificatrice della precedente, soccorre,infine,il quarto comma dell‘art.2, ai sensi del quale se la legge del tempo in cui fu commesso il reato e le posteriori sono diverse, si applica quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo, salvo che sia stata pronunciata sentenza irrevocabile.Il limite dell’intangibilità del giudicato trova, tuttavia,un’eccezione nel disposto del terzo comma dell’art.2, neointrodotto dalla c.d. legge sui reati di opinione (L.24-22006, n. 85), a norma del quale se vi è stata condanna a pena detentiva e la legge posteriore prevede esclusivamente la pena pecuniaria, la pena detentiva inflitta si converte immediatamente nella corrispondente pena pecuniaria, ai sensi dell’articolo 135 del codice penale. Per determinare quale sia la disposizione più favorevole, non deve farsi una valutazione astratta, ma concreta: ad es. se una nuova legge penale prevede per il furto un inasprimento delle pene ma, contemporaneamente lo rende procedibile a querela e non più d’ufficio, è più favorevole per il reo la nuova legge se nel relativo processo non è stata presentata querela. Le disposizioni dell’art. 2 non si applicano nel caso di leggi eccezionali o temporanee (art. 2, comma 5, c.p.), per le quali si applica sempre la legge del tempo in cui è stato commesso il reato. La ratio di una tale limitazione è palese: evitare che gli autori dei reati previsti da tali leggi si sottraggano all’applicazione della pena, commettendo il fatto in prossimità della scadenza del termine di efficacia della norma ovvero quando l’eccezionalità della situazione sta per cessare. 7 Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) http://guidaunigiurisprudenza.blogspot.it/ Inoltre, esse non si applicano alle norme di carattere processuale, sicché queste ultime, anche se «sfavorevoli» per l’imputato (ad es. in tema di custodia cautelare), possono avere efficacia retroattiva. Riguardo ai decreti legge non convertiti o convertiti con modifiche, le norme da essi poste, non si applicano ai fatti commessi anteriormente alla loro entrata in vigore (v. Corte Cost. n. 51/1985), anche se più favorevoli. La ragione di ciò va ricercata nel fatto che le norme del decreto legge non convertito, perdono efficacia fin dall’origine (ex tunc); pertanto non si verifica alcun fenomeno di «successione» a cui applicare le regole dell’art. 2 c.p. Parte della dottrina, però, ne sostiene l’applicabilità ai fatti commessi durante la vigenza del decreto stesso. Il divieto di applicazione di tali disposizioni alle norme finanziarie, previsto dall’art. 20 L. 4/1929, èstato abrogato dal d.Lgs.507/1999. Le leggi penali dichiarate incostituzionali, poi, secondo un recente indirizzo della Corte Costituzionale (sent. n. 148/1993), continuano ad applicarsi, se più favorevoli, ai fatti commessi sotto il loro vigore, in omaggio al principio di irretroattività delle norme penali incriminatrici. CAPITOLO SECONDO:L’EFFICACIA DELLA LEGGE PENALE NELLO SPAZIO. Principio della territorialità penale. In via generale vige il principio della territorialità della legge penale (artt. 3 e 6 c.p.) per il quale essa obbliga tutti coloro che (cittadini o stranieri) si trovano nel territorio dello Stato e per i reati ivi commessi.Il capoverso dell’art. 3 prevede la possibilità di deroghe al principio della territorialità: ciò si verifica allorquando sono puniti dallo stato italiano e secondo le leggi italiane i reati commessi all’estero. Limiti della perseguibilità dei reati commessi all’estero. Ai sensi dell’art. 7 c.p., come modificato dal d.L. 374/2001, (conv. in L.438/2001) è punito incondizionatamente secondo la legge penale italiana il cittadino o lo straniero che commette in territorio estero i seguenti reati: 1) delitti contro la personalità dello stato italiano; 2) delitti di contraffazione del sigillo dello stato e di uso di tale sigillo contraffatto; 3) delitti di falsità in monete aventi corso legale nel territorio dello stato e in valori di bollo, o in carte di pubblico credito italiano; 4) delitti commessi da pubblici ufficiali a servizio dello stato abusando dei poteri o violando i doveri inerenti alle loro funzioni; 5) ogni reato per cui speciali disposizioni di legge o di convenzioni internazionali stabiliscano l’applicabilità della legge italiana. Tale articolo accoglie, in sostanza, il principio della universalità e lo fa in considerazione della particolare natura dei delitti elencati dall’articolo. Delitti non politici commessi all’estero. Ai sensi dell’ art. 9 c.p. (modificato dalla L. 29-9-2000, n. 300), il delitto comune commesso all’estero dal cittadino italiano è punibile in Italia e secondo la legge italiana a condizione che: si tratti di delitto; sia punito con la reclusione e non con la sola multa; il reo sia presente nel territorio dello Stato. Occorre, altresì, distinguere tra: delitto commesso a danno dello Stato o di un cittadino italiano, che è punibile solo se la pena stabilita dalla legge è non inferiore nel minimo a tre anni di reclusione; se invece la pena è inferiore a tre anni occorre anche la richiesta del Ministro della Giustizia, o l’istanza o la querela della persona offesa; 8 Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) http://guidaunigiurisprudenza.blogspot.it/ delitto commesso a danno delle comunità europee, di uno Stato estero o di un cittadino straniero, per il quale occorre che l’estradizione non sia stata concessa o non sia stata accettata dallo stato estero, e che vi sia la richiesta del Ministro della Giustizia. Ai sensi dell’art. 10 c.p. (modificato dalla L. 29-9-2000, n. 300) anche in questo caso deve trattarsi di: a)delitto; b) punito con la reclusione; c) il cui autore sia presente nel territorio dello Stato. Occorre, inoltre, distinguere tra: delitto commesso a danno dello Stato o di un cittadino italiano, per il quale occorre una pena minima non inferiore ad un anno di reclusione, la richiesta del Ministro, o la querela o l’istanza dell’offeso; delitto commesso a danno delle comunità europee, di uno Stato estero o di un cittadino straniero, per il quale occorre una pena minima non inferiore a tre anni di reclusione, la richiesta del Ministro e la mancata concessione o accettazione dell’estradizione, sia da parte del governo dello stato in cui il reato fu commesso sia da parte del Governo dello stato cui appartiene il reo. Il principio della territorialità del diritto penale importerebbe la inapplicabilità e ineseguibilità in Italia delle sentenze pronunziate da tribunali stranieri; tuttavia è ammesso eccezionalmente il riconoscimento delle sentenze straniere ai seguenti fini: per stabilire la recidiva o altro effetto penale della condanna ovvero per dichiarare l’ abitualità o la professionalità nel reato o la tendenza a de-linquere; quando la condanna penale importerebbe secondo la legge italiana una pena accessoria; quando, secondo la legge italiana, si dovrebbe sottoporre la persona condannata o prosciolta a misure di sicurezza; quando la sentenza straniera importa condanna alla restituzione o al risarcimento del danno o ad altri effetti civili (esempio: separazione personale), che devono essere fatti valere nel territorio dello stato. Delitti politici. Ai sensi dell’art. 8 c.p. è punito secondo la legge italiana, su richiesta del Ministro della Giustizia (cui si deve aggiungere la querela della persona offesa se si tratta di delitto punibile a querela), il cittadino o lo straniero che commette in territorio estero un delitto politico non compreso tra quelli indicati nel n. 1 dell’articolo precedente. Ai sensi dell’ultimo comma dello stesso art. 8, agli effetti della legge penale, è delitto politico ogni delitto che offende un interesse politico dello Stato ovvero un diritto politico del cittadino; è altresì considerato delitto politico il delitto comune determinato, in tutto o in parte, da motivi politici. Due sono, dunque, le forme di delitto politico previste dal legislatore: a) il delitto oggettivamente politico, che è quello che offende un interesse politico dello Stato (integrità territoriale, indipendenza, sovranità, forma di governo etc.) ovvero un diritto politico del cittadino(diritti elettorali attivi e passivi); b) il delitto soggettivamente politico, che è il delitto comune determinato, in tutto o in parte, da motivi politici. Secondo la giurisprudenza prevalente perché un reato comune possa essere ritenuto soggettivamente politico è necessario che sia qualificato da un movente strettamente ed esclusivamente politico; è necessario, cioè, che il reo sia stato spinto a delinquere al fine di potere, a mezzo della sua azione, incidere sulla esistenza, costituzione o funzionamento dello stato, oppure favorire o contrastare idee, tendenze politiche, sociali o religiose, al precipuo scopo di realizzare una precisa idea politica. Rientrano in questa categoria il cd. delitto anarchico e quello commesso per finalità di terrorismo. 9 Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) http://guidaunigiurisprudenza.blogspot.it/ Estradizione. L’estradizione, secondo la più consolidata dottrina, consiste nella consegna che uno stato fa di un individuo, che si sia rifugiato nel suo territorio,ad un altro Stato, perché ivi venga sottoposto al giudizio penale (se imputato) o alle sanzioni penali (se già condannato). Nei paesi aderenti all’unione europea la procedura di estradizione è sostituita dal mandato di arresto europeo. L’estradizione può essere: attiva, quando è lo Stato italiano che richiede ad uno stato estero la consegna di un individuo imputato o condannato in italia; passiva, quando è lo Stato italiano che riceve da uno stato estero, la richiesta di consegna. Per l’estradizione passiva, cioè la consegna di un imputato alle autorità Giudiziarie estere, la legge italiana (art. 13 c.p.) pone le seguenti condizioni: Il fatto che forma oggetto della domanda di estradizione deve essere preveduto come reato sia dalla legge italiana che da quella straniera (cd. requisito della doppia incriminabilità); Non si deve trattare di reato per il quale le convenzioni internazionali facciano espresso divieto di estradizione; L’estradando deve essere straniero: in caso contrario, se trattasi di cittadino italiano, l’estradizione deve essere espressamente prevista da convenzioni internazionali (art. 26 Cost.). In ogni caso, comunque, l’estradizione non può essere concessa: per reati politici (artt. 10 e 26 Costituzione), esclusi i delitti di genocidio (L. Cost. 21 giugno 1967, n. 1); per motivi di razza, religione o nazionalità (L. 30 gennaio 1963 n. 300); per reati puniti all’estero con la pena di morte (v. sent. Corte Cost. 27 giugno 1996, n. 223), in quanto in contrasto con principi costituzionali. La procedura per la concessione dell’estradizione è disciplinata dal codice processuale penale (artt. 697-722 c.p.p.). Per un principio generale dell’ordinamento internazionale (principio che la dottrina chiama «di specialità») la richiesta di estradizione per determinati reati importa la preventiva accettazione da parte dello stato richiedente: dell’obbligo di non processare l’estradato per un fatto anteriore e diverso da quello per il quale è stata concessa l’estradizione; del dovere di non assoggettare lo stesso ad una pena diversa da quella relativa al fatto per cui è stata concessa l’estradizione. il principio di specialità opera tanto nella estradizione attiva (art. 721 c.p.p.) quanto in quella passiva (art. 699 c.p.p.). Riconoscimento di sentenze penali straniere (art.12). il principio della territorialità del diritto penale importerebbe la inapplicabilità e ineseguibilità in italia delle sentenze pronunziate da tribunali stranieri; tuttavia è ammesso eccezionalmente il riconoscimento delle sentenze straniere ai seguenti fini: per stabilire la recidiva o altro effetto penale della condanna ovvero per dichiarare l’ abitualità o la professionalità nel reato o la tendenza a de-linquere; Quando la condanna penale importerebbe secondo la legge italiana una pena accessoria; 10 Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) http://guidaunigiurisprudenza.blogspot.it/ quando, secondo la legge italiana, si dovrebbe sottoporre la persona condannata o prosciolta a misure di sicurezza; quando la sentenza straniera importa condanna alla restituzione o al risarcimento del danno o ad altri effetti civili (esempio: separazione personale), che devono essere fatti valere nel territorio dello stato. CAPITOLO TERZO: I LIMITI PERSONALI ALL’OBBLIGATORIETÀ DELLA LEGGE PENALE. Le immunità. L’art. 3 c.p. stabilisce che la legge penale obbliga tutti coloro che, cittadini o stranieri, si trovano nel territorio dello Stato. Costituiscono eccezione a tale principio le c.d. «immunità»: a) derivanti dal diritto pubblico interno il Capo dello Stato non è responsabile degli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni, tranne che per alto tradimento e attentato alla Costituzione (art. 90 Cost.); i Membri del Parlamento e dei Consigli Regionali non sono perseguibili per le opinioni e i voti espressi nell’esercizio delle loro funzioni (art. 68 Cost.); b) derivanti dal diritto internazionale riguarda i Capi di Stati esteri, i Ministri degli Esteri, gli agenti diplomatici e consolari, etc., e sono dettate da necessità di ordine politico. Le immunità sono considerate cause personali di esclusione della punibilità. PARTE TERZA IL REATO SEZIONE PRIMA:INTRODUZIONE ALLA DOTTRINA DEL REATO Il reato in generale. Il reato, da un punto di vista formale o giuridico, è quel fatto giuridico volontaria illecita, alla quale l’ordinamento ricollega, come conseguenza,una sanzione penale (ergastolo, reclusione, arresto, multa, ammenda). Se al fatto illecito non si ricollegano sanzioni penali bensì mere sanzioni amministrative o civili (risarcimento), si è in presenza rispettivamente di un illecito amministrativo o di un illecito civile. Secondo una visione sostanziale, la scelta del legislatore di individuare come illeciti penali alcuni comportamenti è ancorata alla valutazione per cui taluni fatti umani aggrediscono beni giuridici ritenuti meritevoli di particolare protezione, secondo la gerarchia dei valori contenuti nella Costituzione, sicché per la loro tutela appare necessario il ricorso alla minaccia dell’irrogazione di una pena criminale. La dottrina penalistica, come detto a proposito del principio di legalità distingue due diverse nozioni di reato: formale, secondo cui è reato ogni fatto umano al quale l’ordinamento giuridico ricollega una sanzione penale, vale a dire una pena inflitta dalla autorità giudiziaria a seguito di un procedimento giurisdizionale (c.d. pena criminale); sostanziale, secondo cui è reato ogni fatto considerato socialmente pericoloso. La dottrina più attenta, servendosi dei principi dettati dalla Costituzione in materia penale, ha elaborato una nozione formale-sostanziale, secondo cui è configurabile come reato un fatto umano, previsto dalla legge (principio di legalità)in modo preciso (principio di tassatività), ed attribuibile ad un soggetto (principio della personalità della responsabilità penale)sia casualmente (principio di materialità) che psicologicamente (principio di soggettività), offensivo di un bene giuridico costituzionalmente rilevante (principio di offensività) e sanzionato da una norma preesistente al momento della commissione del fatto (principio di irretroattività), che preveda 11 Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) http://guidaunigiurisprudenza.blogspot.it/ una pena proporzionata alla gravità del fatto e tesa alla rieducazione del condannato (principio del finalismo rieducativo della pena). La struttura del reato. La dottrina, analizzando le singole figure criminose, ha elaborato una teoria generale del reato che individua nella struttura dell’illecito penale una serie di elementi costitutivi comuni a tutte le fattispecie criminose. L’analisi della struttura del reato ha condotto alla formazione di due diverse concezioni: la teoria della tripartizione e la teoria della bipartizione. Teoria della bipartizione e teoria della tripartizione. 1)Fatto tipico antigiuridico (antigiuridicità tipizzata): aderenza della condotta alla norma incriminatrice e (contestualmente) dalla sua antigiuridicità . Il fatto tipico è ratio essendi dell’antigiuridicità e l’antigiuridicità è presupposto della tipicità. (elemento oggettivo) Quindi la tipicità è data dall’antigiuridicità; il fatto tipico si caratterizza per la mancanza di cause di giustificazione. La presenza di cause di giustificazione esclude il fatto tipico. 2)Colpevolezza: intesa non solo come presenza di un coefficiente psichico di condotta, ma anche come giudizio di rimproverabilità dell’autore. (elemento soggettivo) L’antigiuridicità non ha quindi una propria autonomia sicchè la presenza di una causa di giustificazione si configura come un elemento negativo del fatto (in quanto esclude la tipicità del reato) il reato non esiste. L’errore di tale concezione ( teoria bipartita o teoria degli elementi negativi del fatto) è quella di livellare sullo stesso piano fatti atipici per mancanza di un elemento positivo ( quindi non lesivo di alcun interesse) e fatto realizzato in presenza di una causa di giustificazione (lesivo di un interesse, ma lecito in forza di una scriminante) . Sarebbe come equiparare l’uccisione di una mosca (atipica per difetto di requisiti positivi) all’uccisione di un uomo in stato di difesa legittima (risulterebbe parimenti atipica per la presenza di un requisito positivo). Inoltre fiore critica tale teoria poiché sostiene che la funzione delle norme permissive ( cause di giustificazione)è quella di rendere lecito il compimento di azioni che costituiscono reato; Dunque presuppongono un fatto che possieda già tutti gli elementi costitutivi del reato. Nel nostro codice penale emerge un modello di struttura del reato fondato sul sistema della tripartizione nei suoi elementi costitutivi : 1) fatto tipico:il fatto costituente reato è cristallizzato in una norma che ne descrive in maniera precisa i contorni e l’ambito applicativo; 2) colpevolezza: intesa non solo come presenza di un coefficiente psichico nella condotta (secondo la concezione psicologica), ma anche come giudizio di rimproverabilità dell’autore (secondo la concezione normativa). Ad esempio, se una persona incapace di intendere e volere uccide un’altra persona, benché la condotta tenuta aderisca alla fattispecie astratta dell’omicidio, in realtà non si potrà configurare il delitto per difetto di rimproverabilità e quindi di «colpevolezza», ciò in quanto l’imputabilità è un presupposto della rimproverabilità. 3) Antigiuridicità: , costituita dalla contrarietà del comportamento, non solo alla norma penale incriminatrice (c.d. norma di divieto), ma a tutto l’ordinamento, non essendovi altre norme che giustificano detta condotta (c.d. norme permissiva) depotenziandone l’antigiuridicità. Ad esempio, se una persona rompe una serratura e si introduce in un appartamento, non è detto che abbia commesso i reati di danneggiamento e violazione di domicilio pur essendo tale condotta prevista e sanzionata dagli artt. 635 e 614 c.p. (norme di divieto); invero se detta persona è un ufficiale giudiziario che sta eseguendo uno sfratto, la sua condotta violenta è giustificata (art. 51c.p.) dalle norme del codice di procedura civile che in tal caso operano come norme permissive. 12 Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) http://guidaunigiurisprudenza.blogspot.it/ Pertanto la tipicità è solo un «indizio» dell’esistenza di un reato, essendo necessario che non sussista alcuna causa di giustificazione che consenta la condotta eliminando l’antigiuridicità (artt. 50-54 c.p.) e che detta condotta sia rimproverabile (colpevolezza). La nuova tripartizione. Lo schema classico della tripartizione esprime le esigenze dello stato di diritto di derivazione liberale e l’atteggiamento mentale caratteristico del positivismo giuridico. Nell’evoluzione della dottrina del reato entrò in crisi la distinzione degli elementi descrittivi da quelli normativo-valutativo, sia la separazione tra oggettivo e soggettivo dell’illecito penale. L’esistenza di una fattispecie in cui l’illiceità non può essere definita equivaleva a sottolineare che non tutto ciò che è soggettivo appartiene alla colpevolezza, così come all’antigiuridicità non si può assegnare solo ciò che è rigorosamente oggettivo. Ad esempio, alcuni reati si possono distinguere da altri solo per un diverso atteggiamento interiore del soggetto che sorpassa il fatto mirando ad un risultato ulteriore ( si pensi alla differenza tra delitto di sequestro di persona a scopo di estorsione e quello di sequestro di persona a scopo di terrorismo; per distinguere questi due articoli si deve osservare l’elemento soggettivo e non la descrizione oggettiva). Bene giuridico, causalità, azione nella dottrina del fatto tipico. La crisi del concetto causale dell’azione. Il bene giuridico è il valore tutelato da una fattispecie incriminatrice. La dottrina tradizionale concepiva il bene giuridico come oggetto specifico della tutela normativa, lo collocava fuori della sua sfera di vitalità. Ogni azione che presenti un efficienza causale per la modificazione di una situazione preesistente, protetta dall’ordinamento penale, costituisce aggressione del bene ed assume il carattere della tipicità. Di qui l’abituale connotazione del concetto di azione come concetto causale dell’azione. La natura dell’oggetto protetto comporta il superamento della sua intagibilità ed implica un nuovo criterio per valutare l’idoneità dell’azione a costituire il nucleo del fatto tipico: questa non può piu essere determinata esclusivamente in base alla sua efficienza causale per la lesione del bene, ma deve essere stabilita a partire dal suo significato come processo della vita sociale. Tale orientamento aveva comportato lo smembramento dell’azione che veniva astraendo dal suo contenuto significativo e dal suo contenuto di volontà. Il concetto di azione aveva quindi potuto svolgere una funzione negativa, di separazione da tutto ciò che, non essendo sorretto dalla volontà, non è azione; ma non appariva idoneo a configurare la condotta umana nello specifico significato di valore della tipicità, che doveva essere desunta dalla sua efficienza causale per la lesione del bene. La dimensione della causalità materiale, infatti non è di per sé idonea a segnalare le differenze tra uccidere e cagionare la morte: vale a dire fra l’azione come struttura significativa e azione come processo causale. 13 Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) http://guidaunigiurisprudenza.blogspot.it/ SEZIONE SECONDA:IL FATTO La Struttura Del Fatto Tipico Come già sottolineato, per affermare l’esistenza di un fatto rilevante per l’applicazione di una pena o di una misura di sicurezza, si richiede, prima di ogni altro requisito oggettivo o soggettivo, che si tratti di un fatto corrispondente a quello descritto da una norma incriminatrice di parte speciale. Il fatto storico in cui siano presenti tutti gli elementi che compongono la fattispecie legale di un determinato reato è un FATTO TIPICO, poiché riflette, in concreto, il “tipo di fatto” incriminato dall’ordinamento. E nell’analisi delle norme incriminatrici, funzione rilevante assume la teoria generale del reato, idonea ad operare un collegamento tra parte speciale e parte generale del diritto penale ed a fornire gli strumenti per la ricognizione della tipicità, in relazione alle diverse tipologie della fattispecie. E’ mediante la teoria generale del reato, attraverso l’integrazione del contenuto delle singole norme incriminatici con la normativa di parte generale che stabilisce i requisiti oggettivi e soggettivi del fatto penalmente rilevante (art.. 40 - 49 c.p.), si perviene ad una preliminare distinzione, all’interno del fatto tipico, tra fattispecie oggettiva e fattispecie soggettiva . Alla prima si assegnano elementi si carattere oggettivo, in base a i quali si stabilisce il carattere tipico di un fatto; alla seconda tutti gli elementi di ordine psichico, che ugualmente concorrono a definirne la tipicità. Gli elementi appartenenti alla fattispecie oggettiva che concorrono a determinare il carattere tipico del fatto sono: 1) L’autore (o soggetto attivo): autore è colui che realizza nel mondo esterno il fatto tipico di un determinato reato. Può essere autore soltanto un essere umano ossia una persona fisica, anche se va tenuto conto dell’ingresso nel nostro ordinamento di una particolare disciplina in tema di responsabilità (amministrativa) delle persone giuridiche derivante da reato. Va precisato che la qualità di autore è del tutto indipendente dal giudizio sulla colpevolezza del soggetto che agisce; in altre parole il minore non imputabile che sottrae un oggetto dal banco del supermercato o il figlio che ruba al padre, non punibili a norma dell’art.649 c.p., non cessano per questo di essere autori del fatto tipico del furto. I reati il cui fatto tipico può essere realizzato da qualsiasi persona si dicono reati comuni (ad es. art.575 c.p., che fa riferimento a “chiunque” cagioni la morte di un uomo). I reati, invece, i cui autori possono essere soltanto determinati soggetti si definiscono reati propri (ad es. l’omissione di referto, di cui all’art.365 c.p., è un fatto tipico che può essere commesso esclusivamente da chi esercita una professione sanitaria). A loro volta i reati propri possono essere distinti in reati propri esclusivi e non esclusivi: nei primi, l’assenza della qualifica soggettiva richiesta fa venir meno la stessa rilevanza penale del fatto (ad es. l’omissione di referto, che non può essere commesso se non da chi esercita una determinata professione, rimanendo assolutamente irrilevante lo stesso fatto commesso da un soggetto non qualificato);nei secondo vale a qualificare diversamente il fatto che comunque rimane penalmente rilevante (ad es. mentre il delitto di peculato – art. 314 c.p., richiede la presenza di un pubblico ufficiale o di un incaricato di pubblico servizio in veste attiva, quella stessa condotta materiale – appropriarsi della cosa mobile di cui si ha la disponibilità, se posta in essere da un soggetto non qualificato, darà vita alla realizzazione di un fatto di appropriazione indebita, ai sensi dell’art. 646 c.p.) 2) Il soggetto passivo: si definisce soggetto passivo del reato il portatore dell’interesse penalmente protetto su cui incide la condotta tipica (soggetto passivo del reato di omicidio è ad esempio la persona uccisa). L’espressione soggetto passivo è dunque un sinonimo di persona offesa dal reato (art.120 c.p.), ma non coincide necessariamente con quella di danneggiato dal reato che designa il soggetto che subisce il danno patrimoniale e non, derivante dal reato e suscettibile di risarcimento. Soggetto passivo del furto è, ad esempio, colui che viene privato della detenzione della cosa, ma quando il detentore non si identifica con il proprietario o il possessore della cosa, saranno questi ultimi i danneggiati dal reato. Nell’omicidio, soggetto passivo sarà la vittima dell’azione omicida, mentre soggetti danneggiati saranno gli stretti congiunti. Soggetti passivi del reato possono essere sia le persone fisiche, la P.A, le persone giuridiche di diritto privato, ma anche collettività non personificate. Quando l’interesse aggredito dal reato appartiene ad una cerchia indeterminata di soggetti (come avviene, ad es., nei reati contro la pubblica incolumità - artt. 422 ss. c.p.), si parlerà di soggetto passivo indeterminato. Anche il soggetto passivo, che normalmente può essere “chiunque”, può contribuire alla descrizione di un fatto tipico, quando le qualità personali del 14 Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) http://guidaunigiurisprudenza.blogspot.it/ soggetto passivo diventano determinanti nelle valutazioni del legislatore (ad es.la corruzione di minorenne – art. 530 c.p.) 3) L’oggetto materiale dell’azione :con questa espressione si designa l’entità su cui incide la condotta tipica, quando si concreti nell’estrinsecazione di energia fisica. Oggetto materiale dell’azione può essere una cosa (es. il documento che viene contraffatto nei casi di falsità documentale: artt.476 e ss c.p.), un animale o una persona umana. L’oggetto materiale dell’azione non va confuso con il bene giuridico considerato come l’oggetto giuridico del reato: nel furto, ad esempio, mentre oggetto materiale del reato sarà la specifica cosa mobile che viene sottratta, il bene giuridico è invece rappresentato dal patrimonio del proprietario o possessore della suddetta cosa mobile. 4) La condotta: essa rappresenta il nucleo essenziale della fattispecie oggettivo-materiale, e per essere tipica, deve corrispondere a quella descritta da una norma incriminatrice di parte speciale. La condotta può consistere in un comportamento positivo, cioè in un “fare” (azione in senso stretto) o in un comportamento negativo (cioè nel non fare qualcosa). Le modalità oggettive con cui la condotta dell’autore si presenta nel mondo esterno rappresentano, in realtà, il dato costitutivo essenziale per il suo inserimento in una fattispecie oggettiva di un reato, poiché è qui che si coglie, anzitutto, il manifestarsi di un’azione o di un omissione che corrisponde esattamente al “tipo” di fatto descritto dalla legge. È bene tener presente che il legislatore non utilizza sempre le stesse tecniche normative, nella descrizione dei fatti penalmente rilevanti: in alcuni casi, con riferimento alle modalità della condotta, il legislatore non fa riferimento ad alcun preciso parametro descrittivo, limitandosi ad affermare la necessaria presenza di un nesso causale tra una condotta (in qualunque forma essa si esprima, attiva od omissiva e con qualsiasi modalità) ed un evento: tipico è l’esempio dell’omicidio, nel quale il legislatore si limita a punire chiunque “cagiona” la morte di un uomo (e dunque si potrà rispondere di omicidio sia con una condotta attiva, sia con una condotta omissiva, in qualunque maniera esplicata: attraverso l’utilizzo di armi, con la somministrazione di veleni, omettendo di nutrire o di soccorrere la propria vittima, ecc.). In altri casi il legislatore, invece, descrive compiutamente le modalità realizzative del fatto tipico, e ciò comporterà, ai fini dell’applicazione di tali norme penali, che la condotta concretamente posta in essere dal soggetto agente dovrà rispecchiare fedelmente il tipo di condotta più o meno minuziosamente descritto dal legislatore: l’esempio classico, in questo caso, è quello del furto, nel quale il legislatore stabilisce che verrà punito solo chi si “impossesserà della cosa mobile altrui, sottraendola a chi la detiene, al fine di trarne profitto per se o per altri”. L’opzione per il primo modello di tipizzazione delle condotte (fattispecie a forma libera) verrà preferita tutte le volte in cui si tratterà di tutelare beni giuridici di particolare importanza (ad es. il bene vita), e quindi da proteggere contro ogni forma di aggressione. Al secondo modello (fattispecie a forma vincolata) si ricorrerà nel caso di beni di minor importanza sociale o che ricevono già altre forme di tutela attraverso altri settori dell’ordinamento giuridico (come il patrimonio, meno importante del bene vita, e comunque tutelato, in prima istanza, attraverso le norme di diritto privato). 5) Il bene giuridico: il bene giuridico (o oggetto giuridico del reato), corrisponde a quell’interesse, individuale o collettivo, alla cui salvaguardia l’ordinamento connette un valore giuridico che si riflette nella singola norma incriminatrice. Oltre che entità a sostrato materiale, percepibile dai sensi, (es. integrità fisica dell’individuo), questi possono riguardare anche entità immateriali, ed avere come contenuto, ad esempio, valori di natura spirituale (libertà di coscienza, riservatezza, dignità umana ecc.). nella teoria generale del reato, il bene giuridico assolve a tre distinte funzioni: Una funzione politico-garantista (o ideologica), in quanto il bene giuridico rappresenta un punto di orientamento ed un limite nelle scelte del legislatore penale, che, di fronte alla gravità della sanzione penale, deve accuratamente selezionare i beni giuridici da tutelare con tale sistema repressivo, evitando di ricorrere alla pena tutte le volte in cui il bene non sia di particolare importanza, o tutte le volte in cui è possibile proteggere efficacemente quel bene anche con altre forme di tutela (ad es. attraverso sanzioni amministrative o civili); deve inoltre selezionare accuratamente le forme di aggressione rispetto ai beni giuridici, ricorrendo, come si è visto, alle fattispecie a forma aperta (o libera) solo di fronte 15 Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) http://guidaunigiurisprudenza.blogspot.it/ a beni di particolare importanza, rinunciando a tale forma di tutela a 360° nei confronti di beni gerarchicamente subordinati; Una funzione sistematico-classificatoria, per cui è possibili individuare ed ordinare classi di reati in base al comune denominatore, rappresentato proprio dall’oggettività giuridica di riferimento (ad es. delitti contro la pubblica amministrazione, delitti contro il sentimento religioso, delitti contro il patrimonio, ecc); metodo di classificazione e sistemazione delle fattispecie, tra l’altro, seguito dal nostro codice penale, nella cui parte speciale le singole disposizioni incriminatrici sono distribuite in Titoli, ciascuno dei quali è “dedicato” ad uno specifico bene giuridico; Una funzione esegetico-interpretativa, poiché svolge una funzione essenziale nella interpretazione delle fattispecie, concorrendo a definirne i confini e a distinguerla sia da altre fattispecie limitrofe, sia dalla serie innumerevole dei fatti penalmente irrilevanti. 6) L’evento: sono relativamente poche le ipotesi in cui la fattispecie oggettiva del reato si esaurisce nella descrizione delle modalità del comportamento incriminato . Spesso infatti, la legge penale non si limita a descrivere l’azione o l’omissione vietata, ma contiene un riferimento espresso ad un accadimento naturalistico configurato come modificazione della realtà preesistente che consegue alla condotta dell’autore. I reati la cui fattispecie legale si esaurisce nella sola descrizione del comportamento vietato si definiscono reati di pura condotta (ad es. l’omissione di denuncia del reato di cui all’art. 361 e 362 del c.p.) distinti a loro volta in reati di pura azione o pura omissione; quelli in cui la norma descrive quale elemento costitutivo della fattispecie un evento naturalistico (corrispondente, cioè, ad una modificazione della c.d. realtà sensibile), ben distinto dalla condotta, anche se individuabile come sua conseguenza, vengono detti comunemente reati di evento ( tipico reato con evento naturalistico è l’omicidio di cui all’art 575 del c.p.). Bisogna però fare molta attenzione a non confondere la nozione di evento con quella di offesa, intesa come lesione o messa in pericolo del bene giuridico tutelato. Mentre si può parlare di reati con o senza evento (in senso naturalistico), non è opportuno parlare invece di reati privi di offesa, poiché, anche nei reati di pura condotta, questa è sempre presente (se il reato “nasce” per la tutela di determinati beni giuridici, non è, in effetti, congruo immaginare reati che non contengano un contenuto di offesa rispetto all’oggettività giuridica di riferimento, anche se tale offesa non si sostanzia in un evento in senso naturalistico – si pensi al delitto di ingiuria, art. 594 c.p., che pur non prevedendo un evento diverso ed ulteriore rispetto alla condotta, comporta comunque la lesione del bene giuridico onore). A volte ci si riferisce all’offesa anche con la locuzione evento giuridico del reato. Dal punto di vista dell’offesa, i reati si distinguono in reati di danno, e rati di pericolo: nei primi la fattispecie legale esige l’effettiva lesione del bene tutelato, nei secondi è sufficiente la semplice esposizione a pericolo del bene. A loro volta i reati di pericolo si distinguono in: reati di pericolo concreto, in cui è presente un evento (di pericolo) in senso naturalistico, da accertare di volta in volta da parte del giudice, in quanto elemento di fattispecie (es. art. 432 c.p.); reati di pericolo astratto, di pura condotta, in cui il legislatore presume relativamente la pericolosità di una determinata condotta, dando però la possibilità di dimostrarne nel caso concreto l’assenza (es. artt. 656- 657); reati di pericolo presunto, sempre di pura condotta, in cui la presunzione di pericolosità è assoluta, e dunque non è possibile per l’imputato fornire, nel caso concreto, prova contraria (tipico esempio è dato dalle norme che vietano la fabbricazione, la detenzione o il commercio di armi e materiali esplodenti – artt. 435, 678 c.p. – oppure la detenzione ed il porto abusivo di armi – artt. 697, 699 c.p.) 7) Il nesso di causalità: Affinché l’evento possa essere attribuito sul piano oggettivo ad un determinato autore, è necessario che tra la condotta e l’evento sussista un rapporto di causa ad effetto. In realtà il problema del rapporto causale non può essere confinato su un piano meramente naturalistico poiché vi sono numerose fattispecie in cui esso non si configura affatto 16 Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) http://guidaunigiurisprudenza.blogspot.it/ come un rapporto tra due entità di ordine naturalistico. Come tale il nesso di causalità tra condotta ed evento va considerato come rapporto di conseguenzialità tra una determinata condotta ed un determinato evento lesivo, la cui qualificazione come “conseguenza” può essere stabilita soltanto sulla base di principi direttivi essenziali sulla cui base si decide appunto dell’attribuzione di un evento ad una determinata condotta (c.d. l’imputazione oggettiva). La disciplina del nesso di causalità: il nostro ordinamento contiene una espressa menzione del rapporto di causalità tra condotta ed evento, quale elemento costitutivo del fatto tipico, disciplinato agli artt. 40 e 41 del codice penale. Norma, l’art.40 c.p, che si limita ad enunciare l’esigenza del nesso causale ma non chiarisce che cosa si debba intendere per rapporto di causalità, né tanto meno specifica quali debbano essere i criteri in base ai quali si decide della rilevanza giuridica del rapporto causale. Da qui l’elaborazione delle teorie volte a definire la portata ed il contenuto del nesso di causalità: la teoria della condicio sine qua non, che considera causa di un evento qualsiasi condizione del suo verificarsi, che non possa mentalmente essere eliminata, senza che venga meno l’evento stesso con la sua concreta fisionomia (tale teoria pecca per eccesso poiché, prendendo in considerazione l’insieme delle condizioni necessarie e sufficienti a produrre l’evento, non riesce poi a stabilire quali siano realmente rilevanti perché, in definitiva, si equivalgono tutte ai fini della produzione dell’evento: anche la condotta di chi vende l’arma da fuoco, ad esempio, risulta essere condicio sine qua non del successivo omicidio che viene commesso proprio con l’utilizzo di quell’arma; per assurdo, anche il padre dell’omicida, potrebbe essere preso in considerazione, poiché con la sua condotta ha messo al mondo il futuro killer); la teoria della causalità adeguata considera causa dell’evento, solo la condotta umana che risulta adeguata, e cioè idonea a produrre l’evento secondo un criterio di normalità (l’id quod plerumque accidit): in questo modo dovrebbero escludersi tutti i fattori causali che solo eccezionalmente hanno prodotto quell’evento, ma che di regola, non hanno, come verosimile esito, la produzione di quell’evento; la teoria della causalità umana considera la condotta umana quale causa dell’evento quando ne è la condicio sine qua non e quando l’evento rientra nella sfera di dominabilità dell’uomo in base ai suoi poteri conoscitivi e volitivi: sia la teoria della causalità adeguata che quella della causalità umana hanno però un vizio metodologico di fondo, e cioè quello di fare riferimento ad elementi di natura soggettiva per “correggere” gli eccessi della teoria condizionalistica, quando l’accertamento del nesso di causalità deve avvenire su basi puramente oggettive (ciò che è prevedibile per un soggetto può non esserlo per altri; a maggior ragione tale difetto viene amplificato quando si passa dalla prevedibilità, tipica della causalità adeguata, alla dominabilità, propria della causalità umana); ecco perché si preferisce la riconduzione del rapporto causale sotto leggi scientifiche di copertura (l’azione è causa dell’evento quando, secondo la migliore scienza ed esperienza del momento storico, l’evento è conseguenza certa o altamente probabile dell’azione). In questo modo si cerca di “coprire”, attraverso l’apporto delle varie scienze, una valutazione in termini di maggiore o minore probabilità che una determinata condotta sia causa di uno specifico evento. Una delle teorie oggetto di ampi consensi, nata negli anni ’30 in Germania, e volta alla ricerca di correttivi alla causalità condizionalistica è quella dell’imputazione oggettiva: la causalità andrebbe ricercata attraverso un doppio ordine di valutazioni: un primo di carattere ricognitivo, volta appunto, a stabilire l’esistenza del nesso di causalità, attraverso la teoria condizionalistica ed il supporto delle leggi scientifiche di copertura; un secondo, di carattere valutativo, destinato a stabilire se il nesso di causalità, oltre che esistente, sia anche giuridicamente rilevante. Per imputare un evento ad un determinato autore, ad esempio, si richiede non solo che egli lo abbia causato ma anche che con la sua condotta abbia creato o accresciuto il rischio giuridicamente riprovato, di una lesione di beni conforme a quella descritta dalla fattispecie incriminatrice; pericolo che poi si è concretizzato nello specifico evento lesivo in questione. La fattispecie soggettiva del fatto tipico Ad essa appartiene l’intero contenuto psichico dell’azione o omissione che presenti i requisiti oggettivi di un fatto tipico. Gli art.. 42 e 43 del c.p. stabiliscono i requisiti minimi che un comportamento umano deve presentare,dal punto di vista psichico per assumere la rilevanza di un fatto costituente reato. 17 Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) http://guidaunigiurisprudenza.blogspot.it/ 1) Il primo requisito di ordine psichico richiesto dalla legge è la “coscienza e volontà” dell’azione o omissione, così come previsto dalla dall’art.42 c.p. Dunque è suscettibile di una valutazione in termini di tipicità, antigiuridicità e colpevolezza, soltanto la condotta (oggettivamente tipica) che sia sorretta dalla volontà ed assistita dalla consapevolezza del proprio operare nel mondo esterno. Non sono “azioni” per il diritto penale, dunque, i movimenti che si compiono durante il sonno, quelli commessi come stimolazione di un riflesso nervoso, ecc. Il fatto che alla base dell’illecito penale, sia esso colposo o doloso, vi debba essere comunque un’azione cosciente e volontaria, permette, sulla base anche dell’accertata capacità di intendere e di volere del soggetto agente, di unificare dolo e colpa nel concetto di rimproverabilità, proprio della concezione normativa della colpevolezza: infatti non avrebbe alcun senso muovere un rimprovero nei confronti di chi ha posto in essere una condotta che non sia accompagnata dalla coscienza e dalla volontà. Il requisito in parola vale, comunque, solo a delimitare l’area della condotta penalmente rilevante, ma non esaurisce i requisiti di ordine psichico, che sono richiesti per integrare la fattispecie soggettiva: il legislatore richiede infatti che sia presente anche uno degli specifici elementi psicologici del reato (dolo, colpa, o preterintenzione) che non riguardano più il solo rapporto soggettivo tra autore e condotta, ma coinvolgono il legame psichico del soggetto agente rispetto all’intera fattispecie di reato. 2) Il 2° comma dell’art. 42 c.p. stabilisce la regola per la quale, nei delitti, si risponde solo se il fatto è stato commesso con dolo, risultando possibile un imputazione a titolo di colpa o preterintenzione solo se espressamente previsto dal legislatore; nelle contravvenzioni, stabilisce invece il 4° co. dello stesso articolo, ciascuno risponde della sua azione od omissione cosciente e volontaria, sia essa dolosa o colposa. Ciò vuol dire che, in assenza di specifiche indicazioni legislative, il fatto tipico nei delitti, si intende sempre come doloso. Nelle contravvenzioni, si risponderà sia del fatto doloso che di quello colposo (dunque si può rispondere di omicidio colposo, perché espressamente previsto – art. 589 c.p. – ma non, ad esempio, di furto colposo: il furto è infatti un delitto e, mancando ogni altra espressa indicazione, richiede, ai sensi dell’art. 624 c.p., che venga commesso con dolo). Che cosa si debba intendere per dolo, colpa o preterintenzione lo stabilisce il successivo art. 43 c.p., secondo il quale il delitto è: Doloso, o secondo l’intenzione, quando l’evento dannoso o pericoloso che è il risultato dell’azione o dell’omissione, e da cui la legge fa dipendere l’esistenza del delitto, è dall’agente preveduto e voluto come conseguenza della propria azione od omissione Preterintenzionale, o oltre l’intenzione, quando dall’azione od omissione deriva un evento dannoso o pericoloso più grave di quello voluto dall’agente Colposo, o contro l’intenzione, quando l’evento, anche se preveduto, non è dall’agente voluto e si verifica a causa di negligenza o imprudenza o imperizia, ovvero per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline. CAPITOLO SECONDO: CONDOTTA ED ELEMENTO PSICOLOGICO NEL REATO DOLOSO IN AZIONE Il dolo, in un’accezione assai generale si può definire come volontà di realizzare la fattispecie oggettiva di reato. Gli elementi costitutivi del dolo sono: la rappresentazione (o momento intellettivo) e la volontà (momento volitivo). Alla struttura generale del dolo appartengono più precisamente: 1) la volontà di agire per la realizzazione del fatto tipico; 2) la conoscenza delle circostanze in cui si agisce, come condizione per l’effettività dell’atto volitivo: è necessario, affinchè si possa parlare di un fatto doloso, che il soggetto agente si sia prefigurato un determinato evento (in senso giuridico, o, se presente, in senso naturalistico) quale possibile conseguenza di una determinata condotta, e che abbia, dunque, consapevolmente agito sulla base delle sue personali conoscenze ed esperienze, in modo tale che dalla condotta posta in azione scaturisse, appunto come conseguenza, l’evento previsto dalla norma incriminatrice speciale. Momento intellettivo e momento volitivo sono egualmente imprescindibili nella nozione di dolo, poiché non può darsi un atto di volontà, se esso non è fondato su una preventiva rappresentazione delle conseguenze dei propri atti nel mondo esterno; né, d’altra parte, può assumere alcuna rilevanza per il diritto una mera rappresentazione di possibili eventi, se ad essa non segua un atto di volontà che metta in moto energie causali dirette alla modificazione della realtà preesistente. I due momenti (quello intellettivo e quello volitivo) possono presentarsi con diverse gradazioni d’intensità (si può volere sia nel senso di desiderare intensamente, sia di accettare semplicemente le conseguenze delle proprie azioni; la rappresentazione può 18 Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) http://guidaunigiurisprudenza.blogspot.it/ raggiungere un grado di estrema certezza, o far prospettare solo come probabile o possibile il verificarsi di un determinato evento, ecc) e diversamente combinarsi, dando vita ad alcune specifiche forme di dolo individuate dalla dottrina e dalla giurisprudenza: 1) Dolo intenzionale (o dolo diretto di 1° grado) – si parla di dolo intenzionale quando il soggetto ha, come obiettivo finalistico, proprio la realizzazione del fatto tipico, nel senso che questo rappresenta lo scopo del suo agire. Si tratta della forma più intensa e più grave di dolo, poiché in questi casi il soggetto vuole come proprio obiettivo proprio ciò che l’ordinamento vieta attraverso le norme incriminatrici. In tutti i casi di dolo intenzionale non è fondamentale che il soggetto si rappresenti come certo l’evento, potendo lo stesso, purchè rappresenti lo scopo dell’agente, essere solo probabile o possibile (dunque risponderà a titolo di dolo intenzionale sia il killer, abile nella mira, e quindi certo di raggiungere il proprio scopo, tanto l’occasionale omicida, che spari da grande distanza e senza essere dotato di buona mira, se l’evento morte rappresenta comunque l’obiettivo finale della sua azione) 2) Dolo diretto (o dolo diretto di 2° grado) – si parla di dolo diretto, invece, nelle ipotesi in cui l’evento, non rappresentando l’obiettivo finalistico del soggetto agente, tuttavia si pone come conseguenza certa (o altamente probabile) di una condotta diretta ad altri fini: sarà in dolo diretto di 2° grado, ad esempio, chi, volendo truffare la propria compagnia assicurativa, decide di dar fuoco al proprio stabile, pur sapendo che all’interno della palazzina si trova una persona (ad es. il custode) che con tutta probabilità perirà proprio a causa dell’incendio. In questi casi, pur non essendo l’evento morte propriamente voluto dal soggetto agente, nel senso che non rappresenta il suo scopo, si tratterà comunque di conseguenza certa o altamente probabile riconnessa alle proprie azioni, per cui il soggetto agente non può non essersi rappresentato anche il verificarsi di quell’ulteriore evento. 3) Dolo indiretto (o dolo eventuale) - in questi casi, come nelle ipotesi di dolo diretto, l’evento non costituisce lo scopo del soggetto agente, rappresentando ancora una volta una conseguenza secondaria di azioni poste in essere per altri fini. Tuttavia, a differenza del dolo diretto, nel dolo eventuale l’evento è una conseguenza solo possibile, di modo che il soggetto non possa essere sicuro circa il suo verificarsi: in questa situazione di incertezza, tuttavia, egli accetta consapevolmente il rischio del suo verificarsi, e tanto basta al legislatore per ritenere comunque quell’evento voluto (tipico esempio, il lancio di sassi dal cavalcavia, ove il soggetto prevede le possibili conseguenze lesive del proprio gesto – ad esempio la possibilità che una autovettura sbandi per evitare il masso, provocando così un incidente mortale – e tuttavia non si astiene dal compiere la propria azione, accettando il rischi del verificarsi di tutte le possibili conseguenze che egli ha previsto). Normalmente, il legislatore, quando prevede una fattispecie dolosa, ritiene sufficiente anche il semplice dolo eventuale ad integrare la fattispecie. Solo se stabilirà diversamente, dovrà escludersi tale forma di imputazione soggettiva dell’evento, così come sarà possibile escludere anche la rilevanza del dolo diretto (come ad es. nell’abuso d’ufficio – art. 323 c.p. – oppure nelle false comunicazioni sociali (artt. 2621-2622 c.c.) Le tre forme di dolo appena descritte, rappresentano le tre forme in cui è possibile ipotizzare il dolo generico, in cui l’evento del reato, voluto come obiettivo finalistico o solo come conseguenza secondaria, deve comunque verificarsi dal punto di vista oggettivo. In alcune ipotesi, invece, il legislatore dà rilevanza ad un determinato evento solo in quanto questo rappresenti lo scopo del soggetto agente, senza necessità che si realizzi dal punto di vista naturalistico (l’evento, cioè, contribuisce solo alla descrizione della fattispecie soggettiva, ma non anche di quella oggettiva): si parlerà in questi casi di dolo specifico (tipico esempio di dolo generico è l’omicidio, nel quale basta che il soggetto voglia, nel senso prima chiarito – e quindi anche semplicemente accettandone il rischio – l’evento morte, rimanendo indifferente il legislatore rispetto alle ulteriori finalità del soggetto agente – che potrà agire per vendetta, per gelosia, per profitto ecc.; il furto rappresenta invece l’esempio paradigmatico di dolo specifico, poiché in questi casi il legislatore non si accontenta solo della realizzazione della condotta dal punto di vista oggettivo – la sottrazione della cosa mobile altrui a chi la detiene – ma richiede che tutto ciò sia commesso al fine di trarne profitto). 19 Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) http://guidaunigiurisprudenza.blogspot.it/ Oggetto del dolo. Oggetto del dolo (cioè ciò che l’agente deve preventivamente conoscere) non è solo l’evento ma il fatto oggettivo del reato, il complesso cioè di tutti gli elementi obiettivi della fattispecie criminosa. In particolare costituiscono oggetto di mera rappresentazione: gli elementi positivi naturalistici, precedenti e concomitanti alla condotta: presupposti, strumenti e mezzi, luogo e tempo della condotta, oggetto materiale, qualifiche del soggetto passivo; gli elementi normativi della fattispecie, quali ad es. l’altruità della cosa nel furto; gli elementi negativi del fatto, cioè l’assenza di situazioni previste dalla legge come scriminanti, generali o speciali; la illiceità speciale, intesa come richiamo ad una specifica antigiuridicità della condotta (es. «senza autorizzazione», «abusivamente»), quando questa costituisce un elemento normativo della fattispecie (Cass. 11848/95). Costituiscono, invece, oggetto di rappresentazione, ma anche di volizione: la condotta; l’evento naturale quale conseguenza dell’azione; il nesso di causalità , quantomeno nei tratti essenziali del suo decorso; l’evento inteso in senso giuridico, quale lesione o messa in pericolo del bene giuridico tutelato dalla norma. Ulteriori forme, classificazioni e partizioni del dolo. Nella commissione dei reati possono ricorrere differenti tipi di dolo: dolo di danno e di pericolo: si ha dolo di danno quando il soggetto agente vuole ledere il bene protetto; si ha dolo di pericolo quando vuole solo minacciare il bene-interesse tutelato. dolo d’impeto, di proposito e premeditazione: il dolo è d’impeto quando la decisione di commettere il reato sorge improvvisa e viene immediatamente eseguita, senza che vi sia alcun intervallo tra la formulazione del proposito criminoso e la sua attuazione; è invece di proposito quando intercorre un consistente distacco temporale tra il sorgere dell’idea criminosa e la sua esecuzione; una species del dolo di proposito è la premeditazione, prevista come circostanza aggravante nell’omicidio e nelle lesioni personali. dolo iniziale, concomitante, successivo:si dice iniziale il dolo che si riscontra solo nel momento della condotta; concomitante, quello che accompagna lo svolgimento del processo causale da cui deriva l’evento;successivo, quello che si manifesta dopo il compimento della condotta. Nell’ambito del dolo indiretto si distinguono: il dolo eventuale: si ha quando il soggetto si rappresenta e vuole un evento ma, prevedendo la possibile verificazione di un altro evento diverso, agisce anche a costo di produrlo; il dolo alternativo: si ha quando il soggetto si rappresenta la possibilità del verificarsi di due eventi e mostra indifferenza rispetto a quale dei due deriverà dalla sua condotta. Differenze dal dolo occorre tener nettamente distinto il movente del reato: il movente, infatti, altro non è che il motivo per cui il soggetto compie il fatto costituente reato e, generalmente, tale motivo è irrilevante (salvo per la valutazione delle circostanze). L’accertamento del dolo. Si effettua considerando tutte le circostanze esteriori che in qualche modo possono essere espressione dell’atteggiamento psichico e deducendo l’esistenza della rappresentazione e della volizione in cui si concreta il dolo dalle comuni regole di esperienza. 20 Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) http://guidaunigiurisprudenza.blogspot.it/ Dolo e coscienza dell’offesa. Nei reati con evento materiale , l’agente deve, naturalmente, prevedere e volere, come conseguenza della sua azione, l’evento che appartiene alla fattispecie oggettiva del reato e che concreta la lesione del bene protetto. Ma anche nei reati senza evento materiale, l’agente deve rappresentarsi come conseguenza della sua azione, la lesione di beni che contrassegnala fattispecie tipica. È necessario che l’autore si configuri il realizzarsi dei momenti di fatto, su cui si radica l’offesa penalmente rilevante e non che egli rappresenti la lesione del bene giuridico nella interezza delle sue implicazioni. La coscienza dell’offesa non deve essere confusa con la coscienza dell’antigiuridicità penale, poiché essa non ha niente a che vedere con la conoscenza o meno del divieto penalmente sanzionato, né include la conoscenza dei termini giuridici della lesione del bene; ma corrisponde alla consapevolezza della portata offensiva dell’evento rispetto all’interesse tutelato. La tesi che il dolo comprenda la coscienza dell’offesa trova supporto nell’art. 43 I comma c.p. che indica come oggetto del dolo l’evento dannoso e pericoloso da cui la legge fa dipendere l’esistenza del reato (concezione del reato come lesione di un bene giuridico); ancora l’art.49 II comma sembra assumere l’attitudine lesiva del fatto come requisito costitutivo della sua tipicità. Le ipotesi di errore sul divieto non esigono rilevanza attraverso l’assunzione della coscienza dell’offesa come momento costitutivo del dolo; sono invece rilevanti i casi di errore ex art. 47 c. p., in cui l’errore dell’agente non cade né sui presupposti del fatto, né sulle modalità della condotta, né sul rapporto di causalità, ma concerne appunto il contenuto lesivo del fatto. Si pensi a chi indirizzi a un terso, in pubblico, epiteti di cui conosce benissimo l’innocuo significato lessicale, ignorando però che, secondo l’uso locale, costituiscono grave ingiuria. In questo caso il fatto risulta oggettivamente lesivo dell’altrui reputazione; ma nell’agente manca il dolo dell’ingiuria o della diffamazione perché è assente la consapevolezza del significato di offesa che la condotta assume rispetto al bene tutelato. CAPITOLO TERZO: L’ILLECITO OMISSIVO DOLOSO. Nozione del reato omissivo. L’omissione penalmente rilevante può definirsi una forma di condotta criminosa costituita dal comportamento negativo di un soggetto il quale non compie un’azione possibile che aveva l’obbligo giuridico di compiere (art. 40, c. 2°, c.p.: « Non impedire un evento, che di ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo»). Tradizionalmente i reati omissivi si distinguono in due grandi categorie: reati omissivi propri e reati omissivi impropri. La distinzione fra reati omissivi “propri” e “impropri”. I reati omissivi si distinguono in reati omissivi proprio e reati omissivi impropri. I reati omissivi propri (o altrimenti definiti di pura omissione): si esauriscono in una condotta violativa dell’obbligo giuridico di agire senza produrre alcun evento naturalistico giuridicamente rilevante (reati di mera condotta); classici delitti di pura omissione, contenuti nel codice penale, sono: l’omissione di soccorso ( art. 593 c.p.), l’omessa denuncia del reato ( art. 361-364 c.p.), l’omissione di referto ( art. 365 c.p.). in tutte queste ipotesi, per la realizzazione del fatto incriminato è sufficiente che il soggetto abbia omesso di prestare soccorso, di denunciare il reato di cui è venuto a conoscenza, di inoltrare il prescritto referto. Dal punto di vista della struttura del fatto, i reati omissivi propri sono, per definizione, reati di pura condotta; dal punto di vista dell’offesa sono reati di pericolo presunto. Nei reati omissivi impropri o commissivi mediante omissione: la condotta è violativa di un obbligo giuridico ed è idonea a produrre un evento in senso naturalistico (reati di evento); questi ultimi sono frutto della combinazione tra la clausola estensiva generale dell’art. 40 c.p. 8 non impedire un evento che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo), più altra fattispecie incriminatrice di parte speciale. Ad es. una madre che non allatta un neonato, viene meno ad un suo obbligo giuridico (art. 40, c. 2), causando la morte e quindi ponendo in essere un omicidio (art. 575). Dunque l’essenza del reato commissivo mediante omissione sta nel fatto che l’autore non impedisce il verificarsi di un evento che concreta la fattispecie obiettiva di un reato, essendo giuridicamente obbligato ad impedire l’evento stesso. 21 Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) http://guidaunigiurisprudenza.blogspot.it/ La fattispecie oggettiva dei reati omissivi. I presupposti generali dell’omissione penalmente rilevante. Presupposti essenziali dell’omissione penalmente rilevante sono: Per affermare l’esistenza di una omissione penalmente rilevante deve potersi affermare la possibilità di compiere l’azione omessa: sia da chiunque si trovasse nella condizione dell’autore, sia da parte dello specifico autore dell’omissione. Omettere di lanciarsi in acqua per trarre in salvo un bagnate in pericolo non costituisce omissione di soccorso, se per le condizioni del mare o per la distanza del bagnante dalla riva, manca ogni chance di effettuare il salvataggio. L’azione positiva non deve essere tale da esporre l’autore stesso, o altri, a rischi e pregiudizi non esigibili. L’esigibilità dell’azione dovuta corrisponde a un principio regolativi dell’omissione penalmente rilevante, che condiziona direttamente il piano della fattispecie oggettiva. I requisiti generali, appena descritti, devono essere inerenti a una condotta di omissione che sia tipica: o per essere conforme alla previsione espressa di un reato di omissione (proprio o improprio); o perché tale da rientrare nello schema dell’equivalenza causale, di cui all’art. 40 c.p. Ciò comporta, in relazione ai reati omissivi impropri la verifica di un ulteriore presupposto. Occorre, infatti, stabilire, con elevato grado di verosimiglianza, che il compimento dell’azione dovuta avrebbe scongiurato il verificarsi dell’evento lesivo. La regola dell’art. 40 c.p. L’art. 40 c.p. consiste nel “ non aver impedito” il verificarsi dell’evento stesso, avendo l’obbligo giuridico di attivarsi per evitarlo. Al di fuori delle ipotesi di fattispecie casualmente orientate, si ritiene che l’ambito di applicazione dell’art. 40 c.p. sarebbe, in primo luogo, non estensibile a quei tipi di illecito, la cui fattispecie presuppone una condotta attiva di carattere personale (es. incesto art. 564 c.p.); nonché ai reati abituali la cui struttura implica la reiterazione di attività positive(es. maltrattamenti art. 572 c.p.). Per contro, l’intercambiabilità fra condotte positive e negative, nelle ipotesi in cui la fattispecie legale non è incentrata sulla causalità, ma riposa interamente sulla violazione di obblighi comportamentali incombenti al soggetto, fa apparire incongruente il richiamo all’art. 40 c.p. S i pensi a reati come l’infedeltà del patricinatore o del consulente (art. 380 c.p.) ove il nocumento agli interessi della parte può essere indifferentemente arrecato con un’azione positiva (interrogando, ad esempio, un testimone in modo pregiudizievole per il proprio cliente) o con una condotta omissiva (es. omettendo di produrre una prova documentale risolutiva).Ma anche nell’ambito dei reati di evento a struttura causale emergerebbero fattispecie, la cui struttura tipica sembra non poter prescindere da attività positive. Si fa l’esempio degli artifizi e raggiri, nella truffa (art. 640) ; si è qui intravisto un ulteriore limite generale alla operatività dell’art. c.p. che sarebbe invocabile in tutti i casi di fattispecie a forma vincolata, la cui rilevanza penale appare legata non tanto al dato della produzione dell’evento, quanto alla carica di disvalore inerente a specifiche modalità comportamentali. Una interpretazione troppo restrittiva dell’art.40 rischia di impoverirne eccessivamente il significato, che finirebbe per coincidere con l’apprezzamento di una sorta di efficienza causale dell’omissione. L’art.40 , in sostanza, non avrebbe altro effetto, se non quello di semplificare, sia pure in modo decisivo, la soluzione del problema causale nelle fattispecie imperniate sulla produzione di un evento naturalistico. La scelta del non intervento, infatti, è pur sempre un modo di influire sui decorsi causali. Si pensi alla madre che lascia morire di fame il proprio bambino. In questo modo, però, potrebbero restare fuori dall’ambito di applicazione dell’art. 40 c.p. tutte le ipotesi in cui sarebbe alquanto azzardato parlare di una vera e propria efficienza causale dell’omissione. Si pensi al non impedimento di un reato da parte della polizia giudiziaria. In realtà l’ambito di operatività di questa disposizione può essere ultimamente circoscritto, venga posto in una relazione significativa con le sue concrete possibilità di intervenire per impedimento dell’evento. Si deve invece negare che l’art. 40 c.p., nell’equiparare il non impedire al cagionare, ricomprenda nel termine evento anche il reato altrui che spesso costruisce esplicitamente la responsabilità dell’omittente in forma concorsuale, come partecipazione omissiva a reato commissivo, a prescindere dalla circostanza che il reato non impedito sia o meno un reato causale puro. Si tratta di una conclusione arbitraria: la clausola di equivalenza dell’art. 40 c.p. risponde infatti ad una logica di incriminazione autonoma, fondata su di un elemento eccentrico rispetto alla struttura del concorso. D’altra parte l’art. 40 c.p. ha per oggetto il rapporto di causalità e, dunque, quando si parla di evento all’interno dell’art. 40, si fa riferimento a quella componente del fatto tipico che corrisponde alla conseguenza della condotta. 22 Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) http://guidaunigiurisprudenza.blogspot.it/ Il problema causale nei reati omissivi impropri. Il giudizio sul valore causale non è identico a quello che caratterizza la verifica del nesso causale fra condotta ed evento, nei reati di azione. L’art. 40 c.p. col dichiarare che “ non impedire un evento che si ha l’obbligo giuridico di impedire equivale a cagionarlo”, postula espressamente un diverso criterio di imputazione oggettiva dell’evento: evento che l’omissione non può aver propriamente cagionato; trattandosi di un processo causativo , su cui l’autore si è astenuto dall’intervenire. Particolarmente problematica è la ricostruzione del nesso causale tra condotta omissiva ed evento nel settore della responsabilità medica. In passato la tesi più accreditata era quella dell’alto grado di probabilità dell’evento: in sostanza si parte dalla premessa che, nella attività medica, non è possibile un giudizio di certezza sull’esito che avrebbero avuto determinati interventi, in ipotesi omessi. il criterio allora non potrà che essere di tipo probabilistico. Occorre pertanto la prova che il comportamento non omissivo del medico (es. erogare un farmaco; effettuare un intervento chirurgico) avrebbe impedito l’evento lesivo con un elevato grado di probabilità, prossimo alla certezza. deve trattarsi, osservano talune rigorose sentenze, di una probabilità che si avvicini al 100%: solo, infatti, la più alta, rilevante, cospicua probabilità di successo dell’intervento terapeutico omesso consentirebbe l’imputazione oggettiva dell’evento al medico. La più recente giurisprudenza (Cass. sez. un. 30328/02, c.d. «sentenza Franzese») ha introdotto un diverso criterio di valutazione della causalità in caso di omissione medica, quello della probabilità logica. Si osserva che non è consentito dedurre dal coefficiente di probabilità espresso dalla legge statistica la conferma o meno dell’esistenza del nesso causale, perché il giudice deve verificarne la validità nel caso concreto, sulla base delle circostanze del fatto, cosicché si raggiunga la certezza processuale che la condotta omissiva del medico è stata condizione necessaria dell’evento lesivo con alto o elevato grado di credibilità razionale o di probabilità logica. Ne deriva che,se per gli orientamenti precedenti della giurisprudenza le leggi statistiche erano decisive,perché fornivano il «quantum» della percentuale di successo dell’attività omessa, adesso per la suprema Corte rappresentano soltanto uno degli elementi che il giudice può e deve considerare, unitariamente a tutte le altre emergenze del caso concreto. Accanto alla sussunzione sotto leggi scientifiche occorre, pertanto, un successivo giudizio di conferma, puramente logico che renda ragionevole, coerente e giusto il ragionamento puramente astratto effettuato in un primo momento. L’ambito soggettivo di applicazione delle fattispecie omissive: la posizione di garante. Affinché il comportamento omissivo di un soggetto possa dirsi causa di un evento è necessario che questi abbia una posizione di garanzia e cioè un obbligo di agire per evitare l’evento; detto obbligo può derivare dalla legge ( il datore di lavoro deve garantire la sicurezza delle strutture aziendali); da contratto (la baby sitter deve garantire la sicurezza del bambino affidatole); da una precedente azione pericolosa (colui che scava una buca in strada, deve recintarla per evitare incidenti). Il riconoscimento della sussistenza del rapporto di causalità in relazione ad un omissione assumerà connotazioni diverse a seconda che si tratti di reato in senso naturalistico o meno. Solo nel primo caso sarà possibile il suo accertamento sul piano sensoriale-percettivo. Nei reati dove manca l’evento in senso naturalistico occorrerà, per contro, verificare se tenendo la condotta imposta dall’obbligo giuridico, l’offesa al bene ( e cioè l’evento in senso giuridico) sarebbe stata evitata. Sia la dottrina che la giurisprudenza ritengono che sia possibile trasferire la posizione di garanzia in capo ad altri. Ad es. il datore di lavoro,imprenditore edile, può delegare al suo capocantiere il controllo del rispetto delle norme di sicurezza. Ovviamente è necessario, perché la delega abbia efficacia, che la persona delegata abbia le capacità professionali per assolvere all’incarico. Il dolo nei reati omissivi. Gli elementi costitutivi del dolo nei reati omissivi sono gli stessi che contrassegnano la struttura del dolo nei reati di azione: anche nel reato omissivo l’autore deve rappresentarsi le circostanze in cui la sua condotta si inserisce e deve volere la condotta omissiva,nonché l’evento ad essa ricollegabile secondo la regola dell’art. 40 c.p. 23 Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) http://guidaunigiurisprudenza.blogspot.it/ Nell’essenziale il dolo dei reati omissivo è costituito dalla volontà di non compiere l’azione dovuta, unito alla consapevolezza di poter agire nel senso richiesto dall’ordinamento. Questo secondo elemento del dolo include: La conoscenza delle circostanze da cui deriva l’obbligo di agire; La rappresentazione delle circostanze che abbiano indicato come presupposti generali dell’omissione penalmente rilevante; e cioè la possibilità di compiere l’azione dovuta e la sua esigibilità in concreto. Nei reati omissivi impropri è inoltre necessario che l’autore percepisca il valore causale della propria omissione: egli deve cioè rappresentarsi il fatto che l’intrapresa azione doverosa avrebbe, con alto grado di probabilità,evitato il verificarsi dell’evento. È infine richiesta, da parte dell’autore,la consapevolezza dei presupposti, giuridici o di fatto,su cui si radica la posizione di garante nei confronti del bene tutelato. Anche l’elemento volitivo del dolo di omissione, si atteggia in modo particolare e risulta difficile distinguere il dolo di omissione da altri atteggiamenti psicologici; es. dalla c.d. colpa cosciente. Sta di fatto che, nei reati di azione, il momento della risoluzione si traduce nel pilotaggio di agire positivo sorretto dall’accettazione del realizzarsi degli elementi oggettivi della fattispecie. Nei reati omissivi invece trattandosi di una decisione che si concreta nel non intervento, non è sempre possibile identificare il momento della volizione come dato autonomo dalla rappresentazione CAPITOLO QUARTO: LA FATTISPECIE DELL’ILLECITO COLPOSO Nozione di colpa. Rispetto al dolo è una forma meno grave di volontà colpevole in quanto manca completamente nel soggetto la volontà di cagionare l’evento. Per stabilire in che cosa consiste l’ essenza della colpa e perché questa costituisce forma autonoma di responsabilità, distinta da quella dolosa, secondo la moderna dottrina occorre impostare la teoria della colpa superando sia le teorie soggettive che oggettive ed accettando la cd. Teoria mista. In particolare: Secondo le teorie soggettivistiche (della prevedibilità, evitabilità ed errore), la colpa consiste o nella mancata previsione di un evento prevedibile o nel non aver evitato l’evitabile o in un errore di valutazione o esecuzione; Di contro, per le teorie oggettivistiche l’essenza va ravvisata nella violazione di un dovere di attenzione o nell’inosservazione di regole doverose di condotta; Più esauriente è la teoria mista secondo cui l’essenza della colpa deve ravvisarsi nel « rimprovero al soggetto per aver realizzato involontariamente, ma pur sempre attraverso la violazione di regole doverose di condotta, un fatto di reato che egli poteva evitare mediante l’osservanza esigibile di tali regole. Essa ricorre in tutti i casi in cui il soggetto, pur potendo prevedere che la sua azione era tale da produrre eventuali conseguenze dannose o pericolose, ha agito con imprudenza o scarsa attenzione o con leggerezza, senza cioè adottare quelle misure e quelle precauzioni che avrebbero impedito il verificarsi dell’evento. ( art.43 I comma). L’automobilista che investe un pedone, cagionandone la morte, è responsabile del delitto di omicidio colposo se l’investimento è stato la conseguenza del suo imprudente comportamento di guida. La fattispecie oggettiva di un reato colposo, dunque, può dirsi realizzata quando, nel caso concreto, essa corrisponda allo schema generale delineato dall’art. 43: quando cioè si accerti che la lesione o l’esposizione a pericolo del bene protetto non si sarebbe verificata, se il soggetto avesse tenuto una condotta conforme alle regole di diligenza idonee a scongiurare la situazione di danno o di pericolo. Raramente la regola della diligenza può essere compiuta dal legislatore; nella maggioranza dei casi, questo compito spetta direttamente al giudice del caso concreto. Le singole previsioni dei reati colposi, infatti, sono caratterizzate dalla mera evocazione del criterio di imputazione definito in via generale dall’art. 43 ( es. art. 589 c.p. “ chiunque cagiona per colpa la morte di un uomo”); talvolta il richiamo all’ipotesi colposa è solo indiretto , come, ad es. nell’art. 217 che punisce il fatto dell’imprenditore, dichiarato fallito, che abbia compiuto operazioni di grave imprudenza per ritardare il fallimento. 24 Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) http://guidaunigiurisprudenza.blogspot.it/ Come si vede le norme che incriminano una condotta colposa hanno un contenuto che non è mai, o quasi mai, descrittivo; ma esclusivamente normativo e quindi bisognoso di essere volta per volta integrato mediante la individuazione della regola della diligenza che è stata violata. Sta di fatto che le circostanze della vita reale sono così multiforme e variegate, da non consentire in alcun modo la descrizione puntuale di tutte le condotte che possono assumere rilevanza per un’ipotesi di colpa. Di qui il problema che contrassegna la determinazione delle fattispecie dei reati colposi rispetto alle corrispondenti ipotesi di reato doloso. Nei reati dolosi, infatti, l’ambito di applicazione della norma incriminatrice può essere delimitata mediante il ricorso all’elemento psicologico; cosa che non può avvenire nei reati colposi. Per stabilire che esiste la fattispecie oggettiva di un omicidio doloso, per esempio, può bene essere sufficiente che si accerti, in base alla contestazione di un nesso di causalità materiale fra condotta ed evento, che taluno “ha cagionato” la morte di un uomo. A decidere dell’applicabilità dell’art. 575 c.p. sarà, infatti, il successivo accertamento dell’elemento psicologico: l’art. 575 non si applicherà, quando si dovrà escludere che l’autore abbia preveduto e voluto l’evento morte come conseguenza della sua azione od omissione. Nei reati colposi, le cose stanno diversamente, poiché qui l’esistenza della stessa fattispecie oggettiva dipende dall’accertamento che una regola di diligenza è stata violata. L’art. 43 c.p., infatti, definisce il reato colposo con espresso riferimento al fatto che l’evento si verifichi a causa di imprudenze, negligenze, ecc. ; di talchè coinvolge la violazione della regola di diligenza nello schema del rapporto di causalità ed obbliga, pertanto, all’accertamento che una regola di diligenza è stata violata. se due autoveicoli che procedono in opposte direzioni si scontrano in una curva, provocando la morte di una o più persone trasportate, si può ben dire che entrambi i conducenti hanno cagionato tale evento, ma la fattispecie oggettiva dell’omicidio colposo sarà stata realizzata solo da quello di essi che l’avrà cagionato in violazione di una regola di condotta inerente alla circolazione stradale. Come si vede, la fattispecie legislativa ( chiunque cagiona per colpa ka morte di un uomo) dovrà essere qui integrata dal riferimento ad un insieme di regole di condotta e richiederà l’individuazione della particolare regola che è stata violata nel caso concreto. La dottrina tradizionale del reato affiancava la colpa al dolo come forma alternativa della colpevolezza assegnando all’uno e all’altra la medesima piattaforma oggettiva. In questo modo però, da un lato finiva per identificare l’elemento oggettivo del fatto colposo con la mera causazione dell’evento; dall’altro finiva per trascorrere dal piano psicologico-descrittivo al piano normativo che in realtà appartiene al piano al piano della fattispecie oggettiva. La dottrina contemporanea ,invece, è orientata a riconoscere che l’illecito colposo è contrassegnato già nella sua tipicità dal dato dell’inosservanza della regola precauzionale ( o regola di diligenza obiettiva); al piano della colpevolezza appartiene solo il giudizio sulla concreta esigibilità della diligenza richiesta. Il contenuto di illecito del reato colposo è dunque costituito: l’assenza della volontà dell’evento e cioè della lesione o messa in pericolo del bene giuridico protetto dalla norma (cfr. art. 43 c.p.); l’esistenza di una condotta obiettivamente contraria ad una norma precauzionale, sia essa codificata (es. norme del codice della strada) o meno; l’evitabilità dell’evento attraverso il rispetto della norma precauzionale (es. accertando che l’eccessiva velocità di circolazione, nel rispetto del codice della strada, avrebbe evitato l’investimento del pedone); possibilità da parte dell’agente di rispettare la norma precauzionale (c.d. esigibilità della condotta: ad es. non versa in colpa il casellante di un passaggio a livello che si addormenta, in quanto alcuni amici per scherzo gli hanno messo un sonnifero nell’acqua). L’accertamento del tipo di fatto del delitto colposo implica, quindi: l’accertamento di una fattispecie oggettiva: l’accertamento di una fattispecie soggettiva. La fattispecie oggettiva dei reati colposi. Reati colposi di mera condotta e reati colposi di evento. Le fattispecie colpose si distinguono a seconda che corrispondano a reati di mera condotta (nei quali non è 25 Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) http://guidaunigiurisprudenza.blogspot.it/ richiesta la verificazione di un evento naturalistico come effetto della condotta) e reati di evento, nei quali è viceversa richiesto, per la perfezione dell’illecito, il verificarsi di un accadimento naturalistico(modificazione della realtà esterna sensibile) come conseguenza della condotta vietata. Le fattispecie colpose di mera condotta sono per lo più di carattere contravvenzionale (punibili, perciò, alternativamente a titolo di dolo o di colpa: art. 42, IV comma). Non mancano anche figure di delitto colposo che si configurano come fattispecie di mera condotta. Tale è, ad esempio, il reato previsto dall’art. 451 c.p., che punisce il fatto di “ chiunque, per colpa, omette di collocare, ovvero rimuove o rende inservibili apparecchi o altri mezzi destinati all’estinzione di un incendio, o al salvataggio o al soccorso contro disastri o infortuni sul lavoro”. A costituire la fattispecie oggettiva di un reato colposo di mera condotta, è sufficiente che l’autore abbia tenuto un comportamento, attivo o omissivo, obiettivamente contrario alla norma di diligenza avocata dall’incriminazione. Si tratta, dunque, di fattispecie di pericolo astratto in relazione alle quali la contestazione di un concreto pericolo non è rilevante per la punibilità ma per la determinazione della gravità del fatto. Nei reato colposi di evento, l’evento può configurarsi sia come evento di danno che come evento di pericolo concreto. Deve essere respinta l’idea che l’evento, nei reati colposi, costituisca una mera condizione di punibilità del fatto e non entri, quindi, a comporre la fattispecie oggettiva del reato. Per affermare l’esistenza di un reato colposo di evento, è necessario che si accerti l’esistenza di un nesso causale fra condotta ed evento; deve altresì rappresentare la concertazione del danno o del pericolo che la prescrizione della regola di diligenza violata mirava ad impedire. Chi guida un’auto in direzione vietata, non per questo risponderà delle lesioni o della morte di un trasportato, cagionate dall’improvviso scoppio di un pneumatico o dal ribaltamento della vettura, che non siano in alcun modo il rapporto con la direzione vietata che il soggetto stava percorrendo. Del pari, chi procede a velocità eccessiva risponderà dei fatti connessi con la violazione della specifica regola di diligenza che gli imponeva un’andatura più moderata; ma non per essersi trovato esattamente nel luogo e nel momento in cui un incauto pedone abbia intrapreso all’improvviso e senza alcuna cautela l’attraversamento della carreggiata! La soluzione di questi casi discende direttamente dall’applicazione all’ambito dei reati colposi dei criteri della imputazione oggettiva: in primo luogo quelli dell’aumento del rischio e dello scopo di tutela della norma. In sintesi si può dire che la rilevanza del rapporto causale dipenda qui da una triplice constatazione: che l’evento si è prodotto in conseguenza di una condotta obiettivamente contraria a una regola precauzionale; che l’osservanza della regola avrebbe con ogni probabilità evitato il prodursi dell’evento; che la norma precauzionale trasgredita aveva come scopo proprio quello di evitare la produzione dell’evento. La violazione della diligenza oggettiva. Rilevanza e limiti dell’obbligo di diligenza. Per affermare che vi è stata negligenza, imprudenza ecc., è necessario stabilire preventivamente quale fosse la misura della diligenza richiesta; ma la diligenza pretesa non può corrispondere ad una misura tale da imporre ai consociati l’obbligo di astenersi da qualsiasi attività in vista dei rischi anche minimi. La misura della diligenza richiesta incontra quindi due limiti fondamentali: in primo luogo sono oggettivamente imputabili all’autore tutte e solo le conseguenze obiettivamente prevedibili; quelle cioè prevedibili da un agente ipotetico che si fosse trovato nella stessa situazione dell’autore; un secondo limite si ricava dal concetto di rischio consentito o rischio socialmente adeguato, espressione con cui ci si riferisce a quella misura di rischio ineliminabile in molte attività, non rinunciabili come elemento di sviluppo della vita collettiva. ( voli spaziali, traffico aereo). Fonti e contenuto del dovere della diligenza. La distinzione fra colpa generica e colpa specifica. Nel nostro ordinamento si distingue tra colpa generica e colpa specifica. 26 Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) http://guidaunigiurisprudenza.blogspot.it/ La colpa generica è derivante da: imprudenza, consistente nell’aver agito senza adottare le opportune cautele; essa si sostanzia nell’ avventatezza e presuppone scarsa considerazione degli altrui interessi (es.: il titolare di un’attività industriale di preparazione di gas tossici non adotta le misure tecniche per evitare perdite o fuoriuscite di gas); negligenza, consistente nell’aver agito senza l’accortezza e l’attenzione che sarebbero state necessarie; essa si sostanzia nella mancanza di attenzione o sollecitudine (es.:il chirurgo dimentica un tampone emostatico nel corpo del paziente operato); imperizia, consistente nella inettitudine o nella scarsa preparazione professionale, di cui il soggetto è perfettamente cosciente; di regola si risolve in una imprudenza o negligenza qualificata (es.: un soggetto miope si pone alla guida di una autovettura senza occhiali pur sapendo di non essere in grado di fronteggiare ogni situazione che gli si potrebbe presentare). La colpa specifica deriva dalla inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline, cioè dalla violazione di norme che, imponendo determinate cautele, mirano a prevenire proprio eventi del tipo cagionato dal soggetto (es. norme antinfortunistiche). A prescindere dalla distinzione fra colpa generica e colpa specifica la dottrina ha cercato di operare un’analisi del contenuto di tale obbligo. Si sono così individuate: ipostesi in cui alla diligenza oggettiva corrisponde tout court l’obbligo di astenersi dal compiere determinate azioni, in ragione della loro elevata pericolosità; ipotesi in cui l’intrapresa dell’azione, nonostante presenti determinati rischi, di per sé non viola la diligenza oggettiva,se e in quanto sia accompagnata dall’adozione di particolari misure di cautela; ipotesi in cui il contenuto dell’obbligo di diligenza si traduce in un dovere di informazione. Abbiamo poi: la colpa propria che : è la forma normale di colpa e ricorre in tutti i casi in cui l’evento non è voluto dall’agente; e colpa impropria che si ha quando l’evento è voluto dall’agente (e si dovrebbe quindi rispondere a titolo di dolo) ma la legge stabilisce, in via eccezionale, che l’agente risponde a titolo di colpa. i casi di colpa impropria sono i seguenti: eccesso colposo nelle cause di giustificazione (art. 55), supposizione erronea dell’esistenza di una causa di giustificazione inesistente (art. 59, comma 3), errore di fatto determinato da colpa (art. 47, comma 1). Ulteriori limiti al dovere di diligenza. Il principio della divisione del lavoro e il principio dell’affidamento. Per la determinazione dei contenuti specifici del dovere di diligenza gioca un ruolo anche il principio della divisione del lavoro. Nelle condotte,in cui concorrono più soggetti, questo principio influisce sui limiti e sulla conformazione dell’obbligo e di diligenza oggettiva. Viene qui, pertanto, in considerazione anche quella particolare forma di responsabilità per colpa che si definisce culpa in eligendo; essa ricorre quando sia violato, da parte di chi riveste una posizione gerarchicamente sovraordinata, l’obbligo prudenziale di scegliere in modo appropriato i suoi collaboratori e di controllarne l’operato. Solo a queste condizioni, infatti, diviene rilevante il fenomeno della delega e del conseguente trasferimento di funzioni, che implica, nei congrui casi, anche il trasferimento del dovere di diligenza e della corrispondente responsabilità colposa. Per la soluzione dei relativi problemi viene in questione un limite generale al dovere di diligenza, tradizionalmente contrassegnato come principio dell’affidamento: in base al quale si afferma che colui il quale agisce nel rispetto dei doveri di diligenza oggettiva, è legittimato a fare affidamento su un comportamento egualmente diligente dei terzi, la cui condotta interferisce con la sua. Questa regola trova naturalmente il suo limite nelle ipotesi in cui non debba, invece, in virtù di particolari circostanze, attendersi un comportamento poco diligente da parte dei terzi, o ne sia addirittura a conoscenza. Il principio dell’affidamento fornisce anche un criterio risolutivo quando si tratta di stabilire l’esistenza di ma responsabilità per colpa, in relazione al fatto di un terzo, sia esso doloso o colposo. 27 Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) http://guidaunigiurisprudenza.blogspot.it/ Azione ed omissione nella condotta colposa. L’obbligo della diligenza oggettiva può essere violato sia mediante una condotta attiva, sia mediante una condotta omissiva. Possono aversi, conseguentemente, delitti colposi di azione (commissivi) e delitti di omissione ( omissivi). Si ha delitto colposo commissivo quando la diligenza oggettiva si concreta in un dovere di astenersi dal compiere determinate azioni pericolose ( es. vendere attrezzi taglienti a bambini);si ha delitto colposo omissivo quando la diligenza oggettiva implica il compimento di determinate azioni. Ciò non significa che in questi casi si sia necessariamente di fronte a un reato omissivo. Veri e propri reati colposi omissivi sono quelli di pura omissione ( artt. 451,672 c.p.) espressamente previsti dalla legge; è, quelli impropri in cui venga in considerazione esclusivamente una condotta negativa. È questo il caso della madre che cagioni un pregiudizio nella salute al proprio figlio di poche settimane di età, omettendo, per dimenticanza, di nutrirlo per un’intera giornata. Molto spesso la condotta rilevante per una fattispecie di reato colposo risulta costituita da una commistione di comportamenti attivi ed omissivi; si pensi a chi intraprende un lavoro stradale (azione) senza apporre le prescritte segnalazioni (omissione), in questo caso il reato va considerato come reato di azione e non come reato di omissione. L’ambito della punibilità non muta: il contenuto degli obblighi derivanti dall’assunzione di una posizione di garante è, infatti, del tutto identica quello dell’obbligo di diligenza, che incombe sull’autore, nell’atto in cui intraprende un’azione pericolosa. La fattispecie soggettiva dei reati colposi. La struttura psicologica della condotta colposa. Colpa cosciente e colpa incosciente. Mentre il comportamento doloso, a norma dell’art. 43, implica in ogni caso la volizione dell’evento dannoso o pericoloso che costituisce il risultato dell’azione od omissione, ai sensi dell’art. 43 si ha, invece, un reato colposo quando l’evento, anche se preveduto, non è voluto dall’agente e si verifica a causa di negligenza o imprudenza o imperizia. Nei reati dolosi, la pretesa dell’ordinamento è rivolta ad ottenere che la volontà dell’agente non si indirizzi finalisticamente alla realizzazione di un fatto dannoso o pericoloso: l’elemento psicologico del fatto doloso corrisponde sempre e soltanto al manifestarsi di questa volontà finalistica che non doveva esserci. Nei reati colposi, invece, la pretesa dell’ordinamento è indirizzata a far sì che ciascuno utilizzi al meglio le sue capacità per prevedere i pericoli per i beni protetti, così da poterli evitare. È con riguardo a questo aspetto soggettivo del giudizio che si parla di una doppia misura della colpa: una volta stabilita l’esistenza di una condotta oggettivamente contraria alla diligenza richiesta è infatti anche necessario stabilire che si possa imputare all’autore, il mancato esercizio del richiesto controllo sui decorsi causali esterni. Dal punto di vista dell’elemento soggettivo, due sono le ipotesi di colpa penalmente rilevante, riflesse nella definizione dell’art. 43 c.p.. Ad esse corrisponde la distinzione tra colpa cosciente e colpa incosciente. La colpa cosciente ricorre quando l’agente ha previsto l’evento senza averlo voluto. La sua struttura psicologica è contrassegnata da un elemento negativo, costituito dalla non volizione dell’evento, e da un elemento positivo, costituito dalla rappresentazione dell’evento stesso, come possibile conseguenza dell’azione od omissione, accoppiata alla convinzione che esso non si verificherà. L’addebito di colpa cosciente riguarda solo i reati di evento, poiché, nei reati di mera condotta, la consapevole violazione della regola precauzionale presidiata dalla norma incriminatrice realizza un’ipotesi di comportamento doloso. La colpa incosciente si ha quando l’evento non è voluto e nemmeno previsto dall’agente. Mancando in questi casi sia la previsione che la volontà dell’evento e la consapevolezza di violare una regola oggettiva di diligenza, parte della dottrina inclina ad escludere nella colpa incosciente la presenza di componenti psicologiche reali. In altre parole, l’accertamento della colpa corrisponderebbe a un giudizio puramente normativo: vi sarebbe un fatto colposo, solo quando sia possibile muovere all’autore un rimprovero per non aver osservato la regola precauzionale, diretta e prevenire la lesione di beni. Lo stesso concetto di azione dovrebbe essere considerato come puramente ascrittivi, poiché servirebbe solo fissare le condizioni di imputazione di un fatto all’autore. Alla fattispecie soggettiva del reato colposo appartiene la non volizione dell’evento, che nella colpa 28 Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) http://guidaunigiurisprudenza.blogspot.it/ cosciente si organizza nella sua previsione; e nella colpa incosciente si radica sulla mancata o erronea rappresentazione delle circostanze da cui scaturiva l’obbligo di osservare una particolare regola di diligenza. Questa struttura psicologica della condotta colposa concerne la esigibilità dell’osservanza della norma di diligenza violata, da parte del singolo autore. Nei casi di colpa incosciente non si può escludere la presenza dei coefficienti minimi per l’imputazione soggettiva, identificati dall’art. 42 c.p. nella coscienza e volontà del fatto. Il fatto del conducente che prosegua nella condotta del guidare in una determinata direzione, non essendosi avveduto del cartello che segnala una interruzione stradale, così provocando un sinistro, non ha niente a che vedere con il caso di chi subisce una perdita di coscienza; anche se a quest’evento possono conseguire movimenti o stati di inerzia corporea suscettibili di produrre la causazione di danni a terzi. In questo secondo caso, infatti, non si pone un problema di colpa incosciente, ma entra in gioco la regola dell’art. 42, I comma c.p., che pone le condizioni minime perché un fatto umano, astrattamente costitutivo di reato, divenga penalmente rilevante. Conseguentemente, di fronte al caso dell’automobilista colto da malore mentre è alla guida si dovrà semplicemente prendere atto che egli non ha agito nel senso del diritto penale: cioè nel senso del concetto normativo dell’azione penalmente rilevante, quale si desume dall’art. 42, I comma c.p. Il criterio discretivo fra colpa cosciente e dolo eventuale. La colpa cosciente ricorre quando l’agente ha previsto l’evento senza averlo voluto. Si distingue dal dolo eventuale perché nella colpa cosciente il reo agisce con la certezza che l’evento previsto come possibile non si verificherà (e non agisce anche a costo della sua verificazione); il concetto di colpa cosciente non è un frutto di una elaborazione teorica, ma è codificata nell’art. 41, n. 3, c.p. come aggravante dei delitti colposi, la quale ricorre quando il soggetto ha «agito nonostante la previsione dell’evento». Come già accennato sopra, la differenza tra dolo eventuale e colpa cosciente va rinvenuta nella previsione dell’evento. Questa, nel dolo eventuale, si propone non come incerta, ma come concretamente possibile e l’agente nella volizione dell’azione ne accetta il rischio, così che la volontà investe anche l’evento rappresentato. Nella colpa cosciente la verificabilità dell’evento rimane un’ipotesi astratta che nella coscienza dell’autore non viene concepita come concretamente realizzabile e, pertanto, non è in alcun modo voluta: ad es. se getto una pietra in una vetrina per danneggiarla, accetto il rischio che una scheggia provochi lesioni ad una persona; pertanto, se detto evento si verifica, risponderò di lesioni volontarie (art. 582 c.p.) con dolo eventuale. Si ricordi che la responsabilità per colpa, nei delitti,è eccezionale, quindi per la sua punibilità è sempre necessaria la previsione espressa della legge, mentre le contravvenzioni sono punibili sia che siano dolose che colpose (cfr. art. 42, c. 2 e 4, c.p.). La misura soggettiva della colpa. Una volta stabilito quale condotta era oggettivamente dovuta,si deve stabilire anche se quel determinato autore, alla stregua delle sue personali capacità ed attitudini, era in grado di tenere la condotta richiesta. Da ciascun autore può essere preteso, infatti, di esprimere, in una situazione data, il massimo delle sue capacità, e non oltre. Al medico condotto che si trovi ad operare d’urgenza, con attrezzature di fortuna, non potrà certo richiedersi lo stesso grado di perfezione tecnica che si pretende da un chirurgo altamente qualificato, che agisca in condizioni ottimali dal punto di vista dell’igiene, dell’assistenza e della strumentazione. Questo esempio segnala tutte difficoltà che comporta la determinazione della misura soggettiva della colpa. La sua valutazione implica, infatti, almeno parzialmente, il riferimento all’intero complesso di fattori individuali che condizionano la capacità dell’autore di uniformarsi agli standards di diligenza richiesti. La definizione della misura soggettiva della colpa pone, perciò, i problemi tipici di ogni generalizzazione: es. chi continua a guidare un’auto, pur avendo percepito un allentamento della sua prontezza di riflessi, a causa della stanchezza, agisce certo in contrasto con la diligenza oggettiva; ma questa condotta non potrà fondare un rimprovero di colpa, se l’interruzione del viaggio lo avrebbe esposto a pericoli mortali: in vista dell’approssimarsi di una bufera di neve,nottetempo, lungo un percorso di montagna isolato e particolarmente aspro. Tutt’altro problema è, naturalmente, stabilire se un segmento di condotta 29 Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) http://guidaunigiurisprudenza.blogspot.it/ precedente presenti gli estremi per un addebito di colpa: non essersi preventivamente informato sulle condizioni meteorologiche, o, addirittura aver intrapreso il viaggio nonostante che la bufera fosse prevista. Da questo esempio emerge un importante criterio di valutazione della c.d. misura soggettiva della colpa,che si connette all’anormalità delle circostanze in cui si agisce, quando esse determinano la non esigibilità dell’osservanza dei doveri di diligenza, che può essere pretesa in condizioni normali. Il grado della colpa. Il diritto civile distingue la colpa secondo il grado di essa e fa talora dipendere da questo elemento la sua stessa rilevanza giuridica. Il vigente codice penale, menziona nell’art. 133 il grado della colpa fra gli indici ai quali il giudice deve attenersi nello stabilire la pena da infliggere in concreto, nell’ambito dei limiti, minimo e massimo, previsti dalla legge; l’interprete è quindi obbligato a definire in base a quali criteri si debba determinare il grado della colpa. Tali criteri possono essere soggettivi ed oggettivi. Criteri soggettivi di graduazione: consapevolezza o meno di tenere una condotta pericolosa; quantum di esigibilità dell’osservanza delle regole cautelari; motivi che hanno spinto il soggetto ad agire. Criteri oggettivi: quantum di evitabilità; quantum di divergenza tra la condotta doverosa e quella tenuta. Nel caso di concorso di più indici, il giudice deve procedere ad un giudizio di cumulo o di equivalenza o di prevalenza della stessa. CAPITOLO QUINTO: LE CAUSE GENERALI DI ESCLUSIONE DEL FATTO TIPICO. Premessa. Il codice penale prevede una pluralità di situazioni ricorrendo le quali non può configurarsi un reato. In particolare, ricordando ancora una volta che secondo la teoria tripartita la struttura del reato è composta dal fatto tipico (comprensivo di elemento oggettivo e soggettivo), colpevolezza ed antigiuridicità, vi sono situazioni che escludono in radice la tipicità del fatto (ad es. perché fanno venir meno l’elemento soggettivo o parte di quello oggettivo); ovvero, pur essendo presente un fatto tipico, escludono l’antigiuridicità (es. la legittima difesa). Esempio: se un soggetto asporta una borsa ritenendo che sia sua, poiché l’errore esclude il dolo (art. 47c.p.),non sussiste il fatto tipico del furto (art. 624 c.p.) per mancanza dell’elemento soggettivo. Se invece una persona ne uccide un’altra in situazione di legittima difesa (art.52 c.p.), pur sussistendo il fatto tipico dell’omicidio, difetterà l’altro elemento costitutivo del reato che è l’ antigiuridicità. Le cause di esclusione del fatto tipico sono situazioni caratterizzate dalla esclusione di un requisito essenziale del fatto tipico. Ciò può accadere perché mancano i requisiti minimi della tipicità penale (es. il reato impossibile, art. 47, c. 2, c.p.); perché difetta il nesso psichico (es. quando ricorre la forza maggiore, art. 45); perché difetta parte dell’elemento oggettivo (es. in ipotesi di caso fortuito, art. 45); perché manca l’elemento soggettivo (es. in caso di errore, art. 47). In tali ipotesi il fatto commesso strutturalmente non aderisce alla fattispecie astratta prevista dal legislatore e pertanto manca di “tipicità”. Le ipotesi di esclusione del fatto penalmente rilevanti. Forza maggiore. L’art. 45 c.p. stabilisce che non è punibile chi ha commesso il fatto per forza maggiore. La forza maggiore consiste in una forza esterna all’uomo che per il suo potere superiore determina inevitabilmente il soggetto all’azione, anche contro la sua volontà (es.: un operaio, intento a lavorare su un’impalcatura che, sbalzato al suolo da un violentissimo colpo di vento, cadendo cagiona la morte di un 30 Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) http://guidaunigiurisprudenza.blogspot.it/ passante schiacciato dal peso del suo corpo). In tal caso si dice che il soggetto non agit, sed agitur. In una situazione del genere mancano i presupposti per l’imputazione oggettiva dell’evento. Il processo causativo dell’evento, infatti, non appartiene al soggetto, non può essere considerato opera sua, poiché non è padroneggiato dalla sua volontà e, conseguentemente, non è azione, nel senso normativamente descritto dall’art. 42 c.p. che esige la coscienza e la volontà dell’azione e dell’omissione. Il caso fortuito. L’art. 45 c.p. prevede e disciplina, unitamente alla forza maggiore, il caso fortuito. Il caso fortuito che ricorre quando manca il nesso di causalità tra la condotta e l’evento e quest’ultimo si è verificato per l’operare di fattori eccezionali, indipendenti dalla condotta dell’agente. Secondo altra parte della dottrina il caso fortuito non sarebbe determinato dall’assenza del nesso causale, ma dal difetto dell’elemento soggettivo della colpa : per i sostenitori di tale orientamento, il caso fortuito non è altro che un evento imprevedibile. Per la più recente dottrina, invece, il caso fortuito sarebbe una figura dogmaticamente “polivalente” e quindi invocabile sia per il difetto del nesso causale, che per la mancanza di colpa. Costringimento fisico. L’art. 46 c.p. stabilisce che non è punibili chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto da altri mediante violenza fisica alla quale non poteva resistere o sottrarsi. Il costringimento fisico è un’ipotesi di forza maggiore in virtù della quale l’autore del reato è la longa manus di altro soggetto che è l’unico responsabile del reato (es.: chi è costretto con la forza a premere il grilletto di una pistola, uccidendo altra persona). Le ipotesi normative di esClusione dei presupposti dell’imputazione soggettiva: l’errore sul fatto. L’errore sul fatto costituente reato (art. 47 c.p.): consiste in una inesatta percezione della realtà da parte dell’agente che, pertanto, ritiene di porre in essere un fatto concreto diverso da quello vietato dalla norma penale. L’ errore può incidere: sul processo di formazione della volontà, la quale nasce, quindi, viziata da una falsa rappresentazione della realtà: c.d. errore-motivo (art. 47); sulla fase esecutiva del reato, cioè sul momento in cui la volontà viene attuata: si parla, in tal caso, di errore-inabilità, che si ha nel c.d.reato aberrante (artt. 82-83). Va precisato che tra le cause di esclusione del fatto tipico rientra solo l’errore motivo (errore sul fatto), non anche l’errore inabilità (c.d. aberratio), che non esclude la tipicità penale del fatto, e la cui trattazione andrebbe collocata piuttosto nel capitolo dedicato al concorso di reati. La scelta di parlarne in questa sede è determinata dal fatto di segnalarne le differenze con l’ipotesi di cui all’art. 47 c.p. L’errore-motivo si distingue in: errore sul fatto , che cade sul fatto previsto dalla norma (art. 5 c.p.); errore sul divieto , che cade sulla norma che prevede il fatto (art. 47). Il problema della qualificazione giuridica della condotta viziata da errore colposo. Per affermare che l’errore è determinato da colpa è necessario, da un punto di vista oggettivo, che alla radice dell’errore si riscontri la violazione di una regola di diligenza, che si ponga in connessione causale con l’evento cagionato; dal punto di vista soggettivo, è fuori discussione che la lesione del bene protetto sia stata da lui prodotta involontariamente, dimodochè l’evento debba ritenersi da lui non voluto. Errore sul fatto ed errore sul divieto. L’errore sul fatto si ha quando il soggetto, anche se conosce con precisione la norma penale, crede di realizzare un fatto diverso da quello vietato dalla norma penale (art. 47 comma 1). L’errore è determinato da una falsa rappresentazione della realtà. L’errore sul fatto può derivare: da un errore di fatto che consiste in una mancata o imperfetta percezione di un dato della realtà sensibile, per effetto del quale il soggetto agente ritiene di porre in essere un fatto concreto diverso da quello vietato dalla norma penale. Esso può cadere sugli elementi positivi e negativi del reato: es. 31 Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) http://guidaunigiurisprudenza.blogspot.it/ il cacciatore spara in un cespuglio pensando vi sia una lepre, invece vi è un uomo che, a seguito delle ferite, muore. in tal caso l’errore esclude il dolo dell’omicidio; da un errore sulla legge extrapenale richiamata dalla legge penale laddove per legge extrapenale s’intende una norma diversa da quella penale e da quest’ultima richiamata ai fini della determinazione della fattispecie criminosa; sono tali, ad esempio, le norme civilistiche con- cernenti la proprietà, rilevanti per la definizione del concetto di altruità della cosa nei reati contro il patrimonio. Inoltre, l’ errore sulla legge extrapenale Può tradursi in: un errore sul precetto, che non esclude la responsabilità penale (salvo che, come si è detto, non sia inevitabile); un errore sul fatto, che esclude la responsabilità penale quando è scusabile; da un errore su una norma sociale richiamata dalla legge penale. Concludendo, l’errore sul fatto esclude il dolo e, quando sia scusabile, anche la colpa; quando invece l’errore sul fatto è inescusabile, l’agente risponde a titolo di colpa , se il fatto è previsto dalla legge come delitto colposo (art. 47, co. 2, c.p.: nell’esempio sopra riportato, il cacciatore potrebbe rispondere di omicidio colposo). L’errore sul divieto (o sul precetto) si ha quando il soggetto si rappresenta, vuole e realizza un fatto materiale che è perfettamente identico a quello vietato dalla norma penale, ma che egli, per errore, crede non costituisca reato. Ad es., in quanto mussulmano mi sposo in italia più volte, pensando che ciò mi sia concesso, mentre invece integra il reato di bigamia (art. 556 c.p.). L’errore sul divieto può derivare: dalla ignoranza o erronea interpretazione della legge penale; dalla ignoranza o erronea interpretazione della legge extrapenale, richiamata dalla norma penale, quando non si traduca anche in un errore sul fatto. L’errore sul precetto è penalmente irrilevante, a meno che non sia inevitabile: infatti, l’art. 5 c.p., nel testo modificato recentemente dalla Corte Costituzionale con sentenza n. 364/1988, prevede che «l’ignoranza della legge penale non scusa, tranne che si tratti di ignoranza inevitabile». Responsabilità per un reato diverso. A norma dell’art. 47, II comma “ l’errore sul fatto che costituisce un determinato reato non esclude la punibilità per reato diverso”. Ciò vuol dire che, quando l’agente realizza la fattispecie oggettiva di un determinato reato, rispetto al quale, però per effetto dell’errore, manca il dolo, egli non cesserà per questo di essere punibile per quel reato diverso, rispetto al quale egli era in dolo. Ad esempio: chi incendia una cosa altrui, credendola propria, non risponderà del delitto di cui all’art. 423, I comma , ma sarà punibile ai sensi del II comma dello stesso articolo, che incrimina appunto l’incendio di cosa propria. La regola dell’ordinamento, insomma, sembra essere quella di ritenere la responsabilità dell’agente per il reato di cui egli si è rappresentato la fattispecie oggettiva. Questo principio incontra, tuttavia, un limite generale nell’efficacia concorrente del principio del favor rei: essa non si applica, cioè, quando l’agente si rappresenta una figura di reato più grave di quello che realmente commette. Ad esempio: il corriere che, incaricato da una organizzazione criminale, introduce nel territorio dello stato tabacchi lavorati esteri, credendo di trasportare sostanze stupefacenti, risponderà del ben più lieve reato di cui all’art. 291 bis delle disposizioni legislative in materia doganale ( punito con la reclusione da due a cinque anni con pene pecuniarie proporzionali) e non del reato di cui all’art. 73, d.p.r. 9 ottobre 1990, n° 309, che prevede per il fatto la reclusione da sei a vent’anni, oltre la multa. Errore sul fatto determinato dall’altrui inganno. L’art. 48 c.p. stabilisce: “ le disposizioni dell’articolo precedente si applicano anche se l’errore sul fatto che costituisce il reato è determinato dall’altrui inganno; ma, in tal caso, del fatto commesso dalla persona ingannata risponde chi l’ha determinato a commetterlo”. 32 Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) http://guidaunigiurisprudenza.blogspot.it/ La legge prevede il trasferimento della responsabilità penale, dall’autore materiale o immediato del fatto, all’autore mediato di esso. Si pensi al notaio che autentichi una sottoscrizione apocrifa, perché tratto in inganno dai testimoni, circa la vera identità del firmatario, convalidata da un documento, anch’esso falso. In questo caso, solo per l’autore mediato sussistono i presupposti per un’imputazione soggettiva del fatto,a titolo di dolo. Solo chi pone consapevolmente dell’azione od omissione dell’autore materiale. Ulteriori cause di esclusione della tipicità: il reato putativo e il reato impossibile. Il concetto di azione socialmente adeguata. L’art. 49,II comma dispone: “ la punibilità è altresì esclusa quando, per la inidoneità dell’azione o per la inesistenza dell’oggetto di esso, è impossibile l’evento dannoso o pericoloso”. L’art. 49, II comma serve a rendere chiaro che, nel configurare il modello legale di un reato, la norma penale si riferisce sempre ad azioni idonee, vale a dire tali da costituire una effettiva minaccia per i beni protetti dall’ordinamento. L’idea che l’attitudine aggressiva del fatto costituisca un momento essenziale della conformità al tipo pur avendo incontrato crescenti e significatici riconoscimenti anche nella giurisprudenza, non riscuote tuttavia unanime consenso. Le perplessità avanzate concernono una asserita inconciliabilità fra le tesi prospettate e un sistema imperniato, come il nostro, sul principio di legalità. Si osserva, da un lato, che un fatto conforme al modello legale, ma al tempo stesso privo di lesività, sembra costituire una sorta di contraddizione in termini; dall’altro, che esigere, oltre alla tipicità anche la sua lesività, darebbe adito al ricorso a criteri extranormativi, con il rischio di soggettivismo nelle opzioni giurisprudenziali. In realtà, la derivazione del principio formulato dall’art. 49, II comma da quello più generale del principio di offensività dei fatti costituenti reato è evidente ed innegabile: parlare di una necessaria attitudine lesiva del fatto non significa altro se non ribadire la regola dell’ordinamento vigente, per cui l’illecito penale si configura solo in funzione dell’effettiva aggressione a qualcosa che rappresenta un bene della comunità o del singolo, così importante da doversi tutelare con la minaccia della pena. A prescindere da queste impostazioni,non vi è dubbio circa il fatto ricevuto nella elaborazione dottrinale; né in verità, è possibile trascurare del tutto l’intenzione dei compilatori del codice, che al principio enunciato dall’attuale art. 49, II comma attribuirono espressamente valore generale e fondamentale anche per il reato consumato, in quanto attinente all’esecuzione del reato, ossia alla condotta punibile, elemento essenziale del reato. Questo principio concerne l’essenza stessa della tipicità e altro non rappresenta se non l’esigenza di un’effettiva rispondenza del fatto alla ipotesi normativa. La portata dell’art. 49, II comma in realtà, si coglie pienamente solo quando si consideri che, essendo l’idoneità degli atti autonomamente richiesta dalla legge, quale requisito essenziale dei comportamenti rilevanti come delitto tentato, l’analoga esigenza, postulata in via generale dal legislatore con la figura del reato impossibile, assume rilievo non tanto in rapporto a casi di tentativo impossibile, quanto piuttosto in relazione a quelle ipotesi di reato, di cui si potrebbe dire che solo ad un esame superficiale si presentano come reati consumati. L’inidoneità dell’azione deve essere riconosciuta in tutti i casi in cui la condotta non riesce a raggiungere un livello di aggressività, a cui si possa connettere il rischio di una lesione del bene. L’art. 49, II comma si profila, quindi, anche come il veicolo normativo attraverso cui dare ingresso alla regola della irrilevanza penale delle azioni socialmente adeguate: cioè, quelle azioni che non possono farsi rientrare, al tempo stesso, nella fattispecie di un reato. L’idea della adeguatezza sociale non è altro che un punto di vista nell’interpretazione della fattispecie, che serve ad escludere dalla previsione normativa le condotte che non vi corrispondono perché in esse manca una reale dimensione aggressiva del bene. Essa nasce da una concezione del bene giuridico che sostituisce, alla nozione statica di esso, una visione dinamico – funzionale del suo ruolo nella vita sociale, che ne valorizzi il reale significato. Si pensi alla condotta di atti osceni: fino a che si è legati ad un concetto meramente causale del bene giuridico e si definisce quindi per identificare l’atto osceno con la esibizione di certe parti del corpo, non si riuscirà a comprendere mai la vera ragione per cui non è punibile la modella 33 Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) http://guidaunigiurisprudenza.blogspot.it/ che posa nuda davanti ad una classe di allievi dell’accademia d’arte. Per stabilire la non punibilità di queste condotte si finisce per ricorrere ad improbabili ipotesi di giustificazione; che però non potrebbero mai spiegare perché lo stesso comportamento sia ammissibile su una spiaggia e non in chiesa. In realtà, il disvalore giuridico della condotta è qui strettamente connesso alla sua capacità di aggredire, che è poi quanto dire la concezione, storicamente condizionata, del comune sentimento del pudore. Si può dire che l’adeguatezza sociale inibisca la rilevanza delle condotte che si inquadrano in una attività di promozione degli stessi beni che, sul piano causale, possono tuttavia soffrire di un pregiudizio. L’errore sul reato impossibile e sull’adeguatezza sociale. L’errore risulta irrilevante quando risponde ad un errore sul divieto; non invece se consiste in un errore su presupposti di fatto che, se esistenti,avrebbero escluso la tipicità della condotta. Ciò è particolarmente chiaro per quanto attiene al reato impossibile per inesistenza dell’oggetto. Non è punibile, ad esempio, chi abbia cagionato, seppellendone il corpo, la morte di un uomo, credendo di trovarsi di fronte ad un cadavere, mentre trattatasi di catalessi. Lo stesso discorso deve farsi per i casi di errore sull’adeguatezza sociale. Non sarà punibile per corruzione il pubblico ufficiale che accetti in dono una preziosa e rara incisione, nella convinzione erronea che si tratti di una produzione fotografica di infimo valore; ma la punibilità non potrà invece essere esclusa, se egli l’avrà accettata donativi di elevato valore economico. In questo caso, infatti, l’errore nell’adeguatezza sociale non nasce da un errore sul fatto,ma costituisce un tipico errore sui limiti del divieto e risulta, perciò, irrilevante. SEZIONE TERZA: L’ANTIGIURIDICITA’ Le cause di giustificazione e le altre cause che escludono la punibilità di un fatto tipico. Tipicità e antigiuridicità ella struttura dell’illecito penale: rapporti fra norma di divieto e norme permissive. Sull’esistenza del fatto tipico si fonda la ragionevole presunzione di essere di fronte anche a un fatto antigiuridico. L’accertamento dell’antigiuridicità, però, se presuppone l’esistenza di un fatto tipico, richiede ( in negativo) l’inesistenza di situazioni o circostanze, a cui l’ordinamento giuridico attribuisca una efficacia giustificante. In presenza di situazioni o circostanze del genere, viene meno, infatti, il valore indiziante del fatto tipico, che, pur restando tale, tuttavia non è antigiuridico, per effetto di una norma permissiva che lo autorizza e lo impone; con la conseguente elisione dell’applicabilità, in concreto, della norma di divieto. I rapporti fra la norma di divieto e la norma permissiva sono contrassegnati dal fatto che l’eventuale operare della norma permissiva non modifica, né limiti, la materia del divieto, ma soltanto ne esclude l’applicabilità ai casi concreti, in cui ricorra anche l’ipotesi prevista dalla norma permissiva. Il principio fondamentale, sottostante a tutte le ipotesi di giustificazione di un fatto tipico è dunque il principio di non contraddizione dell’ordinamento giuridico. Ogni norma permissiva viene a trovarsi in una situazione di conflitto con la norma che contiene il divieto penalmente sanzionato. In questo conflitto, la norma permissiva prevale, in quanto presenta, rispetto alla norma di divieto, un elemento specializzante: essa, infatti, disciplina i casi in cui, oltre a tutti gli elementi descritti dalla singola norma incriminatrice, sono altresì presenti quelli descritti dalla norma permissiva. Si pensi a chi uccide taluno, da cui sia stato assalito: il caso appare, in astratto, regolato contemporaneamente sia dall’art. 575 c.p. che dall’art. 52 c.p., che stabilisce, in via generale, la non punibilità dei fatti, preveduti dalla legge come reato, che vengono commessi per necessità di difendere un diritto proprio o altrui dal pericolo attuale di un’offesa ingiusta. Se, nell’ipotetico conflitto fra le due norme, a soccombere fosse l’art. 51. la disposizione risulterebbe inutiliter data, perché mai applicabile; la sua prevalenza, nei singoli casi, invece, non esclude affatto la validità generale di divieto di uccidere, che rimane applicabile a tutti i casi di uccisione, in cui non sia contemporaneamente presente l’elemento specializzante “ legittima difesa”. L’art. 52, dunque, non modifica il contenuto della norma che incrimina l’omicidio; allo stesso modo l’esistenza della legittima difesa non toglie il fatto che un uomo è stato ucciso; ma questo fatto, pur gravido di contenuto di offesa così pregnante, non riveste, tuttavia, i caratteri del torto antigiuridico. Il procedimento di ricostruzione delle fattispecie permissive è differente da quello che caratterizza l’individuazione degli elementi del fatto tipico. Ciò dipende dal fatto che, mentre la risposta alle domande che concernono l’esistenza di un fatto tipico è interamente contenuta nel diritto penale, la risposta alla 34 Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) http://guidaunigiurisprudenza.blogspot.it/ domanda se quel fatto tipico sia anche antigiuridico, va invece ricercata guardando all’intero ordinamento giuridico. Nel primo caso, infatti, si tratta di stabilire se si è verificato, in concreto, un fatto che corrisponde a quello descritto in una norma incriminatrice; nel secondo, si tratta, invece, di confrontare il fatto tipico con l’insieme delle regole espresse da un ordinamento giuridico. La fonte delle singole fattispecie permissive può essere rinvenuta non solo nell’ambito del diritto penale ma anche in altri settori dell’ordinamento. Basti pensare alle disposizioni costituzionali. La norma che riconosce il diritto di sciopero ( art. 40 cost.) ha una destinazione di carattere generale, che trascende sicuramente il ruolo che essa può essere chiamata occasionalmente a svolgere nel diritto penale; tuttavia è proprio nell’art. 40 cost. che deve essere attualmente ricercata la fonte della non antigiuridicità di talune condotte tipiche: per esempio, di un fatto di interruzione di un pubblico servizio ( art. 340 c.p.), che si realizzi nell’ambito di una condotta di sciopero. Secondo l’opinione della dottrina dominante, infatti, in materia di cause di giustificazione non vige il divieto di applicazione per analogia e ciò per due ragioni: Le disposizioni, su cui si fondano le ipotesi di non punibilità in questione, non sono propriamente norme penali ma costituiscono norme dell’ordinamento giuridico generale; La ratio sottesa al divieto di analogia in materia penale è strettamente connessa al principio di legalità, nella misura in cui quel divieto è inteso ad evitare la creazione di reati per via giurisprudenziale, e cioè in violazione di una regola espressa dell’ordinamento; il divieto di applicazione analogica è, perciò, tendenzialmente inoperante. Profili di una sistematica generale delle circostanze di esclusione della pena ( art. 59 c.p.): individuazione della categoria delle esimenti. Prima di procedere all’analisi delle singole cause di giustificazione (scriminanti), è necessario fare una premessa. Più volte il codice prevede la non punibilità di un fatto, in presenza di determinate circostanze: ad es. in caso di legittima difesa (art. 52 c.p.); oppure in caso di favoreggiamento per salvare un prossimo congiunto (art. 384 c.p.); ovvero in caso di furto in danno di un parente convivente (art. 649 c.p.). La dottrina ha individuato un dato normativo comune a tutte le ipotesi. Questo punto di riferimento normativo è costituito dall’art. 59 c.p. . Il I comma di questa disposizione dispone delle circostanze che escludono la pena; al IV comma lo stesso articolo dispone le circostanze di esclusione della pena. L’art. 59 c.p. obbliga dunque l’interprete a stabilire a quali situazioni il legislatore si sia riferito con le locuzioni “ circostanze che escludono la pena” e “ circostanze di esclusione della pena”. Con l’espressione “circostanze di esclusione della pena”il codice ha inteso disegnare tutte quelle ipotesi normative di non punibilità che, da un lato, presuppongono la realizzazione di un fatto tipico, e dall’altro,non si riferiscono all’imputabilità o ad altre condizioni o qualità personali del soggetto, rilevanti per il giudizio di colpevolezza. E, invero, il fatto stesso che l’art. 59 c.p. disciplini l’errore sulle circostanze di esclusione della pena come ipotesi a sé stanti, rispetto all’errore sulle circostanze sul fatto che costituisce il reato ( art. 47 c.p.) rende di per sé evidente che l’ambito delle circostanze di esclusione non può essere confuso con quello del fatto tipico: quando l’errore cade su un elemento essenziale del fatto è l’art. 47 ad applicarsi e non l’art. 59 ultimo comma. D’altra parte, la logica della rilevanza dell’errore, che è comune ad entrambe le ipotesi sembra essere per definizione estranea alle cause di esclusione della colpevolezza. È in effetti del tutto impensabile che l’ordinamento giuridico possa attribuire rilevanza all’errore del soggetto sulla propria capacità di intendere e di volere. La regola dell’efficacia dell’errore traccia anche la linea di demarcazione fra le circostanze di esclusione della pena, di cui parla l’art. 59 IV comma c.p. e altre situazioni che fanno venir meno la rilevanza penale del fatto in un momento successivo a quello in cui essa si è costituita: come avviene nella ritrattazione della falsa testimonianza. Poiché, in queste ipotesi, la non punibilità del fatto dipende da un evento che sopravviene ad incidere sulla sua rilevanza in un momento successivo a quello in cui il fatto è stato realizzato, sembra del tutto evidente che l’eventuale errore dell’agente circa la loro esistenza, non può che essere del tutto irrilevante. Sembra dunque ragionevole limitare l’efficacia dell’errore sulle circostanze di esclusione della pena, a quelle ipotesi di non punibilità, in cui la situazione scriminante incide sulla rilevanza di un fatto tipico con cui si 35 Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) http://guidaunigiurisprudenza.blogspot.it/ realizza contestualmente, o al quale addirittura preesista. Sul piano terminologico per questa categoria normativa è stata proposta la denominazione di esimenti. Nella categoria delle esimenti rientrano: 1) le cause di giustificazione (scriminati); 2) le c.d. scusanti, cioè le cause di non punibilità determinate da inesigibilità di una condotta diversa (es. art. 384 c.p.); 3) le cause di non punibilità determinate da scelte politico-criminali (es. art. 649 c.p.). le ipotesi normative delle cause di giustificazione. Il problema del fondamento delle cause di giustificazione. Gli artt. 50 ( consenso dell’avente diritto), 51 ( esercizio di un diritto o adempimento di un dovere), 52 ( difesa legittima), 53 (uso legittimo delle armi) del codice penale vigente riflettano in modo puntuale il modello della causa di giustificazione. Un eguale statuto dommatico viene oggi riconosciuto dalla dottrina dominante anche all’ipotesi dello “stato di necessità” ( art. 54 c.p.). la cui collocazione ha allungo oscillato tra il piano dell’antigiuridicità e quello della colpevolezza. Il fondamento unitario delle cause di giustificazione è stato racchiuso in formule di vario tenore, ed espresso volta a volta nell’idea del perseguimento di uno scopo giuridicamente approvato attraverso un mezzo adeguato, nel principio della prevalenza del vantaggio sul danno, nel regola del bilanciamento degli interessi in conflitto. Ognuna di queste formule esprime i criteri ai quali il legislatore sembra essersi attenuto nel configurare le fattispecie normative delle cause di giustificazione; i principi in esse sintetizzati richiedono tuttavia pur sempre di essere riempiti, mediante il riferimento agli elementi costitutivi di ciascuna ipotesi. Anche il tentativo di ricostruire in termini pluralistici il fondamento generale delle cause di giustificazione non si sottrae allo stesso inconveniente. Attraverso la formula dell’interesse mancante e quella dell’interesse prevalente, la dottrina pluralistica riesce solo a fornire una rappresentazione più ravvicinata dell’asserito fondamento delle cause di giustificazione, consentendone così la ripartizione in due gruppi distinti. In tutti i casi, la situazione delineata dalla legge sembra presentare, infatti, una caratteristica saliente, consistente nel fatto che il realizzarsi del diritto obiettivo passa necessariamente attraverso il compimento, da parte dell’agente, di un fatto preveduto dalla legge come reato. Il tenore delle previsioni contenute negli artt. 52,53 e 54 c.p. conferma nel modo più esplicito questa intuizione, giacchè in esse la necessità di compiere il fatto tipico è espressamente indicata come requisito della fattispecie giustificante. La legge allude infatti, in modo del tutto esplicito, al fatto che la difesa di un diritto proprio o altrui, il mantenimento o il ripristino della legalità, la salvaguardia del più elementare fra i diritti rendono necessaria la commissione di un fatto tipico. Aspetti caratteristici della disciplina delle cause di giustificazione. Le cause di giustificazione sono, al tempo stesso, cause di esclusione dell’antigiuridicità. Il fatto giustificato non è soltanto un fatto che non può avere come conseguenza l’applicazione all’autore di una pena o di una misura di sicurezza; esso è altresì non impedibile: non può esservi legittima difesa, per esempio, contro un fatto commesso nell’adempimento di un dovere imposto da una norma giuridica o da un ordine legittimo. Il fatto giustificato, inoltre, non può costituire presupposto per un reato accessorio; né è possibile ipotizzare la punibilità di altri soggetti, che abbiano concorso alla sua realizzazione, com’è, invece, perfettamente concepibile in presenza di altre cause personali di non punibilità; o quando la non punibilità dell’autore dipenda da una causa di esclusione della colpevolezza: ad esempio dalla sua condizione di non imputabile. Il fatto giustificato in quanto fatto non antigiuridico rimane lecito per qualsiasi settore dell’ordinamento e pertanto non potrà produce alcun effetto sanzionatorio a carico dell’autore, anche in ambito non penale: sarà quindi escluso sia l’obbligo di risarcimento, sia la possibilità di applicare sanzioni disciplinari o amministrative di qualsiasi genere. 36 Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) http://guidaunigiurisprudenza.blogspot.it/ Le singole cause di giustificazione: presupposti, principi informatori e limiti di funzionamento. L’antigiuridicità è definita dalla mancanza di cause di giustificazione, nel senso che il suo accertamento deriva da un procedimento negativo, che consiste nel prendere atto dell’assenza di un’ipotesi di giustificazione del fatto tipico. L’idea della necessità del fatto giudicato, pur segnalando quello che sembra un contrassegno comune delle cause di giustificazione non può dirci molto sui principi informatori e sui limiti di funzionamento delle singole ipotesi, poiché in ciascuna di esse la necessità di compiere il fatto tipico si combina variamente con altri dati, che solo un’analisi dei contenuti specifici di ciascuna fattispecie giustificante permette di enucleare. Il consenso dell’avente diritto. (art.50 c.p.) Il consenso del titolare del bene o del diritto protetto dalla norma esclude la illiceità di un fatto che normalmente arrecherebbe offesa a quel bene o a quel diritto in quanto viene a priori a cadere la possibilità di un danno. Ad es. se il proprietario di casa consente l’ingresso di Tizio nell’appartamento, non vi sarà alcuna violazione di domicilio. Il consenso, a norma dell’art. 50, deve: avere ad oggetto un diritto disponibile. Secondo la dottrina più recente debbono ritenersi indisponibili i diritti appartenenti alla collettività, nonché i beni dell’individuo che sono tutelati indipendentemente dalla sua volontà , perché riconosciuti di interesse pubblico (es. la vita); essere prestato validamente dal soggetto capace e titolare di tale diritto. Legittimato a prestare il consenso è colui che, altrimenti, sarebbe il soggetto passivo del reato, sempre che abbia capacità di intendere e di volere al momento della manifestazione del consenso. Quanto alla capacità di agire, si discute in dottrina sul limite di età richiesto per il suo acquisto; sussistere al momento del fatto. Il consenso deve essere espresso con volontà non viziata da errore, violenza o dolo, e deve essere lecito (non contrario a norme imperative, all’ordine pubblico e al buon costume) e attuale (cioè esistente al momento del fatto). Un consenso successivo ha un senso solo in quanto serva ad esplicitare un consenso non espresso in precedenza, ma tacitamente prestato. Il consenso, infatti, può essere tacito, cioè desumibile con certezza da un comportamento univoco del titolare del diritto. Si parla, a questo riguardo, di consenso presunto. Le ipotesi di consenso presunto si distinguono in due categorie, a seconda che nella condotta dell’agente si ravvisi: un’azione intrapresa nell’interesse del titolare del bene, ad esempio chi si introduce nell’abitazione altrui per spegnere un incendio; un’azione, rispetto alla quale sembri mancare un interesse del soggetto passivo alla tutela del bene, ad esempio la moglie che regali gli abiti smessi del marito a un mendicante, in forza di una consuetudine in tal senso, a lei nota. L’esercizio di un diritto e l’adempimento di un dovere come cause di giustificazione. ( art. 51 c.p.) Il titolare di un diritto, nell’esercizio di esso, può compiere alcuni atti che normalmente costituiscono reato, rimanendo immune da pena. Il fondamento di tale scriminante va rinvenuto nella logica considerazione che, se l’ordinamento ha attribuito ad un soggetto un diritto e, quindi, la facoltà di agire nell’esercizio di esso in un certo modo, l’azione riconosciuta non potrà certamente integrare un fatto illecito (esempio: il giornalista che riferisce obiettivamente fatti che ledono l’onore di una persona non commette il reato di diffamazione, perché esercita un diritto (di cronaca) riconosciutogli dalla legge). Nell’ambito dei diritti l’esercizio dei quali è scriminato, la dottrina individua, oltre al diritto di cronaca giornalistica ed alla disciplina familiare, anche il diritto di critica ed i c.d. offendicula. In particolare, questi ultimi sono mezzi a tutela della proprietà atti ad offendere (es. vetri rotti sopra un muro di recinzione). La giurisprudenza ammette, entro determinati limiti, l’uso degli offendicela. Presupposti della scriminante sono: l’esistenza di un diritto; che il diritto sia esercitato dal suo titolare; che l’esercizio di esso non superi i limiti imposti dalla sua natura e dalla esistenza di diritti altrui. 37 Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) http://guidaunigiurisprudenza.blogspot.it/ Nell’adempimento del dovere, il comportamento del soggetto non costituisce reato in quanto lo stesso non aveva alcuna facoltà di scelta, ma era tenuto a porlo in essere dovendo adempiere ad un dovere; del fatto, eventualmente, risponderà il superiore gerarchico che ha impartito l’ordine (art. 51 comma 2). Il dovere può derivare: da una norma giuridica (ad esempio: il soldato che uccide in guerra non commette il delitto di omicidio); da un ordine dell’Autorità : ordine è qualsiasi manifestazione di volontà che un superiore rivolge ad un inferiore gerarchico affinché tenga un determinato comportamento. Presupposto della scriminante è l’esistenza, tra il superiore e l’inferiore, di un rapporto di subordinazione di diritto pubblico. L’ordine, inoltre, deve essere legittimo, tanto sotto il profilo sostanziale quanto sotto quello formale. Per il primo tipo di legittimità devono esistere i presupposti richiesti dalla legge. L’ordine può essere disatteso solo se manifestamente criminoso. Per la legittimità formale dell’ordine è invece richiesto che: il superiore abbia la competenza ad emetterlo; l’inferiore abbia la competenza ad eseguirlo; siano state rispettate le procedure e le formalità di legge previste per la sua emissione. L’inferiore gerarchico può sindacare l’ordine ricevuto solo dal punto di vista formale e non nel merito. Ad esempio un poliziotto che deve eseguire un ordine di arresto contenuto in una misura cautelare, deve solo controllare che essa provenga e sia firmata da un giudice. Non deve valutare se detta misura sia sufficientemente motivata. dell’eventuale arresto illegale risponderà il giudice. Il sindacato può investire il merito, se l’ordine ricevuto è manifestamente criminoso: in tal caso se il subordinato esegue l’ordine, anch’egli risponderà del reato, non operando la scriminante (ad es. un funzionario di Polizia che, durante il servizio di ordine pubblico, immotivatamente comanda di sparare contro un corteo; in tal caso l’ordine non deve essere eseguito). ( ordine illegittimo vincolante). La difesa legittima. ( art. 52) Purché vi sia un pericolo attuale per un proprio od altrui diritto, derivante da una aggressione ingiusta da parte di un terzo, il soggetto può reagire compiendo in danno dell’aggressore una azione che normalmente costituisce reato, sempre che tale reazione sia assolutamente necessaria per salvare il diritto minacciato e sia proporzionata all’offesa (esempio: il soggetto che uccide per difendersi da chi gli si sta scagliando contro armato di coltello e con evidente intenzione omicida). È talvolta ammessa la legittima difesa anticipata. Requisiti dell’ aggressione perché ricorra la scriminante sono: oggetto dell’offesa deve essere un diritto; l’offesa deve essere ingiusta, cioè contraria al diritto; il pericolo minacciato deve essere attuale. Agli stessi fini la reazione deve essere: necessaria; proporzionata all’offesa; proporzione che secondo la dottrina più recente deve sussistere tra il male minacciato e quello inflitto. Diritto all’autotutela in un privato domicilio. L’art. 52 c.p. ha subito una modifica strutturale con la legge n° 59 del 2006 la quale ha aggiunto il secondo ed il terzo comma nei quali si prevede che il rapporto di proporzione, enunciato nel primo comma, “sussiste” qualora, nei casi di violazione di domicilio o di luogo ove si svolga attività commerciale, professionale o imprenditoriale, il legittimato a presenziare in tali luoghi utilizza un’arma, legittimamente detenuta o altro idoneo mezzo,al fine di difendere la propria o altrui incolumità e/o i propri o altrui beni subordinando ciò alla sussistenza del pericolo di aggressione e alla mancata desistenza. L’innovazione legislativa ha agito prevalentemente sul rapporto di proporzione tra aggressione e reazione in 38 Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) http://guidaunigiurisprudenza.blogspot.it/ specifiche ipotesi, lasciando, per la verità, immutate le valutazioni relative agli altri elementi dell’esimente. si è intervenuto, infatti, su tale rapporto di proporzione, attraverso la presunzione ex lege della sua sussistenza allorquando l’aggressione sia realizzata con l’introduzione abusiva nel domicilio privato e vi sia pericolo per l’incolumità o di aggressione senza desistenza. in presenza di tali requisiti la proporzionalità è presunta in modo assoluto e non relativo, non essendo ammessa prova contraria: altrimenti non si spiegherebbe l’uso nella norma del predicato verbale “sussiste”. La modifica de qua incide solo sul parametro della proporzione, ma non certo su quelli dell’attualità e del l’inevitabilità del pericolo, che devono pur sempre sussistere. L’uso legittimo delle armi. ( art. 53) Un caso particolare di attività giustificata da una norma giuridica è quello dell’uso legittimo delle armi. Possono invocare tale scriminante i pubblici ufficiali e quei soggetti che su legale richiesta del p.u. gli prestino assistenza. La legge ha, dunque, previsto una «riserva di competenza» a favore del pubblico ufficiale relativamente ai casi in cui è legittimo il ricorso alle armi. La richiesta di assistenza è legale quando è fatta nei limiti e nei casi previsti dagli artt. 652 c.p. e 380 c.p.p. Le condizioni perché si possa invocare la scriminante sono le seguenti: che il soggetto sia determinato dal fine di adempiere un dovere del proprio ufficio; che il soggetto sia costretto a far uso delle armi dalla necessità (l’uso delle armi costituisce « extrema ratio ») di respingere una violenza, vincere una resistenza, impedire la consumazione dei delitti di cui all’ultimo inciso dell’art. 53. Quanto alla resistenza è discusso se in essa rientri, oltre quella attiva, anche la passiva quale l’inerzia o la fuga per impedire al pubblico ufficiale di adempiere un dovere di ufficio (ad es. dimostranti che bloccano il traffico ferroviario sedendosi sulle rotaie). L’art. 53 comma 3 c.p. richiama altri casi in cui la legge autorizza l’uso delle armi o di altri mezzi di coazione fisica. Lo stato di necessità fra cause di giustificazioni e scusanti. Il I comma dell’art. 54 c.p. disciplina e circoscrive un’ipotesi particolare di conflitto di interessi, in cui il pericolo di lesione, che incombe su un interesse meritevole di tutela, non può essere scongiurato, se non a patto di sacrificare un altro interesse, parimenti meritevole di tutela giuridica. Ciò che contrassegna lo stato di necessità rispetto ad altre cause di giustificazione non è però l’esistenza di un conflitto di interessi ma l’impossibilità di inserire il conflitto di interesse in uno schema di contrapposizione fra diritto e illecito. Nella legittima difesa, ad esempio, all’origine del pericolo per il bene, c’è la condotta ingiusta di un aggressore; e la reazione difensiva si giustifica appunto in quanto si dirige contro un interesse dell’aggressore. Vi sono però situazioni in cui la necessità di agire con prontezza non sia in alcun modo riconducibile a una condotta umana, ma sia l’effetto di eventi naturali come l’incendio causato da un fulmine. Ma quale che sia la fonte del pericolo, può comunque accadere che l’azione diretta a scongiurarlo implichi il pregiudizio dell’interesse di un terzo, perfettamente estraneo al determinarsi della situazione pericolosa. Si pensi a chi sia costretto a sfondare l’uscio di una casa altrui per cercare riparo da una bufera di neve che l’ha colto durante una escursione in alta montagna; in questo caso l’insorgere della situazione di pericolo, da cui ha origine la necessità, non può essere ricondotta a un comportamento del soggetto. Di qui l’impossibilità di risolvere il conflitto mediante il riferimento a una qualificazione giuridica differenziata degli interessi in gioco. Si distingue tuttavia tra stato di necessità difensivo e stato di necessità aggressivo. Lo stato di necessità difensivo ricorre quando la fonte del pericolo è riconducibile alla sfera giuridica del titolare dell’interesse che viene sacrificato: come nel caso di chi provveda a demolire un manufatto del vicino, che minaccia di crollare, con pericolo per l’incolumità delle persone. Lo stato di necessità aggressivo ricorre quando il terzo colpito nei suoi interessi è completamente estraneo rispetto alla situazione pericolosa da cui nasce la necessità di agire: come nell’esempio di chi trovi rifugio dalla bufera in abitazione altrui. La differenza tra le due ipotesi concerne l’eventuale rilevanza della condotta necessitata per quanto attiene alla responsabilità civile dell’agente. Il fatto compiuto in stato di necessità può dar luogo,infatti, a obblighi di natura risarcitoria ai sensi dell’art. 2045 c.c. Da questo punto di vista lo stato di necessità non costituirebbe una causa di giustificazione ma causa di esclusione della colpevolezza, poiché lascerebbe intatto il connotato dell’antigiuridicità del fatto. In altre parole, nell’azione commessa in stato di 39 Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) http://guidaunigiurisprudenza.blogspot.it/ necessità si sarebbe dovuto prendere atto di una sorta di coazione psicologica, tale da escludere le condizioni per una libera autodeterminazione dell’agente e, quindi, i presupposti per l’imputazione soggettiva del fatto. Questa tesi è oggi completamente superata per il fatto che sarebbe difficilmente configurabile l’idea di una sollecitazione emotiva, tale da rendere psicologicamente inesigibile dall’agente l’astensione dal compimento del fatto tipico. Secondo parte della dottrina, nei casi di azione compiuta in stato di necessità,il fondamento della non punibilità andrebbe sempre cercato nell’impossibilità di esigere dall’autore un comportamento conforme al precetto e si dissolverebbe, pertanto, in un elemento negativo della colpevolezza. Secondo altri, il fondamento della non punibilità risiederebbe esclusivamente nel principio del bilanciamento degli interessi in conflitto: quando la comparazione dei beni in conflitto mette a capo un giudizio di prevalenza del bene,alla cui salvezza l’azione era diretta, rispetto a quello sacrificato,l’azione dovrebbe ritenersi non antigiuridica e quindi giustificata. Il bilanciamento degli interessi in conflitto esclude il disvalore di evento del fatto tipico necessitato, perché il risultato che consegue all’inevitabile sacrificio di uno dei beni in gioco è comunque il migliore possibile, nella situazione data. Il canone del bilanciamento dei beni non è però idoneo a fondare la non punibilità delle condotte compiute in stato di necessità quando il rapporto di propostone fra i beni in conflitto sia a favore del bene che viene sacrificato. In questi casi la non esigibilità di una condotta rispettosa del divieto si profila perciò esclusivo fondamento della non punibilità. Si consideri, ad esempio, la disposizione contenuta nell’art. 384, I comma c.p. che dichiara non punibili la maggior parte dei delitti contro l’amministrazione della giustizia, quando la falsa testimonianza, il favoreggiamento ecc. sia stato commesso da chi vi è costretto dalla necessità di salvare sé medesimo o un prossimo congiunto da un grave e inevitabile nocumento nella libertà o nell’onore. Alle condotte menzionate nell’art. 384,I comma non è applicabile il disposto dell’art. 2045 c.c. dovendosi ritenere l’autore obbligato all’integrale risarcimento di eventuali danni patrimoniali. Tutte le volte in cui il rapporto di proporzione fra i beni non risulti sbilanciato a favore del bene che l’azione necessitata tende a salvaguardare, è la logica delle scusanti ad apparire decisiva per l’esclusione della punibilità. Dunque, il fatto commesso in stato di necessità può considerarsi giustificato, solo quando esso comporti il sacrificio di un bene di minor valore, rispetto a quello da salvare; in tutti gli altri casi esso sarà solamente scusabile: il che significa che potrà essere legittimamente impedito e che restano impregiudicate le eventuali conseguenze di carattere civilistico derivanti dall’azione necessitata. Presupposti e limiti dello stato di necessità ex art. 54 c.p. Differenze tra difesa legittima e stato di necessità. Difesa legittima: il male minacciato può riguardare sia diritti personali che patrimoniali; si reagisce contro colui che aggredisce; esclude l’antigiuridicità del fatto. Stato di necessità: il male minacciato deve riguardare solo diritti personali; si agisce contro un terzo estraneo ed incolpevole, a tal proposito la dottrina definisce lo stato di necessità come la scriminante amorale; esclude l’antigiuridicità del fatto, ma residua per l’agente l’onere di versare un equo indennizzo alla vittima ( art. 2045 c.c.) limiti soggettivi all’applicabilità dell’art. 54 c.p. Il II comma dell’art. 54 c.p. esclude l’applicabilità della disposizione contenuta nel I comma “ a chi ha un particolare dovere giuridico di esporsi al pericolo”. La ratio di questa norma è intuitiva: ai soggetti su cui l’ordinamento giuridico fa assegnamento per la salvaguardia di beni primari della collettività o del singolo non può essere consentito di sottrarsi ai propri doveri d’intervento a cagione dei rischi a cui sarebbero esposti. Il vigile del fuoco, il bagnino di salvataggio, l’agente della forza pubblica non possono anteporre la propria incolumità personale ai doveri del loro stato. Beninteso, il limite della esigibilità, anche per questi soggetti, non coincide con la pretesa di prestazioni eroiche e tanto meno dell’inutile sacrificio della vita: anche chi ha dovere giuridico di esporsi al pericolo è autorizzato a provvedere alla propria salvezza quando le circostanze non gli consentirebbero un intervento diretto a salvare beni altrui. 40 Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) http://guidaunigiurisprudenza.blogspot.it/ Lo stato di necessità determinato dall’altrui minaccia. La disposizione dell’ultimo co. dell’art. 54 c.p. è analoga a quella contenuta nell’art. 46, II comma c.p. in materia di costringimento fisico. La differenza tra violenza fisica e minaccia impedisce, nel caso dell’art. 54, di parlare di autore mediato. La persona minacciata né è infatti anche l’autore sia pure non punibile. Ulteriori cause di giustificazione e altre esimenti normative previste. Oltre alle ipotesi descritte negli artt. 50-54 c.p. , il nostro sistema prevede diverse cause di non punibilità, applicabili però solo a determinate fattispecie di reato, senz’altro riconducibili allo schema delle cause di giustificazione. Ad esempio, l’esclusione della punibilità dei fatti di ingiuria e diffamazione, nelle ipotesi previste dall’art. 596 appare ispirata all’idea della giustificazione, radicata sulla evidente prevalenza dell’interesse pubblico alla conoscenza dei fatti che concernono la gestione della cosa pubblica o l’andamento della criminalità, sull’interesse del diffamato alla conservazione della propria onorabilità. La speciale causa di giustificazione prevista dalla l. 124/2007 Una interessante novità legislativa nel settore delle cause di giustificazione è rappresentata dalla speciale causa di giustificazione introdotta e disciplinata dagli artt. 17 ss. L. 124/2007, avente ad oggetto : sistema di informazione per la sicurezza della Repubblica e nuova disciplina del segreto. Nella disciplina di questa speciale ipotesi di non punibilità sono espressamente evocati i principi essenziali che contrassegnano il funzionamento delle cause di giustificazione. Ma quel che più conta è che la legge in questione esclude l’applicabilità della speciale causa di giustificazione in rapporto a una serie di delitti, selezionati in funzione dell’interesse volta a volta pregiudicato; con il risultato di escludere ogni ipotesi di bilanciamento fra interesse della sicurezza nazionale e la lesione di diritti fondamentali. La causa di giustificazione prevista dall’art. 17, se per un verso è speciale in quanto riservata ad una determinata categoria di autori, per un altro verso si configura come causa di giustificazione generale: in quanto riferibile a qualsiasi tipo di reato. Dal punto di vista dell’interpretazione sistematica la sussidiarietà della norma rispetto a quella contenuta nell’art. 51 c.p. vede come conseguenza la carenza dei presupposti per autorizzare le condotte in questione determinando una scissione tra chi ha dato l’ordine e di chi lo ha eseguito: il primo risponderà del fatto costituente reato secondo le norme ordinarie; mentre l’esecutore potrà evocare l’applicazione del III e IV comma dell’art. 51: in questo caso ci troveremo davanti ad un ipotesi di esclusione della colpevolezza e non di fronte ad una causa di giustificazione. Principi informatori e limiti di funzionamento delle scusanti. A fondamento delle cause di giustificazione c’è la prevalenza oggettiva di un interesse giuridicamente tutelato; a fondamento delle scusanti, l’interesse che la legge prende in considerazione per l'esclusione della pena è solo soggettivamente prevalente. L’ordinamento, in sostanza, prende atto dei limiti di esigibilità della pretesa normativa, ovvero, l’ordinamento nel punto in cui prende atto della non esigibilità del comando si limita a giudicare quelle azioni come scusabili. Il termine scusabili è adoperato come sinonimo di cause di esclusioni della colpevolezza; in realtà, non pone affatto un problema di esclusione di colpevolezza poiché la rilevanza delle esimenti in questione precede, e non segue, l’accertamento dell’imputabilità e non può costituire la base per l’accertamento di una pericolosità sociale dell’autore. La logica delle scusanti non ne permette l’estensione in via analogica; ma, a differenza delle cause di giustificazione, queste ipotesi sono caratterizzate dalla possibilità che l’azione ancorché punibile, venga legittimamente contrastata; in determinati casi e con determinati limiti, si da luogo a responsabilità civile. I limiti istituzionali della punibilità. Esimenti riconosciute dalla dottrina nelle ipotesi di cui all’art. 627, e nella previsione dell’art. 649 costituiscono limiti istituzionali della punibilità poiché l’ordinamento penale guarda al nucleo eticopatrimoniale della famiglia come ad un limite della sua applicabilità. Le esimenti di questo tipo sono caratterizzate da una efficacia che è limitata esclusivamente all’applicabilità delle sanzioni penali e lascia inalterate le altre conseguenze giuridiche del fatto: sia nell’ambito del diritto penale, sia in altri settori dell’ordinamento. L’azione può essere legittimamente impedita; le relative previsioni normative non possono essere interpretate in via analogica; possono costituire idoneo presupposto per un reato accessorio ( es. recitazione); sono subordinate alle altre esimenti nell’ordine della rilevanza giuridica e la loro applicazione non esclude la responsabilità civile dell’autore. 41 Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) http://guidaunigiurisprudenza.blogspot.it/ Aspetti problematici di alcune ipotesi della non punibilità. La dottrina ritiene che possa farsi ricorso al procedimento analogico per individuare altre cause di giustificazione non contemplate espressamente dalla legge. sono state individuate le seguenti ipotesi: Informazioni commerciali : allorché tali informazioni vengano fornite dietro richiesta a più persone e per il contenuto siano offensive dell’altrui reputazione (esempio: il signor X suole non far fronte ai suoi impegni), formalmente ricorrerebbero gli estremi del reato di diffamazione (art. 595): il fatto, tuttavia, non è punibile in base all’art. 51, trattandosi di facoltà riconosciuta da una norma consuetudinaria o implicita nella tutela dell’attività commerciale ex art. 41 Cost.; Trattamento medico-chirurgico : per la liceità dell’attività medico-chirurgica diretta a circoscrivere o guarire gli effetti di una malattia o ad eliminare o ridurre una deformità si ritiene necessario il consenso del paziente (o consenso presunto nel caso dell’infortunato operato urgentemente in stato di incoscienza). il fondamento di tale scriminante è da ricercare nel fatto che l’attività medicochirurgica risponde ad un interesse sociale; Attività sportiva: il danno prodottosi fortuitamente nel corso di un’attività sportiva violenta, pur nel pieno rispetto delle regole del gioco, non può dirsi scaturente da atto illecito. Il fondamento di tale scriminante non risiede nella consuetudine e neppure nel consenso dell’offeso (perché vi osta l’art. 5 c.c.), ma, secondo Bettiol, allorché si abbia a soddisfare un dato interesse che si ritiene proprio di tutta la collettività (come il potenziamento fisico della gioventù attraverso lo sport), occorre anche assumere il rischio della lesione di un interesse individuale relativo alla integrità fisica. Errore ed eccesso nella disciplina normativa delle circostanze di esclusione della pena. La regola della rilevanza oggettiva delle circostanze di esclusione della pena ( art. 59, I comma c.p.) e il problema delle elemento soggettivo delle esimenti. L’errore sulle scriminanti è disciplinato specificamente dall’art. 59 c.p., il quale, conformemente alla disciplina dettata per l’errore sul fatto, stabilisce che: “se l’agente ritiene per errore che esistano circostanze di esclusione della pena, queste sono sempre valutate a favore di lui”. Questa disposizione, dunque, assoggetta le circostanze di esclusione della pena alla regola della rilevanza oggettiva. Ciò significa che la punibilità del fatto rimane esclusa, in presenza di elementi oggettivi della situazione esimente, anche se l’agente non se li rappresenti affatto o sia convinto della loro inesistenza. A seguito della l. 7 febbraio 1990, n. 19 che ha soppresso la clausola “ salvo che la legge disponga altrimenti” è divenuto più difficile la soluzione dei casi in cui, nella struttura delle esimenti, figuri un elemento di carattere soggettivo. Si pensi al “fine di adempiere ad un dovere del proprio ufficio” , caso in cui la legge sembra voler attribuire rilevanza, nel delineare la fattispecie, non solo ai dati oggettivi, ma altresì ai dati di carattere soggettivo. L’opinione dominante propende per l’irrilevanza dell’atteggiamento psicologico dell’agente facendo leva sul tenore letterale dell’art. 59 I comma. Il pubblico ufficiale che fa uso legittimo delle armi, non dovrebbe ritenersi giustificato per aver agito al fine di adempiere un dovere, ma perché, in presenza della situazione obiettiva descritta dalla norma l’uso delle armi è conforme agli scopi dell’ordinamento e quindi obiettivamente lecito. La dottrina tedesca, invece, afferma che una condotta può risultare giustificata quando il disvalore dell’evento e quello di azione del fatto tipico risultino neutralizzati dagli elementi della fattispecie giustificante. La rilevanza degli elementi soggettivi delle cause di giustificazione è del tutto evidente nei casi in cui l’essenza stessa della causa di non punibilità risiede nello scopo dell’azione ma è altrettanto innegabile, quando la struttura dell’ipotesi normativa di non punibilità include il riferimento a un dato psicologico-motivazionale che si rivela essenziale per il configurarsi della esimente. Tuttavia, se si tratta di errore determinato da colpa, la punibilità non è esclusa, quando il fatto è preveduto dalla legge come delitto colposo». La disciplina delle esimenti putative. Rinvio. Per l’operatività della scriminante putativa è necessario che l’agente supponga di trovarsi in una situazione di fatto tale che, ove sussistesse realmente, egli eserciterebbe un diritto, adempirebbe un dovere giuridico, si troverebbe in uno stato di necessità o di legittima difesa. Qualora, invece, il soggetto agente ritenga erroneamente esistente una scriminante, in realtà non prevista 42 Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) http://guidaunigiurisprudenza.blogspot.it/ dalla legge, il suo è un errore sul precetto, e come tale penalmente irrilevante. Esempio: andrà assolto, perché il fatto non costituisce reato, colui che uccida una persona credendo di essere assalito da un malvivente, qualora il suo errore non sia colposo e qualora nella sua condotta non si ravvisi un eccesso di legittima difesa (nel qual caso risponderà per omicidio colposo ex artt. 59, comma 3, e 55 c.p.). Ad es. un gioielliere spara verso un rapinatore che impugna una pistola e che minaccia di ucciderlo: in realtà trattatasi di un amico che, a volto coperto e con una pistola finta, stava per scherzo simulando una rapina. Se però, pur sussistendo tutti i presupposti per il ricorrere di una causa di giustificazione, l’agente colposamente ne travalichi i limiti (eccesso colposo) «si applicano le disposizioni concernenti i delitti colposi, se il fatto è preveduto dalla legge come delitto colposo» (art. 55 c.p.). L’eccesso colposo. Si parla di eccesso colposo quando le regole e condizioni previste dalla legge perché sussista la scriminante non vengono rispettate dal soggetto agente. In altri termini, in tale ipotesi esistono i presupposti di fatto della causa di giustificazione ma il soggetto ne travalica i limiti (es. nella legittima difesa si supera il limite della proporzione nella reazione: ad un rapinatore che minaccia a mani nude, si spara con una pistola). In tal caso si risponderà del fatto commesso a titolo di colpa se esso è previsto come reato colposo (es. omicidio colposo). L’eccesso colposo, in quanto si risolve in una abuso del diritto determinato da errore, può essere solo colposo, non essendo concepibile un errore doloso. Per una parte della dottrina e della giurisprudenza il reato commesso per eccesso colposo nelle cause di giustificazione è un reato doloso perché l’evento più grave può essere dall’agente previsto e voluto, tuttavia esso è trattato come colposo soltanto quoad poenam. Sarebbe in altri termini una ipotesi di colpa impropria. Secondo altra autorevole dottrina (Mantovani), invece, il reato è colposo a tutti gli effetti. Ed infatti la colpa, essendo non volontà del fatto tipico, può sussistere sia quando l’evento non è voluto sia quando è voluto, ma l’agente non si è rappresentato una altro elemento positivo o negativo del fatto. Ne consegue che la distinzione tra colpa propria e colpa impropria è meramente descrittiva. Cause di giustificazione e reati colposi. Le cause di giustificazione sono applicabili anche ai reati colposi. Non solo gli att. 50-54 c.p., infatti, non distinguono tra fatto doloso e fatto colposo; ma non vi è alcun dubbio che, anche in relazione a questi ultimi, l’antigiuridicità possa risultare esclusa per il ricorrere dei presupposti di una causa di giustificazione. Se, infatti, la presenza dei presupposti di una causa di giustificazione ha l’effetto di rendere non punibile la condotta dolosa, gli stessi effetti giuridici dovranno conseguire, nell’ipotesi in cui, quella lesione di beni si verifichi come conseguenza di una condotta colposa. Esempio: si supponga che Tizio estragga un revolver che ha in tasca, e che dall’arma, maldestramente impugnata, parta un colpo che ferisce o uccide Caio. La legittima difesa, che, nelle circostanze ipotizzate, avrebbe sicuramente giustificato anche l’esplosione volontaria e mirata di un colpo d’arma da fuoco da parte dell’aggredito, ne giustifica a pari titolo la condotta colposa. Non solo i casi di colpa incosciente possono venire in considerazione sotto il profilo della giustificazione dell’azione, ma anche quelli di colpa cosciente, o con previsione. In pratica, un problema di giustificazione sorge ogni volta un comportamento si colloca oggettivamente e soggettivamente, a un livello inferiore a quello della diligenza doverosa, a cagione di una situazione di necessità che condiziona la condotta. Si pensi, a chi si pone alla guida di un’auto che sia dotata di freni difettosi o la conduca ad eccessiva velocità, per trasportare d’urgenza in ospedale un ferito grave, nonostante ciò comporti un rischio per l’incolumità di altri utenti della strada. L’applicabilità dell’esimente richiede in ogni caso l’esistenza di una proporzione fra i rischi indotti dalla condotta necessitata e il pericolo che incombe sul bene che la condotta colposa mira a salvaguardare. Nelle ipotesi appena esemplificate, dunque, una condotta di guida del tutto sconsiderata darebbero luogo senz’altro a una responsabilità colposa, in caso di incidenti. Le ipotesi di fatto colposo giustificato non vanno confuse con i casi di eccesso colposo nelle cause di giustificazione. L’eccesso colposo presuppone un’azione intenzionalmente diretta a una lesione di beni, che nei risultati appare sproporzionata rispetto alle necessità di tutela. Controversa in giurisprudenza è la configurabilità del consenso ex art. 50, quale causa di giustificazione di una condotta colposa. Si è obiettato, che la struttura del consenso richiederebbe una convergenza della volontà dell’agente con quella del soggetto passivo, in rapporto alla lesione di un bene del secondo: di qui la impossibilità di attribuire una 43 Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) http://guidaunigiurisprudenza.blogspot.it/ efficacia esimente al consenso, relativamente a condotte da cui esula una volontà di lesione. Si dimentica, però, che l’art. 50 configura il consenso dell’avente diritto, non solo in rapporto alla lesione di un bene ma anche con riguardo alla messa in pericolo dello stesso. Ora, chi liberamente acconsente ad una esposizione a rischio, che violi la diligenza oggettiva, è d’accordo, necessariamente, anche con il verificarsi della lesione, che eventualmente consegua alla condotta imprudente posta in essere con il suo consenso. Anche il consenso presunto può assumere un ruolo per la giustificazione di una condotta che violi la diligenza oggettiva. Presunto è, ad esempio, il consenso del paziente in tutti i casi di intervento con mezzi di fortuna, giudicato dal medico come unica chance di salvezza dell’accidentato. Cause di non punibilità in senso stretto e cause generali di estinzione del reato. Le cause di estinzione del reato sono definite cause di non punibilità in senso stretto per distinguerle dalle cause di giustificazione e dalle altre esimenti. Le cause di non punibilità previste dal codice penale sono: artt. 308 e 309 (non punibilità di chi partecipi ai delitti di associazione e cospirazione politica e di banda armata) art. 376 (ritrattazione della falsa testimonianza) art. 387 (non punibilità del custode che procuri la cattura dell’evaso, a lui imputabile per colpa) art. 463 (non punibilità del concorso in falsificazione di carte di pubblico credito e valori di bollo, per chi riesce a impedire la contraffazione, l’alterazione, la fabbricazione o la circolazione dei valori stessi) art. 641 ( non punibilità dell’insolvenza fraudolenta a seguito dell’adempimento dell’obbligazione). Queste previsioni normative sono tutte contrassegnate dal fatto che la circostanza rilevante per la non punibilità è costituita da un comportamento del reo, successivo alla consumazione del reato; e l’accostamento alle cause di estinzione del reato si giustifica proprio in quanto presuppongono l’avvenuto realizzarsi di un reato perfetto, sotto il profilo della tipicità, dell’antigiuridicità e della colpevolezza. La rilevanza delle cause di estinzione del reato è subordinata rispetto alla eventuale rilevanza di una esimente. Inoltre le cause di non punibilità in senso stretto sono contrassegnate dalla inestensibilità ai concorrenti, dal divieto di applicazione analogica, dal permanere delle conseguenze civili, disciplinari e amministrative del fatto illecito, dalla idoneità a fungere dal presupposto per un reato accessorio; è infine esclusa ogni rilevanza all’erronea supposizione della loro esistenza da parte dell’agente. SEZIONE QUARTA: LA COLPEVOLEZZA CAPITOLO I : FUNZIONI E LIMITI DEL CONCETTO DI COLPEVOLEZZA Nozione di colpevolezza. La colpevolezza è un concetto giuridico del diritto penale che racchiude il complesso degli elementi soggettivi sui quali si fonda la responsabilità penale. Secondo l'impostazione tradizionale la responsabilità del singolo autore dipende dalla possibilità di muovergli a livello personale un rimprovero per la commissione di un fatto illecito,per questo si dice che la colpevolezza è RIMPROVERABILITA'. Ad evitare confusioni tra rimprovero giuridico e morale dal punto di vista del diritto penale ciò che interessa ai fini del giudizio di colpevolezza è il fatto che l'autore si è deciso per l'illecito pur essendo in condizioni di agire in modo conforme alle pretese dell'ordinamento. Ciò ci lascia intuire che i problemi della colpevolezza non riguardano il dover essere dell'autore ma la possibilità di orientamento di un autore nella scelta tra diritto e illecito. Da un punto di vista Formale la definizione di colpevolezza è incontroversa nella misura in cui la si intenda come l'insieme dei requisiti di ordine soggettivo in base ai quali è dato affermare la responsabilità di un autore in relazione alla commissione di un fatto tipico e antigiuridico. Meno agevole risulta la definizione di colpevolezza A Priori quando si passa dal piano formale a quello dei contenuti del giudizio di colpevolezza perché dipendono dai referenti in base ai quali si stabiliscono le premesse per un rimprovero personale in termini di colpevolezza. Oggetto, contenuto e limiti del giudizio di colpevolezza risultano condizionati dagli scopi che si assegnano al diritto penale in un ordinamento giuridico dato e risultato quindi influenzati dai connotati ideologici e culturali che lo contrassegnano. Ma la colpevolezza individuale dell'autore è un presupposto indispensabile per l'applicazione della pena. 44 Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) http://guidaunigiurisprudenza.blogspot.it/ IRRINUNCIABILITA’ DEL PRINCIPIO DI COLPEVOLEZZA Alla base della colpevolezza c'è la convinzione che l'uomo sia in grado di regola di signoreggiare i propri istinti cosi da reagire agli stimoli esterni non in modo meccanico ma utilizzando l'intelletto per scegliere le diverse possibilità di condotta. La sua irrinunciabilità emerge dalla constatazione dei progressi di cui il diritto contemporaneo gli è debitore. Solo con l'ausilio dell'idea di colpevolezza è possibile impostare correttamente il problema dei rapporti fra dolo e imputabilità, e quello concerne la responsabilità per i fatti commessi in stato di ebbrezza alcolica o sostanza stupefacenti, ed appare insostituibile quale criterio di graduazione della misura della pena, quindi è tutt'altro che una vuota formula anzi è ricco di implicazioni pratiche di grande importanza. La capacità di colpevolezza va stabilita in base a un criterio che è stato definito empirico-normativo, sulla capacità individuale da un punto di vista psichico di autodeterminarsi che è empiricamente verificabile si fonda il postulato normativo della sua possibilità di comportarsi secondo le pretese dell'ordinamento. Ciò non ha nulla a che vedere con l'antica disputa sulla libertà del volere perchè non equivale all'affermazione che l'uomo è libero ma vuol dire che quando le sue capacità di autodeterminazione dal punto di vista psichico sono intatte egli dev'essere trattato come se fosse libero la capacità di colpevolezza non è altro che la capacità dell'individuo di dominare e indirizzare i propri impulsi psichici e la conseguente capacità di essere motivato dalle pretese normative di una situazione. Cosi un concetto di colpevolezza conformato in tal modo esclude confusioni fra giudizio morale e giuridico. (Il valore morale gioca un ruolo quando per l'interpretazione della norma sia necessario farvi riferimento). Il rimprovero di colpevolezza non implica anche un rimprovero morale per il diritto penale è sufficiente dedurre dalla colpevolezza dell'autore che egli dovrà rispondere per il fatto commesso secondo la misura della colpevolezza. In termini di prevenzione generale si può concepire come una sorta di appello rivolto alla volontà del singolo perchè non si orienti verso la realizzazione di fatti vietati dall'ordinamento ma un tale appello è concepibile sulle capacità di autodeterminazione del potenziale autore e non potrebbe neppure configurarsi qualora la legge punisce qualsiasi causazione di evento anche indipendentemente dalla colpevolezza dell'agente cioè dalla sua capacità di indirizzare e controllare i propri impulsi psichici. D'altra parte non è provato che la minaccia di una pena anche in assenza di colpevolezza abbia una maggiore efficacia deterrente ma se ciò può apparire plausibile sembra ragionevole ritenere che solo una pena dipende dalla colpevolezza dell'autore per il fatto di essere considerata giusta dalla generalità dei destinatari meglio si presenti a svolgere una funzione di orientamento dei consociati (prevenzione generale) e di risocializzazione (prevenzione speciale). Nel quadro di un sistema penale orientato dagli scopi della prevenzione la penalizzazione di una responsabilità senza colpevolezza o dell'errore inevitabile sul divieto non verrebbero accettate nella situazione culturale oggi acquisita. La dottrina contemporanea riconosce alla colpevolezza di costituire un limite alla ammissibilità di sanzioni orientate secondo criteri di prevenzione. Invece inerente al ruolo di limite garantistico rispetto alla prevenzione,è meglio assolto dall'idea di colpevolezza quanto sia concepita come colpevolezza per il fatto la cui misura sia strettamente collegata al singolo fatto di reato in relazione al quale l'entità della colpevolezza dev'essere stabilita. Il rimprovero di colpevolezza si rivolge contro l'agente in quanto autore di un determinato fatto tipico e antigiuridico non vi è spazio per una colpevolezza d'autore che tenga cioè conto della personalità criminale del reo desunta dal suo carattere o dalla sua condotta di vita globalmente considerata. CAPITOLO II: IL PRINCIPIO DI COLPEVOLEZZA NELLA PROSPETTIVA COSTITUZIONALE L'art.27,1°co.Cost. IL VALORE DEL PRINCIPIO DI PERSONALITA' DELLA RESPONSABILITA' PENALE. Il concetto di colpevolezza, pur non essendo esplicitato nel ordinamento giuridico italiano (il codice penale, infatti, non utilizza questo termine), ne rappresenta un imprescindibile fondamento giacché ha per funzione la delimitazione dell'area del penalmente illecito e costituisce il presupposto per l'applicabilità della pena. Il ruolo centrale della colpevolezza nel sistema penale italiano è peraltro confermato dall'art. 27 della Costituzione, che sancisce il principio della personalità della responsabilità penale. Art.27.1: "La responsabilità penale è personale." Tale principio va infatti inteso, come ha stabilito la Corte Costituzionale, oltre che come divieto di responsabilità per fatto altrui, anche come responsabilità per fatto proprio colpevole. La stessa funzione rieducativa della pena, sancita dall'art. 27 3° comma della Costituzione, presuppone l'operatività del principio della colpevolezza, giacché la pretesa rieducativa della pena non avrebbe più alcun senso laddove si assoggettasse a pena un individuo al quale nessun rimprovero, neanche a titolo di colpa, possa essere 45 Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) http://guidaunigiurisprudenza.blogspot.it/ mosso. Si può dunque sostenere che colpevolezza implica rimproverabilità dell'agente per contrarietà o riprovevole indifferenza mostrata verso l'ordinamento giuridico. Art.27.3: "Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato." La Costituzione repubblicana, inoltre, fissa un preciso limite alla nozione di colpevolezza con il principio di presunzione d'innocenza: Art.27.2: "L'imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva." La Repubblica, infine, non ammette la pena capitale, ritenendola in contrasto sia con il principio rieducativo alla base della pena sia con i diritti umani, essi stessi oggetto di tutela costituzionale. Recita, infatti, l'articolo 27 comma 4: Art.27.4: "Non è ammessa la pena di morte." SENTENZA 364/88 Con la sentenza 364/88 la Corte Costituzionale ha identificato il precetto dell'art.27,1°co ,Cost. con il principio di colpevolezza ed ha affermato al riguardo: "la colpevolezza costituzionalmente richiesta non costituisce elemento da poter essere per discrezione del legislatore,condizionato,scambiato,sostituito con altri o paradossalmente eliminato. Ma nella stessa sentenza e per la prima volta la Corte Cost. ha collegato in modo significativo il 1 co dell'art.27 con il 3 co,della stessa disposizione ove si stabilisce che le pene devo tendere alla rieducazione del condannato. Il primo necessario presupposto per la formulazione del rimprovero dev'essere dato dalla tipicità del fatto non solo sotto il profilo oggettivo ma anche sotto il profilo degli elementi subiettivi di esso identifichi con il dolo o colpa. Debbono considerarsi come requisiti costituzionali della responsabilità penale: L'attribuibilità psichica del fatto al suo autore,nella forma del dolo e della colpa per quanto concerne gli elementi più significati della fattispecie l'esistenza degli ulteriori presupposti in base ai quali il fatto doloso o colposo è rimproverabile all'autore medesimo. La costituzionalizzazione del principio di colpevolezza implica il ripudio di tutte le ipotesi della c.d. responsabilità oggettiva,dall'altro l'esigenza del riconoscimento nel singolo autore della possibilità di orientare le proprie scelte secondo le pretese dell'ordinamento come ulteriore inderogabile presupposto del rimprovero di colpevolezza, a questo secondo elemento del giudizio di colpevolezza si lega il dispositivo della sentenza 364/88 recate la dichiarazione di incostituzionalità dell’art.5 c.p. nella parte in cui non esclude dall’inescusabilità dell’ignoranza della legge penale l’ignoranza evitabile. La Corte Cost. precisa che è proprio la possibilità di conoscenza della legge penale a fondare la sicurezza giuridica delle consentite libere scelte d’azione. PRINCIPIO DI COLPEVOLEZZA E RESPONSABILITA’ OGGETTIVA La conseguenza minima del carattere personale della responsabilità penale cosi come definita dalla Corte Cost. sembra essere l’illegittimità cost. delle disposizioni che si configurano come ipotesi di responsabilità oggettiva, basate sul mero rapporto di causalità materiale fra condotta ed evento anche in assenza di un elemento psichico,rilevante per la colpevolezza (dolo colpa preterintenzionale), a livello della legge ordinaria la categoria della responsabilità oggettiva risulta legittimata dall’art.42 c.p. questa norma oltre a menzionare la responsabilità oggettiva nella rubrica ne enuncia l’essenza la dove dopo aver definito la struttura del fatto doloso colposo,preterintenzionale stabilisce: “la legge determina i casi nei quali l’evento è posto altrimenti a carico dell’agente come conseguenza delle sue azioni od omissione”. I punti da esaminare sono tanti ma ciò che interessa stabilire è l’illegittimità della responsabilità oggettiva: la Corte Cost. distingue fra i casi in cui il <il risultato ultimo vietato dal legislatore non è sorretto da alcun coefficiente psichico> , e quello in cui <un solo magari accidentale elemento del fatto a differenza di altri elementi non è coperto dal dolo o colpa dell’agente>. La corte esclude esplicitamente che il 1°comma dell’art.27 Cost. contenga un tassativo divieto di responsabilità oggettiva e la Corte Cost. non ha neanche dichiarato l’illegittimità cost. dell’art.42 c.p. nella parte in cui annovera la responsabilità oggettiva fra i criteri d’imputazione del fatto. 46 Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) http://guidaunigiurisprudenza.blogspot.it/ Successivamente la Corte chiamata a decidere della costituzionalità dell’art.626 c.p. ha dichiarato costituzionalmente illegittima la norma in esame nella parte in cui estende la disciplina del furto d’uso alle ipotesi di mancata restituzione dopo l’uso momentaneo della cosa sottratta quando la mancata restituzione sia dovuta a caso fortuito o a forza maggiore. La restituzione della cosa costituisce elemento essenziale e significativo della fattispecie di furto d’uso ma altrettanto significativo è la mancata restituzione. Il dato obiettivo della mancata restituzione necessita per essere addebitato all’agente investita dal dolo o dalla colpa, l’elemento psicologico del furto d’uso dev’essere ravvisabile in relazione a ciascuno dei 2 momenti della condotta idoneo per generare il rimprovero. Quindi la mancata restituzione se dovuta a caso fortuito o forza maggiore non è addebitabile al soggetto agente. IL PROBLEMA DEL DELITTO PRETERINTENZIONALE L’art.42, 2°comma c.p. elenca fra i criteri dell’imputazione soggettiva anche la preterintenzione mentre il successivo art.43 stabilisce che il delitto è preterintenzionale quando “all’azione od omissione deriva un evento più grave di quello voluto dall’agente”. Ciò interferisce con la problematica della responsabilità oggettiva in quanto una parte della dottrina ravvisa nella preterintenzione un ipotesi di dolo misto e responsabilità oggettiva nel senso che su una condotta dolosa per definizione (quella diretta a cagionare l’evento meno grave) si innesterebbe una responsabilità per l’evento più grave fondata sul mero rapporto di causalità fra condotta ed evento. Il contrasto della figura del delitto preterintenzionale con il principio di colpevolezza sotto il profilo della riferibilità psicologica del fatto all’autore almeno a titolo di colpa viene escluso da parte della dottrina che sia pure con impostazione parzialmente diverse ravvisa nel criterio di imputazione del fatto preterintenzionale l’implicito riferimento a un elemento di colpa nella condotta dell’agente tale da sottrarre il dispositivo dell’art.42 c.p. ad ogni censura di incostituzionalità in rapporto con l’art.27, 1co. Cost. E’ stato notato che il delitto preterintenzionale rivela analogie strutturali con la condotta colposa e ciò che viene incriminato è un’azione realizzata volontariamente da cui deriva un risultato diverso da quello propostosi dall’agente e cmq da lui non voluto. Quando si consideri che assegnare il delitto preterintenzionale all’ambito della responsabilità oggettiva che a quello del fatto colposo significa escludere ogni rilevanza al dato della prevedibilità dell’evento più grave, il ricorso all’interpretazione sistematica permette subito di accorgersi che è più severo trattamento dell’omicidio preterintenzionale rispetto all’ipotesi generale dell’art.83. In realtà il fatto di cagionare un evento antigiuridico non voluto più grave di quello (egualmente antigiuridico) voluto dall’agente non è altro che lo schema atto a delimitare la tipicità del delitto preterintenzionale ma non per questo deve ritenersi eversivo dei criteri generali dell’imputazione soggettiva.Quando si considera il delitto preterintenzionale sotto il profilo dell’imputazione oggettiva non può non trovare un limite nel caso fortuito in quanto ipotesi caratteristica di irrilevanza del rapporto causale, dal punto di vista dell’imputazione soggettiva in tutti i casi di preterintenzione in cui non dovrà escludersi lo stesso rapporto di causalità risulta riconoscibile un elemento di prevedibilità dell’evento più grave di per sé sufficiente a fondare un rimprovero in termini di colpa. Ma riconducendo il delitto preterintenzionale nell’alveo della responsabilità per colpa la figura del delitto preterintenzionale si rivela estranea alla tematica della responsabilità oggettiva. LA RESPONSABILITA’ PER I REATI COMMESSI A MEZZO DELLA STAMPA. L’art. 57 c.p nel testo originario stabiliva che nell’ipotesi di reati commessi a mezzo della stampa periodica il direttore o redattore responsabile della pubblicazione periodica rispondesse per ciò solo del fatto, per la stampa non periodica lo stesso art. stabiliva una sorta di responsabilità sussidiaria dell’editore per il caso in cui fosse ignoto o non imputabile l’autore della pubblicazione e dello stampatore nel caso in cui fosse ignoto o non imputabile anche l’editore. Con una della prime sentenza della Corte Cost. rigetto le censure di incostituzionalità avanzata contro l’art.57c.p. in base al rilievo che il direttore del periodico risponde per fatto proprio per lo meno perché tra la sua omissione e l’evento c’è un nesso di causalità materiale,al quale si accompagna un nesso psichico sufficiente a conferire alla responsabilità il connotato della personalità. In base alla nuova disciplina dell’art 57 c.p e successivo art.57 bis ferma restando la responsabilità dell’autore della pubblicazione e fuori dei casi di concorso nel reato, il direttore o vice-direttore responsabile nel caso di stampa periodica “il quale omette di esercitare sul contenuto del periodico da lui diretto il controllo necessario ad impedire che col mezzo della pubblicazione siano commessi reati,è punito a titolo di colpa,se 47 Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) http://guidaunigiurisprudenza.blogspot.it/ un reato è commesso,con la pena stabilita per tale reato,diminuita in misura non eccedente un terzo”. Nel caso di stampa non periodica le stesse regole si applicano all’editore, se l’autore della pubblicazione è ignoto o non imputabile, ovvero allo stampatore se l’editore non è indicato o non è imputabile. La normativa vigente ha ricevuto 3 diverse interpretazioni: Secondo un primo punto di vista anche l’attuale art 57 c.p. configurerebbe un ipotesi di responsabilità obiettiva cioè una sorta di presunzione di colpa ,ma la tesi non appare sostenibile per l’illegittimità del nuovo art.57 per violazione del principio di colpevolezza. Una seconda tesi interpretativa pur rispettosa del principio di colpevolezza appare discutibile da un punto di vista tecnico-giuridico nella misura in cui riduce il fatto del direttore,editore ecc.. nello schema del concorso di persone nel reato. Da un lato infatti l’art 57 esclude dall’oggetto della speciale disciplina in esso contenuta i casi di concorso nel reato,dall’altro l’ipotesi stessa del concorso colposo in un fatto doloso altrui è controversa nella sua ammissibilità. E’ da condividere l’opinione attualmente dominante in dottrina secondo la quale l’omesso controllo della pubblicazione fuori dei casi di concorso doloso con l’autore configuri una autonoma fattispecie di reato e precisamente una fattispecie di reato colposo commissivo mediante omissione la cui illiceità è imperniata sulla posizione di garante che ai soggetti considerati compete in rapporto ai fatti illeciti che possono essere commessi con il mezzo della pubblicazione. CONDIZIONI OGGETTIVE DI PUNIBILITA’ E PRINCIPIO DI COLPEVOLEZZA L’art.44 c.p. <sotto la rubrica obiettiva di punibilità> stabilisce: “quando per la punibilità del reato, la legge richiede il verificarsi di una condizione,il colpevole risponde del reato ,anche se l’evento da cui dipende il verificarsi della condizione non è da lui voluto”. Come fondamento di questa disposizione fonte di inesauribili controversie in dottrina si adduce al legislatore di subordinare in base a motivazioni di ordine polico-criminale la punibilità di condotte in cui è presente un disvalore giurdico-penale già apprezzato come tale nell’ordinamento al verificarsi di determinate circostanze di fatto dal cui instaurarsi dipende il concreto interesse statuale alla punizione del reo. Nella dottrina tedesca nella presenza di una condizione di punibilità ravvisa una ipotesi di non coincidenza fra la dimensione della c.d. meritevolezza di pena e quella del bisogno di pena nel senso che alla previsione di condizione corrisponderebbe un fatto di per sé ,è meritevole di pena ,ma per la cui punibilità occorre tuttavia che si aggiunga un quid rappresentato appunto dall’evento di condizionante per fondare anche la necessità della pena. Ma essendo problematico individuare in una fattispecie ciò che è essenziale per la meritevolezza da ciò che fonda, invece il bisogno di pena,non resterebbe che rifarsi dal punto di vista del legislatore desunto dagli indici testuali e linguistici che segnalano la previsione di una condizione di punibilità che la ricaverebbe induttivamente dalle stesse figure legali delle condizioni finendo di tornare al punto di partenza vale a dire opzioni politico-criminali del legislatore. Nell’ordinamento italiano è costituito da una previsione normativa con cui il legislatore si riserva in via generale di subordinare la punibilità di un fatto al verificarsi di un evento che per determinazione di legge è svincolato dalla volontà del soggetto. Il vero problema è quello di stabilire se la figura delle condizioni di punibilità sia compatibile con il principio costituzionale di colpevolezza. Questa norma si limita a fissare il regime d’imputazione quando per la punibilità è richiesto l’avverarsi di una condizione,ciò che conta è il suo oggettivo sopravvivere,senza che vi sia bisogno di ricollegarla alla volontà dell’agente. Altri riscontri testuali sembrano indicare che si possa parlare di condizioni di punibilità nel senso dell’art. 44 in quanto il fatto per la cui punibilità è richiesto dalla legge il verificarsi di una condizione presenti per intero i caratteri di un fatto tipico,antigiuridico e colpevole: l’art. 44 non solo qualifica il soggetto agente come colpevole,ma definisce l’efficacia della condizione come relativa a un reato. Quindi sembra che l’art.44 collochi la condizione di punibilità in uno spazio esterno alla struttura dell’illecito penale con l’esclusiva funzione di rendere punibile un reato già completo in tutti i suoi elementi costitutivi compresa la colpevolezza dell’autore. Se cosi fosse la questione dei rapporti fra condizioni di punibilità e principio di colpevolezza sarebbe risolta in partenza,giacché un problema di colpevolezza non si pone,se non con riguardo agli elementi che appartengono alla struttura illecito penale. Ma la distinzione più aggredita è quella fra condizioni estrinseche ed intrinseche di punibilità. Le estrinseche: non presentano alcun nesso funzionale con l’offesa del bene protetto in quanto non aggiunge nulla alla sua lesione 48 Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) http://guidaunigiurisprudenza.blogspot.it/ riflettendo mere valutazioni di opportunità connesse ad un interesse esterno al profilo offensivo del reato, le intrinseche: registrerebbero una forma di progressione o aggravamento dell’offesa già implicita nella commissione del reato e dev’esserci una partecipazione psicologica diversamente a quanto avviene in quelle estrinseche in quando non c’è bisogno della partecipazione psicologica e vengono sottratti dalla regola della rimproverabilità. CAPITOLO III: LA COLPEVOLEZZA NELLA STRUTTURA DEL REATO. Il ruolo della colpevolezza nella costruzione sistematica del reato. Nell’ordine delle valutazioni giuridico-penali, l’accertamento della tipicità e dell’antigiuridicità del fatto precede il giudizio sulla colpevolezza dell’autore. La valutazione della conformità della condotta al tipo di un determinato reato e l’apprezzamento del valore scriminante di una causa di giustificazione o di un’altra ipotesi di esimente,infatti, non soltanto non implica alcun giudizio sulla colpevolezza personale dell’autore, ma è obbligatoriamente sottratta all’influenza di elementi di valutazione, che appartengono ad una fase successiva dell’accertamento giudiziale. Questa gerarchizzazione delle categorie sistematiche del reato è accolta se l’indagine di intendere e di volere dell’agente interferisca con il giudizio di tipicità o di antigiuridicità del reato poiché si correrebbe il rischio di applicare una misura di sicurezza a chi ha commesso un fatto non preveduto dalla legge come reato o lo ha commesso in stato di legittima difesa. L’antecedenza logico.giuridico dell’accertamento della tipicità e dell’antigiuridicità dipende anche da una connotazione strutturale di queste categorie dell’illecito penale. I giudizi di valore che esse sottintendono sono riferibili a qualsiasi autore. Il principio di rilevanza a cui esse si uniformano rimane oggettivo anche quando fra gli elementi che concorrono a costituirla, figurano dati di carattere soggettivo: ad esempio condizioni o qualità personali dell’agente. La dottrina contemporanea del reato aggiunge un ulteriore fondamento alla separazione tra fatto e antigiuridicità, da un lato, colpevolezza dall’altro. Al fatto vanno assegnate tutte le componenti, sia oggettive che soggettive, dell’illecito penale, nel loro valore descrittivo del tipo; con il giudizio sull’antigiuridicità, l’insieme degli elementi che compongono il fatto, vengono apprezzati sotto il punto di vista della loro contrarietà o conformità al diritto obiettivo; l’accertamento della colpevolezza è invece la risposta alla domanda se l’autore del fatto tipico e antigiuridico può anche essere ritenuto personalmente responsabile. I parametri ai quali ancorare il giudizio sulla possibilità di agire vengono generalmente riferiti: imputabilità del soggetto; coscienza del carattere antigiuridico del fatto; inesistenza di peculiari circostanze, incidenti sui processi motivazionali dell’autore, con l’effetto di annullare le sue possibilità di scelta. Elemento psicologico del reato e colpevolezza. L’esistenza di un nesso psichico tra l’autore e il suo fatto costituisce una premessa essenziale del giudizio di colpevolezza. Parlare di dolo e della colpa come forme della colpevolezza non significa identificare la colpevolezza con l’elemento psicologico del reato. Nella concezione normativa della colpevolezza, dolo e colpa non appartengono al contenuto della colpevolezza ma si configurano come il suo oggetto, in quanto forme della volontà contraria all’obbligo. Il valore sistematico della concezione normativa della colpevolezza si può cogliere solo quando lo svuotamento della colpevolezza viene posto in relazione con la restituzione dell’elemento psicologico del reato alla dimensione della tipicità. All’interno del fatto, dolo e colpa assumono un ruolo costitutivo della conformità al tipo, in cui si esaurisce senza residui il loro valore empirico – descrittivo; rispetto alla colpevolezza, dolo e colpa svolgono invece la funzione di delimitare l’oggetto del rimprovero: questo, infatti, può dirigersi solo nei confronti di chi ha realizzato dolosamente o colposamente un fatto penalmente illecito. L’accertamento del dolo o della colpa dell’autore costituisce una condizione imprescindibile della sua rimproverabilità, ma dolo e colpa non costituiscono il criterio del rimprovero, bensì soltanto un suo necessario presupposto. La sussistenza del dolo deve essere accertata in sede di fatto tipico; l’eventuale esclusione della responsabilità dell’autore potrà dipendere solo dall’assenza di altri requisiti della colpevolezza: imputabilità, possibilità di conoscere la norma violate, ecc. Diversamente stanno le cose per ciò che riguarda i fatti colposi. L’apprezzamento della misura soggettiva della colpa costituisce un tipico problema di colpevolezza. Non si tratta, infatti, di accertare e descrivere il carattere oggettivamente imprudente, negligente ecc., di una determinata condotta ,a di stabilire se era possibile pretendere l’osservanza dell’obbligo di diligenza, da quel determinato autore. 49 Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) http://guidaunigiurisprudenza.blogspot.it/ L’affermazione di una responsabilità colposa richiede una vera e propria doppia valutazione della colpa: una volta, a livello del fatto tipico; una seconda volta, secondo un parametro di giudizio relativo alla misura di diligenza che può essere richiesta al singolo autore. L’imputabilità come presupposto della colpevolezza. Le cause di esclusione dell’imputabilità. Nozione di imputabilità. La disposizione dell’art. 85 ha come presupposto un contenuto precettivo, che consiste nell’assumere l’imputabilità come presupposto della punibilità; e un contenuto definitorio, che mette capo alla identificazione della imputabilità con la capacità di intendere e di volere dell’autore. La capacità di intendere corrisponde alla capacità del soggetto di percepire la realtà esterna e di rapportarsi ad essa; la capacità di volere corrisponde, invece, alla capacità di controllare i propri impulsi e di orientare le proprie determinazioni di volontà alla stregua del significato e della portata del proprio agire nel mondo esterno. Per la sussistenza dell’imputabilità si richiede il possesso, da parte dell’agente, di entrambe le capacità distintamente menzionate dall’art. 85. Sinteticamente, l’imputabilità può definirsi come la capacità del soggetto di autodeterminarsi secondo valori di cui sono portatrici le norme giuridiche. La regola dell’ordinamento che assume l’imputabilità come presupposto della colpevolezza ha dunque un ovvio fondamento teorico nell’idea che la personale rimproverabilità ha un senso, solo se riferita ad un autore che possedeva la capacità di orientare diversamente il proprio agire e di essere motivato dalle norme giuridiche. Ma il significato di questa regola si coglie con precisione quando si fa riferimento alle funzioni della pena. La minaccia della sanzione penale non svolge un ruolo general-preventivo se non a patto che i destinatari siano in grado di essere motivati da tale minaccia. L’imputabilità costituisce il classico punto di biforcazione del sistema penale “ a doppio binario”. L’affermazione dell’imputabilità costituisce una premessa essenziale per l’affermazione della colpevolezza e, quindi, per l’applicazione della pena; mentre l’esclusione dell’imputabilità lascia aperta la strada solo all’eventuale applicazione di misure di sicurezza, quando siano presenti esigenze di tutela dei beni giuridici, a cagione della pericolosità dell’autore. Negli art. 87 ss. c.p. la nozione legislativa di imputabilità viene definita, sia attraverso regole che ne precisano il contenuto, sia per mezzo di altre disposizioni che ne limitano la portata. Imputabilità e dolo. Nella nostra dottrina gli art. 222 e 224 c.p., ipotizzano le differenze di trattamento del non imputabile, a seconda del carattere doloso o colposo del fatto da lui commesso, sembrano presupporre nel non imputabile la capacità di dolo. La tesi opposta partiva, invece, dall’assunto che una condotta qualificabile come dolosa o colposa non può che essere espressione di conoscenza e volizione che presupporrebbero uno stato di maturità e normalità psichica, assenti per definizione nel non imputabile. Quanto alle condotte colpose, l’apprezzamento della colpa secondo la sua misura soggettiva, poiché non è altro se non un giudizio sull’esigibilità della condotta rispettosa della diligenza, da quel determinato autore, in quelle determinate circostanze storiche, non può che condurre direttamente alla esclusione della colpevolezza, quando manchi l’imputabilità dell’autore e la possibilità di pretendere da lui l’osservanza della norma. Quanto alle condotte dolose, pur essendo accettata in dottrina l’idea che anche il non imputabile possa essere capace di dolo, è però persistente l’idea di una differenza ontologica fra il dolo degli imputabili e quello dei non imputabili. Ne consegue, a titolo esemplificativo, che può esserci fatto tipico doloso, ma non colpevolezza: un pazzo che volontariamente uccide, commette il fatto tipico dell’omicidio (art. 575 c.p.), con dolo (avendo voluto l’evento); ma in quanto mancante di capacità di intendere e volere (imputabilità), non è rimproverabile e quindi manca il requisito della «colpevolezza» necessario per integrare il reato. Le singole cause di esclusione dell’imputabilità. Il vigente codice penale considera come cause di esclusione dell’imputabilità: Età minore: a norma dell’art. 79 c.p. è esclusa, per presunzione assoluta di legge, la capacità di responsabilità penale dei minori infraquattordicenni ( sussiste la possibilità di applicare misure di sicurezza, se ne ricorrono le condizioni). Rispetto ai minori fra i 14 e 18 anni, l’imputabilità deve 50 Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) http://guidaunigiurisprudenza.blogspot.it/ essere accertata caso per caso dal giudice, sulla base dei fattori fisico-psichici e ambientali, che possono aver condizionato il processo di maturazione psicofisica del soggetto. Al minore infraquattordicenne può essere riconosciuta l’imputabilità rispetto ad alcuni reati il cui disvalore etico-sociale sia facilmente percepibile, come l’omicidio o il furto. Vizio totale di mente: l’art. 88 c.p. stabilisce: “ non è imputabile chi, nel momento in cui ha commessoli fatto, era, per infermità, in tale stato di mente da escludere la capacità di intendere o di volere”. Dall’art. 88 c.p. si desume che qualsiasi infermità può assumere rilievo per escludere l’imputabilità, purchè abbia avuto l’effetto di escludere la capacità di intendere o di volere. Per converso, anche una conclamata malattia mentale può determinare l’inimputabilità del soggetto, se non ne ha compromesso in concreto la capacità di intendere o di volere. È stato discusso se il concetto di infermità rilevante per l’art. 88 debba rifarsi a un modello medico oppure si estenda anche a disturbi psichici atipici; la dottrina penalistica ritiene superato il modello medicoorganicistico nella definizione di vizio di mente. Coerentemente con la funzione di presupposto che l’imputabilità è chiamata a svolgere nel giudizio di colpevolezza, si ritiene infatti che la capacità di intendere e di volere possa essere esclusa, nel caso concreto, anche dalla presenza di disturbi della personalità, che tuttavia non siano classificabili come malattie mentali alla stregua del paradigma medico di infermità. Per quanto riguarda gli orientamenti applicativi, un intervento delle Sezioni Unite ha impresso una decisa svolta in direzione dell’accoglimento di una nozione più aperta di infermità rilevante ex art. 88: con la citata sentenza si è affermata l’idoneità dei disturbi della personalità ad integrare un vizio di mente tale da escludere la capacità di intendere e di volere, a condizione che siano di consistenza, intensità, rilevanza e gravità tali da incidere concretamente sulla stessa, mentre è stata esclusa la rilevanza delle altre anomalie caratteriali. Infine, hanno specificato che deve sussistere un nesso eziologico tra disturbo mentale e reato commesso, tale da poter fare ritenere che lo specifico fatto di reato trovi, in effetti, la sua genesi e sua motivazione nel disturbo mentale. L’art. 89 c.p. prende in considerazione l’ipotesi in cui la capacità di intendere o di volere, a causa dell’infermità, sia non esclusa, ma grandemente scemata. In questo caso, la responsabilità penale sussiste, ma la pena è diminuita, salva la possibilità di assoggettare il colpevole anche a una misura di sicurezza. Il sordomutismo: l’art. 96 c.p. indica quale causa di esclusione dell’imputabilità il sordomutismo, se il sordomuto, nel momento in cui ha commesso il fatto non aveva, per causa della sua infermità, la capacità di intendere o di volere. Per quanto la legge non operi alcuna distinzione, parte della dottrina ritiene che l’art. 96 si riferisca non a tutte le categorie di sordomuti, ma solo a quelle inquadrabili nella patologia del sordomutismo congenito o precoce, che ostacolerebbe lo sviluppo psichico del soggetto, mentre non potrebbe riferirsi al sordomutismo acquisito dopo la fase dell’apprendimento socioculturale. Cronica intossicazione da alcol o da sostanze stupefacenti: l’art. 95 c.p. stabilisce, infatti, che ai fatti commessi in stato di cronica intossicazione prodotta da alcol ovvero da sostanze stupefacenti si applicano le disposizioni contenute negli art. 88 e 89. ciò vuol dire che, rispetto a questi casi, l’imputabilità è esclusa, quando lo stato di degrado psicofisico prodotto dalla intossicazione ha determinato una condizione, in cui il soggetto non può in alcun modo determinare le proprie scelte ed è da considerarsi come vero e proprio infermo di mente. Ubriachezza accidentale: lo stato di ebbrezza alcolica. Che assuma il carattere dell’ubriachezza piena, e l’equivalente condizione dovuta all’azione di sostanze stupefacenti escludono l’imputabilità, quando siano derivate da caso fortuito o da forza maggiore; come nel caso dell’operaio di una distilleria, reso ebbro dai vapori inalati a causa di un accidentale guasto all’impianto di depurazione. L’ubriachezza non derivante da caso fortuito o da forza maggiore, invece, non esclude né diminuisce l’imputabilità. La disciplina dell’ubriachezza nel codice penale vigente e l’actio libera in causa. Al di fuori dei casi di ubriachezza accidentale, il codice penale vigente non considera l’ubriachezza rilevante per l’esclusione dell’imputabilità. 51 Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) http://guidaunigiurisprudenza.blogspot.it/ L'ubriachezza può essere definita come una alterazione temporanea e reversibile dei processi cognitivi e volitivi di un soggetto in seguito alla ingestione di sostanze alcoliche. Il codice penale, in relazione all'imputabilità, distingue: L'ubriachezza accidentale o fortuita: è definita in tal modo l'ubriachezza che deriva da caso fortuito o forza maggiore. Si pensi ad esempio all'individuo che lavora in una distilleria di alcool e che si ubriachi in seguito a una fuoriuscita accidentale di gas etilico. Se l'ubriachezza è tale da escludere la capacità di intendere e di volere il soggetto non è punibile; se invece non esclude, ma scema grandemente la capacità di intendere e di volere la pena viene applicata, ma in misura ridotta. L'ubriachezza volontaria o colposa L'ubriachezza preordinata si ha nell'ipotesi in cui un soggetto si ponga volontariamente in stato di incapacità di intendere o di volere al fine di commettere un reato o al fine di procurarsi una scusa: in tal caso la imputabilità non è esclusa e la pena è aggravata. Si tratta di una ipotesi specifica di actio libera in causa; L'ubriachezza abituale si ha in riferimento ad un soggetto che sia dedito al consumo di sostanze alcoliche e che sia di frequente in stato di ubriachezza. In tal caso la ubriachezza non esclude l'ìimputabilità e la pena è aggravata; La cronica intossicazione da alcool si ha, secondo la giurisprudenza della Suprema Corte, qualora l'intossicazione sia, per il suo carattere ineliminabile tale da comportare una malattia psichica di carattere patologico. Si applica in tale caso la medesima disciplina prevista per il vizio di mente in quanto colui che compie l'azione a causa della cronica intossicazione da alcool o da sostanze stupefacenti non riacquista in nessun frangente la capacità di intendere e volere contrariamente a chi è in stato di ubriachezza abituale. La disciplina dell'ubriachezza è equipollente all'imputabilità derivante dall'assunzione di sostanze stupefacenti. La locuzione latina actio libera in causa indica il fenomeno che si verifica allorquando taluno si pone in stato di incoscienza al fine di commettere un reato o di procurarsi una scusante. In tal caso viene applicata la pena sebbene chi abbia commesso il fatto era in stato di incapacità di intendere e di volere al momento del compimento della condotta. Nel diritto italiano la teoria è stata accolta nell'art. 87 del codice penale ai sensi del quale: «la disposizione della prima parte dell'art. 85 non si applica a colui che si è messo in stato di incapacità di intendere e di volere al fine di commettere il reato o di prepararsi una scusa». In pratica i requisiti del dolo e della colpa vengono valutati non al momento in cui il soggetto compie l'azione, ma in un momento precedente, ossia quando il soggetto si pone in stato di incapacità. La ratio della teoria delle actiones liberae in causa sta allora nel principio causa causae est causa causati: chi determina volontariamente una situazione dalla quale deriva un evento lesivo, è chiamato a rispondere dell'evento stesso, a prescindere dalla eventuale volontarietà dell'evento. Stati emotivi e passionali. L’art. 90 c.p. stabilisce: “ gli stati emotivi e passionali non escludono né diminuiscono l’imputabilità”. Il significato della disposizione viene identificato con una sorta di appelli normativo ad esercitare sulle proprie spinte di carattere emozionale un controllo diretto ad inibire impulsi antisociali. Nella prassi, l’incidenza della norma è modesta; la dottrina ne auspica l’abrogazione: essa potrebbe infatti costituire un ostacolo al riconoscimento degli stati transitori di mancanza dell’imputabilità, relative ad ipotesi in cui una condizione emotiva ( ad esempio, panico) in relazione alla personalità del soggetto e alla sua intensità, può assumere le caratteristiche e la valenza di una vera e propria infermità, ricadente nell’ambito dell’art. 88 c.p.. Le altre cause di esclusione della colpevolezza Dal punto di vista del senso comune è indebito rimproverare a taluno l'inosservanza di una regola di comportamento che il soggetto inosservante non conosceva affatto. Ma negli ordinamenti giuridici contemporanei c’è un principio secondo il quale nessuno può addurre come scusa per la violazione di una norma penale l’ignoranza o l’errore di essa. Infatti l’art.5 del c.p. stabilisce che “Nessuno può invocare a propria scusa l’ignoranza della legge penale” questa regola ha un fondamento politico nell’esigenza di non 52 Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) http://guidaunigiurisprudenza.blogspot.it/ compromettere l’efficacia delle norme penali col subordinarne l’applicazione alla loro conoscenza da parte dei destinatari. Nella materia contravvenzionale di fronte ai casi di errore inevitabile la giurisprudenza della Cassazione aveva elaborato il punto di vista c.d. della “buona fede” che permetteva di riconoscere una rilevanza scusante a determinate situazioni: in particolare quando l’erronea opinione di liceità del fatto fosse stata indotta nell’agente da un provvedimento o parere dell’autorità amministrativa da una precedente pronuncia assolutoria,infine dalla persistente tolleranza manifestata dall’autorità competente a intervenire; ma la c.d. buona fede non implicava nessun caso un problema di elemento psicologico e non si sarebbe cmq sottrarre dalla regola di inescusabilità posta dall’art.5 c.p. Ma con la sentenza 364/88 il trattamento dell’errore e dell’ignoranza inevitabile della legge penale,ha ricevuto anche nel nostro ordinamento un assetto che si può considerare compatibile col principio di colpevolezza. I limiti del principio di inescusabilita’ dell’ignoranza legis dopo la sentenza cost. N. 364/88 La tipicità (oggettiva e soggettiva)del fatto costituisce il primo presupposto della punibilità ed è distinta dalla valutazione e rimproverabilità del fatto stesso. L’esigenza costituzionale di riscontrare la possibilità di conoscenza della norma violata si deduce a giudizio della Corte dal collegamento tra il 1°e il 3° comma dell’art.27 Cost. vale a dire dal riferimento alle funzioni rieducative della pena. Dal collegamento tra il 1 e 3 comma prosegue infatti la Corte, risulta insieme con la necessaria rimproverabilità della personale violazione normativa,l’illegittimità costituzionale della punizione di fatti che non risultino essere espressione di consapevolezza,rimproverabile contrasto con i valori della convivenza,espresse dalle norme penali. Ma la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art.5 c.p. nella parte in cui non esclude dall’inescusabilità dell’ignoranza della legge penale l’ignoranza inevitabile precisando in motivazione con il nuovo testo dell’art. 5 derivante dalla dichiarazione di parziale incostituzionalità deve intendersi cosi formulato: l’ignoranza della legge penale non scusa tranne che si tratti d’ignoranza inevitabile. La Corte ha sottolineato che la inevitabilità dell’ignoranza e dell’errore non può farsi discendere da criteri soggettivi puri cioè fondati su criteri di tipo oggettivo o misto. Per i criteri oggettivi la Corte ha indicato i casi dell’assoluta oscurità del precetto o di un gravemente caotico atteggiamento interpretativo degli organi giudiziari che mettono capo ad una sorta di oggettiva mancanza di riconoscibilità del dato normativo quali ipotesi riconducibili a criteri di tipo misto, la Corte ha indicato i casi in cui l’inevitabilità dell’errore sia derivato da particolari circostanze positive di fatto,in cui si è formata l’opinione dell’autore. Ma la Corte ha precisato che il fondamento della scusa per l’inevitabile ignoranza della legge penale vale soprattutto per chi versa in condizioni soggettive d’infermità. L’erronea supposizione di una esimente L’ART.59 ult.comma c.p. stabilisce: “se l’agente ritiene per errore che esistano circostanze di esclusione della pena queste sono sempre valutate a favore di lui. Ma se si tratta di errore determinato da colpa la punibilità non è esclusa quando il fatto è preveduto dalla legge come delitto colposo. E’pacifico che l’errore contemplato dall’art.59 non riguarda i casi in cui l’agente supponga come esistente una circostanza di esclusione della pena,che in realtà non è affatto prevista dalla legge ovvero attribuisca ad una esimente effettivamente prevista,limiti di applicabilità diversi o più ampi. In entrambe queste ipotesi l’errore sull’esimente configura un errore sul divieto che non scusa e non ricade nell’ambito dell’applicazione dell’art.59. Questa norma in realtà si riferisce alle ipotesi in cui il soggetto suppone l’esistenza di presupposti di fatto di una esimente si rappresenta cioè: per errore,una situazione di fatto tale che se effettivamente sussistente renderebbe il fatto da lui commesso inquadrabile in una ipotesi esimente. ESEMPIO: Caio per salvarsi dal pericolo di un incendio danneggia gravemente l’altrui proprietà ad esempio,sollevando un infisso mentre esisteva una diversa e agevole via di scampo. In questi casi si parla d legittima difesa putativa,di consenso putativo,di stato di necessità putativo e cosi via. Ma la rilevanza dell’errore non è limitata ai casi di errore sulle cause di giustificazione,essa si estende anche alle altre ipotesi di esimenti il cui ambito è definito dalla regola di rilevanza dell’errore,dovrà ritenersi non punibile ex art.59 ult.co anche chi abbia commesso un furto ai danni del padre putativo o abbia reso falsa testimonianza per salvare da un grave pregiudizio colui che ha sempre ritenuto fosse suo fratello,ignorando che tratta vasi invece di un trovatello accolto fin dall’infanzia nella casa dei propri genitori,in queste ipotesi dev’essere esclusa la colpevolezza dell’agente. Non può essere condivisa l’opinione secondo cui l’errore sulle esimenti esclude il dolo dell’agente,fra l’altro questo punto di vista se è coerente con una struttura bipartita del concetto di reato esclude l’autonoma rilevanza dell’antigiuridicità come suo elemento 53 Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) http://guidaunigiurisprudenza.blogspot.it/ costitutivo risulta a dir poco sorprendente nel quadro di una sistematica del reato a 3 elementi. -Appare in contraddizione con la preliminare delimitazione dell’oggetto del dolo(che non include la coscienza dell’antigiuridicità) e con la definizione dei confini del fatto tipico. In realtà chi agisce nell’erronea supposizione che esistano i presupposti di fatto di una esimente,prevede e vuole gli elementi oggettivi del fatto tipico cosi come sono individuati nella concezione tripartita del reato poiché si rappresenta compiutamente condotta,rapporto di causalità ed evento e vuole la lesione di beni che con il suo fatto realizza,ciò che egli erroneamente suppone è che il fatto tipico sia permesso che cioè il divieto non si applichi in virtù delle circostanza che egli crede esistenti(danneggiare l’infisso). Nell’ipotesi dell’art.47 l’agente non sa quello che fa invece nell’ipotesi dell’art.59 egli sa benissimo cosa sta facendo ma crede che gli sia permesso farlo. Non è dunque il dolo ad essere escluso lo è però la colpevolezza del SG il cui atteggiamento è analogo a quello di chi versa in errore sulla legge penale. L’identità di trattamento non può cancellare le differenze di struttura fra errore sul fatto ed errore sull’antigiuridicità del fatto, nell’errore sul fatto ciò che si punisce è n vero e proprio reato colposo: la condotta cioè di chi realizza attraverso una violazione della diligenza oggettiva un evento lesivo che non ha preveduto ne voluto. Nell’erronea supposizione di un’ esimente l’eventuale punibilità concerne sempre un fatto volontario e l’oggetto del giudizio di colpevolezza è costituito dal processo motivazionale che ha prodotto il dolo del fatto: a cui si riferisce appunto l’apprezzamento dell’eventuale violazione della diligenza oggettiva. Quando l’errore sull’antigiuridicità appare scusabile il dolo dell’agente risulta irrilevante per la colpevolezza,ma anche quando l’errore sia inescusabile sarebbe egualmente ingiustificato con un rimprovero di colpevolezza a titolo di dolo,la colpevolezza dell’agente non si radica nella volontà di azione che si è costituita e conformata sulla base dell’errore,bensì sulla violazione della diligenza oggettiva da cui è scaturito l’errore. L’ordine illegittimo vincolante L’art.51 c.p. stabilisce che se un fatto costituente reato è commesso per ordine dell’Autorità di esso rispondono sia il pubblico ufficiale che ha impartito l’ordine dia chi lo ha eseguito salvo che per errore di fatto abbia ritenuto di obbedire a un ordine legittimo. Il 4° comma dello stesso articolo stabilisce: non è punibile chi esegue l’ordine illegittimo quando la legge non gli consente alcun sindacato sulla legittimità dell’ordine. Quando si leggono congiuntamente il 3°e il 4° comma dell’art.51 si desume che l’applicazione della disposizione di cui al 4°co. Presuppone nell’esecutore la percezione di carattere illegittimo dell’ordine, se infatti egli ritiene di obbedire a un ordine legittimo a suo favore si applicherà non il 4° ma il 3° co. che d’altra parte non è se non una ipotesi particolare di erronea supposizione dei presupposti di una causa di giustificazione la cui rilevanza si ricaverebbe cmq dall’art.59 ult.comma. Al di fuori dei casi di errore si dovrebbe parlare di ordine criminoso trattandosi di compiere un fatto costituente reato,può restare escluso quando si tratta di un ordine insindacabile quando cioè la legge non consente all’esecutore né di discutere né di disattendere l’ordine ricevuto. Ordine di tal fatta si rinvengono solo nell’ambito di rapporti di subordinazione gerarchica la cui natura esiga la più stretta e pronta obbedienza dell’inferiore. Ma è in ogni caso sindacabile la legittimità c.d. esterna (o formale) dell’ordine,il subordinato ha sempre la possibilità di disattendere l’ordine in mancanza dei requisiti di validità dello stesso, che attengono alle competenze di chi lo ha impartito e a quella di chi dovrebbe eseguirlo,nonché alla forma prescritta per quel determinato ordine, ESEMPIO l’ufficiale di polizia giudiziaria non può eseguire un ordine di custodia cautelare se non in base ad atti che siano redatti in un certo modo,forma scritta sottoscrizione del magistrato ecc e provenienti da chi ha la competenza ad esaminarli. Sono invece insindacabili nell’ambito di rapporti di subordinazione gerarchica di tipo militare i profili di legittimità dell’ordine che siano di natura sostanziale che attengono cioè al merito dell’ordine. Il secondo limite che generalmente si oppone all’insindacabilità dell’ordine è costituito dalla sua manifesta criminosità,che ricorrerebbe ad esempio nel caso di un ufficiale di polizia che ordini ai militari da lui dipendenti di sparare un gruppo di passanti inermi. Al carattere manifestamente criminoso dell’ordine faceva riferimento l’abrogato art.40 c.p. che prevedeva: “se un fatto costituente reato è commesso per ordine del superiore o di altra Autorità del reato risponde sempre chi ha dato l’ordine. Il vigente art 25,2°comma del d.p.r 545/86 stabilisce che il militare al quale viene impartito un ordine manifestamente rivolto contro le istituzioni dello Stato o la cui esecuzione costituisce cmq manifestamente reato,ha il dovere di non eseguire l’ordine e di informare i superiori. Da queste norme si desume che solo nelle ipotesi in cui la criminosità dell’ordine non sia manifesta,l’inferiore può invocarne a propria scusa l’insindacabilità. 54 Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) http://guidaunigiurisprudenza.blogspot.it/ PARTE QUARTA LE FORME DI MANIFESTAZIONE DEL REATO Il reato può avere diverse forme di manifestazione: può essere incompiuto o perché non si è realizzata la lesione di beni a cui la condotta era diretta (Tizio spara a Caio ma sbaglia la mira), o perché la stessa condotta esecutiva del reato non è portata a compimento(Tizio si introduce in un appartamento per rubare ma viene sorpreso e messo in fuga dal proprietario mentre fruga nei cassetti prima ancora di essersi impossessato di alcunché). Un reato può essere il frutto di più persone le cui energie e volontà convergono verso la produzione di un evento di lesione di beni giuridici ( Tizio fornisce a Caio una chiave che gli consente di introdursi in una casa per rubare,quindi rafforza il suo proposito criminoso assicurandogli che provvederà a piazzare la refurtiva) ciò corrisponde alla figura del Tentativo e del reato plurisoggettivo, si tratta di ipotesi normative di estensione della tipicità oggettiva e per quanto attiene al tentativo ed in mancanza dell’evento si dovrebbe escludere la rilevanza della condotta come fatto tipico. Dunque la punibilità di un reato semplicemente tentato può essere assicurata solo dalla presenza di un’apposita disposizione (art.56c.p) che ha appunto la funzione di estendere anche a quelle ipotesi la tipicità oggettiva. Le cose sono diverse per il c.d. reato circostanziato in quanto il fatto tipico del reato è presente nel suo nucleo essenziale e appare arricchito da modalità particolari della sua esecuzione o da speciali circostanze di fatto che la legge considera ai fini di una maggiore o minore gravità del reato con conseguente incidenza sulla misura della pena applicabile. A seconda che la gravità del reato risulti accresciuta o diminuita per effetto di una particolare circostanza ci si ritrova di fronte a circostanza aggravanti e attenuanti. SEZIONE PRIMA: IL REATO CIRCOSTANZIATO CAPITOLO PRIMO: CIRCOSTANZE E STRUTTURA DEL REATO Fatto tipico e circostanze. Significato e limiti della distinzione fra elementi essenziali ed elementi accidentali del reato. La nozione di circostanza del reato può essere compresa solo in rapporto ad una fattispecie non circostanziata (c.d.reato semplice) che costituisce il punto di riferimento per l’individuazione della circostanza la cui presenza determina l’effetto di un aumento o di una diminuzione della c.d. pena-base. ES. l’uccisione di un uomo comunque realizzata è sufficiente a costituire il delitto di omicidio nella sua forma semplice, ma se l’omicidio è stato commesso contro l’ascendente o il discendente ovvero col mezzo di sostanze venefiche saremo di fronte ad un omicidio aggravante, viceversa si parlerà di omicidio attenuate quando sia stato commesso a seguito di una grave provocazione. Ma non sempre è agevole come in questi casi capire quando si è di fronte ad un reato circostanziato, la questione riveste notevole importanza sul piano applicativo sia perché il regime di imputazione soggettiva delle circostanze che aggravano o attenuano la pena è diverso da quello che concerne gli elementi costitutivi del reato, e sia per il peculiare regime applicativo che contrassegna l’ipotesi di concorso fra circostanze aggravanti e attenuanti. Ponendosi da un punto di vista pre-legislativo la differenza di ratio che passa tra la configurazione di una circostanza,aggravante o attenuante e la previsione di una autonoma ipotesi di reato è quanto mai chiara, col delineare una nuova fattispecie incriminatrice il legislatore provvede a colmare una reale o supposta lacuna della protezione penalistica apprestando in forma adeguata la tutela di un determinato bene giuridico contro una specifica forma di aggressione mediante la previsione di una circostanza aggravante o attenuante il legislatore mira ad adeguare la pena applicabile al maggiore o minore disvalore del fatto tipico,che si ritiene consegua a una particolare modalità esecutiva del fatto o più in generale alla presenza di determinate circostanze del suo realizzarsi. I criteri di individuazione delle circostanze. Le previsioni delle circostanze aggravanti o attenuanti non sono di grande aiuto per individuare se si è di fronte ad elementi costitutivi di una autonoma fattispecie di reato. Il problema non si pone per le circostanza c.d. estrinseche: quelle cioè che non attengono alla condotta o ad altri elementi costitutivi del fatto tipico,risultando cosi estranee alla struttura del reato ad esempio perché consistono in fatti successivi alla sua esecuzione o consumazione. Al di fuori di questa ipotesi non è facile individuare con sicurezza una circostanza come tale e si distingue: tra elementi essenziali del reato (condotta materiale,elemento 55 Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) http://guidaunigiurisprudenza.blogspot.it/ psicologico,evento ecc…) che sono indispensabili per la realizzazione del tipo di reato, ed elementi accidentali che sarebbero le circostanze. La qualificazione delle circostanza come elementi accidentali del reato non ci fornisce un criterio di orientamento atto ad individuare i caratteri specifici delle circostanze, la loro connotazione come accidentali delicti ha un senso solo in quanto sia riferita alla struttura del reato nella sua forma semplice giacché le circostanze si presentano di volta in volta come elementi essenziali a costituire la fattispecie del reato circostanziato. La dottrina specifica che le circostanze si presentano come elementi specializzanti di corrispondenti elementi essenziali alla fattispecie semplice e tale connotazione fornice un punto di orientamento idoneo ad escludere dal novero delle circostanze le ipotesi in cui si sia di fronte a un elemento che anziché specificare sostituisce o si aggiunge al corrispondente elemento della fattispecie semplice presentandosi come un dato alternativo. Ma se il carattere di elemento specializzante se è condizione necessaria a fondare la fattispecie circostanziata, non è sufficiente a distinguerle dalle ipotesi in cui l’elemento specializzante dà vita a una fattispecie di reato a sé stante. La dottrina dominante ritiene che l’individuazione delle circostanze aggravanti o attenuanti resti affidata a criteri estrinseco-formali. Le circostanze cc.dd. Indefinite o discrezionali Nel codice penale vigente la circostanza di fatti a cui la legge collega come conseguenza un aumento o una diminuzione della pena edittale è caratterizzata di regola da un contrassegno di tipicità. Il dato che differenzia la fattispecie circostanziata dalla fattispecie semplice è descritto dalla norma in modo più o meno puntuale così da essere agevolmente riconoscibile in concreto sia che si tratti di una speciale modalità esecutiva de reato,sia che si tratti di un altro elemento che valga a qualificare in modo particolare l’autore,il soggetto passivo l’evento ecc… Vi sono ipotesi in cui la circostanza da cui dipende l’effetto di aumento e diminuzione della pena non appare definita dalla norma che lo preveda, tanto da porre in crisi la stessa connotazione generale delle circostanze come elementi specializzanti del reato-base. Cosi nelle circostanze c.d. indefinite quando ad esempio la legge si limita a stabilire che la pena sia aumentata,nei casi più gravi o diminuita nei casi di lieve entità. Ciò che viene in questione non è soltanto un minor grado di definizione dell’elemento circostanziale si deve anche prendere atto dell’aumento e diminuzione della pena che il giudice in ordine all’entità del contenuto di offesa che contrassegna il fatto in concreto, sia sotto il profilo del disvalore di azione che sotto quello del disvalore di evento. CAPITOLO SECONDO: I DIVERSI TIPI DI CIRCOSTANZE ED IL LORO REGIME GIURIDICO Classificazione delle circostanze. Oltre al diverso livello di predeterminazione normativa del loro contenuto che permette di distinguere le circostanze tipiche e indefinite o discrezionali distinguiamo le circostanze Aggravanti e attenuanti a seconda della loro applicazione consegua un aggravamento o una attenuazione della pena, nella maggior parte dei casi si tratta di un aumento o diminuzione quantitativa della pena che opera secondo un criterio di proporzionalità rispetto alla pena-base (aumento o diminuzione di pena fino ad un terzo alla metà ecc.. della pena prevista per il reato semplice),e sono meno frequenti le ipotesi in cui l’effetto di aggravamento o attenuazione che consegue all’applicazione della circostanza consiste in una modificazione qualitativa della pena (dalla reclusione all’ergastolo della pena detentiva e quella pecuniaria) e ci sono casi in cui la pena per il reato circostanziato è prevista in aumento o in diminuzione in modo indipendente dalla pena-base. Si definiscono circostanze a effetto proporzionale quelle circostanze aggravanti o attenuanti in presenza delle quali l’aumento o la diminuzione della pena si esplicano secondo un rapporto predeterminato di proporzione rispetto alla pena-base (esempio: la pena è aumentata fino a un terzo,fino al triplo,fino alla metà). Si definiscono Autonome le circostanze in presenza delle quali la legge stabilisce una pena di specie diversa ovvero determina per il reato circostanziato una diversa cornice edittale indipendente da quella prevista per il reato-base e non parametrata su un determinato rapporto proporzionale con essa. Si distingue inoltre tra circostanze a effetto comune e speciale a seconda che ad esse consegua un aumento o diminuzione della pena in misura superiore a un terzo della pena prevista per il reato non circostanziato , le circostanze autonome e le circostanze ad effetto speciale sono accomunate da un particolare regime giuridico nelle ipotesi di concorso omogeneo di circostanze. Da notare che a norma degli artt. 64 e 65 n 3, c.p. quando la legge non determina altrimenti la misura dell’aumento o della diminuzione di pena 56 Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) http://guidaunigiurisprudenza.blogspot.it/ conseguente all’applicazione di una circostanza aggravante o attenuante la pena si intende rispettivamente aumentata o diminuita fino a un terzo. Le circostanze di reato si distinguono in comuni e speciali: Comuni: (si applicano a tutti i reati) le circostanze aggravanti o attenuanti previste dalla parte generale del codice (artt.61,62,112,114) in quanto potenzialmente applicabili a qualsiasi reato o comunque ad una serie di reati non preventivamente determinati o determinabili. Speciali:(si applica solo a un determinato reato) le circostanze previste dalla legge con esclusivo riferimento a singoli reati o determinati gruppi di reati. -A norma dell’art. 70 c.p. le circostanze devono essere distinte in oggettive e soggettive. Sono Oggettive: (che riguardano il fatto) le circostanze che concernono la natura, la specie, i mezzi,l’oggetto,il tempo,il luogo e ogni altra modalità dell’azione la gravità del danno o del pericolo,ovvero le condizioni o le qualità personali dell’offeso. Sono Soggettive(che riguardano il reo o l’intensità dell’elemento soggettivo): le circostanze che concernono la intensità del dolo o il grado della colpa,o le condizioni e le qualità personali del colpevole o i rapporti fra il colpevole e l’offeso, ovvero che sono inerenti alla persona del colpevole. Il 2°comma dell’art. 70 precisa che per circostanze inerenti alla persona del colpevole si intendono quelle che riguardano la imputabilità e la recidiva. La distinzione fra circostanze oggettive e soggettive rivela essenzialmente in materia di concorso di persona del reato con riguardo al problema della loro estensibilità a tutti coloro che hanno partecipato al reato. Di fronte al testo vigente dell’art. 69, 4à co, c.p. che parifica le circostanze inerenti alla persona del colpevole ad ogni altra circostanza non sembra dunque poter assumere rilievo l’assunto fondato su un ontologia delle circostanze che nega carattere di circostanze in senso tecnico alle circostanze inerenti alla persona del colpevole. La dottrina distingue anche le circostanze in intrinseche ed estrinseche a seconda che si riferiscano ad uno o più degli elementi costitutivi del fatto tipico ovvero ad altri aspetti dell’illecito tali da condizionare la gravità. Ancora parte della dottrina distingue tra le circostanze antecedenti, concomitanti e successive in base al loro rapporto col tempo dell’esecuzione del reato. Antecedente sarebbe ad esempio l’aggravante prevista nell’art.61 (avere nei delitti colposi agito nonostante la previsione dell’evento). Le circostanze vengono infine distinte in obbligatorie e facoltative, a seconda che il giudice una volta stabilita l’esistenza della circostanza debba o possa far luogo all’aumento o diminuzione della pena. La massima parte delle circostanze è ad applicazione obbligatoria ma non mancano ipotesi di circostanze ad applicazione facoltativa esempio attenuanti previste dall’art.114 c.p. in materia di concorso di persone nel reato. Sotto il profilo dell’innovazione legislativa l.99/74 con cui l’applicazione degli aumenti di pena previsti per i casi di recidiva venne resa da obbligatoria qual’era, meramente facoltativa e l’art. 69 vieta la somma algebrica. I criteri di imputazione delle circostanze l’art. 59 c.p. Nel testo originario del c.p. l’imputazione delle circostanze sia aggravanti che attenuanti erano di carattere oggettivo, e l’effetto di aggravante o attenuante della pena conseguiva alla mera esistenza obiettiva della circostanza indipendente dall’atteggiamento psichico dell’agente; la regola dell’art.59 trovava un limite implicito in quelle circostanze di natura tale da implicarne un requisito di ordine psichico. Una deroga espressa al criterio della imputazione oggettiva delle circostanze era contenuta nell’art.60 che nelle ipotesi di errore sulla persona dell’offeso escludeva l’attribuibilità a carico dell’agente delle circostanze aggravanti concernenti le condizioni o qualità della persona offesa o i rapporti tra offeso e colpevole. La regola della rilevanza oggettiva delle circostanze riprendeva il suo vigore pur in presenza di un errore sulla persona dell’offeso quando si trattasse di circostanze concernenti l’età o altre condizioni della persona offesa. L’art.59 implicava quanto alle circostanze aggravanti una lesione del principio di colpevolezza, pur trattandosi di un elemento accidentale rispetto alla struttura del reato restava il fatto che conseguenze di ordine sanzionatorio venivano a ricadere sull’autore del reato indipendentemente da ogni legame psichico con il dato ignorato dall’agente su cui la circostanza aggravante si radicava a prescindere dalla conoscibilità. A questa grave anomalia è stato riformulato il 1°comma dell’art.59 inserendo un nuovo 2°comma con il risultato di differenziare nettamente la disciplina dell’errore sulle circostanze attenuanti da quelle delle aggravanti. Per le attenuazioni la legge ha mantenuto la ferma la regola della rilevanza obiettiva ( art.59 1 comma: le circostanze che attenuano la pena sono valutate a favore dell’agente anche se da lui non conosciute o per errore ritenute inesistenti) per le circostanze aggravanti alla regola della 57 Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) http://guidaunigiurisprudenza.blogspot.it/ rilevanza oggettiva si è sostituita una disciplina fondata sulla responsabilità colpevole, infatti il 2 comma del testo attuale dell’art.59 stabilisce “le circostanze che aggravano la pena sono valutate a carico dell’agente soltanto se da lui conosciute ovvero ignorate per colpa o ritenute inesistenti per errore determinato da colpa” e i parametri idonei a stabilire l’esistenza di una responsabilità per colpa possono essere rinvenuti con riferimento sia alla colpa generica che specifica. Le innovazioni apportate dalla l.19/90 al regime di imputazione delle circostanze non hanno toccato la regola dell’irrilevanza delle circostanze putative sia aggravanti che attenuanti. Inoltre l’attuale 3 comma dell’art. 59 lascia immutata la disposizione secondo la quale “se l’agente ritiene per errore che esistano circostanze aggravanti o attenuanti queste non sono valutate contro o a favore di lui”. La disciplina dell’error in persona (art.60 c.p.) Il 1 comma dell’art.60 c.p. stabilisce “nel caso di errore sulla persona offesa da un reato, non sono poste a carico dell’agente le circostanze aggravanti che riguardano la condizione o la qualità della persona offesa o i rapporti tra offeso e colpevole.( Alla stregua di queste disposizioni non risponde quindi dell’aggravante di cui all’art.577 n 1 c.p. chi uccida il proprio padre scambiandolo per un altro) Secondo l’art.60 devono essere valutate a favore dell’agente le circostanze attenuanti erroneamente supposte che concernono le condizioni, le qualità o i rapporti predetti, ciò significa ad esempio che l’attenuante della provocazione compete anche a chi uccide o ferisce taluno,nell’erronea convinzione di aver a che fare con la persona che ha commesso ai suoi danni un fatto ingiusto. La situazione non è mutata per quanto attiene ai rapporti fra l’art.60,2 comma e l’attuale art.59, 3 comma che sancisce l’irrilevanza delle circostanze putative sia aggravanti che attenuanti. Quanto al 1 comma dell’art. 60 da un lato può considerarsi in linea con la disciplina generale e dall’altro estende l’irrilevanza delle aggravanti anche alla ipotesi in cui ex art.59 2 comma di esse potrebbe farsi carico l’agente nel caso in cui l’errore di persona appaia determinato da colpa dell’agente. Il riesame dell’attuale art.60 va completato con il riferimento al suo 3 comma che stabilisce: “le disposizioni di questo articolo non si applicano se si tratta di circostanze che riguardano l’età o altre condizioni o qualità fisiche psichiche della persona offesa”. Con questa disposizione al fine di dare una rafforzata tutela ai soggetti più deboli (minori,infermi di mente) il legislatore circoscrivendo l’efficacia dell’art.60 ripristinava la regola generale della rilevanza oggettiva delle circostanze. La particolare normativa dell’art.60 è richiamata anche dell’art. 82 c.p. che disciplina la c.d. ABERRATIO ICTUS e ricorre quando il reo per errore nell’uso dei mezzi di esecuzione del reato (es.il proiettile deviando colpisce un soggetto anziché un altro) o per altra causa (es.nel momento in cui l’agente preme il grilletto la persona presa di mira cade e viene colpito altro soggetto) cagiona offesa a persona diversa da quella alla quale l’offesa era diretta. Il colpevole risponde come se avesse commesso il reato in danno della persona che voleva offendere, quando poi oltre alla persona diversa sia colpita anche quella alla quale l’offesa era diretta, il colpevole soggiace alla pena stabilita per il reato più grave aumentata fino alla metà. I cc.dd. Reati aggravati dall’evento Si dicono aggravanti dell’evento i reati che subiscono un aumento di pena per il verificarsi di un evento ulteriore rispetto al fatto che già costituisce reato consumato, evento che viene posto a carico dell’agente come semplice conseguenza della sua azione od omissione. Esempio sono reati aggravanti dell’evento la calunnia (ipotesi prevista nell’ultimo comma art.368) l’abuso dei mezzi di correzione e di disciplina, i maltrattamenti in famiglia. Tra i reati aggravati dall’evento si distinguono: reati in cui l’evento più grave può essere indifferentemente voluto o disvoluto (es.la calunnia è aggravata se da essa deriva una condanna) reati in cui l’evento più grave deve necessariamente non essere voluto in caso contrario muterebbe il titolo del reato (es.nell’aborto se l’agente vuole la morte della donna,risponde di omicidio doloso). La natura giuridica dei reati aggravati dall’evento è oggetto di discussione in dottrina; alcuni autori ritengono che si tratti di reati circostanziati ai quali quindi sarebbe possibile applicare il giudizio di comparazione delle circostanze ex art.69 c.p. Altri autori invece ritengono che la natura di tali reati non sia unitaria accanto ad ipotesi riconducibili al reato circostanziato ne esistono altre qualificabili come reato autonomo ed in particolare come ipotesi di reato preterintenzionale. 58 Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) http://guidaunigiurisprudenza.blogspot.it/ L’applicazione delle circostanze A) Nel caso in cui ricorra una sola circostanza. Quando si deve applicare una sola circostanza aggravante o attenuante si differenziano a seconda che si tratti di circostanza a effetto proporzionale o autonoma. Nel caso di circostanza a effetto proporzionale il giudice praticherà l’aumento o la diminuzione in misura proporzionale (un terzo, la metà ecc…) sulla pena-base che avrà preventivamente determinata come se la circostanza non ricorresse. Quando la legge non dispone altrimenti,l’aumento o la diminuzione di pena non potranno eccedere un terzo della pena-base determinata in concreto, ma in nessun caso la pena della reclusione da applicare per effetto dell’aumento potrà superare gli anni trenta.Nel caso di delitto punito con l’ergastolo quando si tratta di applicare una sola circostanza attenuante alla pena dell’ergastolo è sostituita la reclusione da 20 a 24 anni. Quando si tratta di applicare una circostanza autonoma in cui la pena è fissata dalla legge in modo indipendente da quella prevista per il reato non circostanziato il giudice provvederà a stabilirne la misura tra il minimo e il massimo come se si trattasse di un reato a sé stante e utilizzerà i criteri indicati nell’art.133 c.p. per la commisurazione della pena. Nell’ipotesi di concorso omogeneo di circostanze quando cioè ricorrano più circostanze tutte aggravanti o tutte attenuanti la regola generale stabilita dall’art.63, 2°comma c.p. è che i singoli aumenti o diminuzioni della pena quale che sia l’ordine in cui si procede alla valutazione delle varie circostanze si applicano uno di seguito all’altro sulla quantità di pena risultante dall’aumento o dalla diminuzione precedente, e ciò vale solo per il caso in cui le circostanze da applicare siano tutte a effetto proporzionale comune. Quando invece concorrono circostanze a effetto comune con circostanze autonome che importino una pena di specie diversa o con una circostanza a effetto speciale, sempre in base all’art.63 3 comma il giudice dovrà tenere conto in primo luogo di quest’ultima circostanza e applicare l’ulteriore aumenti o diminuzioni di pena,derivanti dalle circostanze a effetto comune,calcolandoli sulla pena risultante dall’applicazione delle circostanze a effetto speciale. Se concorrono più circostanze autonome si applicherà solo la circostanza a cui consegua il maggior aggravamento o la maggior attenuazione di pena ma il giudice può rispettivamente aumentare o diminuire la pena. Quando si tratta di circostanze a effetto comune in nessun caso si può eccedere il triplo del massimo stabilito per il reato semplice. Invece per le circostanze a effetto speciale la pena non potrà comunque eccedere gli anni 30 se si tratta della reclusione, anni 5 se si tratta di arresto. Per la diminuzione della pena è previsto dall’art.67 nell’ipotesi di concorso di più circostanze attenuanti la pena da applicare non può essere inferiore a 10 anni, quando per il delitto la legge stabilisce la pena dell’ergastolo sempre se si tratti di circostanze a effetto comune non può risultare inferiore a un quarto della pena-base. Il concorso fra circostanze aggravanti e attennuanti. Le circostanze sono elementi accidentali del reato, non indispensabili per la sua esistenza in quanto possono indifferentemente sussistere o mancare. La presenza di una o più circostanze che comporta la trasformazione del reato da semplice in circostanziato influisce soltanto sulla gravità del reato e quindi sulla misura della pena per esso prevista. Le circostanze si distinguono in: aggravanti ed attenuanti: le prime determina maggiore gravità del reato e quindi comportano un aumento della pena, le seconde una minore gravità di esso ed una riduzione della pena. comuni e speciali: le prime sono applicabili a tutti i reati (es.art.61,62c.p.)o quantomeno ad ampie categorie (es.reati colposi), le seconde sono previste soltanto con riferimento ad un reato o ad alcuni reati (es. art.625 per il furto). CAPITOLO TERZO: LE SINGOLE CIRCOSTANZE Le circostanze aggravanti comuni Le circostanze aggravanti comuni cioè potenzialmente applicabili a qualsiasi reato è contenuto nell’art. 61 c.p. e sono le seguenti: L’avere agito per motivi obietti o futili L’avere commesso il reato per eseguire od occultare un altro(c.d. nesso teleologico) , ovvero per 59 Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) http://guidaunigiurisprudenza.blogspot.it/ conseguire o assicurare a sé o ad altri il prodotto o il profitto o il prezzo ovvero la impunità di un altro reato. L’avere nei delitti colposi,agito nonostante la previsione dell’evento L’avere adoperato sevizie o l’aver agito con crudeltà verso le persone L’avere profittato di circostanze di tempo,di luogo o di persona o anche in riferimento all’età (il riferimento all’età della persona offesa nella previsione dell’aggravante comune della minorata difesa è stato introdotto dalla L. 15/7/2009 n.94 cd. Pacchetto sicurezza) tali da ostacolare la pubblica o privata difesa, L’avere il colpevole commesso il reato durante il tempo in cui si è sottratto volontariamente all’esecuzione di un mandato o di un ordine di arresto o di cattura o di carcerazione spedito per un precedente reato L’avere nei delitti contro il patrimonio o che comunque offendono il patrimonio ovvero nei delitti determinati da motivi di lucro,cagionato alla persona offesa dal reato un danno patrimoniale di rilevante gravità L’avere aggravato o tentato di aggravare le conseguenze del delitto commesso L’avere commesso il fatto con abuso dei poteri o con la violazione dei doveri inerenti ad una pubblica funzione o a un pubblico servizio ovvero alla qualità di ministro di culto L’avere commesso il fatto contro un pubblico ufficiale o una persona incaricata di un pubblico servizio o rivestita dalla qualità di ministro del culto cattolico o di un culto ammesso nello stato ,ovvero contro un agente diplomatico o consolare di uno stato estero,nell’atto o a causa dell’adempimento delle funzioni o del servizio L’aver commesso il fatto con abuso di autorità o di relazioni domestiche ovvero con abuso di relazioni d’ufficio ,di presentazione d’opera, di coabitazione o di ospitalità L’avere il colpevole commesso il fatto mentre si trova illegittimamente sul territorio nazionale L’aver commesso un delitto contro la persona ai danni di un soggetto minore nell’interno o nelle adiacenze di istituti d’istruzione o di formazione Le circostanze attenuanti comuni Le circostanze attenuanti comuni prevedono la diminuzione della pena fino a un terzo è contenuto nell’art.62 c.p. che elenca le seguenti circostanze: L’aver agito per motivi di particolare valore morale e sociale (di natura soggettiva) L’aver reagito in stato d’ira,determinato da un fatto ingiusto altrui (c.d. provocazione) L’aver agito per suggestione di una folla in tumulto quando non si tratta di riunioni o assembramenti vietati dalla legge o dall’Autorità e il colpevole non è delinquente o contravventore abituale o professionale o delinquente per tendenza L’avere nei delitti contro il patrimonio o che comunque offendono il patrimonio,cagionato alla persona offesa dal reato un danno patrimoniale di speciale tenuità,ovvero nei delitti determinati da motivi di lucro l’aver agito per conseguire o l’avere comunque conseguito un lucro di speciale tenuità,quando anche l’evento dannoso o pericoloso sia di speciale tenuità L’essere concorso a determinare l’evento insieme con l’azione o l’omissione del colpevole,il fatto doloso della persona offesa L’avere prima del giudizio riparato interamente il danno,mediante il risarcimento di esso e quando sia possibile mediante la restituzione o l’essersi prima del giudizio e fuori dall’ipotesi prevista nell’ultimo capoverso dell’art.56 c.p. adoperato spontaneamente ed efficacemente per elidere o attenuare le conseguenze dannose o pericolose del reato (c.d ravvedimento operoso) Il ravvedimento operoso si distingue dal recesso attivo in quanto quest’ultimo interviene durante l’esecuzione del reato e prima della sua consumazione, il ravvedimento costituisce invece un comportamento tenuto post delictum che interviene dopo la cessazione della condotta punibile. Infine l’art. 62 bis c.p. prevede l’applicabilità di altre circostanze diverse da quelle previste nell’art.62 con le quali queste possono anche concorrere qualora siano ritenute tali da giustificare una diminuzione della pena.Limitata è la possibilità di concessione di tali attenuanti per chi è gravato dalla recidiva reiterata. 60 Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) http://guidaunigiurisprudenza.blogspot.it/ Inoltre a seguito dei correttivi effettuati sul disposto dell’art. 62 bis ad opera del D.L. 23/5/2008 n 92 convertito in L.24/7/2008 n 125 (decreto di sicurezza) l’assenza di precedenti condanne per altri reati a carico del condannato non può essere per ciò solo posta a fondamento della concessione delle circostanze attenuanti generiche. LA RECIDIVA La recidiva è la condizione personale di chi dopo essere stato condannato per un delitto non colposo ne commette un altro . La norma distingue 3 tipologie di recidiva: SEMPLICE: è recidivo semplice chi dopo essere stato condannato per un delitto non colposo ne commette un altro.Questi può essere sottoposto ad un aumento di un terzo della pena da infliggere per il nuovo delitto non colposo. AGGRAVATA: comprende la recidiva specifica,se il nuovo delitto non colposo sia della stessa indole,la recidiva infraquinquennale, se il nuovo delitto non colposo sia stato commesso nei 5 anni della condanna precedente, nonché la recidiva vera e finta configurabile rispettivamente nel caso in cui il nuovo delitto non colposo sia stato commesso durante o dopo l’esecuzione della pena,ovvero durante il tempo in cui il condannato si sottragga volontariamente all’esecuzione della pena.In tali ipotesi la pena può essere aumentata fino ala metà di quella da infliggere per il nuovo delitto non colposo.Qualora concorrono più circostanze fra quelle appena descritte (c.d. recidiva pluriaggravata) l’aumento di pena è della metà. REITERATA: è recidivo reiterato chi già da recidivo commetta un altro delitto non colposo. In tal caso l’aumento di pena è della metà di quella da infliggere per il nuovo delitto non colposo,se chi lo commette è un recidivo semplice,mentre è di due terzi se chi lo commette è un recidivo aggravato. SEZIONE SECONDA:IL DELITTO TENTATO CAPITOLO SECONDO:LA FATTISPECIE DEL DELITTO TENTATO. I requisiti della fattispecie oggettiva del delitto tentato: L’idoneità degli atti. A norma dell’art. 56 c.p., per la punibilità del tentativo si richiede il compimento di atti idonei a commettere un delitto. L’idoneità va valutata secondo il criterio della «prognosi postuma»: riportandosi idealmente alla situazione concreta al momento del fatto, con giudizio quindi effettuato ex ante, bisogna cioè valutare se la condotta era idonea a ledere il bene giuridico protetto, con rilevante grado di possibilità. Ad es. se tizio lancia una bomba in un salotto ove da poco, occasionalmente, si è allontanato il suo nemico, potrà essere imputato di tentato omicidio, in quanto, con giudizio ex ante, era verosimile che l’avversario si trovasse in salotto e quindi morisse. In assenza di idoneità degli atti, ricorrerà una un’ipotesi di reato impossibile ai sensi del secondo comma dell’art. 49 c.p. L’univocità degli atti. L’art. 56 richiede che gli atti costituenti delitto tentato, oltre ad essere idonei, appaiono anche diretti in modo non equivoco alla commissione del delitto prefigurato. L’univocità consiste nel fatto che la condotta deve avere raggiunto una progressione tale di sviluppo da lasciare trasparire, oggettivamente, che verosimilmente il delitto sarebbe stato commesso. Ad es. se un pregiudicato viene trovato con una pistola in tasca a poca distanza da una Banca, per ciò solo non può dirsi che stava per commettere una rapina. invece se viene fermato nell’atrio, mentre già impugna l’arma, ben può dirsi che lo sviluppo dell’azione, oggettivamente, lasciava trasparire l’intenzione di commettere la rapina. Il requisito della necessaria univocità degli atti lascia intendere perché il tentativo sia ammissibile solo in relazione ai delitti dolosi, in quanto per quel- li colposi non può configurarsi una volontà diretta univocamente alla commissione del reato. L’elemento psicologico del delitto tentato. L’atteggiamento psicologico rilevante per il tentativo è costituito esclusivamente dal dolo. La dottrina è concorde nel ritenere che il dolo del delitto tentato sia in tutto e per tutto identico al dolo del 61 Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) http://guidaunigiurisprudenza.blogspot.it/ corrispondente delitto consumato. Si sottolinea, però, che l’accertamento del dolo, a differenza che nel delitto consumato, precede, e non segue, la valutazione che concerne la rilevanza degli elementi della fattispecie oggettiva. Solo in rapporto al fine perseguito dell’agente, e in relazione al suo concreto piano di azione, è possibile infatti stabilire l’idoneità e l’univocità degli atti compiuti. Tentativo e dolo eventuale. La dottrina ritiene che non è possibile imputare ai fini del delitto tentato gli eventi che, nell’ipotesi di consumazione, si sarebbero potuti imputare all’agente a titolo di dolo eventuale. Negli ultimi anni, nella stessa direzione appare orientata anche la giurisprudenza della Cassazione, essenzialmente in base all’argomento che esclude una condotta diretta in modo non equivoco alla commissione di un delitto nell’atteggiamento psicologico di chi, perseguendo un fine diverso, si rappresenti soltanto come possibile il verificarsi di un evento secondario. Va precisato che, dalle ipotesi di dolo eventuale si distinguono quelle di dolo diretto di II grado, in cui l’evento necessario costituisce il mezzo o una necessaria implicazione del realizzarsi dello scopo dell’agente.: come nel caso di chi incendi uno stabile al fine di riscuotere un’assicurazione, ben sapendo che nell’incendio perirà un abitante dello stabile. Impedito a mettersi in salvo perché paralitico. Le conclusioni dovrebbero essere diverse, secondo l’opinione dominate, se l’autore, invece, si sia semplicemente rappresentata l’eventualità che, nell’incendio dello stabile, apparentemente disabitato, abbia a perire qualcuno che, in realtà, vi dimora e che effettivamente ha poi corso tale pericolo. L’opposta tesi ritiene legittima l’imputazione di atti di tentativo anche a titolo di dolo eventuale. La formula atti diretti in modo non equivoco, adoperata dall’art. 56, sembra autorizzare l’ipotesi di una restrizione dell’elemento psicologico rilevante per il tentativo alla categoria del dolo diretto; ma una conclusione in questo senso non solo appare contrastante con il carattere oggettivo dell’univocità degli atti ma, risulta convalidata da una fondazione politico.criminale della punibilità del tentativo. Quindi se Tizio, al fine di cagionare la morte di Caio, gli esplode contro un colpo di fucile a grossi pallini, prevedendo che da ciò potrà derivare anche la morte di Sempronio che cammina accanto a Caio, e non lasciandosi distogliere dal compiere l’atto dalla previsione di tale possibilità, risponderà, qualora Sempronio rimanda illeso, o soltanto ferito, anche di tentato omicidio in persona di costui, così come avrebbe risposto di omicidio doloso, qualora Sempronio fosse rimasto ucciso. Tentativo e circostanze. Per quanto riguarda il rapporto fra delitto tentato e circostanze del reato, la maggior parte degli autori distinguono due serie di ipotesi: tentativo circostanziato di delitto e tentativo di delitto circostanziato. Alla prima serie di ipotesi si assegnano i casi in cui l’azione di tentativo si presenta essa stessa corredata dalla circostanza: o perché preesistente all’azione stessa( esempio, rapporti fra il colpevole e l’offeso); o perché l’accompagna nel suo svolgersi ( tempo, luogo, modalità esecutive della condotta). Alla seconda serie di ipotesi appartengono invece i casi in cui viene in questione il tentativo di un delitto che, se fosse pervenuto alla consumazione, sarebbe stato qualificato da una o più circostanze aggravanti o attenuanti: si pensi alla circostanza aggravante del danno patrimoniale di particolare gravità e alla contrapposta attenuante del danno di lieve entità. Sul tentativo di delitto circostanziato vi è dissenso: in linea di principio è concepibile l’idea del tentativo di un delitto circostanziato e se è vero che l’art. 56 c.p. può astrattamente combinarsi con tutte le fattispecie di delitto, sia semplice sia circostanziato, è d’altra parte innegabile che l’art. 59 c.p. nel disciplinare l’imputazione oggettiva della circostanza, ne presuppone in ogni caso l’esistenza. E dunque violerebbe il principio di legalità l’imputazione oggettiva di un elemento accidentale del reato, che non si è realizzato. Controversa è anche la configurabilità di un tentativo circostanziato di delitto, nei casi in cui la circostanza non si è ancora compiutamente realizzata: Tizio tenta, senza riuscirvi, di forzare la porta d’ingresso di una abitazione, al cui interno si propone di commettere un furto. Si domanda se in questo caso sia configurabile o meno, come circostanza aggravante del tentativo, quella prevista dal n. 2 dell’art. 605 c.p.. La risposta dev’essere positiva, poiché non sembrano sussistere ostacoli di ordine strutturale o giuridico che si oppongano alla combinazione della fattispecie dell’art. 56 c.p. con quella del delitto circostanziato. 62 Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) http://guidaunigiurisprudenza.blogspot.it/ Tentativo e tipologie delittuose. Per quanto l’art. 56 c.p. si riferisca in modo indifferenziato a qualsiasi categoria di delitti, non vi è dubbio che la fattispecie del tentativo punibile non si presti ad essere configurata per taluni tipi delittuosi. Il tentativo è inammissibile: nelle contravvenzioni , dato che l’art. 56 c.p. parla di «delitto», non di reato; nei delitti abituali, che si perfezionano con la reiterazione delle condotte criminose che di per sé non assumono rilevanza autonoma; nei delitti di attentato (o a consumazione anticipata), per i quali ciò che costituisce il minimum per l’esistenza del tentativo già integra la consumazione del reato stesso; nei reati omissivi propri, ove prima della scadenza del termine per compiere l’azione non vi è ancora reato; dopo la scadenza esso è consumato; nei delitti colposi, nei quali manca l’intenzione di realizzare il fatto contemplato dalla norma incriminatrici, quindi non è possibile identificare il requisito della «univocità». La pena per il delitto tentato è quella prevista per il delitto consumato ridotta da un terzo a due terzi. CAPITOLO TERZO:DESISTENZA E RECESSO La desistenza volontaria dal tentativo. Nozione. Il III comma dell’art. 56 c.p. configura l’ipotesi speciale di non configurabilità degli atti di tentativo, cha va sotto il nome di desistenza volontaria. Si ha desistenza (art. 56 comma 3) correlata al tentativo incompiuto, quando l’agente, dopo aver iniziato l’esecuzione del delitto volontariamente interrompe l’attività criminosa (es. ladro che, dopo aver forzato una porta, si allontana senza introdursi nell’appartamento). essa determina l’ impunità, a meno che l’attività criminosa, fino a quel momento posta in essere, costituisca di per sé reato diverso (es. danneggiamento della porta). Nell’interpretazione della desistenza volontaria e nella definizione dei limiti della sua configurabilità, emergono alcuni punti di partenza: La formulazione dell’art. 56 c.p. rende manifesto che la speciale ipotesi di irrilevanza degli atti di tentativo concerne esclusivamente la figura del tentativo incompiuto mentre è strutturalmente incompatibile con l’ipotesi del delitto mancato. L’art. 56 III comma, integra la descrizione del tentativo punibile aggiungendo ai requisiti della idoneità e univocità degli atti quello della interruzione ab externo. Gli aspetti problematici sono: Il fondamento politico criminale della non punibilità. La desistenza nei reati omissivi. Volontarietà come requisito della desistenza. Il concetto dommatico della desistenza volontaria. Il fondamento politico-criminale della non punibilità nei casi di desistenza. Secondo l’opinione tradizionale, la non punibilità dell’azione di tentativo a cui lo stesso autore abbia posto fine con una volontaria scelta di desistenza, è fondata su una valutazione di ordine politico-criminale che viene espressa attraverso la metafora del ponte d’oro. Questa concezione del fondamento politicocriminale dell’istituto si inquadra in una prospettiva interna alla funzione general preventiva della pena. Essa è stata criticata poiché la sua validità presuppone l’idea che l’uomo si comporti in ogni occasione come un essere perfettamente razionale. La dottrina più recente ricerca il fondamento della desistenza nella visuale della prevenzione speciale; movendo dal rilievo che la condotta di colui che, di sua iniziativa, è ritornato sui propri passi, manifesta nell’autore una scarsa e riluttante determinazione a delinquere, per cui, nei suoi confronti, non sorgerebbero concrete esigenze di prevenzione, in particolare sotto il profilo della necessità di una pena 63 Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) http://guidaunigiurisprudenza.blogspot.it/ rieducativi. Si è tuttavia osservato che si dovrebbe richiedere qualche cosa in più della sua semplice volontarietà, intesa come mera inesistenza di costrizione esterna. L’osservazione è esatta: basti pensare che la non punibilità degli atti di tentativo per desistenza volontaria ricorre anche nell’ipotesi di chi desista dal tentativo di un determinato reato, per compierne un altro, molto più grave: come nel caso di chi, introdottosi in una casa per rubare,riconosca nel proprietario un odiato rivale e, a seguito di questa scoperta, abbandoni del tutto l’idea del furto, commettendo, in luogo di quello, un omicidio. La giustificazione politico-criminale della desistenza si completa con la considerazione del piano general preventivo: in questi casi, infatti, la non punibilità dovuta alla scarsa o assente presenza di esigenze di prevenzione speciale, non presenta alcuna controindicazione di prevenzione generale, visto che una spontanea desistenza del soggetto, prima che venga attivato qualsiasi intervento coercitivo, non richiede un intervento atto a reintegrare nei consociati la fiducia nel valore delle norme violate. La desistenza nei reati omissivi. Nei delitti omissivi si richiede, ai fini della desistenza, che l’autore commetta l’azione doverosa. In particolare, nei reati commissivi mediante omissione, si richiede che l’agente intraprenda la condotta dovuta: come nel caso della madre che riprende a nutrire l’infante, che aveva deciso di lasciar morire. Quanto ai reati omissivi propri la desistenza appare configurabile negli stessi termini. Si può ad esempio, ipotizzare come desistenza volontaria dall’omissione di un atto di un ufficio il comportamento del pubblico ufficiale che, essendo partito per luoghi lontani allo scopo di porsi nelle condizioni di non compiere l’atto nei termini dovuti, discenda dall’aereo al primo scalo e ritorni in sede, in tempo per adempiere ai doveri del suo ufficio. Il requisito della volontarietà nella desistenza. Il concetto della volontarietà, nell’art. 56 deve essere inteso negli stessi termini in cui si apprezza la volontà richiesta per il fatto costitutivo del delitto tentato: e ciò perché la desistenza altro non esprime se non la mancanza di dolo terminale dell’azione che non si compie. Posto che la volontarietà sussiste ogniqualvolta, alla volontà di realizzare il fatto tipico, si sostituisce nel piano intenzionale dell’agente la volontà di non proseguire nella condotta tipica, è evidente che il carattere di autonomia di quest’ultima risoluzione dovrà essere escluso non solo quando la volontà risulti coartata in modo assoluto ma anche quando egli si sia trovato di fronte a una situazione che, pur non rendendo assolutamente impossibile la prosecuzione dell’azione, tuttavia non lasciava al soggetto un normale margine di autonomia decisionale. Se un ladro desiste dal sottrarre la cosa perché si accorge di essere stato scoperto, la sua desistenza non è volontaria, anche se in astratto sussisteva la possibilità di proseguire nell’azione. Per stabilire il carattere volontario della desistenza, ciò che decide non è la obiettiva realizzabilità del fatto, ma l’opinione dell’autore circa la sua realizzabilità del fatto, ma l’opinione dell’autore circa la sua realizzabilità. La desistenza, in altre parole, rimane involontaria anche quando, pur essendo oggettivamente non impossibile la continuazione del fatto, l’autore si trova di fronte ad una modificazione, a suo svantaggio, della situazione, che lo induce a desistere. È questo, il criterio di determinazione della volontarietà della desistenza che esclude l’applicabilità dell’art. 56 III comma , nei casi in cui l’autore sia dissuaso a proseguire nell’azione dalla reazione della vittima, dall’abbaiare di un cane ecc. La desistenza resta non volontaria ai fini dell’art. 56 anche quando l’agente ha soltanto supposto di essere stato scoperto o si p convinto che la prosecuzione del delitto era impossibile. Il concetto dommatico della desistenza volontaria. La non punibilità delle condotte di tentativo, da cui l’autore abbia volontariamente desistito, esprime una configurazione legislativa dell’istituto, in cui l’interruzione ab externo dell’azione corrisponde a un requisito essenziale del tipo di fatto che costituisce il delitto tentato. la sussistenza del dolo necessario ad integrare la fattispecie del tentativo punibile, infatti, non può essere stabilita, se non con riferimento all’intenzione con cui l’autore compie l’ultimo atto: quando risulta che in luogo dell’atto diretto in modo non equivoco alla commissione del delitto c’è il volontario abbandono dell’azione intrapresa, viene a mancare il dolo stesso del tentativo e non sussiste quindi neppure l’azione costitutiva del delitto tentato. Nell’ipotesi di desistenza volontaria dell’azione, l’agente è punibile solo per gli atti, fin lì compiuti, che costituiscono un reato diverso, rende infatti egualmente chiaro che il dolo rilevante per il tentativo sussiste solo quando la parte terminale dell’azione sia inequivocamente sorretta dalla volontà di realizzare il fatto. 64 Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) http://guidaunigiurisprudenza.blogspot.it/ Il problema della delimitazione fra desistenza volontaria e recesso attivo. Si ha recesso attivo (art. 56 comma 4) correlato al tentativo compiuto, allorché il colpevole abbia già condotto a termine l’attività delittuosa e, desiderando, in seguito a riflessioni, evitare il verificarsi dell’evento, si attiva per impedirlo (es.: Tizio, dopo aver gettato Caio nel fiume, lo salva prima che anneghi). Il recesso ha carattere solo e sempre positivo, in quanto esige una nuova attività da parte dell’agente, ed anche per esso, come per la desistenza, occorre il requisito della volontarietà. Il recesso attivo non importa, come la desistenza, la totale impunità ma solo una ulteriore diminuzione della pena da un terzo alla metà. esso, dunque, si configura come una circostanza attenuante (l’unica prevista per il tentativo). L’articolo 5 della legge n. 15/80 disciplina una figura particolare di recesso attivo del terrorista; stabilisce, infatti, tale articolo: « fuori del caso previsto dall’art. 56 del codice penale, non è punibile il colpevole di un delitto commesso per finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico che volontariamente impedisce l’evento e fornisce elementi di prova determinanti per la esatta ricostruzione del fatto e per la individuazione degli eventuali concorrenti». SEZIONE TERZA: IL CONCORSO DI PERSONE NEL REATO CAPITOLO PRIMO: IL FENOMENO DELLA PARTECIPAZIONE DI PIÙ PERSONE AD UN REATO E LA NOZIONE GIURIDICA DEL CONCORSO DI PERSONE. Le varie ipotesi del reato plurisoggettivo: a) i reati a concorso necessario; b) i reati a concorso eventuale; in particolare: le condotte atipiche di partecipazione del reato; l’esecuzione del fatto tipico frazionata tra più persone. Il reato, in quanto fatto umano, può essere commesso tanto da un solo soggetto quanto da una pluralità di soggetti: in quest’ultimo caso, ricorre l’ipotesi del “concorso di persone nel reato”. Il concorso può essere di due tipi: concorso necessario: si verifica nei casi di reato c.d.plurisoggettivo, che, per sua natura, non può essere commesso che da due o più persone e la cui disciplina è contenuta direttamente in una norma di parte speciale: es.: la rissa, art. 588 c.p.; l’associazione per delinquere, art. 416 c.p. I reati a concorso necessario vengono classificati, a seconda che si tratti di reati genericamente collettivi, detti anche reati soggettivi unilaterali;ovvero che essi siano caratterizzati dalla direzione delle condotte dei vari soggetti l’una verso l’altra (corruzione), o addirittura l’una contro l’altra (rissa): in questo secondo caso si parla di reati plurisoggettivi bilaterali. Si distingue anche fra reati a concorso necessario propri e impropri, a seconda che i soggetti necessari per l’esistenza della fattispecie siano tutti autori punibili, o alcuno di essi rivesta un ruolo diverso, non rilevante penalmente, che in qualche caso corrisponde addirittura ad una posizione sostanziale di vittima ( ad esempio nella corruzione di minorenne). concorso eventuale: ricorre per i reati che possono indifferentemente essere commessi da una o più persone (e la relativa disciplina si ottiene attraverso la combinazione tra una norma incriminatrice di parte speciale, che prevede una fattispecie di reato monosoggettiva, ed una norma di parte generale, art.110 c.p.). Il concorso di persone, dunque, è disciplinato dall’articolo 110 c.p. , che dispone: « Quando più persone concorrono nel medesimo reato, ciascuna di esse soggiace alla pena per questo stabilita». Tale articolo svolge una funzione estensiva della tipicità penale, infatti, consente di punire, oltre ai concorrenti che pongono in essere una condotta tipica (prevista dalla norma incriminatrice), anche quei concorrenti che compiono azioni atipiche (che cioè in base alla sola norma incriminatrice non sarebbero punibili: ad es. il «palo» in una rapina non compie il fatto tipico, ma è punibile a titolo di concorso). La norma in questione, nello stabilire l’applicazione di una pena identica per tutti i concorrenti, quale che sia l’entità della loro partecipazione, parte dal presupposto che il reato, anche se commesso da più persone, è comunque da considerarsi unico ed Indivisibile in quanto l’azione posta in essere da ciascuno dei concorrenti perde la propria individualità, confluendo nel risultato finale complessivo rappresentato dal reato. Nonostante l’affermazione di principio della uguale responsabilità di tutti i concorrenti, il codice, per elementari esigenze 65 Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) http://guidaunigiurisprudenza.blogspot.it/ di giustizia, ammette la possibilità di graduazione della pena in rapporto al reale contributo apportato in concreto da ciascun concorrente, ciò soprattutto attraverso il riconoscimento di specifiche circostanze aggravanti e attenuanti (artt. 112 e 114). Opzioni politico-criminali e tecniche di incriminazione delle condotte di partecipazione al reato. Alla normativa sul concorso di persone, in modo analogo a ciò che avviene per il tentativo, spetta un ruolo di integrazione, in funzione incriminatrice, della norma di parte speciale che descrive il reato. Gli ordinamenti positivi contemporanei vi provvedono due opzioni fondamentali: Il modello differenziato di incriminazione delle condotte di concorso: si serve di una tecnica normativa che individua e descrive singolarmente le diverse forme di partecipazione al reato, penalmente rilevanti, distinguendole in base al ruolo che ciascun concorrente svolge nell’economia della realizzazione comune. Il modello unitario di disciplina del concorso di persone: il legislatore sceglie di prescindere dal tipo particolare di condotta posta in essere dai singoli compartecipi, valorizzando essenzialmente, come criterio di punibilità, in una tendenziale parificazione della loro rilevanza penale; salva la possibilità di recuperare specifiche valenze dei singoli comportamenti a livello di circostanze aggravanti o attenuanti. Il modello di incriminazione fondato sulla differenziazione delle forme di partecipazione al reato è più rispettoso dei momenti di garanzia, impliciti nella regola della tipicità delle condotte penalmente rilevanti. La scelta di un modello unitario è destinata, per contro a costituire uno strumento dotato di maggiore flessibilità, e asseconda l’estensione dell’area delle condotte penalmente rilevanti. Non sorprende, dunque, che i compilatori del codice penale del 1930 abbiano optato per una scelta radicalmente diversa rispetto a quella del codice Zanardelli, passando da un modello differenziato a un modello unitario di incriminazione del concorso. Le teorie giuridiche del concorso. La dottrina del concorso di persone oscilla fra due poli: l’accessorietà delle condotte di concorso e la riconduzione dell’istituto all’idea di una fattispecie plurisoggettive eventuali. L’idea dell’accessorietà costituisce riflesso dei modelli differenziati di disciplina del concorso; ma esprime, al tempo stesso,un dato sicuramente connaturale alle condotte atipiche di partecipazione al reato (determinazione, istigazione, agevolazione). La rilevanza penale di questi comportamenti implica infatti necessariamente l’esistenza di un rapporto servente rispetto alla realizzazione di una fattispecie conforme a quella descritta, nella forma monosoggettiva, da una norma incriminatrice speciale. Si osserva, tuttavia, che proprio in quanto presuppone l’esistenza di un fatto principale, il principio di accessorietà non sarebbe idoneo ad esprimere in una formula unitaria e omnicomprensiva la struttura del concorso di persone nel reato. Fondato appare anche il rilievo che, nei casi di esecuzione frazionata del reato, il carattere di complementarietà delle condotte concorrenti solo con una certa forzatura può essere ricondotta all’idea dell’accessorietà visto che mancherebbe la realizzazione per intero di un fatto principale, idoneo di per sé ad essere configurato secondo una dimensione di conformità alla fattispecie del reato monosoggettivo. Quanto al concetto della fattispecie plurisoggettiva eventuale l’integrazione della norma incriminatrice di parte speciale all’art. 110 scaturisce non solo l’effetto di attribuire rilevanza a condotte di per sé atipiche; ma anche quello di dar luogo a una autonoma fattispecie normativa che include fra i suoi elementi costitutivi il verificarsi dell’ipotesi di parte speciale ed è contrassegnata dalla imputazione della sua realizzazione anche a soggetti diversi dall’esecutore. In mancanza di una definizione legislativa dei tipi delle condotte di partecipazione penalmente rilevanti, resta, però, interamente aperto il problema dei requisiti, la cui presenza conferisce alla condotta del concorrente la peculiare dimensione di tipicità, richiesta dalla fattispecie concorsuale. Una dogmatica del concorso, infatti, ha senso solo nella misura in cui i criteri di imputazione del fatto al concorrente divergano da quelli che definiscono, in via generale, l’attribuzione della responsabilità per un fatto tipico, antigiuridico e colpevole. È dunque facile capire perché i problemi giuridici della partecipazione criminosa concernono essenzialmente la qualificazione dei comportamenti atipici e non 66 Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) http://guidaunigiurisprudenza.blogspot.it/ presenta problemi nelle ipotesi in cui tutti i concorrenti realizzino la fattispecie tipica di un reato e nei casi si esecuzione frazionata. Nell’una come nell’altra ipotesi, la sintesi fra l’art. 110 e la disposizione di parte speciale dà luogo a fattispecie plurisoggettive implicite, in cui l’unica variante rispetto alla fattispecie di riferimento è costituita dal numero dei soggetti attivi considerati. Dunque la nozione di accessorietà, di per sé, non può né intende fornire criteri, in base ai quali si definisce la rilevanza delle condotte accessorie;ma ha l’esclusiva funzione di ribadire che essa non può essere costruita senza il riferimento al fatto principale ed è sempre condizionata alla commissione del reato da parte di altri. CAPITOLO SECONDO: LA STRUTTURA DEL CONCORSO. La realizzazione di un fatto tipico doloso come centro di imputazione della responsabilità dei concorrenti ex art. 110 c.p. Per il configurarsi di una condotta di concorso penalmente rilevante è necessario che taluno dei concorrenti realizzi un reato quanto meno nella forma del tentativo. Alla locuzione reato, adoperata nell’art. 110 c.p. non può assegnarsi il significato che essa assume tradizionalmente nel linguaggio della dottrina: vale a dire il significato di fatto tipico, antigiuridico, colpevole. Che la colpevolezza personale dell’esecutore non costituisca una condicio sine qua non per la rilevanza del concorso è comprovato dall’art. 111 c.p. e dal successivo art, 119, I comma. Dunque se la legge prevede un aggravamento della pena per chi ha determinato a commettere il reato una persona non imputabile o altrimenti non punibile a cagione di una condizione o qualità personale e lascia espressamente inalterata la rilevanza delle condotte di concorso, se ne deve concludere che la colpevolezza dell’autore non appartiene alla nozione di reato, nel significato che questa espressione assume nel contesto degli artt. 110 ss. c.p. Il II comma dell’art. 119 c.p. asserisce anche la irrilevanza del carattere antigiuridico del fatto in cui si concorre, ai fini della struttura del concorso di persone nel reato. Infatti le circostanze di esclusione della pena presuppongono il dato della partecipazione criminosa e si applicano o non si applicano ai concorrenti a seconda della logica normativa che ne definisce la rilevanza. La dottrina e la giurisprudenza sono concordi circa il fatto che la base di riferimento per il configurarsi di condotte di concorso nel reato sia costituita dalla realizzazione di un fatto che sia conforme a una fattispecie legale dell’incriminazione, a prescindere dalla sua antigiuridicità e dalla colpevolezza personale dell’autore o degli autori. Il valore dell’art. 115 c.p. per la determinazione del concetto di reato, rilevante per il concorso di persone. L’art. 115 c.p. costituisce un punto di riferimento essenziale per l’individuazione della struttura del concorso di persone. Da essa si evince che le condotte con cui si può concorrere in un reato, assumono rilevanza per un’ipotesi di compartecipazione criminosa, solo in quanto, o costituiscono esse stesse azione esecutiva del reato, ovvero accedano a una condotta esecutiva altrui: se il reato non viene commesso, le condotte di partecipazione al reato progettato, risultano irrilevanti per l’applicazione della pena. La non punibilità delle condotte prese in considerazione dall’art. 115 dipende dal fatto che le condotte rientranti nello schema dell’accordo o dell’istigazione non integrano il modello legale del reato e non possono essere sottoposte a pena, in mancanza di una norma espressa dettata ad hoc, se non a prezzo di una palese violazione del principio di legalità. La regola dell’irrilevanza, dettata dall’art. 115 espressamente per l’istigazione e per l’accordo non seguiti dalla commissione del reato, si applica, in base alla medesima ratio, anche alle condotte di agevolazione e ad ogni altra forma di complicità, quando sia mancato ogni atto di esecuzione del reato. Fornire a taluno strumenti idonei allo scasso è un atto non rilevante come condotta di concorso, se il furto, poi, non viene neppure tentato. L’art. 115 non esclude l’autonoma rilevanza delle condotte di partecipazione, che, per quanto atipiche, tuttavia costituiscono esse stesse atti di esecuzione del reato. Dare il segnale convenuto con complici perché aprano il fuoco sulla vittima designata, costituisce di per sé atto di un tentativo di omicidio; e resta punibile come tale , anche se coloro che dovrebbero materialmente eseguire il resto se ne stiano inerti, rinunziando per qualsivoglia motivo a procedere all’azione omicida. Dunque la rilevanza o irrilevanza dell’atto di partecipazione non è creata dall’art. 115, ma dipende interamente dalla sua qualità di atto esecutivo, alla stregua del modello legale dell’incriminazione. Ciò non significa che la rilevanza delle singole condotte di istigazione, di accordo e di agevolazione possa essere stabilita senza tener conto dell’attività degli altri concorrenti. Se taluno si 67 Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) http://guidaunigiurisprudenza.blogspot.it/ accordo con un complice perché recapiti alla vittima designata a un plico contenente una bomba ad orologeria, non sarà certo punibile, per il solo fatto dell’accordo, nell’ipotesi che il complice non lo recapiti, gettandolo invece in un fiume; ma se taluno consegna al servizio postale o a un ignaro fattorino il plico esplosivo, sarà responsabile addirittura di un tentativo perfetto di omicidio, per questo solo atto, con il quale si è spogliato del dominio finalistico del fatto, liberando le energie causali dirette a produrlo. Diversamente stanno le cose nell’ambito del fatto collettivo, ove l’attività del singolo concorrente ripete la sua qualità giuridica proprio dal rapporto che si viene a stabilire con i comportamenti altrui. La condotta di chi fa da palo, ad esempio, riveste il carattere di atto iniziale della realizzazione criminosa, se egli si pone di guardia davanti a un negozio, nell’atto stesso in cui il complice ai appresta ad introdurvisi, per eseguire materialmente il furto; ma non potrà assumere alcuna autonoma rilevanza penale, se il suo compito è quello di sorvegliare una strada, in cui segnalare al complice potenziali vittime di furti con violenza o destrezza, fintanto che il concorrente non ponga in essere una qualche attività di esecuzione del comune proposito criminoso. In conclusione la condizione imprescindibile per il configurarsi di una condotta collettiva, rilevante come concorso in un reato, è che almeno uno dei concorrenti realizzi nel mondo esterno un fatto che riveste quanto meno il carattere di un inizio dell’attività esecutiva del reato. Il ruolo dell’elemento psicologico nella struttura del concorso. Concorso di persone e reità mediata. L’intero fenomeno del concorso di persone è ridotto allo schema della mera efficienza causale e, implicitamente o esplicitamente, al meccanismo del concorso di cause, regolato dall’art. 41 c.p.. Anche a voler prescindere dai puntuali riscontri ove la responsabilità ex art. 48 c.p. viene esplicitamente definita come un caso di responsabilità mediata, non è difficile mostrare la differenza che passa tra il fatto di chi induce all’azione un soggetto privo di dolo e quello di chi concorre nel fatto doloso altrui. Basterebbe osservare che mentre, a norma dell’art. 115 c.p., chi istiga altri a commettere un reato, non è mai punibile per il solo fatto dell’istigazione, nell’ipotesi dell’art. 48, invece, l’invito ad agire costituisce di per sé atto di esecuzione del reato. La condotta dell’ingannatore si differenzia dalla normale ipotesi dell’istigazione, proprio perché le energie causali dirette alla produzione dell’evento sono già messe in moto nel momento in cui egli agisce per determinare l’istigato a compiere l’atto di cui ignora le conseguenze. Si pensi all’esempio di chi consegni al servizio postale un plico esplosivo da inoltrare alla vittima designata. In queste ipotesi, non siamo di fronte ad una condotta che acceda ad un reato commesso da altri ( vale a dire l’ignaro esecutore). Al contrario, colui che possiede il dominio finalistico è, e resta il solo vero autore del reato. Ciò è tanto vero che, se l’esecutore agisce, a sua volta, con leggerezza risponderà a titolo di colpa dell’evento cagionato ( art. 47 c.p.); dando così luogo a due distinte ipotesi di responsabilità, che nulla hanno a che vedere con la struttura di una di una asserita fattispecie concorsuale. Quanto appena detto vale per l’altra ipotesi normativa: costringimento fisico, di cui all’art. 46 c.p. L’autonoma rilevanza come tentativo, in questa ipotesi, della condotta di istigazione o di violenza fisica, indipendentemente dall’esecuzione del fatto che costituisce oggetto della determinazione o della violenza, indica che non ci si trova di fronte a un’ipotesi di compartecipazione nel reato, ma a un tipico caso di reità mediata. La rilevanza giuridico-penale della condotta di chi determina altri a cagionare l’evento costitutivo di reato varia sensibilmente, a seconda che si tratti di un normale caso di concorso o di una responsabilità mediata ( artt. 46 e 48 c.p.). Del resto appare evidente l’imprescindibilità del riferimento all’elemento psicologico del reato, dal momento che, nella struttura della fattispecie di tentativo, il dolo opera come fattore essenziale della tipicità degli atti. Se la legge prevede espressamente, come sorta di ipotesi specializzante del concorso di persone, la figura della cooperazione colposa, ciò vuol dire che l’elemento psicologico ha fin dall’inizio il ruolo di un elemento tipicizzante nella struttura del concetto di reato. Anche nelle ipotesi dell’esecuzione frazionata del reato, a ben vedere, la esecuzione in comune del fatto tipico dà luogo ad un’ipotesi di concorso, solo in quanto sia sorretta da una comune volontà di agire. Si pensi al fatto di chi immobilizza taluno sulla soglia della sua abitazione, tenendolo sotto la minaccia di un’arma, mentre un altro soggetto sottrae il danaro che la vittima conserva in casa. A seconda che i due agiscano di concerto, o invece, ciascuno dei due agisca ignorando del tutto l’azione dell’altro o, ancora, che sia soltanto uno dei due a trarre consapevolmente profitto dalla condotta altrui, si configurano rispettivamente un concorso in rapina o distinte responsabilità per violenza privata, furto o rapina. 68 Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) http://guidaunigiurisprudenza.blogspot.it/ Autori e partecipi nella struttura del concorso di persone. I limiti normativi della reità mediata. Il concorso di persone è una manifestazione del reato la cui modalità di realizzazione del fatto è caratterizzata dalla pluralità di soggetti che vi concorrono. Siccome, l’azione collettiva non riguarda la somma di tante azioni individuali, come avviene nel concorso di cause indipendenti, ma esprime il carattere unitario dell’intrapresa comune, distinguiamo tra autori e partecipi. Autore del fatto è colui che realizza, con l’elemento psicologico richiesto, la fattispecie esecutiva di un reato. Per stabilire a chi spetti la qualità di autore, non è sufficiente riportarsi alla distinzione fra condotte esecutive e quelle di istigazione, preparazione e agevolazione. In realtà, la qualità di autore può essere condivisa anche da altri soggetti: ad esempio, da chi, pur non prendendo parte alla esecuzione del reato, tuttavia possiede il potere di decidere se esso debba essere compiuto o meno. L’istigatore, di regola, non è autore. Ma se si pensa al capo di un organizzazione criminale che ordini ad un gregario di sopprimere un avversario, si deve riconoscere che le cose stanno in modo diverso. Qui, infatti, possiede la signoria di fatto chi ha la disponibilità dell’azione plurisoggettiva, nel senso che la commissione del reato dipende dalla sua decisione. La qualità di autore, perciò, è sempre posseduta da chi esegue il fatto tipico; ma può essere composseduta anche da soggetti che, in un diverso contesto, sarebbero da considerarsi semplici partecipi, in virtù del carattere accessorio della loro condotta rispetto alla condotta dell’autore o degli autori. Partecipe è colui che, in sostanza, vuole il fatto, ma pour sempre sotto condizione della decisione dell’autore e che, pertanto, non ne compossiede il dominio finalistico. Chi realizza la fattispecie oggettiva di un reato in assenza dell’elemento psicologico richiesto, può assumere la qualità di concorrente; né come autore né come partecipe. La figura dell’autore mediato non può essere utilizzata al di là delle ipotesi normative in cui l’esecutore materiale realizzi la fattispecie oggettiva di un reato, senza il concorso della sua volontà. In particolare, non configurano casi di reità mediata la fattispecie di cui all’art. 5 II comma, ne quella di stato di necessità determinato dall’altrui minaccia ( art. 54, III comma). In entrambi i casi la condotta dell’esecutore materiale, poiché integra gli estremi di un fatto tipico doloso, realizza i requisiti minimi per il concorso del determinatore ai fini e per gli effetti dell’art. 110 c.p.. Il tipo di fatto di cui il determinatore sarà chiamato a rispondere dipenderà dalla decisione di chi esegue l’ordine, o subisce la minaccia. Si faccia il caso di taluno che, inseguito con evidenti intenzioni omicidie da un malvivente armato, trovi una via di scampo mediante un fatto lesivo dell’altrui proprietà. La decisione dell’esecutore può determinare il tipo di fatto anche nell’ipotesi dell’ordine illegittimo: se l’ordine, ad esempio, è quello di neutralizzare taluno con ogni mezzo, sarà in definitiva l’esecutore a decidere se chi ha dato l’ordine risulterà poi responsabile di omicidi9, di un ferimento o di un sequestro di persona. Del resto, se l’ordine non viene affatto eseguito, il fatto di chi ha dato l’ordine risulterà rilevante solo nei limiti del quasi reato, ai sensi dell’art. 115, II comma c.p.; sicché risulta indirettamente confermato il suo carattere di accessorietà rispetto al fatto dell’esecutore. Il determinatore deve essere qualificato come coautore del fatto, quando ne compossiede il dominio finalistico: in pratica,sempre o quasi sempre nei casi di ordine illegittimo vincolante; e quanto allo stato di necessità indotto all’altrui minaccia, quanto meno tutte le volte che, in concreto, egli agisca con l’elemento psicologico del reato di cui all’art. 611 c.p.. Per quanto attiene alla fattispecie disciplinata dall’art. 86 c.p. occorre distinguere fra i casi in cui lo stato di incapacità determinato in altri è tale da escludere ogni contenuto di volontà nell’azione dell’esecutore e i casi in cui il soggetto sia tuttavia capace di assumere decisioni. Nel primo caso, poiché ci si trova di fronte ad una non – azione, ed è evidente il possesso esclusivo del dominio finalistico da parte di chi ha provocato lo stato di incapacità, lo schema idoneo di rappresentazione della fattispecie è quello della reità mediata; nel secondo caso, il carattere doloso dell’azione dell’incapace è sufficiente a connotare come concorso nel reato il fatto di chi ha cagionato lo stato di incapacità. Il concorso nelle fattispecie omissive. In materia di concorso dolosi, sono proprio il soggetto, o i soggetti, che si trovano nella situazione di obbligo, ad agire come autori. Per la sussistenza del dolo di concorso non occorre il previo concerto tra gli agenti, potendo sorgere l’accordo criminoso anche durante l’esecuzione del reato. Il dolo di concorso è coscienza e volontà del fatto prevista dalla fattispecie plurisoggettiva del concorso e, quindi, implica: 1) coscienza e volontà di realizzare un fatto di reato; 2) consapevolezza delle condotte che altri hanno esplicato, esplicano o esplicheranno; 3) coscienza e volontà di contribuire con la propria condotta al verificarsi del fatto criminoso. 69 Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) http://guidaunigiurisprudenza.blogspot.it/ Se l’omissione dell’atto dovuto effettivamente si verifica, ma per una causa riconducibile a terzi e non imputabile alla volontà dell’obbligato, secondo le regole generali viene meno il presupposto per la configurabilità di un concorso di persone profilandosi un caso di reità mediata. La cooperazione colposa. Detta l’art. 113 c.p.: « nel delitto colposo, quando l’evento è stato cagionato dalla cooperazione di più persone, ciascuna di queste soggiace alle pene stabilite per il delitto stesso. La pena è aumentata per chi ha determinato altri a cooperare nel delitto, quando concorrono le condizioni stabilite nell’art. 111 e nei numeri 3 e 4 dell’articolo 112». Circa la nozione di cooperazione nel delitto colposo, essa ricorre quando più persone pongono in essere una data autonoma condotta nella reciproca consapevolezza di contribuire all’azione od omissione altrui che sfocia nella produzione dell’evento non voluto, determinato da negligenza, imprudenza o imperizia (Cass. sez. un., sent. n. 5 del 11-3-1999): ad es. un omicidio colposo determinato dalla imperizia dei due chirurghi operatori facenti parte dell’equipe. Si tratta, come appare evidente, di un concorso improprio, in quanto manca l’ elemento della volontà di cooperare nel reato, necessario nel concorso proprio (doloso). Quest’ultimo elemento (consapevolezza),deve necessariamente sussistere affinché ricorra l’ipotesi di cooperazione nel reato colposo (l’esempio classico è quello dell’incendio provocato da due persone, di cui una prepara la legna e l’altra l’accende per riscaldarsi). Qualora esso manchi non vi sarà più «cooperazione» (art. 113) ma concorso di fatti colposi indipendenti (art. 41): è il caso di due automobilisti che si scontrano, provocando lesioni reciproche, per avere entrambi contravvenuto alle norme del codice della strada. In questo caso, a differenza che nella cooperazione, non si ha un reato colposo cagionato da due o più soggetti, ma si hanno tanti reati colposi quanti sono gli agenti (nell’esempio fatto, ciascun autista risponderà di lesioni colpose in danno dell’altro). Va ribadito, pertanto, che la cooperazione nel delitto colposo (art. 113 c.p.) va tenuta distinta dal concorso di cause indipendenti (art. 41 c.p.). Nel primo caso due o più persone agiscono insieme, ognuno consapevole della condotta altrui (es. un’ equipe operatoria chirurgica) e per negligenza commettono un reato (nell’es. l’omicidio colposo del paziente). Nel secondo caso, i soggetti agiscono separatamente e ciascuno inconsapevole della condotta altrui (ad esempio due automobilisti provocano un incidente mortale con separate negligenti condotte di guida: uno non rispettando lo stop, l’altro impegnando l’incrocio a velocità elevata). Inammissibilità del concorso doloso nel fatto colposo e del concorso colposo nel fatto doloso. Si noti che ricorre l’ipotesi della pluralità di reati anche quando uno dei due soggetti sia in dolo e l’altro in colpa (Tizio, per esempio, istiga Caio a spingere l’automobile a forte velocità affinché con essa sia travolto un suo nemico che di solito in una determinata ora, transita in bicicletta per quella stessa strada). Anche in tale caso, pur essendovi pluralità di reati, non v’è concorso (nell’esempio fatto, Tizio risponderà di omicidio doloso e Caio di omicidio colposo). Non è pertanto concepibile l’ipotesi di concorso doloso in delitto colposo (e viceversa). Il concorso di persone nei reati contravvenzionali. La dottrina è concorde circa l’ammissibilità del concorso di persone nelle contravvenzioni dolose, essendo il termine reato, contenuto nell’art. 110, ovviamente riconducibile sia ai delitti che alle contravvenzioni. Non eguale concordia sussiste, invece, per quanto attiene alla configurabilità del concorso nelle contravvenzioni colpose: da una parte si osserva che l’art. 113 menzionando solo i delitti colposi, sembra aver voluto limitare l’ammissibilità del concorso nei fatti colposi ai soli delitti; dall’altra, si osserva che se l’art. 113 si è riferito ai soli delitti, ciò è avvenuto per adempiere all’obbligo, posto dall’art. 42 II comma c.p., dell’esplicita previsione della ipotesi di responsabilità per colpa, che non sussiste quanto alle contravvenzioni. Dunque l’art. 110 c.p., conferma che la rilevanza della partecipazione dolosa in un fatto doloso, sia esso un delitto o una contravvenzione; l’art. 1113 svolge una funzione incriminatrice di disciplina che va sotto il nome di cooperazione colposa. La rilevanza del concorso nei fatti contravvenzionali colposi resta dunque racchiusa nell’ambito di applicazione del concorso di cause, regolato dall’art. 41 c.p. 70 Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) http://guidaunigiurisprudenza.blogspot.it/ I requisiti oggettivi del concorso:1) la pluralità dei soggetti attivi; 2) il calore causale dell’atto di partecipazione. Da un punto di vista oggettivo, il concorso è formato da: una pluralità di agenti: occorre che il reato sia posto in essere da almeno due soggetti; sussiste pluralità di agenti anche se alcuno dei concorrenti sia non imputabile o non punibile; una realizzazione dell’elemento oggettivo del reato: è necessario che almeno uno dei concorrenti abbia realizzato il fatto materiale previsto dalla norma incriminatrice. È sufficiente che sia stato posto in essere anche il «minimum» per la configurabilità del solo tentativo mentre, «salvo che la legge disponga altrimenti» (art. 115 comma 1 c.p.), non basta il mero accordo (a meno che non si traduca in reato associativo) o la mera istigazione; un contributo causale alla verificazione del fatto: ciascun concorrente deve aver posto in essere un’azione od omissione, la cui mancanza avrebbe fatto sì che diverso sarebbe stato il comportamento degli altri concorrenti. L’elemento soggettivo della partecipazione criminosa. Dottrina e giurisprudenza concordemente ritengono che nel concorso debba esistere anche un nesso psicologico tra ciascun concorrente e l’intero fatto realizzato, ossia occorre l’elemento soggettivo che poi si atteggia diversamente a seconda che si tratti di concorso doloso o colposo. Si ritiene che non occorra la reciproca consapevolezza dell’altrui concorso, ma che sia sufficiente la coscienza di concorrenze nel reato, anche quando esista unilateralmente. Concorre, dunque, nel reato, anche la domestica infedele che, in odio ai suoi datori di lavoro, essendo venuta casualmente a conoscenza che nella notte si perpetrerà un furto in casa, lasci di proposito socchiusa la porta dell’abitazione, per facilitare l’accesso ai ladri. Certo, la sua incriminabilità dipenderà dall’effettiva esecuzione del reato ma ciò non toglie che risulti comunque indifferente l’esistenza di un accordo preventivo con gli autori materiali del reato. CAPITOLO TERZO: FORME E LIMITI DEL CONCORSO PUNIBILE NELLA DISCIPLINA NORMATIVA. Le forme del concorso negli art. 11 ss. c.p. Gli art. 111 ss. c.p. permettono la rilevanza delle differenti modalità con cui si manifestano le diversi ipotesi di partecipazione al reato. Le forme di partecipazione di concorso nel reato possono essere morali o materiali : nel primo caso il concorrente non pone in essere il fatto tipico; nel secondo pone in essere, in tutto o in parte, la condotta criminosa tipica. Ipotesi di concorso morale, sono quelle del determinatore (colui che fa sorgere in altri un proposito criminoso prima non esistente); nonché dell’ istigatore (colui che rafforza od eccita un proposito criminoso già esistente). Ipotesi di concorso materiale, sono quelle dell’agevolatore (quando il concorrente si limita a fornire un ausilio materiale nella preparazione od esecuzione del reato: es. il “palo”, colui che consapevolmente fornisce gli strumenti per la consumazione dell’illecito); nonché dell’esecutore (colui che commette il fatto tipico: es. colui che spara; che rapina; ecc.). Le circostanze aggravanti e attenuanti del concorso. Gli artt. 112 (modificato dalla L. 94/2009) e 114 c.p., prevedono aggravanti e attenuanti di pena (le prime obbligatorie, le seconde facoltative, cioè applicabili a discrezione del giudice) per alcuni dei concorrenti che si trovino in particolari situazioni. L’art. 112, I comma contempla quattro distinte circostanze aggravanti del concorso di persone. La pena è aumentata: • se il numero delle persone, che sono concorse nel reato, è di cinque o più, salvo che la legge disponga altrimenti; • per chi, anche fuori dei casi preveduti dalle due ipotesi seguenti, ha promosso od organizzato la cooperazione nel reato, ovvero diretto l’attività delle persone che sono concorse nel reato medesimo; • per chi, nell’esercizio della sua autorità, direzione o vigilanza, ha determinato a commettere il reato persone ad esso soggette; • per chi, fuori del caso preveduto dall’art. 111, ha determinato a commettere il reato un minore degli anni 18 o una persona in stato di infermità o di deficienza psichica, ovvero si è comunque avvalso degli stessi o con gli stessi ha partecipato nella commissione di un delitto per il quale è previsto l’arresto in flagranza. La norma prosegue (secondo comma) prevedendo un incremento sanzionatorio fino alla metà della pena per 71 Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) http://guidaunigiurisprudenza.blogspot.it/ chi si è avvalso di persona non imputabile o non punibile, a cagione di una condizione o qualità personale, o con la stessa ha partecipato nella commissione di un delitto per il quale è previsto l’arresto in flagranza. Nel caso in cui chi abbia determinato altri a commettere il reato o si sia avvalso di altri o con questi abbia partecipato nella commissione del delitto ne sia il genitore esercente la potestà, nel caso previsto dalla quarta ipotesi, la pena è aumentata fino alla metà e in quello previsto dal secondo comma la pena è aumentata fino a due terzi. La previsione si chiude affermando che gli aggravamenti di pena stabiliti nelle prime tre ipotesi si applicano anche se taluno dei partecipi al fatto non è imputabile o non è punibile. Viceversa la pena è diminuita: Per coloro che hanno avuto una parte minima nella partecipazione ed esecuzione del reato; Per i minori di anni 18 e gli infermi di mente; Per le persone determinate a commettere il reato da soggetti rispetto ai quali si trovano in stato di soggezione. Limiti di comunicabilità delle circostanze ordinarie. Quanto alla comunicabilità delle circostanze, che riguardano uno solo dei concorrenti la disciplina è contenuta nell’art. 118 c.p. che è stato modificato dalla L.7/2/90, n. 19. Per effetto di tale modifica, le circostanze che aggravano o diminuiscono le pene concernenti i motivi a delinquere, l’intensità del dolo, il grado della colpa e le circostanze inerenti alla persona del colpevole devono essere valutate soltanto riguardo alle persone cui si riferiscono ( circostanze soggettive). Per le circostanze oggettive, invece, vale la disciplina dettata dall’art. 59, e cioè: • le circostanze oggettive attenuanti si applicano per il solo fatto di concorrere; • le circostanze oggettive aggravanti si applicano solo se conosciute dal correo ovvero ignorate per colpa o ritenute inesistenti per errore determinato da colpa. Tale impostazione, come già accennato, deriva da una applicazione rigorosa dell’art. 27 Cost. («La responsabilità penale è personale»), tesa alla considerazione delle circostanze aggravanti alla luce del principio di colpevolezza. La responsabilità del partecipe per un reato diverso da quello voluto. Può accadere che, nell’eseguire il piano criminoso, taluno dei concorrenti commetta di propria iniziativa altro reato « al posto » di quello voluto, o altro reato «oltre» quello voluto dagli altri cooperatori. Sicché, mancando nel concorrente il dolo di concorrere nel reato diverso, si pone il problema di stabilire se tale reato possa essere penalmente attribuitogli ed a quale titolo. Il codice penale, all’art. 116, ha accolto la soluzione più drastica, sancendo che «quando il reato commesso sia diverso da quello voluto da taluno dei concorrenti, anche questi ne risponde se l’evento è conseguenza della sua azione od omissione». Tale rigidità è parzialmente attenuata al comma 2, laddove si prevede che «se il reato diverso è più grave di quello voluto, la pena può essere diminuita nei confronti di chi volle il reato meno grave». La norma in esame sembrerebbe configurare un’ipotesi di responsabilità oggettiva, fondando la responsabilità di tutti i concorrenti esclusivamente sulla base del contributo causale dato. Ciò dunque in contrasto con i principi in tema di responsabilità penale sanciti dall’art. 27 Cost. La Corte Costituzionale (sent. 42/1965), investita della questione di legittimità del suddetto articolo, l’ha ritenuta infondata osservando che la responsabilità, ex art. 116, ha come base la sussistenza non solo del rapporto di causalità materiale, ma anche psichica, essendo sufficiente che il reato diverso e più grave rispetto a quello concordato si rappresenti alla psiche degli altri come uno sviluppo logicamente prevedibile di quello voluto. Facciamo due esempi: 1) Tre ladri si introducono in una villa per consumare un furto; una volta scoperti, per vincere la reazione della vittima, esercitano violenza, trasformando il furto in rapina. 2) Tre ladri si introducono in una villa per consumare un furto. scoperti dalla padrona di casa, esercitano violenza sessuale sulla vittima. Orbene se, in entrambi i casi, all’esterno dalla villa vi era un quarto complice con funzione di “palo”, quest’ultimo, ai sensi dell’art. 116 c.p., risponde del reato diverso commesso dai complici? Secondo l’interpretazione costituzionalmente orientata della norma, fornita dalla Corte Costituzionale, nel primo caso il “palo” risponderà della rapina, in quanto un’evoluzione di un furto in rapina, all’interno di una 72 Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) http://guidaunigiurisprudenza.blogspot.it/ villa abitata, è un evento prevedibile. Nel secondo caso non risponderà della violenza sessuale, in quanto tale condotta diversa era del tutto imprevedibile. La partecipazione al reato proprio e i limiti di applicabilità dell’art. 117 c.p. È indiscusso che nel reato proprio possano concorrere, oltre ai soggetti che rivestono la qualifica voluta dalla legge (intraneus), anche i soggetti che non hanno tale qualifica (extraneus): ad es. se Tizio istiga un sindaco a concedergli una concessione edilizia illegittima, entrambi risponderanno di abuso di ufficio, pur rivestendo solo il sindaco la qualità di P.u. Discussa è poi la responsabilità dell’ extraneus nel caso in cui ignori che l’intraneus rivesta la qualità richiesta dal reato proprio. infatti, secondo i principi generali, egli non dovrebbe rispondere di alcun reato se si tratti di reati propri ed esclusivi, mentre dovrebbe rispondere di reato comune se la qualifica soggettiva comporti solo un mutamento del titolo di reato, e di reato proprio se, senza qualifica, il fatto costituisce un illecito extrapenale o offensivo di altrui interessi. Ciò detto, l’ art. 117 c.p. disciplina una particolare ipotesi di concorso dell’extraneus nel reato proprio. Va premesso che taluni reati propri sono definiti «non esclusivi», in quanto il codice prevede una corrispondente figura di reato comune: ad es. se il P.u. si appropria di danaro di cui ha la disponibilità per ragioni d’ufficio (es. il vigile urbano delle somme incassate dalle contravvenzioni stradali), risponderà di peculato (art. 314 c.p.); se la stessa condotta la commette un privato (es. amministratore di condominio in relazione alle somme riscosse dai condomini), risponderà di appropriazione indebita (art. 646 c.p.). Ciò premesso, se il P.u. commette il peculato per istigazione di un privato, quest’ultimo risponderà di appropriazione indebita o anch’egli di peculato? A tale quesito dà risposta l’art. 117 c.p. che prevede che per l’ estraneo muti il «titolo» del reato; pertanto anche l’extraneus risponderà di peculato. Va pertanto ribadito, come sostenuto dalla dottrina dominante, che detta norma disciplina appunto la sola ipotesi di concorso dell’estraneo nei reati propri non esclusivi. Desistenza e recesso attivo nel concorso di persone. La desistenza volontaria (art. 56, p. c. 3), in quanto causa soggettiva di estinzione del tentativo, non si estende agli altri compartecipi. Per la sua sussistenza, in precedenza, si riteneva necessario impedire il compimento dell’evento, ma oggi, più realisticamente, si ritiene sufficiente l’ eliminazione degli effetti della propria condotta, cioè, tanto il contributo causale diretto, quanto il maggior pericolo derivante dalla propria partecipazione. Il pentimento operoso, in quanto circostanza attenuante soggettiva (art. 56,p.c. 4),non si estende agli altri compartecipi. Per la sua sussistenza è richiesto che il recidente riesca ad impedire il verificarsi dell’evento lesivo dell’azione collettiva già giunta ad esaurimento. I limiti di applicabilità della disciplina del concorso eventuale alle ipotesi di concorso necessario. Il concorso è necessario quando la struttura della condotta incriminata richiede necessariamente la partecipazione di più soggetto, riflessa nella fattispecie descrittiva del reato. Vi sono però, reati plurisoggettivi (detti propri) caratterizzati dalla espressa assoggettabilità a pena di tutti i concorrenti ( si pensi alla rissa) e reati plurisoggettivi impropri, rispetto ai quali la legge dichiara punibili solo alcuni fra i necessari partecipanti al fatto: è il caso degli atti sessuali con minorenne. La dottrina afferma che il partecipe non espressamente dichiarato punibile non possa rispondere del reato a titolo di concorso eventuale; in base al rilievo che, punendo il concorrente non espressamente assoggettato a pena della legge, si tradirebbe la scelta del legislatore finendo colo disattendere il principio del nullum crimen sine lege. Il concorso necessario è applicabile anche alle circostanze aggravanti e attenuanti a meno che le norme in questione non siano espressamente escluse o derogate dalle disposizioni che incriminano il reato necessariamente plurisoggettivo. Concorso di persone e reati associativi. Circa la differenza tra il concorso di persone ed il reato associativo, la giurisprudenza è giunta a consolidati indirizzi. Il criterio distintivo sta nel fatto che, mentre nel concorso di persone le intese tra i concorrenti sono dirette alla commissione di uno o più reati determinati con la consumazione del quale o dei quali l’accordo si esaurisce, nei reati associativi , e nell’associazione per delinquere in particolare, l’accordo è stabilmente indirizzato all’attuazione di un determinato e più vasto programma delittuoso, precedente e comunque autonomo rispetto agli accordi particolari relativi ai singoli delitti, e destinato a sopravvivere ai medesimi per l’ulteriore realizzazione del programma stesso. 73 Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) http://guidaunigiurisprudenza.blogspot.it/ PARTE QUINTA CONCORSO DI REATI E DI NORME CAPITOLO PRIMO: CONCORSO DI REATI Si ha concorso di reati a norma degli artt. 71 ss. c.p. nell’ipotesi in cui uno stesso soggetto viola più volte la legge penale e perciò deve essere giudicato per più reati. Viceversa si parla di concorso di norme quando due o più norme incriminatrici si presentano almeno prima facie come applicabili a una medesima condotta. Ma il concorso di norme penali è per definizione concorso apparente essendo evidente che ogni singola fattispecie concreta penalmente rilevante non può che essere ricondotta ad una sola norma,essendo impensabile che sia contemporaneamente disciplinata sulla base di due o più regole non omogenee contenute in norme diverse. Esempio: non posso applicarsi contemporaneamente l’art.624bis 2°comma (furto commesso strappando la cosa di mano o di dosso alla persona) e l’art.628 c.p. (rapina), ma occorrerà stabilire in base al principio di tipicità sotto quale delle due disposizioni incriminatrici debba essere sussunta l’ipotesi concreta. Può accadere però: - Che una singola condotta realizzi contestualmente la violazione di più norme incriminatrici - Che taluno debba essere giudicato contemporaneamente per più fatti connessi in qualche modo fra loro nello spazio, nel tempo,nell’occasione ciascuno dei quali concreti la violazione di una specifica norma incriminatrice. Inoltre il concorso di reati si definisce: - CONCORSO FORMALE: se l’agente con una sola azione od omissioni viola più disposizioni di legge,ovvero realizza più violazioni della medesima disposizione di legge - CONCORSO MATERIALE: se l’agente con più azioni od omissioni viola diverse diverse disposizioni di legge ovvero viola più volte la stessa disposizione di legge Il Concorso Materiale: Struttura E Disciplina Quando con più azioni od omissioni un soggetto violi più volte la stessa o differenti disposizioni di legge (ES.Tizio ruba più volte oppure ruba e poi uccide la vittima); da un punto di vista della struttura si distingue il concorso materiale omogeneo che corrisponde all’ipotesi in cui l’autore realizza più volte lo stesso reato, nel concorso materiale eterogeneo si ha quando con le diverse azioni od omissioni l’autore da vita a reati diversi (come nell’ipotesi in cui chi ha commesso una rapina, per fuggire ruba un auto e uccide un passante). Si fa luogo in tal caso al c.d. cumulo materiale delle pene al responsabile vengono comminate tante pene per quante sono le violazioni commesse con alcuni temperamenti circa la pena massima da infliggere. La disciplina dettata da codice penale per il concorso materiale di reati si applica sia nel caso che un stessa persona sia giudicata per più fatti, sia nel caso che contro di essa debbano eseguirsi più condanne. Il Trattamento Sanzianatorio Del Concorso Materiale La regola del cumulo materiale è enunciato come criterio generale per il trattamento sanzionatorio del concorso materiale di reati, per il quale si applicano tante pene quanti sono i reati commessi. Per il cumulo giuridico si applica la pena prevista per il reato più grave aumentata proporzionalmente alla gravità delle pene previste per gli altri reati, la pena complessiva risulta però inferiore al cumulo materiale. Il Concorso Formale Dei Reati Il concorso formale si ha quando con una sola azione od omissione l’autore realizza la violazione di più disposizioni di legge. Va distinto in: Omogeneo: quando con una sola azione od omissione si compiono più violazione della medesima disposizione di legge (es. una parola che ingiuria contemporaneamente più persone) Eterogeneo: quando con una sola azione od omissione si violano diverse disposizioni di legge (es. con un colpo di pistola si uccide una persona e si danneggia una porta) 74 Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) http://guidaunigiurisprudenza.blogspot.it/ Il concorso formale omogeneo presuppone l’identità della norma violata e si realizza ogniqualvolta il fatto tipico esecutivo di uno dei reati in concorso è al tempo stesso senza residui,esecutivo anche dell’altro. Il presupposto per il determinarsi di un concorso formale eterogeneo per altro è costituito dall’esistenza già a livello di fattispecie legali astratte,di un nucleo di tipicità comune alle diverse figure di reato,(c.d. rapporto di interferenza) e la realizzazione del fatto tipico costitutivo di uno dei reati in concorso,si presenta a configurare anche quello dell’altro reato in concorso formale. Il Regime Sanzionatorio Del Concorso Formale Di Reati Al concorso formale sia omogeneo che eterogeneo era riservato lo stesso trattamento sanzionatorio previsto per le ipotesi di concorso materiale vale a dire la somma aritmetica delle pene da infliggere per i singoli reati sia pire con i correttivi limiti risultanti dagli art. 72,79 c.p. Ma il legislatore del 74 ha optato per la sostituzione del criterio del cumulo materiale con quello del CUMULO GIURIDICO e il 1 comma dell’art.81 c.p. dedicato al concorso formale stabilisce: “è punito con la pena che dovrebbe infliggersi per la violazione più grave aumentato sino al triplo chi con una sola azione od omissione viola diverse disposizioni di legge ovvero commette più violazioni della medesima disposizione di legge. Il giudice determina l’aumento in uno spazio edittale che è vincolato solo nel massimo e che dipende dal numero e dalla gravità dei reati commessi. L’art. 81, 4°comma introdotto con la L.251/2005 prevede però: “ fermi restando i limiti indicati dal terzo comma, se i reati in concorso formale o in continuazione con quello più grave sono commessi da soggetti ai quali sia stata applicata la recidiva prevista dall’art. 99 4° comma l’aumento della quantità di pena non può comunque essere inferiore ad un terzo della pena stabilita per il reato più grave.”Viene cosi fissata una misura minima dell’aumento di pena che arricchisce ed aggrava ulteriormente il quadro degli inasprimenti sanzionatori derivanti dalla dichiarazione di recidiva. Problemi Applicativi Dell’attuale Regime Sanzionatorio Del Concorso Formale Nel reintrodurre in forma generalizzata il criterio del cumulo giuridico per i casi del concorso formale il legislatore del 74 non ha precisato se esso sia applicabile, e con quali regole anche nell’ipotesi in cui le pene previste per i singoli reati siano di specie diversa anche se omogenee o eterogenee e se sia applicabile al concorso fra delitti e contravvenzioni. Con sentenza n. 312/88 la Corte Costituzionale ha respinto l’obiezione dell’applicabilità del cumulo giuridico fondata sull’assunto che attraverso questo meccanismo si finirebbe con sanzionare uno dei fatti in concorso con una pena diversa da quella prevista in violazione del principio di legalità. Si osserva in sentenza che è pena legale non solo quella prevista dalla singola norma incriminatrice, ma anche quella risultante dall’applicazione delle varie disposizioni incidenti sul trattamento sanzionatorio e perciò anche quella derivante dal cumulo giuridico previsto dall’art.81 c. p. La Corte ha sottolineato che essendo fuori discussione che l’intento della riforma fosse quello di rendere più mite il regime sanzionatorio del concorso di reati,la nuova normativa andava interpretata in modo da consentire al reo di godere comunque di una minore limitazione della libertà personale,rispetto a quella che deriverebbe dal cumulo materiale. Il caso di specie portato all’esame della Corte (continuazione tra furto d’auto e guida senza patente) la Corte osserva che per l’imputato era senz’altro da considerarsi un beneficio ispirato al favor rei riconosciuto come ratio dell’istituto ottenere una condanna che aumenti di qualche giorno la pena per il furto anziché vedersi sommata a questa la pena di altri 3 mesi almeno di arresto per la guida senza patente e ciò anche se quel qualche giorno in più si chiamerà reclusione dato che ambo le specie indicano con la stessa sofferenza nella privazione della libertà personale. La sentenza della Corte Cost. coronava una controversa evoluzione giurisprudenziale iniziatasi nel segno del diniego di applicabilità del cumulo giuridico in presenza di pene di specie e /o genere diverso,ma successivamente approdata a una maggiore espansione applicativa della ratio del nuovo trattamento sanzionatorio. Diverse sono le ipotesi che possono verificarsi: che ciascun reato sia punibile con una sola pena,l’una detentiva l’altra pecuniarie,che un reato sia punibile con una pena unica e altri con pena detentiva o pecuniaria Le soluzioni prospettate in dottrina e in giurisprudenza oscillano dalla tesi che vorrebbero la trasformazione della pena pecuniaria in una quota aggiuntiva della pena detentiva,sulla base del criterio indicato dall’art.135 c.p. a quella opposta secondo cui l’aumento ex art. 81 andrebbe effettuato a soli fini di calcolo sulla pena detentiva ma dovrebbe poi essere ragguagliato alla specie originaria per approdare a ipotesi di soluzione ancora più articolate specialmente per il caso in cui alcuni dei reati in concorso formale siano puniti con pene detentive e pecuniarie congiunte. Il problema è che si trovano contrapposte l’esigenza di salvaguardare la legalità delle pene e 75 Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) http://guidaunigiurisprudenza.blogspot.it/ quella di assicurare effettività al principio unificante proprio del sistema del cumulo giuridico. CAPITOLO SECONDO: LE DEROGHE LEGISLATIVE AL REGIME SANZIONATORIO DEL CONCORSO DI REATI Le Eccezioni Alla Disciplina Del Concorso Materiale: Il Reato Continuato Il reato continuato è previsto dal secondo comma dell’art.81 c.p. appartiene alla categoria dei c.d. reati a struttura complessa,i quali sono composti da una pluralità di fattispecie di per sé già costituenti reato. Nel diritto penale si ha reato continuato quando una medesima persona una medesima compie, con più azioni od omissioni, una pluralità di violazioni della stessa o di diverse disposizioni di legge, anche in tempi diversi, in esecuzione del medesimo disegno criminoso.Si tratta di un particolare tipo di concorso materiale di reati, caratterizzato dalla presenza di un disegno criminoso unico che accomuna i reati commessi nella sua esecuzione. Il codice penale italiano in seguito alla riforma del 1974 che ha modificato l'art. 81 punisce tale ipotesi con pene più mitigate rispetto al normale concorso materiale. In caso di reato continuato è prevista l'applicazione del cumulo giuridico. La difficoltà di provare la presenza di un "medesimo disegno criminoso", ha indotto nel tempo la giurisprudenza a presumere l'esistenza del reato continuato in tutti quei casi in cui un soggetto compia più reati anche a distanza di tempo, estendendo quindi ulteriormente l'area di operatività del cumulo giuridico.L'espressione medesimo disegno criminoso identifica l'ipotesi in cui l'agente ha, prima dell'inizio dell'esecuzione del primo reato, programmato con sufficiente precisione i tipi di reati che è intenzionato a commettere. La Struttura Del Reato Continuato Gli elementi del reato continuato sono: Pluralità di azioni od omissioni: poiché si possa parlare di continuazione è necessaria la commissione di una pluralità di condotte criminose autonome che sfociano in più episodi criminosi distinti in modo da non risultare più riconducibili ad una sola azione od omissione (altrimenti si cade nell’ipotesi del 1 comma dell’art.81 di concorso formale) ad esempio rapina accompagnata da sequestro di persona ed omicidio di una delle vittime. Le distinte condotte criminose possono anche essere commesse a notevole distanza di tempo tra loro ed anche se per uno dei reati,giudicato in separato processo sia comunque intervenuta una sentenza definitiva es. il caso del padre di una ragazza violentata che uccide i tre violentatori con omicidi commessi in tempi diversi. Pluralità di violazioni della stessa o di diverse disposizioni di legge: Si osservi che l’art.81 2 comma nella sua stesura originaria era restrittivo in quanto limitava la continuazione alle sole violazioni della stessa disposizione di legge (es. più furto) sicchè successivamente si è ammessa la continuazione non solo tra violazioni della stessa norma (reato continuato omogeneo) ma anche tra violazioni di diposizioni diverse (reato continuato eterogeneo es.porto abusivo d’armi ed omicidio) a condizioni che siano espressione di un medesimo disegno criminoso. il medesimo disegno criminoso: secondo la dottrina prevalente esso consiste nell’iniziale programmazione e deliberazione di una pluralità di reati,diretti al conseguimento di un unico fin. Tale requisito funge da coefficiente psicologico che unifica i vari reati e distingue il reato continuato dal concorso di reati. Da ciò segue che la continuazione non è configurabile rispetto ai reati colposi (non potendo sussistere in tal caso il disegno criminoso) Il Trattamento Sanzionatorio Del Reato Continuato E Criteri D’individuazione Della Violazione Piu’ Grave (Nel nesso teleologico (aver commesso un reato per eseguirne un altro,es. porto abusivo d’arma per effettuare una rapina) costituisce ai sensi dell’art. 61 n. 2 c.p. un’aggravante comune. Però l’avere eseguito i reati in esecuzione di un medesimo disegno criminoso ai sensi dell’art.81 comma 2 c.p. (reato continuato),consente di temperare la pena attraverso il cumulo giuridico, ci si è chiesti allora se vi sia compatibilità tra l’aggravante del nesso teleologico e la disciplina del reato continuato, in quanto lo stesso fenomeno una volta è visto con disfavore per il reo (aggravante), un’altra con favore (cumulo giuridico delle pene) . La dottrina e la giurisprudenza dominanti sono favorevoli alla compatibilità,in quanto l’aggravante riguarda il singolo reato teleologicamente connesso,mentre la continuazione si riferisce al complesso dei 76 Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) http://guidaunigiurisprudenza.blogspot.it/ reati riguardati unitariamente.) La pena che si applica per il reato continuato è quella prevista per il concorso formale e cioè la pena prevista per il reato più grave,aumentabile fino al triplo. Se l’imputato è gravato dalla recidiva reiterata (art.99c.4) l’aumento non può essere inferiore ad un terzo (fermo restando il limite massima del triplo).Si è posto il problema di come computare l’aumento (fino al triplo) per i reati satellite rispetto a quello più grave quando detti reati minori sono puniti con pene eterogenee o di specie diversa (es. reato più grave con la reclusione ed il reato meno grave con l’ammenda o multa). Parte della dottrina ha sostenuto che in tali casi non può farsi luogo al cumulo giuridico delle pene,in quanto si violerebbe il principio di legalità che investe non solo il reato, ma anche la pena infatti si aumenterebbe la reclusione prevista per il reato più grave,laddove per il reato satellite è prevista la sola pena pecuniaria.Altra dottrina ha sostenuto che in tali ipotesi non si aumenta la pena più grave,ma ad essa si aggiunge quella prevista per i reati meno gravi(es. alla reclusione si aggiunge l’ammenda).La giurisprudenza dominante invece,ritiene che sia ammissibile l’aumento della pena prevista per il reato più grave senza rischio di vulnerare il principio di legalità in quanto lo stesso art.81 (che prevede il sistema del cumulo giuridico) è una norma di legge che disciplina la pena. Gli Ulteriori Profili Della Disciplina Normativa Del Reato Continuato.Reato Continuato E Cosa Giudicata. Il reato continuato viene considerato e disciplinato come un fatto unitario ma sotto alcuni aspetti si presenta come reati in concorso materiale. Ciò avviene soprattutto sul piano della rilevanza processuale non solo per ciò che attiene alla procedibilità si deve aver riguardo ai singoli episodi criminosi,ma il nuovo codice di procedura penale ha eliminato la rilevanza della continuazione,ai fini della determinazione della competenza per materia e per territorio. Anche per decidere dell’applicabilità delle cause estintive del reato e della pena si dovrà guardare ai singoli fatti che compongono il reato continuato.La continuazione cessa con il perfezionamento dell’ultimo reato commesso in esecuzione dell’originario disegno criminoso. Si ritiene per altro che taluni eventi in ordine processuale siano idonei a interrompere la continuazione nel reato con l’effetto di inibire la rilevanza del disegno criminoso ai fini della continuazione con episodi successivi. Oggi l’orientamento prevalente nella giurisprudenza è che una siffatta rilevanza può essere riconosciuta solo alla sentenza di condanna passata in giudicata. Quest’ultimo orientamento è da condividere in quanto l’effetto di interruzione della continuazione non ha nulla a che vedere (come in passato si è ritenuto) con un interruzione del disegno criminoso, esso dipende piuttosto dall’esigenza general-preventiva che impone di evitare che si crei per le violazioni successive al giudicato una sorta di autorizzazione preventiva a commettere reati a pena ridotta o nulla (se l’aumento del triplo è stato già applicato).Il giudicato non preclude la possibilità di valutare ai fini della pena complessiva da applicare la continuazione con altre violazioni commesse anteriormente al formarsi del giudicato anche se accertate in epoca successiva ma si rende necessario in questi casi di rideterminare la pena coordinando il nuovo giudizio con quello irrevocabile precedente cosi da contenere l’eventuale ulteriore aumento nei limiti dell’art.81, 2 e 3 comma.Oggi la questione è definitivamente superata dall’art.671 del vigente codice di procedura penale che consente l’applicazione della disciplina sanzionatoria del reato continuato e del concorso formale anche in sede di esecuzione: vale a dire in rapporto a sentenze passate in giudicato senza statuizione alcuna sulla continuazione fra i singoli reati.Il giudice dell’esecuzione provvede determinando la pena complessiva a norma dell’art.81, 2°comma in misura non superiore alla somma di quelle inflitte con ciascuna sentenza. Se la pena conseguente al riconoscimento del concorso formale o della continuazione lo consente il giudice dell’esecuzione sempre a norma dell’art.671 c.p.p. può altresì concedere la sospensione condizionale della pena e la non menzione della condanna nei certificati del casellario giudiziario. Le Eccezioni Alla Disciplina Del Concorso Formale: Il Reato Aberrante L’art. 82 c.p. (offesa di persona diversa da quella alla quale l’offesa era diretta) stabilisce: “quando per errore nell’uso dei mezzi di esecuzione del reato,o per altra causa è cagionata offesa a persona diversa da quella alla quale l’offesa era diretta,il colpevole risponde come se avesse commesso il reato in danno della persona che voleva offendere,salvo per quanto riguarda le circostanze aggravanti e attenuanti le disposizioni dell’art.60. Qualora oltre alla persona diversa,sia offesa anche quella alla quale l’offesa era diretta,il colpevole soggiace alla pena stabilita per il reato più grave aumentata fino alla metà. Il successivo art.83 (evento diverso da quello voluto dall’agente) stabilisce: fuori dei casi preveduti dall’art.precedente,se per errore nell’uso dei mezzi di esecuzione del reato o per un’altra causa si cagiona un evento diverso da 77 Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) http://guidaunigiurisprudenza.blogspot.it/ quello voluto,il colpevole risponde a titolo di colpa dall’evento non voluto,quando il fatto è preveduto dalla legge come delitto colposo. Se il colpevole ha cagionato l’evento voluto si applicano le regole del concorso dei reati. Quindi da un lato esse possono essere inquadrate nella dottrina dell’errore,ove corrispondono all’ipotesi del c.d. errore-inabilità,contrassegnato dalla divergenza fra voluto e realizzato per effetto di una inappropriata esecuzione del fatto.La divaricazione fra voluto e realizzato non è dovuta a cause che incidono sul momento formativo delle volontà,ma a fattori che incidono sulla fase esecutiva di una risoluzione criminosa. Dall’altro lato la figura del reato aberrante che si presenta come una deroga al regime sanzionatorio del concorso formale di reati e si distingue: un aberratio ictus che corrisponde nella sua forma-base al fatto di chi volendo cagionare offesa a un soggetto passivo,concreta il proprio intento in un’azione od omissione che si traduce nell’offesa di un altro soggetto: come nel caso di chi spara contro Tizio per ucciderlo,ma per imprecisione nella mira uccide Caio che gli si trovava accanto. L’abberatio delicti sempre nella sua forma-base concerne invece il fatto di chi agisce per realizzare l’evento lesivo che corrisponde a una determinata fattispecie di reato ma nei fatti cagiona un evento corrispondente a un reato diverso come nel caso di chi lancia un sasso allo scopo di infrangere la vetrina di un negozio,ma ferisce alla testa il commesso che si appressava ad aprirla. In entrambi le ipotesi ricorre una condotta di tentativo relativamente all’offesa voluta ma non realizzata dall’agente e costituito da un evento di lesione che l’agente non intendeva cagionare. Sul piano oggettivo sono presenti gli estremi di una rilevanza del fatto per un ipotesi di concorso formale di reati con una solo condotta il soggetto ha dato luogo a una duplice violazione di legge: l’una relativa a un fatto rimasto nello stadio del tentativo,l’altra relativa a un fatto consumato. Vi è una differenza rispetto alle ipotesi normali del concorso formale di reati, ove l’agente si rappresenta e vuole tutte le violazioni di legge oggettivamente realizzate. Nel reato aberrante l’evento non corrisponde ai propositi dell’agente è un evento non voluto. ABERRATIO ICTUS. a) L’aberratio ictus monolesiva. L’art.82, 1°comma c.p. concerne l’ipotesi di chi realizza il reato che aveva in animo di commettere,però in danno di una persona diversa dalla vittima designata (aberratio monolesiva). La relativa disciplina esprime una configurazione unitaria di questa ipotesi di reato aberrante,tanto da sottrarla alle regole proprie del concorso di reati.Nel sistema originario del codice il trattamento sanzionatorio dell’aberratio ictus monolesiva risultava più rigorosa rispetto a quello riservato al concorso formale la pena applicabile ad un reato doloso consumato è più elevata di quella che conseguirebbe al cumulo materiale delle pene da infliggere per un delitto tentato e per il corrispondente reato colposo consumato.Nell’attuale regime la differenza a sfavore dell’aberratio è ancora più marcata tenuto conto del trattamento sanzionatorio attualmente applicabile ai casi di concorso formale a norma dell’art. 81, 1 e 3 comma c.p. Dal punto di vista della fattispecie oggettiva l’ipotesi dell’art.82 1 comma richiede che si sia verificato un evento lesivo (in danno di persona diversa da quella a cui l’offesa era diretta) e che tale offesa si possa dire cagionata dalla condotta diretta ad offendere la vittima designata, è necessario che si tratti di una condotta unitaria perché diversamente saremo di fronte ad un ipotesi di concorso materiale o di reato continuato. L’evento voluto e quello realmente cagionato devono essere omogenei se si tratta di eventi eterogenei ricorre l’ipotesi dell’aberratio delicti prevista dall’art.83. All’ipotesi dell’art. 82 si applica la disciplina dettata per le circostanze dell’art.60 c.p. per i casi di error in persona, pertanto non si fa carico all’autore delle aggravanti oggettivamente ricorrenti che concernano la persona dell’offeso o i suoi rapporti con il colpevole,mentre si applicano a favore del reo le attenuanti dello stesso tipo erroneamente supposte.(risponderà quindi di omicidio semplice chi volendo uccidere il proprio padre,uccide invece un passante), ma ove sussistono i requisiti di una esimente reale o putativa essa dovrà trovare applicazione anche nei casi di aberratio ictus salva l’applicabilità delle disposizioni di eccesso colposo. Ma il problema è quello del criterio di imputazione dell’evento non voluto. Ci si pone la domande se l’abberatio ictus punendo il fatto come se fosse colposo si sia mantenuto all’interno dei principi generali della responsabilità dolosa, o se invece non ne abbia dilatato implicitamente l’area configurandola con la responsabilità oggettiva. Secondo una parte della dottrina l’identità della persona offesa poiché non appartiene all’oggetto del dolo sarebbe comunque irrilevante ai fini del dolo di omicidio ad esempio è sufficiente la volontà di cagionare la morte di un uomo mentre non 78 Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) http://guidaunigiurisprudenza.blogspot.it/ ha nessuna rilevanza se in concreto sia rimasto ucciso Tizio o Sempronio. Secondo altri poiché si versa per definizione fuori dall’ipotesi del dolo eventuale,si deve partire dalla premessa che l’agente non si è in alcun modo rappresentata l’offesa a una vittima diversa, né consegue che la responsabilità dell’agente per l’offesa cagionata in concreto maschera un’ipotesi di responsabilità oggettiva. L’evento materiale e l’atteggiamento psicologico del soggetto solo se considerati separatamente appaiano conformi al tipo legale,ma poiché manca la congruenza fra l’atteggiamento psicologico e l’evento che si è verificato,l’evento stesso non può essere considerato come una concretizzazione della volontà dell’agente rilevante per la responsabilità dolosa. Basti considerare che l’art.82 non richiede che l’offesa a persona diversa sia cagionata per colpa,dimodochè potrebbe accadere che si risponda secondo le regole della responsabilità per dolo, sia per il contrasto con il principio di colpevolezza che per l’incongruità della scelta di sfavore implicita nella disciplina dell’art.82, 1 comma diffusa è l’istanza di una sua abrogazione o modificazione.L’attuale disciplina del concorso formale di reati sembra adeguata alle esigenze sostanziali a cui l’art.82 era diretto in un contesto normativo,però la regola generale era costituita dal cumulo materiale delle pene. Nel quadro dell’attuale normativa invece non pare residuino motivi validi per una configurazione a sé stante dell’aberratio tanto più se essa come avviene attualmente deve passare per la fictio costituita dall’attribuzione di una responsabilità a titolo di dolo per un fatto che al più è cagionato per colpa. b) L’aberratio ictus plurilesiva Può accadere che a causa della deviazione del decorso esecutivo indotta dall’errore sia cagionato offesa tanto alla vittima designata quanto ad un terzo.Questo tipo di aberratio ictus detta plurilesiva o plurioffensiva è disciplinato dall’art.82,2 comma c.p. questa norma prevede in tal caso che il colpevole soggiace alla pena stabilita per il reato più grave aumentato fino alla metà.Premesso che per offesa deve intendersi lesione e non semplice messa in pericolo si pongono tuttavia non lievi problemi interpretativi irriducibilmente connessi con la determinazione del titolo di responsabilità per l’evento ulteriore.Secondo l’opinione tradizionale tale evento sarebbe addebitato all’autore a titolo di responsabilità oggettiva. Contro tale opinione si è osservato che l’art.82,2 comma sembra ipotizzare la sussistenza di due reati l’uno più grave,l’altro meno grave. Si dovrebbe ritenere che accanto al reato doloso la cui sussistenza è scontata per quanto attiene all’offesa cagionata alla vittima designata,la legge richiede almeno un fatto riconducibile a una condotta colposa,non potendo ammettersi l’esistenza di un reato punibile in forza di un titolo di responsabilità esclusivamente obiettiva. Ci sarebbe la necessità di stabilire innanzi tutto se l’ulteriore offesa sia addebitabile all’agente a titolo di colpa, e solo in esito a tale accertamento si potrà eventualmente comparare la gravità dei due reati.Ma questa proposta d’interpretazione dell’art.82 non appare compatibile con l’attuale formulazione dell’art.82 ed invero, posto che il sistema originario del codice da un lato ammetteva la configurabilità da parte del legislatore ordinario di ipotesi di responsabilità oggettiva e dall’altro non conosceva limiti di ordine costituzionale alla concreta configurazione di tali ipotesi non vi è dubbio che il legislatore fosse anche abilitato a determinare condizioni a equiparare nelle conseguenze l’imputabilità oggettiva dell’evento alla responsabilità dolosa che è appunto ciò che avviene nell’art.82,1 comma c.p. Non si è mai dubitato del resto che dell’offesa alla persona diversa di cui all’art 82 si risponda a titolo di dolo. Orbene il 2 comma dell’art. 82 non può essere letto prescindendo dal primo poiché da quello logicamente e semanticamente dipende. Appare evidente che la comparazione imposta dall’art.82,2 comma al fine della individuazione del reato più grave avviene in realtà tra due reati entrambi puniti a titolo di dolo: l’uno (quello in danno della vittima designata) perché effettivamente volontario, l’altro (quello in danno della persona diversa) perché addebitatogli al medesimo titolo a norma dell’art.82 1 comma. L’ABERRATIO DELICTI Si prevede quando per errore nell’uso dei mezzi di esecuzione del reato,o per un’altra causa cagiona un evento diverso da quello voluto.In tal caso dispone l’art.83 che il colpevole risponda a titolo di colpa dell’evento cagionato sempre che il fatto sia preveduto dalla legge come delitto colposo e che quando ha cagionato anche l’evento voluto si applichino le norme sul concorso dei reati.. L’abberatio delicti è 79 Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) http://guidaunigiurisprudenza.blogspot.it/ configurato esplicitamente dalla legge come sussidiaria rispetto all’aberratio ictus i suoi confini sono segnati dalla non riconducibilità a quest’ultima fattispecie. Per l’aberratio delicti si controverte in dottrina il fondamento della responsabilità per l’evento non voluto. Si discute in particolare se con l’inciso a titolo di colpa il legislatore abbia inteso circoscrivere la responsabilità ai casi in cui sussiste effettivamente una colpa dell’agente in relazione all’evento cagionato ovvero se con quella espressione abbia solo inteso dire che per l’evento cagionato anche senza colpa l’agente debba comunque rispondere in ogni caso come se fosse attribuibile a colpa. Col prevedere la responsabilità a titolo di colpa il legislatore ha voluto stabilire che anche quando l’evento non voluto non sia imputabile a colpa, l’autore ne risponda nei limiti e secondo le regole proprie della responsabilità colposa. A favore di quest’ultima lettura l’art.83 milita l’assenza di motivazioni atte a spiegare una cosi marcata differenza di trattamento dell’aberratio delicti rispetto all’aberratio ictus pur essendo entrambe le ipotesi radicate su uno stesso tipo di errore-inabilità e diversificate fra loro solo per l’eterogeneità tra offesa voluta e offesa realizzata che contrassegna la fattispecie dell’art.83, Nessun problema suscita la disciplina dettata dall’art.83 per l’aberratio delicti plurioffensiva in tal caso per espressa disposizione di legge l’ipotesi influisce nella disciplina generale del concorso di reati. CAPITOLO TERZO: CONCORSO APPARENTE DI NORME Il Concorso Delle Norme Nell’art. 15 C.P. Ricorre quando una situazione sembra essere regolata da due disposizioni penali in tal caso necessita valutare se vi sia effettivamente un concorso formale di reati, oppure vi sia un apparente concorso di norme che regolano il fatto e se ne debba fare applicazione di uno soltanto. La regola in tali casi è costituita dall’art. 15 c.p. che dispone: quando più leggi penali o più disposizioni della medesima legge penale regolano la stessa materia,la legge o la disposizione di legge speciale deroga alla legge o disposizione di legge generale. I casi che si possono verificare sono di specialità unilaterale quando una sola delle norme in conflitti presenti elementi specializzanti sicchè è semplice identificare la disposizione sola da applicare es. la rapina rispetto al furto presenta l’elemento specializzante della minaccia o violenza e quindi si applicherà solo il 628 c.p. Più complesso è il caso della specialità specifica in cui entrambe le norme hanno un elemento specializzante che le distingue es. aggiotaggio comune in cui c’è l’elemento specializzante del disturbo al mercato interno, e l’aggiotaggio societario ove il soggetto attivo può essere solo l’amministratore. In tali casi si farà applicazione unica della norma che presenta più elementi specializzanti. Non sussiste la stessa materia quando le norme sono tra loro assolutamente eterogenee ovvero quando pur apparendo simili in un nucleo essenziale differiscono in altri elementi (es. violenza sessuale ed incesto ove l’unico elemento comune è l’unione sessuale ma non gli altri elementi) Pertanto tutte le volte che non sussiste eterogeneità od interferenza tra le norme,può ricorrere il concorso apparente. A questo punto necessita individuare quale norma applicare tra quelle in conflitto, in alcuni casi è la stessa legge a risolvere il problema,escludendo espressamente l’applicazione di una delle norme concorrenti mediante la c.d. clausola di riserva. Qualora però tali clausole non sussistono,ovvero siano indeterminate (cioè non sia espressamente indicata la norma la cui applicazione è esclusa) si pone il problema di individuare la norma applicabile al fatto concreto. La dottrina tradizionale ritiene di poter risolvere il problema applicando il principio di specialità previsto dall’art. 15 “ quando più leggi penali o più disposizioni della medesima legge penale regolano la stessa materia, la legge o la disposizione di legge speciale deroga alla legge o alla disposizione di legge generale salvo che sia altrimenti stabilito. La dottrina attualmente prevalente ritiene che il principio di specialità non sia di per sé sufficiente a risolvere i casi di concorso apparente di norme e lo integra con due ulteriori criteri: - Il criterio di sussidiarietà secondo il quale la norma principale esclude l’applicazione della norma sussidiaria (è norma sussidiaria quella che tutela un grado inferiore del medesimo interesse tutelato dalla norma principale la quale pertanto assorbe in sé l’oggetto giuridico della norma sussidiaria). Inoltre vi sono anche le clausole di sussidiarietà espressa di definiscono: 1) Determinate: quando si riferiscono ad una o più norme specificamente indicate 2) Relativamente determinate: come nelle ipotesi di rinvio a disposizioni in base ad una caratteristica di tipo categoriale 80 Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) http://guidaunigiurisprudenza.blogspot.it/ 3) Indeterminate: quando la clausola di riserva è del tipo “se il fatto non è preveduto come reato da altra disposizione di legge”. Parte della dottrina ritiene che in base ad un argomentazione analogica alle ipotesi di sussidiarietà espressa si debbano affiancare ipotesi di sussidiarietà tacita ricorrenti quando due o più norme prevedono stadi o gradi di offesa ad un medesimo bene.Ma generalmente le ipotesi di sussidiarietà tacita sono riconducibili ad altri tipi di relazioni fra norme che danno luogo a un fenomeno di assorbimento. Il criterio di consumazione secondo il quale la norma consumante esclude l’applicazione della norma consumata, è norma consumante quella che prevede in sé l’intero fatto previsto da un’altra norma esaurendone il disvalore della fattispecie concreta. Il Reato Complesso Il reato complesso ricorre quando la legge considera due elementi costitutivi o come circostanze aggravanti di un solo reato,fatti che costituirebbero per se soli reato.In tal caso a norma dell’art.84,1 comma non si applicano le disposizioni sul concorso di reati e sul reato continuato ma si applica solo la disposizione che prevede il reato complesso. ES. del reato complesso è la rapina la cui fattispecie legale ricomprende in sé interamente la fattispecie del furto poiché contempla il fatto di chi per procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto si impossessa della cosa mobile altrui,sottraendola a chi la detiene e nello stesso tempo l’ipotesi della violenza privata perché contempla l’uso della violenza o della minaccia dirette a costringere taluno a fare,tollerare od omettere alcunché.La fattispecie della violenza privata e del furto perdono in questo caso la loro autonoma rilevanza confluendo con l’intero disvalore che le contrassegna nella fattispecie complessa che le ricomprende entrambe consumandone la rilevanza. L’art.84 configura un meccanismo di assorbimento e conferma la scarsa autonomia di questo criterio rispetto alla regola della specialità che domina l’intera materia del concorso di norme e di cui sussidiarietà e assorbimento sembrano esprimere determinati momenti di rilevanza. Sembra infatti innegabile che la rapina possa configurarsi come ipotesi speciale da un lato rispetto al furto,dall’altro rispetto alla violenza privata. Il reato complesso è dalla legge configurato come deroga a tale regime e suscitano perplessità sull’estensione dell’ipotesi da un lato al c.d. reato complesso in senso lato,dall’atro ai reati eventualmente complessi.Alla nozione del reato complesso in senso lato corrisponderebbero quelle fattispecie criminose costituite da un nucleo normativo comune ad altre figure criminose,a cui si aggiunge un elemento ulteriore di per sé penalmente irrilevante si adduce come sempio la violenza carnale in cui il fatto in sé penalmente neutro,del congiungimento carnale si innesta sulla fattispecie criminosa della violenza privata. Questa ipotesi non si deve inquadrare nello schema dell’art. 84 c.p. che sembra presupporre la rilevanza penale di tutti gli elementi confluenti nella figura del reato complesso. Quanto al reato eventualmente complesso esso corrisponderebbe alle ipotesi in cui la complessità non sussiste a livello della fattispecie astratta ma si riscontrerebbe allorchè la concreta realizzazione di una fattispecie storicamente si manifesti attraverso la realizzazione di un reato diverso che viene di fatto a rappresentare un elemento costitutivo del primo reato. L’idea di un reato complesso che sia tale solo in concreto non sembra conciliabile con la figura del reato complesso cosi come delineata dall’art.84 1 comma che contempla il fenomeno c.d. di contenenza di una fattispecie legale in un’altra,come suo elemento costitutivo la disciplina in esso stabilita non può estendersi ad ipotesi in cui il reato che si vorrebbe assorbito non è indicato dalla legge come elemento costitutivo del reato assorbente ma rappresenta solo una modalità particolare della sua concreta realizzazione. Quanto alla disciplina del reato complesso c’è da osservare a norma dell’art.84 2 comma: qualora la legge nella determinazione della pena per il reato complesso si riferisca alle pene stabilite per i singoli reati che lo costituiscono non possono comunque essere superati i limiti massimi indicati dagli artt. 78 e 79 c.p. A norma dell’art.131 c.p. per il reato complesso si procede sempre d’ufficio,quando per taluno dei reati che ne sono elementi costitutivi o circostanze aggravanti si debba procedere di ufficio. L’art. 170 c.p. infine stabilisce che la causa estintiva di un reato che è l’elemento costitutivo o circostanza aggravante di un reato complesso non si estende al reato complesso. Infine il 3 comma dell’art. 301 c.p. prevede la non applicabilità della disciplina del reato complesso con conseguente ingresso delle norme sul concorso di reati,quando l’offesa alla vita,all’incolumità,alla libertà,all’onere del Presidente della Repubblica e degli altri soggetti menzionati dagli artt. 276,277,278,295.296.297 e 298 c.p. è considerata dalla legge come elemento costitutivo o circostanza aggravante di altro reato. 81 Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) http://guidaunigiurisprudenza.blogspot.it/ Il Reato Progressivo. Antefatto E Postfatto Non Punibili. Una caratteristica espressione dell’idea dell’assorbimento è costituita dal reato progressivo. Questa ipotesi ricorrerebbe ogni qualvolta la realizzazione di una determinata fattispecie delittuosa comporta necessariamente la realizzazione di una fattispecie delittuosa minore,nel senso che ad essa corrisponde offesa di grado minore allo stesso bene giuridico,insomma nel concetto di reato progressivo è insita l’idea del passaggio attraverso momenti progressivamente crescenti di offesa dell’interesse protetto. Il disvalore dell’atto finale contrassegnato da un trattamento sanzionatorio più severo,assorbe in sé il disvalore penale dei fatti che segnano il passaggio attraverso gli stadi precedenti di offesa. Cosi nel ferimento seguito da morte,il disvalore inerente al delitto di lesioni personali è incluso nel disvalore finale inerente all’omicidio.Al concetto del reato progressivo sono correlate le discusse figure dell’antefatto e del postfatto non punibili rispettivamente rappresentati da condotte costituenti reato,che si presentano come la naturale premessa o la normale conseguenza di altro reato. La qualificazione di irrilevanza dell’antefatto o del postfatto risulta spesso consolidata dal contesto normativo,cosi è ad esempio per la spendita di monete falsificate si atteggia in modo evidente quale postfatto non punibile allorchè sia realizzata dallo stesso soggetto che ha contraffatto le monete.Le ipotesi di antefatto e postfatto non punibili non vanno però confuse con altre situazioni solo apparentemente simili i cui diversi fatti sono semmai legati da un vincolo di continuazione nel reato: come potrebbe essere nel caso di possesso ingiustificato di chiavi alterate o di grimaldelli (punito con contravvenzioni dell’art.70)La dottrina prevalente pur riconoscendo la validità concettuale delle categorie dell’antefatto e postfatto nega tuttavia l’esistenza di speciali principi normativi nella materia e la stessa possibilità di una vera e propria teoria dell’antefatto e del postfatto non punibili nel nostro diritto. PARTE SESTA LE SANZIONI CAPITOLO PRIMO: LA FISIONOMIA DELLA PENA NELL’ORDINAMENTO VIGENTE Prevenzione Generale,Retribuzione E Prevenzione Speciale Nell’evoluzione Del Sistema Dal Codice Rocco Alla Costituzione Il codice del 1930 aveva esplicitamente scaricato sul sistema delle misure di sicurezza le forti istanze special-preventive,presenti negli atteggiamenti culturali del tempo accentuando i fini di prevenzione generale assegnati alla pena,fino ad inglobare in questi la stessa funzione retributiva.Il codice non solo evitava di prendere posizione a favore dell’una o dell’altra teoria penale ma lasciava comunque affiorare taluni elementi di prevenzione speciale in particolare nell’oggi abrogato art.142 che indicava la rieducazione morale come obiettivo concorrente della esecuzione della pena. Per quanto rigurda il principio retributivo non solo è sottointeso nell’impianto generale del codice,ma la sua valenza è resa manifesta nella formulazione del 1 comma dell’art.133 che impone al giudice di ricercare gli indici di graduazione della pena innanzitutto nella gravità del reato,desunta dall’entità dell’offesa arrecata e dal disvalore della condotta in termini sia oggettivi che soggettivi. Questo tipi di equilibrio tra le diverse finalità della pena contrassegnato dalla preminenza della funzione general-preventiva e dal ruolo del tutto marginale della prevenzione speciale,appare completamente ribaltato nel 3 comma dell’art.27 Cost. dove esso stabilisce che le pene devono tendere alla rieducazione del condannato. A partire dagli anni 70 le indicazioni del costituente hanno trovato parziale attuazione nella legge ordinaria attraverso una serie di modifiche ed integrazioni del sistema sanzionatorio. Portata E Limiti Dell’art.27, 3 Comma Costituzionale. Alle modalità esecutive della sanzione penale è ormai subentrato il prevalente riconoscimento che al dettato costituzionale sui fini della pena debba assegnarsi la portata di un principio innovativo suscettibile di spiegare i suoi effetti in tutte le fasi che caratterizzano la dinamica del sistema sanzionatorio:dalla comminatoria all’applicazione e all’esecuzione della pena. Il punto nodale nella ricostruzione di una fisionomia aggiornata della pena è costituito dall’elaborazione dei contenuti della rieducazione prospettata 82 Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) http://guidaunigiurisprudenza.blogspot.it/ dal legislatore costituente come finalità primaria delle pene. La fisionomia della pena non può non essere omogenea alla fisionomia generale dell’ordinamento giuridico cosi come delineato dalla Costituzione. La dottrina sostiene che l’insieme dei principi costituzionali che consentono di conferire al nostro ordinamento la qualificazione di stato sociale di diritto che nel loro insieme garantiscono l’autonomia e la dignità dell’individuo e lo sviluppo della sua personalità all’interno di una prospettiva solidaristica,legittimato l’accezione del concetto di rieducazione nel significato di recupero sociale o detto anche di risocializzazione. Attraverso la sanzione penale lo Stato deve offrire al delinquente gli strumenti per la sua reintegrazione nel tessuto sociale in primo luogo mediante la riappropriazione dei valori elementari della convivenza. Ciò implica forme di trattamento basate sull’emancipazione individuale perseguita mediante la realizzazione di adeguati sostegni socio-culturali,di opportunità di reinserimento nel tessuto produttivo e sociale,di possibilità di riqualificazione culturale e professionale. La dottrina riconosce che nello Stato sociale moderno non esistono reali alternative all’ipotesi di un trattamento del reo, che si ispiri all’idea del suo recupero mediante interventi di sostegno alla sua autodeterminazione nel senso dei valori di cui l’ordinamento giuridico-costituzionale è portatore e perciò nel senso del rispetto dei beni da esso tutelati. Se la rieducazione cosi intesa è l’obiettivo del trattamento ciò significa che non possono essere diversi gli strumenti applicativi mediante i quali tale obiettivo può essere perseguito. E’ evidente che il trattamento non può essere lo stesso quando si tratti di intervenire su casi di estrema marginalizzazione sociale e quando invece si tratti di soggetti ben integrati socialmente. In nessuno caso quando non sussistono interventi risocializzanti si giustifica solo il recupero di risposte sanzionatorie di tipo meramente afflittivo,restando essenziale che l’applicazione delle sanzioni non favorisca ulteriori processi di disadattamento e stimoli in qualche modo l’emancipazione del soggetto dagli schemi di comportamento antisociali che ne hanno caratterizzato la vita ante fatta. Le Funzioni Della Pena Secondo Le Fasi Della Sua Dinamica. Abbiamo 3 fasi di attuazione del diritto penale: minaccia legale,inflazione e esecuzione della pena. Nella fase della minaccia o comminatoria della pena (detta anche fase edittale) largo spazio vada riconosciuto agli scopi cc.dd. di prevenzione generale irriducibilmente connessi con la posizione stessa della norma penale. La funzione general-preventiva non deve essere configurata solo nel suo aspetto negativo cioè in quanto deterrente idoneo a scoraggiare i consociati dal commettere reati bensì nei momenti positivi che si connettono alla funzione di orientamento culturale che il diritto penale esercita nella misura in cui induce attraverso la sua presenza e la generale consuetudine di osservanza dei suoi comandi,processi di interiorizzazione dei valori che questi sottendono in via di perpetuazione,rafforzamento di norme eticosociali preesistenti.La dottrina riconosce che il prodursi degli effetti propri della prevenzione generale positiva non costituisce un effetto automatico della posizione della norma ma dipende da vari fattori: in primo luogo è decisiva non tanto la severità della minaccia quanto la sua effettività,in quanto contribuisce a rendere credibile il sistema.In secondo luogo l’efficacia general-preventiva delle norme penali è direttamente proporzionale al grado di convergenza fra disapprovazione sociale e disapprovazione legale: ciò implica che il sistema penale sia circoscritto alla tutela di beni essenziali che sia rispettato l’equilibrio fra illecito e sanzione,che i comportamenti vietati siano tipicizzati. Fondamentale è la proporzione tra entità della pena minacciata e gravità del reato che se da un lato evoca immediatamente l’idea della giusta retribuzione,dall’altro condiziona la stessa prospettiva del recupero sociale essendo l’equilibrio fra illecito e sanzione il requisito minimo indispensabile perché il reo possa percepire la norma come giusta e assumerla per il futuro come regola di condotta. Per questa via la funzione di prevenzione speciale si insinua nella fase edittale della minaccia penale. Nella fase della inflizione della pena restano esclusi gli effetti di pura intimidazione connessi con la prevenzione generale del suo aspetto negativo. Ogni condanna esemplare destinata a scoraggiare i consociati dal commettere reati della stessa specie comporterebbe la strumentalizzazione del reo per fini di politica criminale e violerebbe l’insieme di precetti costituzionali che assegnando alla persona umana una posizione centrale nel sistema dei valori normativi di riferimento ne impongono la considerazione come fine dall’azione dell’ordinamento e mai come mezzo per l’altrui intimidazione. La prevenzione generale positiva è presente anche in questa fase in relazione all’esigenza dell’effettività della minaccia quale fattore coessenziale della funzione di orientamento culturale per la credibilità dell’ordinamento esige che la pena minacciata venga inflitta quando la norma sia stata violata.Nella fase della esecuzione della pena sono prevalenti le esigenze della previsione speciale,poiché 83 Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) http://guidaunigiurisprudenza.blogspot.it/ l’istanza special-preventiva viene in considerazione nell’ottica rieducativa in cui è configurata dalla Cost. da esso esultano sia la prospettiva di una mera neutralizzazione del reo,sia l’obiettivo della sua rigenerazione morale che non appartiene ai fini del diritto penale. Di prevenzione speciale si parla della ri-socializzazione o della non de-socializzazione del condannato. L’odierna Fisionomia Della Pena:Dalla Riforma Del 1974 Ai Giorni Nostri. Nelle diverse modifiche intervenute sul sistema sanzionatorio sembrano orientate a dare attuazione in maniera più marcata all’idea della sanzione detentiva come extrema ratio della risposta panale,ma a causa della scarsa efficienza del sistema penale nel suo complesso gli opportuni e condivisibili interventi di mitigazione e diversificazione degli strumenti punitivi finiscono per determinare pericolosi fenomeni di fuga dalla sanzione che si manifesta nella diffusa ineffettività del sistema di esecuzione penale. Un quadro riassuntivo delle principali innovazioni legislative nella materia potrebbe essere il seguente: 1) l’ammissione dei condannati alla pena perpetua dell’ergastolo anche ai benefici della semilibertà e della liberazione anticipata, 2) gli interventi modificativi della sospensione condizionale della pena,orientati a ridurre gli effetti de socializzanti connessi con l’esecuzione delle pene detentive di breve durata, 3) L’introduzione di misure alternative alla detenzione 4) l’introduzione con la L. 24 novembre 1981 n 689 delle sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi 5)l’ampliamento delle pene accessorie 6) l’introduzione di un sistema sanzionatorio autonomo e di meccanismi di definizione differenziati del procedimento per i reati assegnati alla competenza del giudice di pace. 7) la previsione di un trattamento sanzionatorio differenziato per il recidivo, vero e proprio tipo di autore pericoloso normativamente selezionato al quale il legislatore riserva regimi commisurativi ed esecutivi paralleli e quelli ordinari e caratterizzati da un elevatissimo tasso di rigore repressivo. Un siffatto andamento della legislazione penale ha avuto come effetto da un lato la rieducazione dell’area coperta dalla pena carceraria per la criminalità medio-lieve, dall’altro l’irrigidimento delle modalità di detenzione dei colpevoli dei più gravi delitti in forme da risultare ostative a qualsiasi programma di trattamento rieducativo. CAPITOLO SECONDO: LE TIPOLOGIE DELLA PENA EDITTALE E I CRITERI DELLA SUA DETERMINAZIONE GIUDIZIALE Pene Principali E Pene Accessorie Il codice vigente distingue le pene in principali e accessorie,a norma dell’art.20 le pene principali sono inflitte dal giudice con la sentenza di condanna,quelle accessorie conseguono di diritto alla condanna come effetti penali di essa. Le pene principali comminate per i delitti sono: l’ergastolo, la reclusione e la multa; quelle per le contravvenzioni sono: l’arresto e l’ammenda. Ancora l’art.81 classifica le pene principali denominate “pene detentive” o restrittive della libertà personale l’ergastolo, la reclusione e l’arresto; le pene pecuniarie la multa e l’ammenda. Il catalogo delle pene principali contenuto nell’art.17c.p. si apriva con la menzione della pena di morte che abolita dal codice Zanardelli era stata reintrodotta dal codice del 1930 in coerenza con scelte politico.criminali; con l’art.1 del d.lgs.1t. 10 agosto 1944 n.224 la pena di morte venne nuovamente soppressa per i delitti preveduti dal codice stabilendo che per i casi in cui essa era prevista si applicasse in suo luogo la pena dell’ergastolo. Le Singole Pene Principali A)LE PENE DETENTIVE. a) L’ergastolo. L’ergastolo è una pena detentiva perpetua si estende almeno potenzialmente tanto quanto è destinata a durare la vita residua del condannato. A norma dell’art. 22 la pena dell’ergastolo è scontata in uno degli stabilimenti a ciò destinati con l’obbligo del lavoro e con l’isolamento notturno,e il secondo comma dello stesso articolo prevede che il condannato possa essere ammesso al lavoro all’aperto. Per la sua compatibilità con il principio rieducativo la costituzionalità della pena dell’ergastolo è stata contestata,anche se una risalente sentenza della Corte Costituzionale ebbe a dichiarare non fondata la relativa eccezione di legittimità sulla base di una concezione polifunzionale della pena che valorizzava fra gli 84 Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) http://guidaunigiurisprudenza.blogspot.it/ scopi della pena accanto all’obiettivo della rieducazione del condannato la prevenzione generale ,la difesa sociale e la neutralizzazione a tempo indeterminato di determinati delinquenti.; quest’orientamento è stato confermato anche dalla sentenza Cost. del 94 ma ci sono stata diverse modifiche legislative intervenute in materia e risultano ridimensionate le riserve di ordine costituzionale sull’ergastolo. Il condannato all’ergastolo attualmente è ammesso a godere della liberazione condizionale dopo che abbia scontato 26 anni di pena,può inoltre godere della liberazione anticipata e del regime di semilibertà dopo aver scontato 20 anni di pena. (Nell’81 è stato indetto un referendum popolare che si è concluso col diniego della proposta di abrogazione dell’ergastolo). b) La reclusione. E’ la pena detentiva temporanea stabilita per i delitti, la sua durata può estendersi da 15 giorni a 24 anni la sua durata massima può giungere fino a 30 anni per effetto di circostanze aggravanti o di concorso di reati. A norma dell’art.23 la reclusione viene scontata in uno degli stabilimenti a ciò destinati con l’obbligo del lavoro e l’isolamento notturno. Colui che ha scontato almeno 1 anno della pena può essere ammesso al lavoro all’aperto. La l.26 luglio 1975 n354 sull’ordinamento penitenziario precisa i principi sulla cui base dovrebbe aver luogo l’esecuzione della pena della reclusione prescrivendo che il trattamento penitenziario risponda alle particolari esigenze della personalità del condannato che siano agevolati i rapporti del recluso con il mondo esterno e con la famiglia,che il lavoro non abbia carattere afflittivo e che sia remunerato in misura non inferiore ai due terzi delle tariffe sindacali. c) L’arresto. E’ la pena detentiva temporanea stabilita per le contravvenzioni, si estende da 5 giorni a 3 anni e può essere elevato fino a 5 anni per il concorso di circostanze aggravanti e fino a 6 per effetto del cumulo conseguente a ipotesi di concorso di reati. Questa pena può essere scontata in regime di semilibertà. Le pene non detentive limitative della libertà personale. Esistono misure sanzionatorie di tipo non detentivo ma in vario modo limitative della libertà personale,secondo un indirizzo teso a realizzare obiettivi di decarcerizzazione pur mantenendosi all’interno di una opzione di tipo penale. La pena della permanenza domiciliare o quella del lavoro di pubblica utilità. La pena della permanenza domiciliare comporta l’obbligo di rimanere presso la propria abitazione o in un altro luogo di privata dimora ovvero il luogo di cura assistenza o accoglienza nei giorni di sabato e domenica.La sanzione la cui durata non può essere inferiore a 6 giorni ne superiore a 45 presenta una certa flessibilità non solo in considerazione di esigenze familiari,di lavoro,di studio o di salute del condannato,può essere eseguita in giorni diversi dal sabato e dalla domenica ma su richiesta del condannato anche continuamente.Inoltre il giudice può aggiungere all’obbligo di non allontanarsi dal domicilio il divieto per il condannato ad accedere a specifici luoghi nei giorni in cui non è obbligato alla permanenza domiciliare. La pena del lavoro di pubblica utilità non può essere inferiore a 10 giorni ne superiore a 6 mesi e consiste nella prestazione di attività non retributiva in favore della collettività da svolgere presso lo Stato,le regioni,le provincie i comuni o presso enti o organizzazioni di assistenza sociale e di volontariato. Essa conformemente al divieto di lavoro forzato o obbligatorio contenuto nelle convenzioni internazionali può essere irrogata soltanto se l’imputato ne fa richiesta. Il giudice nell’irrogare la sanzione è chiamato a definire le concrete modalità esecutive nell’ambito delle indicazioni fornite con il decreto dal Ministero di Giustizia 26 marzo 2001. Le Pene Pecuniarie. Le pene pecuniarie consistono nel pagamento allo Stato di una somma di denaro e possono avere carattere fisso o proporzionale,si dicono fisse quando sono determinate a livello edittale in limiti prestabiliti fra un minimo e un massimo. Si dicono proporzionali quando la loro entità è commisurata a un dato variabile e risulta dalla sua moltiplicazione per un coefficiente stabilito ( a norma dell’art. 27 le pene proporzionali non hanno un limite massimo). PENE PECUNIARIE SONO LA MULTA E L’AMMENDA. La multa è la pena pecuniaria prevista per i delitti essa consiste nel pagamento allo Stato di una somma non inferiore a 5 euro ne superiore a 5164 euro. La pena della multa oltre ad essere comminata dalla singola norma incriminatrice può essere aggiunta dal giudice se la legge stabilisce per il delitto la sola pena della reclusione quando si tratti di fatti determinati da motivi di lucro. La disciplina concernente l’applicazione e l’esecuzione della pena della multa è stata innovata dalla l.689/81 oltre ad aggiornare i limiti minimo e massimo della multa questa legge ha stabilito il principio che 85 Giammo Helps You! 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L’art.19 c.p. elenca separatamente le pene accessorie previste per i delitti e quelle per le contravvenzioni. Pene accessorie per i delitti sono: -l’interdizione dai pubblici uffici, - l’interdizione da una professione o da arte, - l’interdizione legale – l’interdizione dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese -l’incapacità di contrattare con la P.A., - l’estinzione del rapporto di impiego o di lavoro, -la decadenza o la sospensione dall’esercizio della potestà dei genitori. Pene Accessorie Per Le Contravvenzioni Sono: -LA sospensione dall’esercizio di una professione o di un’arte -la sospensione dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese. Pena accessoria comune ai delitti e alle contravvenzioni è la pubblicazione della sentenza di condanna. Nel testo originario dell’art.19 c.p. era prevista un’altra pena accessoria costituita dalla perdita della capacità di testare e dalla comminatoria di nullità del testamento fatto prima della condanna,tale pena è stata soppressa con la l.689/81 di modifiche al sistema penale che oltre ad armonizzare la previsione relativa alla decadenza della potestà dei genitori con il nuovo diritto di famiglia, ha introdotto 2 pene accessorie nuove per i delitti: l’interdizione dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese e l’incapacità di contrattare con la P.A..Nella forma della sospensione analoga pena accessoria è stata introdotta per le contravvenzioni. La funzione delle pene accessorie sull’opinione tradizionale assegnava scopi di prevenzione generale,oggi prevale quella che le contrassegna come strumenti di prevenzione speciale almeno nella limitata prospettiva della neutralizzazione del reo,in particolare quando i fatti per i quali la condanna è intervenuta siano connessi all’esercizio degli uffici diritti e potestà che vengono interdetti.Nella maggior parte dei casi le pene accessorie sono caratterizzate dall’automaticità della loro applicazione come conseguenza della condanna principale il che sembra contraddire in modo determinante la funzione special-preventiva della misura poiché la sottrae ad ogni valutazione di carattere finalistico e individualizzante; ma la sola caratteristica comune a tutte le pene accessorie è la loro complementarietà rispetto alla pena principale, le pene accessorie possono essere pepetue o temporanee in questo secondo caso la loro durata non è stabilita espressamente dalla legge corrisponde alla durata della pena principale. Disciplina E Contenuto Delle Singole Pene Accessorie. Le pene accessorie previste per i delitti sono: a)l’interdizione dai pubblici uffici.A norma dell’art.28 c.p. essa priva il condannato del diritto di elettorato,attivo e passivo e di ogni altro diritto politico,di ogni pubblico ufficio e di ogni incaricato non obbligatorio di pubblico servizio,di gradi,di titoli e dignità accademiche,decorazione e in genere diritti onorifici e della capacità di assumerli. Sono venute meno le previsioni in cui al n.5 dell’art.28 prevedeva la perdita degli stipendi,delle pensioni e degli assegni che siano a carico dello Stato o di un altro ente pubblico e al 3 comma dello stesso art. che stabiliva la perdita in casi di interdizione temporanea della capacità di acquistare o di esercitare o di godere durante l’interdizione i predetti diritti uffici,servizi,qualità e gradi. Con una prima decisione la C.Cost. ha dichiarato illegittime le disposizioni menzionate alla parte in cui i diritti traggono titolo da n rapporto di lavoro e con una seconda decisone ha dichiarato illegittimo l’art.28 n.5 anche per quanto attiene alle pensioni di guerra. L’abrogazioni delle disposizioni che prevedono a seguito di condanna penale la perdita, la riduzione o la sospensione del diritto del dipendente dello Stato o di altro ente pubblico al conseguimento e al godimento della pensione o dalle pensioni di guerra è stata comunque 86 Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) http://guidaunigiurisprudenza.blogspot.it/ sancito anche per legge. -L’interdizione dai pubblici uffici può essere perpetua o temporanea, quella perpetua consegue di diritto alla condanna all’ergastolo o alla reclusione per un tempo non inferiore ai 5 anni e alla dichiarazione di abitualità o professionalità nel delitto e di tendenza a delinquere. L’ interdizione temporanea ha una durata non inferiore a 1 anno e non superiore a 5 essa consegue alla condanna alla reclusione per un tempo non inferiore a 3 anni; l’interdizione non si applica nel caso di condanna per delitto colposo. -L’interdizione da una professione o da un’arte priva il condannato della capacità di esercitare durante l’interdizione,una professione,arte,industria o commercio per cui è richiesto uno speciale permesso o una speciale abilitazione,autorizzazione o licenza dell’autorità e ne comporta la decadenza. Non può avere durata inferiore a 1 mese ne superiore a 5 anni salvi i casi espressamente stabiliti dalla legge.Consegue alle condanne per delitti commessi con abuso di una professione,arte, o con violazione dei relativi doveri. -L’interdizione legale consegue alle condanne di maggior gravità. Priva il soggetto della capacità di agire si applicano le norme della legge civile sull’interdizione giudiziale.L’interdizione legale produce anche la sospensione per la durata della pena,dell’esercizio della potestà dei genitori salvo che il giudice disponga altrimenti. -L’interdizione dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese, è stata introdotta come pena accessoria nel codice della l.689/81 e mira a rafforzare la risposta sanzionatoria ai reati commessi con l’esercizio di un’attività imprenditoriale.L’art.32 bis prevede che l’interdizione consegua ad ogni condanna alla reclusione non inferiore a 6 mesi per i delitti commessi con abuso dei poteri o violazione dei doveri inerenti all’ufficio, essa priva il condannato della capacità di esercitare durante l’interdizione,l’ufficio di amministratore,sindaco,liquidatore e direttore generale nonché ogni altro ufficio con potere di rappresentanza della persona giuridica o dell’imprenditore; la durata dell’interdizione è pari a quella della pena principale. L’interdizione dagli uffici direttivi non si applica nel caso di condanna per delitto colposo alla reclusione inferiore a 3 anni e nel caso di inflizione della sola pena pecuniaria. -L’incapacità di contrattare con la Pubblica Amministrazione, introdotta con la legge 689/81 consegue alla commissione dei delitti indicati nell’art.32 quater non può avere durata inferiore a 1 anno ne superiore a 3 anni comporta il divieto di concludere contratti con la P.A. salvo che per ottenere le prestazioni di un pubblico servizio. Per la sua applicazione si richiede che i reati ai quali essa consegue siano stati commessi in danno o in vantaggio di un’attività imprenditoriale o comunque in relazione ad esse. La estinzione del rapporto di lavoro o di impiego. Si tratta di una nuova pena accessoria introdotta nel 2001 che nel caso di condanna alla reclusione non inferiore a 3 anni per i delitti di cui agli artt. 314, 1 comma, 317,318,319 ter e 320 comporta l’estinzione del rapporto di lavoro o di impiego per il dipendente di amministrazioni o enti pubblici ovvero di enti a prevalente partecipazione pubblica. -La decadenza o la sospensione dell’esercizio della potestà dei genitori. Sono regolati dall’art.34 c.p. che nel 1 comma stabilisce: la legge determina i casi nei quali la condanna importa la decadenza della potestà dei genitori. Le ipotesi sono quelle della condanna all’ergastolo e della condanna per incesto e per i delitti contro la libertà sessuale.La condanna per delitti commessi con abuso della potestà dei genitori importa la sospensione dell’esercizio di tale potestà per un periodo di tempo pari al doppio della pena inflitta.Sia la decadenza che la sospensione dell’esercizio della potestà dei genitori comportano l’incapacità di esercitare qualsiasi diritto che il genitore spetti sui beni del figlio. Le Pene Accessorie Applicabili Alle Contravvenzioni Sono: -La sospensione dell’esercizio di una professione o di un’arte. Consegue ad ogni condanna per contravvenzione commessa con abuso della professione,arte ecc… ovvero con violazione dei relativi doveri quando la pena principale inflitta non è inferiore a 1 anno di arresto, la sospensione non può essere di durata inferiore a 15 giorni ne superiore a 2 anni. Il contenuto sanzionatorio della sospensione non comporta la decadenza del permesso,dell’abilitazione ecc… cosi che decorso il periodo di sospensione l’esercizio della professione dell’arte ecc può essere ripreso senza necessità di una nuova autorizzazione. -La sospensione dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese. Consegue ad ogni condanna dell’arresto per contravvenzioni commesse con abuso dei poteri o violazione dei doveri inerenti all’ufficio non può avere durata inferiore a 15 giorni o superiore a 2 anni. La 87 Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) http://guidaunigiurisprudenza.blogspot.it/ pubblicazione della sentenza di condanna è pena accessoria comune ai delitti e alle contravvenzioni,questa pena è disposta in sentenza e consiste nella pubblicazione della sentenza si condanna per una sola volta su uno o più giornali la pubblicazione è eseguita di ufficio ma a spese del condannato.Inoltre l’art.36 dispone che la sentenza di condanna all’ergastolo sia anche pubblicata mediante affissione nel Comune ove è stata pronunciata,in quello ove il delitto fu commesso o in quello ove il condannato aveva l’ultima residenza. Le Pene Sostitutive Le sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi rappresentano senza dubbio una delle innovazioni più significative introdotte dalla l.689/81 di modifiche al sistema penale. L’introduzione delle c.d. pene sostitutive ha ampliato il ventaglio delle sanzioni a disposizione del giudice penale che da un lato viene dotato di un ulteriore strumento per una più puntuale individualizzazione della pena, dall’altro è posto comunque in condizione di scongiurare per i reati meno gravi gli effetti de socializzanti della carcerazione,senza per questo rinunciare alla funzione dissuasiva che la concreta inflazione della pena esercita sul condannato rispetto alla commissione di ulteriori reati. Sotto questo duplice profilo le sanzioni sostitutive si inseriscono nel solco della prevenzione speciale integratrice e quindi lato sensu rieducativa. Le sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi sono: la semidetenzione,la libertà controllata e la pena pecuniaria. L’applicabilità delle sanzioni sostitutive è circoscritta dalla misura della pena determinata in concreto dal giudice; nella originaria previsione della L.689/81 per essere sostituibile la pena irrogata non doveva superare i 6 mesi di reclusione. Questo limite è stato ampliato con la l. 12 giugno 2003 n.134. Secondo la normativa vigente il giudice quando ritiene di dovere determinare la pena detentiva entro il limite di 6 mesi,può sostituirla con una qualsiasi delle sanzioni sostitutive quando si tratti di una pena superiore a 6 mesi ma non superiore a 1 anno può sostituirla con la semidetenzione o con la libertà controllata,mentre quando ritenga di irrogare una pena superiore ad 1 anno e non superiore a 2 anni ha a disposizione la sola misura della semidetenzione.Questi limiti si dilatano fino al triplo nelle ipotesi di reato continuato e di concorso di reati.L’pplicabilità delle sanzioni sostitutive è esclusa per taluni reati il cui elenco è contenuto nell’art.60 della l.689/81, per quanto riguarda le esclusioni soggettive le sanzioni sostitutive non possono essere applicare a coloro che siano stati già condannati,con una o più sentenze complessivamente ad una pena superiore ai 2 anni di reclusione ed abbiano commesso il reato nei 5 anni dalla condanna precedente,inoltre se la pena detentiva è stata irrogata per un fatto commesso nell’ultimo decennio essa non può essere sostituita: a)a coloro che siano stati condannati 2 volte per reati della stessa indole b)a coloro nei cui confronti una pena sostitutiva precedentemente inflitta sia stata convertita in pena detentiva ovvero sia stato revocato il regime di semilibertà c)infine a chi abbia commesso il reato durante il tempo in cui era sottoposto alla misura di sicurezza della libertà vigilata o alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale. Contenuto E Regime Delle Singole Sanzioni Sostitutive La semidetenzione,sanzione con cui il giudice può sostituire le pene detentive superiori a 1 anno e non superiore a 2 anni comporta l’obbligo di trascorrere almeno 10 ore al giorno negli istituti di pena e una serie di limitazioni. -La libertà controllata in alternativa alla semidetenzione per sostituire le pene detentive superiori a 6 mesi ma non superiori ad 1 anno comporta il divieto di allontanarsi dal comune di residenza se non previa autorizzazione per i soli motivi di studio,lavoro,famiglia o salute; l’obbligo di presentarsi almeno una volta al giorno negli uffici di pubblica sicurezza o presso il comando dell’arma dei Carabinieri territorialmente competente;nonché ulteriori limitazioni previste per la semidetenzione con riguardo alle armi di esplosivi,all’espatrio ecc. Le prescrizioni imposte possono essere modificate dal magistrato di sorveglianza cha ha la facoltà di adattarle alla concreta situazione del condannato. La pena pecuniaria può sostituire le pene detentive non superiori a 6 mesi ed inoltre è stata introdotta il modello dei tassi giornalieri assai diffuso negli ordinamenti europei: nell’operare la sostituzione, il giudice tenendo conto della condizione economica complessiva dell’imputato e del suo nucleo familiare, determina l’entità della quota giornaliera compresa tra un minimo di 38 ed un massimo di 380 euro che viene poi 88 Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) http://guidaunigiurisprudenza.blogspot.it/ moltiplicata per il numero dei giorni di pena detentiva da sostituire. Un giorno di detenzione equivale rispettivamente a un giorno di semidetenzione e a 2 giorni di libertà controllata, il giudice cioè nel sostituire la pena detentiva irrogherà la semidetenzione per un durata uguale a quella della reclusione o dell’arresto,preventivamente determinata,la libertà controllata per un tempo doppio rispetto alla durata della corrispondente pena detentiva sostitutiva. L’inosservanza delle prescrizioni imposte al condannato ha come conseguenza la conversione della restante parte di pena sostitutiva nella pena detentiva sostituita.Lo stesso effetto produce la revoca della pena sostitutiva che ha luogo in due casi: -quando sopraggiunge una delle condanne per fatti commessi anteriormente alla sostituzione della pena che avrebbero impedito l’applicazione della pena sostitutiva -la condanna a una pena detentiva per un fatto commesso successivamente all’irrogazione della pena sostitutiva.Le sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi si applicano sia di ufficio che su richiesta dell’imputato. L’originaria disciplina di questa seconda ipotesi comunemente definita “patteggiamento” era contenuta negli artt.77ss.l.689/81 e limitava l’operatività dell’istituto ai casi in cui il giudice riteneva di poter irrogare le sanzioni sostitutive della libertà controllata o della pena pecuniaria in questi casi al patteggiamento conseguiva l’estinzione del reato. Gli artt. 77,78,79 e 80 della l.689/81 sono stati abrogati dall’art.234 delle disposizioni di attuazione e coordinamento del nuovo codice di procedura penale,restando in tal modo l’originaria disciplina del patteggiamento assorbita nell’istituto della applicazione della pena su richiesta delle parti corrispondente a uno dei riti speciali previsti dal codice di procedura penale.L’art. 444 del vigente codice di procedura penale prevede che l’imputato e il pubblico ministero possono chiedere al giudice l’applicazione nella specie e nella misura indicate di una sanzione sostitutiva o di una pena pecuniaria diminuita fino a un terzo, ovvero di una pena detentiva quando tenuto conto delle circostanze e diminuita fino a un terzo non supera 5 anni soli o congiunti a pena pecuniaria. I Criteri Per La Determinazione E Commisurazione Giudiziale Della Pena. L’art.133 C.P. Nell’ambito dei limiti edittalmente stabiliti il giudice perviene alla determinazione finale della pena da infliggere in concreto attraverso l’esercizio di un potere che per definizione legislativa è discrezionale.Egli si orienta cioè sia nella specie di pena quando la legge consente questa alternativa sia nella fissazione della quantità della pena,tra i limiti minimo e massimo sanza altro vincolo che quello di tener conto di taluni elementi di giudizio indicati dalla legge. La delega al giudice è necessaria se il trattamento penale fin dal momento della determinazione concreta della pena vuol essere individualizzato. L’art.133 c.p. nei due commi di cui si compone accorpa gli indici di determinazione della pena riferendoli al dato della gravità del reato e a quello della capacità a delinquere del colpevole.La gravità del reato è desunta a norma dell’art.133 dalla natura,dalla specie,dai mezi,dal tempo,dal luogo e da ogni altra modalità dell’azione -dalla gravità del danno o del pericolo cagionata alla persona offesa dal reato -dala intensità del dolo o dal grado della colpa. La capacità a delinquere è desunta: -dai motivi a delinquere e dal carattere del reo, -dai precedenti penali e giudiziari, e in genere dalla condotta della vita del reo antecedente al reato -dalla condotta contemporanea o susseguente al reato -dalle condizioni di vita individuale,familiare e sociale del reo. L’orientamento di raggruppare le esigenze retribuzionistiche intorno al parametro della gravità del reato e quelle special-preventive intorno ai coefficienti della capacità a delinquere pur trovando un fondamento nella interpretazione logico-sistematica dell’art.133 non risolve il problema.Ciò che è decisivo è stabilirla gerarchia dei fini ai quali indirizzare il momento della commisurazione,gerarchia che non è dato ricavare dall’art.133 le cui indicazioni sono per lo più tradotte in” formulette pigre” che tradiscono il vuoto di fini che ne contrassegna il contenuto e rischiano di sfociare nell’arbitrio giudiziale. La dottrina recente cerca di sviluppare dei criteri di commisurazione della pena e ancorandola alle relative indicazioni costituzionali, viene cosi a stabilirsi una gerarchia tra i criteri di commisurazione della pena che pone in via preliminare l’esigenza di determinare le finalità che si intendono perseguire mediante l’irrogazione della pena,solo successivamente e subordinatamente a quelle il giudice potrà determinare il peso che assumono i diversi indici fattuali a cui commisurare l’entità della pena. La lettura costituzionalmente orientata dei criteri di 89 Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) http://guidaunigiurisprudenza.blogspot.it/ commisurazione della pena impone di fare riferimento all’enunciazioni dell’art.27 Cost. che da un lato esigono di attribuire alla misura della colpevolezza del soggetto il ruolo di un criterio-guida ai fini della commisurazione della pena, dall’altro affermano le finalità rieducative della pena. (Gli indici di commisurazione costituiti dall’intensità del dolo e dal grado della colpa siano da considerare prevalenti rispetto alla gravità del danno o del pericolo cagionato alla persona offesa e non potranno dar luogo a una pena che ecceda il grado della colpevolezza) i singoli indici della commisurazione della pena Nella prima parte dell’art.133 riflettono gli indici di gravità del reato che attengono alla fattispecie esecutiva di esso sia sotto il profilo della condotta del reo,che sotto il profilo dell’evento nonché quelli attinenti all’elemento psicologico del fatto. La natura,la specie,i mezzi,l’oggetto,il tempo,il luogo,le modalità dell’azione esprimono l’insieme dei dati a cui si commisura il disvalore di azione del fatto,considerato nel suo versante oggettivo questa valutazione appare da un riferimento al disvalore di evento del fatto riflesso nel dato costitutivo della gravità del danno o del pericolo cagionato alla persona offesa. Sul versante soggettivo vengono in considerazione l’intensità del dolo e il grado della colpa,l’una si definisce in funzione della forma che il dolo assume e si può di regola considerare progressivamente decrescente,dal dolo intenzionale alle diverse specie del dolo indiretto.Il grado della colpa risulterà in termini oggettivi dalla misura di divergenza fra la condotta effettivamente tenuta e quella corrispondente all’obbligo di diligenza dal punto di vista della sua misura soggettiva dal livello di eseguibilità della condotta rispettosa dell’obbligo di diligenza. Art. 133,2 comma secondo l’opinione comune questa disposizione estende l’apprezzamento giudiziale dal fatto alla personalità del colpevole ancorandone i diversi momenti al parametro della c.d. capacità a delinquere.Ad una interpretazione che assimila sostanzialmente la capacità a delinquere alla pericolosità sociale e la intende come possibilità di future condotte criminose,si contrappone un’accezione che tende a connotare i diversi indici in cui la capacità a delinquere si riflette come altrettanti fattori del giudizio di colpevolezza. Gli elementi di cui il giudice dovrà tenere conto nella valutazione della capacità a delinquere sono: -i motivi a delinquere vale a dire gli impulsi,le motivazioni,i sentimenti ecc che hanno spinto il reo ad agire -il carattere del reo cioè gli aspetti strutturali della sua personalità che possono variamente collegarsi ai fattori endogeni ed esogeni che hanno contribuito a costruirla rilevante nel giudizio isia diagnostico che prognostico della capacità criminale del soggetto -i precedenti penali e giudiziari e in genere la condotta e la vita anteatta del reo: sono le condanne anteriormente riportate dal soggetto,i procedimenti giudiziali sono dati dai procedimenti attualmente pendenti dall’eventuale sottoposizione a misure di prevenzione. La vita anteatta viene in considerazione in tutti gli aspetti che possono risultare significativi in termini di capacità a delinquere uso di droghe,rifiuto di attività lavorative ecc. -la condotta antecedente contemporanea e susseguente al reato, la cui significatività è data dalla coincidenza o prossimità temporale con il fatto commesso o da più specifiche connessioni con esso (es.valore del pentimento) -le condizioni di vita individuale,familiare e sociale del re: si tratta di valutare l’incidenza dei fattori socioambientali nel processo criminogenetico,sul grado della colpevolezza e delle esigenze del trattamento dal punto di vista special-preventivo. La Commisurazione Della Pena Pecuniaria A norma dell’art.133 bis c.p. nella quantificazione della pena pecuniaria il giudice deve tener conto delle condizioni economiche del reo. Questa integrazione introdotta dall’art.100 della l. 689/81 tende a perseguire l’eguaglianza di fatto fra i condannati,tenuto conto che un uguale ammontare di pena pecuniaria colpisce in modo diseguale soggetti che abbiano differenti disponibilità economiche. L’art.133 bis faculta il giudice ad aumentare o diminuire la pena fino al triplo di quella stabilita dalla legge quando per le condizioni economiche del reo ritenga che la misura massima sia inefficace ovvero che la misura minima sia eccessivamente gravosa quindi in virtù di questa disposizione il giudice può oltrepassare verso l’alto o verso il basso gli stessi limiti edittali in considerazione delle condizioni economiche del condannato.Ma la dottrina si lamenta che il legislatore non abbia compiuto l’ulteriore passo che lo divideva dal sistema del c.d. tassi giornalieri introdotto nel nostro ordinamento limitatamente alla esecuzione della 90 Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) http://guidaunigiurisprudenza.blogspot.it/ pena pecuniaria sostitutiva della pena detentiva breve. il potere discrezionale del giudice nell’applicazione delle pene sostitutive Il giudice nei limiti fissati dalla legge e tenuto conto dei criteri indicati nell’art.133 dopo aver determinato la misura della pena detentiva da applicare dovrà compiere un ulteriore valutazione dovrà cioè stabilire se sussistono i presupposti per applicare in luogo di quella una sanzione sostitutiva. Nell’ipotesi affermata i suoi poteri discrezionali saranno inesistenti quando si tratta di pene detentive superiori ad 1 anno,per le pene di durata inferiore la sua discrezionalità sarà maggiore in particolare per quanto attiene alle pene detentive fino a 6 mesi per la cui eventuale sostituzione avrà a disposizione tutti e 3 i tipi di sanzioni sostitutive. In ogni caso si tratterà di una decisione sull’an e sul quomodo della sostituzione ma non sul quantum di essa che è la risultante di criteri di ragguaglio normativamente predeterminati. Nell’ipotesi in cui ha la facoltà di determinare il tipo di sanzione sostitutiva da applicare il giudice a norma dell’art.58 1 comma della l. 689/81 dovrà scegliere quella più idonea al reinserimento sociale del condannato. Tuttavia il potere di disporre una sostituzione incontra un limite nel 2 comma dell’art. 58 il quale stabilisce che il giudice non può disporre la sostituzione quando presume che le prescrizioni non saranno adempiute dal condannato e il 3 comma dell’art.58 richiede che il giudice indichi i motivi che giustificano la scelta del tipo di pena irrogata. la commisurazione della pena nei procedimenti speciali. Gli artt. 438 ss. 444 ss. 459 ss. c.p.p. prevedono particolari riduzioni di pena come conseguenza di instaurazione dei riti differenziati: giudizio abbreviato,applicazione della pena su richiesta delle parti (c.d. patteggiamento) giudizio per decreto. Queste diminuzioni di pena di un terzo per il giudizio abbreviato, fino a un terzo nel patteggiamento, sino alla metà nel giudizio per decreto,non conseguono a determinare circostanze nel reato e neppure a una condotta del reo ma soltanto alla scelta in sede processuale del ricorso a un procedimento semplificato e più celere. L’effetto che essi determinano sulla misura della pena applicabile si risolve esclusivamente a favore del reo. CAPITOLO TERZO: L’ESECUZIONE DELLE PENE l’esecuzione delle pene detentive L’ordinamento penitenziario del 75 innovò la disciplina dell’esecuzione della pena detentiva inserendola nella prospettiva rieducativo-risocializzante imposta dalla Costituzione. Il trattamento dev’essere individualizzato deve rispondere cioè: ai particolari bisogni della personalità di ciascun soggetto determinati attraverso la classificazione dei detenuti e l’osservazione della loro personalità. Il vigente ordinamento penitenziario configura diversi istituti che incidono sul carattere segregante dell’istituzione penitenziaria dal lavoro all’esterno fino ai permessi premio. I permessi premio ciascuno di durata non superiore a 15 giorni possono essere concessi ai condannati che abbiano tenuto regolare condotta per non più di 45 giorni all’anno complessivamente per consentire ai detenuti di coltivare interessi affettivi,culturali o di lavoro. Lo stesso regime di detenzione carceraria può essere sostituito dall’affidamento in prova al servizio sociale,ovvero modificarsi in detenzione domiciliare o nel regime di semilibertà o cessare prima della scadenza della pena inflitta dal giudice. Ma l’art. 4 bis prevede un divieto di concessione dei suddetti benefici penitenziari comprese le misure alternative diverse dalla liberazione condizionale,ai detenuti e internati per reati di criminalità organizzata o terrorismo nonché per altri gravi delitti salvo che non si tratti di soggetti che hanno assunto lo status di collaboratori di giustizia (c.d. pentiti). L’art. 14 bis prevede invece la sottoposizione al regime di sorveglianza speciale per un periodo non superiore a 6 mesi prorogabile anche più volte per non più di 3 mesi a carico di quei detenuti che compromettono la sicurezza o turbino l’ordine degli istituti ecc. Il secondo comma dell’art.41 bis infine prevede la facoltà del Ministro della giustizia anche a richiesta del Ministro dell’interno quando ricorrono gravi motivi di ordine e di sicurezza pubblica di sospendere in tutto o in parte l’applicazione delle regole di trattamento e degli istituti previsti dall’ordinamento penitenziario che possono porsi in concreto con le esigenze di ordine e sicurezza nei confronti dei detenuti o internati per reati di mafia,terrorismo e di altri delitti di grave pericolosità. L’esecuzione della pena detentiva di svolge sotto la vigilanza e il controllo del Magistrato di sorveglianza del 91 Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) http://guidaunigiurisprudenza.blogspot.it/ Tribunale di sorveglianza. (L’art.47 la detenzione domiciliare e la semilibertà non possono essere concessi per più di una volta al condannato al quale sia stata applicata la recidiva). Le Misure Alternative Alla Detenzione Le misure alternative alla detenzione sono state introdotte dalla l. 689/81, la differenza tra misure alternative e sanzioni sostitutive sta nel fatto che le prime costituiscono una possibile modalità di esecuzione della pena detentiva e sono applicate non dal giudice della cognizione con la sanzione che definisce il processo,ma dalla magistratura di sorveglianza. Talune misure alternative possono applicarsi soltanto nel corso della esecuzione della pena altre anche prima. In quest’ultimo caso l’applicazione della misura si ricollega all’idea che la detenzione carceraria costituisca l’extrema ratio dell’esecuzione penale e che ad essa perciò debba farsi ricorso solo quando le esigenze della prevenzione speciale non possono essere raggiunte. Quando la misura alternativa è applicata dopo che si è iniziata l’esecuzione della pena in regime penitenziario la sua adozione costituisce un riflesso del trattamento nel senso che i risultati già conseguiti consentono una modificazione delle modalità di esecuzione anche al di fuori del regime penitenziario. Le misure alternative della detenzione previste dal vigente ordinamento penitenziario sono : l’affidamento in prova al servizio sociale,la detenzione domiciliare,la semilibertà,la liberazione anticipata. 1)L’affidamento in prova al servizio sociale, può essere disposto nei confronti dei condannati a pena detentiva non superiore a 3 anni. Consiste nell’affidamento al servizio sociale fuori dall’istituto per un periodo uguale a quello della pena da scontare nei casi in cui si può ritenere che il provvedimento contribuisca alla rieducazione del reo e assicuri la prevenzione del pericolo che egli commette altri reati. Nelle previsioni originarie dell’ordinamento del 75 l’ambito di applicabilità della misura era più ristretto esso era infatti esclusa per taluni reati, limitata per i soggetti di età superiore a 21 e inferiore a 70,alle pene non eccedenti i 2 anni e sei mesi e prevedeva un periodo minimo di osservazione in istituto per almeno 3 mesi poi ridotto a 1 mese. L’attuale formulazione della norma prevede che l’affidamento possa essere disposto senza procedere alla osservazione in istituto ma basandosi sulla valutazione del comportamento serbato dal condannato dopo la commissione del reato. Il Tribunale di sorveglianza determina la prescrizione a cui l’affidamento deve sottostare. Il servizio sociale controlla la condotta del soggetto e lo aiuta a superare le difficoltà di adattamento alla vita sociale anche mettendosi in relazione con la sua famiglia. A norma dell’art. 47, 12 comma l’esito positivo del periodo di prova estingue la pena e ogni altro effetto penale della condanna. L’affidamento per contro è revocato qualora il comportamento del soggetto contrario alla legge o alla prescrizione dettate appaia incompatibile con la prosecuzione della prova.La revoca si configura come revoca ex tunc con la conseguenza che l’affidato doveva scontare per intero la pena detentiva residua. Con la sentenza n.343/87 la Corte Cost. ha dichiarato la norma illegittima nella parte in cui in caso di revoca non consente al Tribunale di sorveglianza di determinare sulla base delle limitazione patite del condannato e del suo comportamento durante il periodo dell’affidamento,la residua pena detentiva da esperire. Quindi si è aggiunto una efficacia estintiva della pena detentiva anche nei casi di revoca.L’esito positivo della prova non estingue ne le pene accessorie,ne le obbligazioni civili nascenti dal reato. 2)Detenzione domiciliare: la pena della reclusione non superiore a 4 anni e quella dell’arresto possono essere espiate nella propria abitazione o in altro luogo di privata dimora ovvero in un luogo pubblico di curo o assistenza quando ricorrano le seguenti situazioni personali: a)donna incinta o madre di prole di età inferiore ad anni 10 b)padre esercente la potestà di prole di età inferiore ad anni 10 con lui convivente quando la madre sia decaduta o altrimenti assolutamente impossibilitata a dare assistenza alla prole c)persona in condizioni di salute gravi, che richiedano costanti contatti con i presidi sanitari territoriali d)persona di età superiore a 60 anni,se inabile anche parzialmente e)persona minore di 21 anni per comprovare esigenze di salute di studio,di lavoro e di famiglia A norma del 8 comma dell’art.47 ter l’allontanamento non autorizzato dai luoghi in cui la pena deve essere espiata è considerata evasione,la denuncia per tale reato comporta la sospensione del beneficio e la condanna ne determina la revoca. Con le c.d. legge Simeone è stata introdotta un ulteriore figura generale della detenzione domiciliare che è applicabile indipendentemente dalle condizioni previste nel 1 comma dell’art.47 ter a qualsiasi condannato debba scontare una pena detentiva non superiore a 2 anni anche se costituente parte residua di maggior pena quando non ricorrono i presupposti per l’affidamento in prova al 92 Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) http://guidaunigiurisprudenza.blogspot.it/ servizio sociale e sempre che tale misura sia idonea ad evitare il pericolo che il condannato commetta altri reati. E’ stato modificato anche il comma 1 bis stesso art.47 ter per escludere la possibilità in generale prevista di applicare ai recidivi reiterati la detenzione domiciliare nei casi in cui non ricorrono i presupposti per l’affidamento in prova al servizio sociale e sempre che tale misura sia idonea ad evitare che il condannato commetta altri reati,quando la pena detentiva da scontare non sia superiore a 2 anni. In seguito è stata introdotta una nuova forma di detenzione domiciliare che consente di scontare in forma domiciliare la pena della reclusione per qualsiasi durata ad esclusione solo dell’ergastolo a)il condannato abbia un’età superiore ai 60 anni b)che non sia stato condannato per uno dei delitti contro la personalità individuale c)che non si tratti di persona dichiarata delinquente abituale,professionale o per tendenza,ne sia mai stato condannato con l’aggravante della recidiva. La SEMILIBERTA’ consiste nella possibilità di trascorrere parte del giorno fuori dall’istituto della di pena per partecipare ad attività lavorative,o istruttive.Il condannato alla pena dell’arresto o a quella della reclusione non superiore a 6 mesi è ammesso a godere del regime di semilibertà anche prima dell’inzio dell’espiazione della pena se ha dimostrato la propria volontà di reinserimento nella società. Negli altri casi la semilibertà può essere concessa dopo l’espiazione di almeno metà della pena e in particolari casi dopo l’espiazione di almeno due terzi della pena per i soggetti ai quali sia stata applicata la recidiva prevista dall’art.99, 4 comma, l’art.50 bis eleva la soglia di pena da espiare prima di poter beneficiare della semilibertà a due terzi e se si tratta di un condannato per taluno dei delitti indicati nel 1 comma dell’art. 4 bis a tre quarti. A norma dell’art. 50 l’ammissione al regime di semilibertà è disposta in relazione ai progressi compiuti nel corso del trattamento quando vi sono le condizioni per un graduale reinserimento del soggetto nella società. Il condannato all’ergastolo può essere ammesso alla semilibertà dopo aver scontato 20 anni di pena. L’art.51 della legge 354/75 disciplina le ipotesi di sospensione e revoca del beneficio in relazione alle assenze del condannato dall’istituto in violazione dei limiti di tempo stabiliti quindi il beneficio può essere revocato quando il soggetto non si appalesi idoneo al trattamento. La Liberazione Anticipata, l’art.54,1 comma l.354/75 stabilisce che al condannato a pena detentiva che ha dato prova di partecipazione all’opera rieducativa è concessa quale riconoscimento di tale partecipazione e ai fini del suo più efficace reinserimento nella società la detrazione di 45 giorni per ogni semestre di pena scontata. Alla detenzione penitenziaria sono equiparate la custodia cautelare sofferta e la detenzione domiciliare. Ai fini della semilibertà dei permessi premio e della liberazione condizionale il periodo detratto è considerato come una pena scontata agli effetti del computo della misura di pena che occorre aver espiato. La condanna per un delitto non colposo commesso nel corso dell’esecuzione successivamente alla concessione del beneficio ne comporta la revoca. Esecuzione E Conversione Delle Pene Pecuniarie La pena pecuniaria si esegue di regola mediante il versamento dell’importo corrispondente alla multa o all’ammenda inflitta dal giudice con la sentenza di condanna,il pagamento può avvenire anche ratealmente. La disciplina del 79 comportava che in caso di insolvibilità del condannato la conversione della pena pecuniaria nella corrispondente pena detentiva introducendo una diseguaglianza di trattamento a sfavore dei condannati nullafacenti, e ciò fu dichiarato costituzionalmente illegittimo. Con la legge 689/81 stabilisce che le pene della multa o dell’ammenda non eseguite per insolvibilità del condannato si convertono nella libertà controllata ragguagliando 38 euro di pena pecuniaria a un giorno di libertà controllata fino a un massimo di 6 mesi per l’ammenda, di un anno per la multa.La pena pecuniaria a richiesta del condannato può essere convertita in lavoro sostitutivo in questo caso il criterio di ragguaglio è di 25 euro per ciascun giorno di lavoro sostitutivo, tale lavoro consiste nella prestazione di un’attività non retributiva a favore della collettività, da svolgere presso lo Stato,le regioni, le provincie,i comuni o enti ecc.. ma solo se richiesto dal condannato in mancanza saremo di fronte a un’ipotesi di lavoro coattivo vietato dall’art.4, 2 comma della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. La conversione delle pene pecuniarie inflitte dal giudice di pace e non eseguite per insolvibilità del condannato è oggetto di espressa e specifica previsione da parte del 4 comma dell’art.55 d.lgs.274/2000 se il condannato ne fa richiesta la pena pecuniaria è convertita in lavoro sostitutivo in caso contrario la conversione avviene applicando la pena della permanenza domiciliare ragguagliata nella misura di 25 euro per ogni giorno di permanenza. Il 4 comma dell’art.55 prevede poi che nel caso in cui il condannato abbia violato l’obbligo del lavoro 93 Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) http://guidaunigiurisprudenza.blogspot.it/ sostitutivo conseguente alla conversione della pena pecuniaria la parte di lavoro non ancora eseguito si converte nell’obbligo si permanenza domiciliare. CAPITOLO QUARTO: LE IPOTESI DI NON APPLICAZIONE, SOSPENSIONE, MODIFICAZIONE ED ESTINZIONE DELLA PENA Le vicende della punibilità. La punibilità può definirsi come la possibilità in concreto di irrogare la sanzione prevista per la violazione del precetto penale. Per il sorgere della punibilità occorrono tre elementi: 1) la commissione di un reato; 2) l’assenza di cause personali di esclusione della pena (immunità, non imputabilità); 3)la presenza di eventuali condizioni obiettive di punibilità. Condizioni obiettive e cause di non punibilità in senso stretto. L’art. 44 c.p. prevede che «quando, per la punibilità del reato, la legge richiede il verificarsi di una condizione, il colpevole risponde del reato, anche se l’evento, da cui dipende il verificarsi della condizione, non è da lui voluto». Il codice, quindi, non definisce le condizioni obiettive di punibilità, ma si limita a fissarne due caratteri: • devono consistere in un avvenimento del mondo esterno, che non deve necessariamente esser voluto dall’agente; • devono essere estranee alla condotta illecita. Sono esempi condizioni obiettive di punibilità: • l’annullamento di matrimonio nell’induzione al matrimonio mediante inganno (art. 558 c.p.); • la sorpresa in flagranza prevista negli artt. 260, 707, 708, 720, c.p.; • la presenza del reo nel territorio dello stato nei casi previsti dagli artt. 9 e 10 c.p. Secondo la migliore dottrina, le condizioni obiettive di punibilità costituiscono avvenimenti futuri ed incerti, estranei all’azione illecita, il cui verificarsi è necessario per la punibilità del reato, ma non per la sua esistenza. La dottrina distingue tra condizioni intrinseche ed estrinseche: — le prime approfondiscono una lesione già implicita nella commissione del fatto (ad esempio, il «pubblico scandalo» nell’incesto, art. 564 c.p.) e si pongono a metà strada tra gli elementi costitutivi e le condizioni estrinseche. ---Le seconde nulla aggiungono alla lesione dell’interesse protetto dalla norma incriminatrice, ma si limitano a riflettere mere valutazioni di opportunità punitiva estranee alla sfera dell’offesa al bene protetto. Dunque le condizioni intrinseche finiscono per confluire nella dimensione del fatto tipico; mentre le estrinseche sono esterne alla struttura del reato ed estranee al piano dell’offesa. La mancanza di una condizione estrinseca di punibilità va assimilata, nel tipo di efficacia, a quelle definite cause di non punibilità in senso stretto, che sono contrassegnate appunto dalla estraneità rispetto alla struttura del reato e consistono in fatti, situazioni e comportamenti successivi alla consumazione di un reato, completo di tutti i suoi elementi costitutivi. L’interesse pratico alla individuazione delle condizioni obiettive di punibilità è duplice: • in primo luogo, mentre gli eventi che fanno parte del fatto in senso stretto devono essere oggetto del dolo o della colpa, gli eventi-condizioni obiettive vengono imputati a titolo di responsabilità oggettiva (art. 44 c.p.); • in secondo luogo, l’art. 158, comma 2, c.p. fa decorrere il termine di prescrizione del reato dal momento in cui si verifica la condizione obiettiva di punibilità. Le cause generali di estinzione del reato. Le cause di estinzione del reato: estinguono la punibilità in astratto, cioè l’applicabilità di una certa pena all’autore di una trasgressione, antecedentemente alla sentenza definitiva di condanna. L’applicabilità delle cause di estinzione del reato, pur essendo assistita dalla regola della immediata declaratoria, è tuttavia subordinata alla evidenza delle condizioni per un proscioglimento nel merito. Le cause di estinzione del reato, viceversa, prevalgono sulle cause di estinzione della pena. 94 Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) http://guidaunigiurisprudenza.blogspot.it/ Negli art. 150-170 c.p., la nostra legge prevede, quali cause di estinzione del reato: la morte del reo prima della condanna; la remissione della querela; l’amnistia; la prescrizione del reato; l’oblazione; la sospensione condizionale della pena; il perdono giudiziale. Le singole cause di estinzione del reato. a) Morte del reo: per il principio della assoluta personalità della responsabilità penale e della pena, con la morte del reo si determina l’estinzione del reato (se prima della condanna) o della pena principale e accessoria nonché degli altri effetti penali della condanna (se dopo la condanna) (artt. 150 e 171 c.p.); b) Amnistia (art. 151 c.p.): atto di clemenza generale con cui lo Stato rinuncia all’applicazione della pena. È concessa con legge deliberata a maggioranza dei due terzi dei componenti di ciascuna camera. È rinunziabile dall’imputato. Essa può essere: propria: opera per i reati per cui non sia ancora intervenuta la condanna, estingue il reato; impropria: interviene dopo la sentenza irrevocabile di condanna, estingue le pene principali e quelle accessorie, ma non gli altri effetti penali della condanna. L’amnistia non si applica ai recidivi, nei casi preveduti dai capoversi dell’art. 99 c.p., né ai delinquenti abituali, professionali o per tendenze ma è fatta salva l’ipotesi che lo stesso provvedimento di amnistia disponga diversamente( art. 11, IV comma). L’amnistia, sia propria che impropria, non estingue le obbligazioni civili nascenti dal reato, salvo che si tratti della obbligazione civile per la multa o per l’ammenda. A seguito della sentenza costituzionale 14 luglio 1971, n. 175, l’amnistia è sempre rinunciabile da parte del soggetto che dovrebbe beneficiarne, ma che abbia, viceversa, interesse a una pronuncia che escluda la sua colpevolezza e renda, eventualmente, improponibili azioni civili nei suoi confronti. c) Prescrizione (art. 157-162): consiste nella rinuncia dello stato a far valere la propria pretesa punitiva dopo il trascorrere di un certo periodo di tempo dal verificarsi del reato o dalla condanna. Per la prescrizione del reato trascorso il tempo previsto dall’art. 157 dalla consumazione del reato senza che sia intervenuta sentenza irrevocabile di condanna, il reato è definitivamente estinto. Il decorso del termine di prescrizione può essere sospeso ( art. 159) o interrotto ( art. 160). La sospensione implica una sorta di pausa nel corso della prescrizione, dimodochè questa riprende a decorrere, una volta cessata la causa della sospensione, ferma restando la validità del periodo già trascorso, ai fini del computo finale, nel senso che i due periodi si sommano fra loro. La sospensione della prescrizione ha luogo, a norma dell’art. 159,I comma c.p.: in ogni caso in cui la sospensione del procedimento o del processo penale o dei termini di custodia cautelare è imposta da una particolare disposizione di legge, oltre che nei casi di: Autorizzazione a procedere; Deferimento della questione ad altro giudizio; Sospensione del procedimento o del processo penale per ragioni di impedimento delle parti o dei difensori su richiesta dell’imputato o del suo difensore. Il legislatore ha previsto che l’udienza non può essere differita oltre il sessantesimo giorno successivo alla prevedibile cessazione dell’impedimento e nel caso in cui il differimento sia per un tempo maggiore la sospensione opera solo il tempo dell’impedimento aumentato di sessanta giorni. La prescrizione riprende il suo corso dal giorno in cui è cessata la causa della sospensione; nell’ipotesi di autorizzazione a procedere, dal giorno in cui l’autorità competente accoglie la richiesta. L’interruzione della prescrizione toglie invece efficacia al tempo già trascorso prima dell’effetto interruttivo; dimodochè il termine ricomincia a decorrere ex novo. Il corso della prescrizione è interrotto dal compimento di alcuni atti qualificati di esercizio della pretesa punitiva che dimostrano l’attualità e la persistenza dell’interesse pubblico alla repressione del fatto. Gli atti interrottivi della prescrizione sono innanzi tutto la sentenza di condanna e il decreto di condanna; inoltre una serie di atti dell’ a.g. , fra cui l’ordinanza che applica le misure cautelari, la richiesta di rinvio a giudizio, il decreto di fissazione dell’udienza preliminare, il decreto che dispone il giudizio. 95 Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) http://guidaunigiurisprudenza.blogspot.it/ Ogni atto interruttivo determina l’effetto di azzeramento della prescrizione e, perciò, se più sono gli atti interrottivi che si sono succeduti nel tempo, la prescrizione decorre dall’ultimo di essi. Quanto agli effetti della sospensione e della interruzione, l’art. 161, I comma, prevede che questi si producono per tutti coloro che hanno commesso il reato. La recente legge 5-12-2005, n. 251 (c.d. «ex Cirielli») ha introdotto rilevanti novità in tema i prescrizione, che possono essere così sintetizzate: — il tempo di prescrizione è pari al massimo editale della pena, ma mai inferiore a sei anni per delitti e quattro anni per le contravvenzioni; per taluni reati più gravi i termini sono raddoppiati; — sul calcolo del tempo di prescrizione incidono le circostanze aggravanti ad effetto speciale e non rileva il giudizio di comparazione delle circostanze; — in caso di interruzione della prescrizione (casi previsti dagli artt. 160 e 161 c.p.), il termine ordinario si prolunga di regola di 1/4, o di un periodo maggiore se si tratta di recidivi. d) Oblazione: consiste nel pagamento, a domanda dell’interessato, di una somma di denaro (così da degradare il reato in illecito amministrativo) prima dell’apertura del dibattimento o del decreto di condanna. Al riguardo distinguiamo: oblazione nelle contravvenzioni punite con la sola ammenda (art. 162 c.p.).È un diritto dell’imputato e consiste nel pagamento di una somma pari al terzo del massimo edittale; oblazione nelle contravvenzioni punite con pena alternativa (detentiva o pecuniaria art.162bis c.p.). È facoltativa a discrezione del giudice e consiste nel pagamento di una somma pari alla metà dell’ammenda. e) Remissione della querela: estingue il reato e comporta l’onere del pagamento delle spese processuali a carico dell’imputato, salvo diverso accordo tra le parti (art. 340 c.p.p).la remissione della querela può essere .processuale ed extraprocessuale, a seconda che si estrinsechi in un atto del processo, rivestito di determinate formalità, ovvero al di fuori di esso: in questo secondo caso, la remissione della querela può essere sia espressa, sia tacita; è tacita, quando consiste in comportamenti incompatibili con la volontà di persistere nell’istanza di punizione. Per assumere efficacia estintiva del reato, la remissione dev’essere accettata dal querelato. Nell’ipotesi di concorso di più persone nel reato, la remissione della querela a favore anche di uno solo fra i concorrenti si estende a tutti, ma non produce effetti nei confronti di chi l’abbia eventualmente ricusata. La remissione non può essere sottoposta a obblighi e condizioni salvo i casi i casi per i quali la legge abbia disposto altrimenti. La remissione della querela non è ammessa nei delitti contro la libertà sessuale, in rapporto ai quali la querela proposta è dichiarata dalla legge irrevocabile. Gli artt. 153 e 155 c.p. disciplinano l’esercizio del diritto di remissione e della facoltà di accettare la remissione quando si tratti di minori o incapaci. La sospensione condizionale della pena. La sospensione condizionale della pena consiste nel sospendere l’esecuzione della pena inflitta a condizione che entro un certo periodo di tempo il colpevole non commetta altri reati. Se ciò non si verifica egli conterà la vecchia e la nuova pena. Le condizioni cui è subordinata la concessione del beneficio e gli obblighi del condannato sono disciplinati dagli artt. 164, 165, 168 c.p. Il beneficio sospende l’esecuzione delle pene principali. Se la condizione si verifica si estingue il reato, ma restano fermi gli altri effetti penali della condanna. La sospensione condizionale era entrata in vigore nel nostro ordinamento giuridico nel 1904, col nome di condanna condizionale e venne poi recepita nel codice del ‘ 30; inizialmente con riferimento alle condanne non superiori a sei mesi, limite presto elevato a un anno. Il beneficio era rigorosamente riservato ai delinquenti primari, cioè a coloro che mai avevano riportato condanna per delitti. La riforma della sospensione condizionale riguarda sia i limiti oggettivi che quelli soggettivi entro cui il beneficio può essere concesso. Secondo il testo vigente dell’art. 163 c.p., possono essere sospese condizionalmente le condanne alla pena della reclusione o dell’arresto in misura non superiore a due anni, ovvero a pena pecuniaria che, sola o congiunta a pena detentiva, e ragguagliata a norma dell’art. 135, sia equivalente a una pena detentiva non superiore, nel complesso, a due anni. Questo limite è elevato a due anni e sei mesi per i minori degli anni ventuno e per chi ha superato gli anni settanta; a tre anni per i minori degli anni diciotto. 96 Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) http://guidaunigiurisprudenza.blogspot.it/ I limiti oggettivi di concedibilità della sospensione sono stati ulteriormente ampliati, con la L. 11 giugno 2004, n. 145, che ha introdotto una modifica: la sospensione condizionale può essere concessa anche quando la pena nel complesso, ragguagliata a norma dell’art. 135, sia superiore a due anni (ovvero due anni e sei mesi e tre anni, nelle ipotesi del II e III comma), a condizione però che quel limite non sia superato dalla pena detentiva inflitta. Anche il limite soggettivo di concedibilità della sospensione è sensibilmente diverso, rispetto alla normativa originaria, che inibiva la concessione del beneficio a chi avesse riportato una precedente condanna per delitto. Dalla sentenza costituzionale n. 95/76, l’art. 164 concede in pratica, entro determinati limiti, la concessione della condizionale per due volte. Il IV comma dell’art. 164, infatti, dopo aver stabilito che la sospensione condizionale non può essere concessa più di una volta, precisa, che il giudice nell’infliggere una nuova condanna, può disporre la sospensione condizionale, qualora la pena da infliggere, cumulata con quella irrogata con la precedente condanna anche per delitto, non superi i limiti stabiliti dall’art. 163, e cioè i due anni di reclusione. La sospensione condizionale della pena non può essere conceduta al delinquente o contravventore abituale o professionale. L’ulteriore ostacolo alla sospensione, costituito dall’applicabilità ope legis di una misura di sicurezza personale, ha perduto, invece, ogni rilevanza a seguito della abolizione delle ipotesi di pericolosità presunta. La sospensione condizionale è ammessa soltanto se, avuto riguardo alle circostanze di cui all’art. 133, il giudice presume che il colpevole si asterrà dal commettere ulteriori reati. Le modifiche alla disciplina della sospensione condizionale hanno arricchimento in qualche misura anche il suo contenuto che, nell’essenziale, è dato dalla sospensione dell’esecuzione della pena, per cinque anni, se si tratta di condanna per delitto, per due anni, se si tratta di condanna per contravvenzione. Alla possibilità che la sospensione fosse subordinata all’adempimento delle obbligazioni civili nascenti dal reato, l’art. 128 della L. 689/81 ha aggiunto la possibilità di subordinare la concessione del beneficio all’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose del reato; con la citata L. 154/2004 tale ultima prescrizione viene posta in alternativa alla prestazione di attività non retribuita a favore della collettività per un tempo determinato comunque non superiore alla durata della pena sospesa. Nella stessa direzione di una maggiore effettività si inscrive la previsione contenuta nel II comma dell’art. 165 c.p. secondo la quale, in caso di seconda concessione, la sospensione deve essere subordinata all’adempimento di uno degli obblighi previsti nel comma precedente. Altra innovazione legislativa in materia di sospensione condizionale ha riguardato la portata del suo effetto sospensivo, che era prima limitato alle pene principali, restandone escluse le pene accessorie. La sospensione condizionale rende anche inapplicabili le misure di sicurezza, esclusa la confisca; non incide, viceversa, sugli altri effetti penali della condanna, né sulle obbligazioni civili, nascenti dal reato. Se il periodo di sospensione decorre interamente, senza che il condannato commetta un delitto, ovvero una contravvenzione della stessa indole, il reato per il quale fu concessa la sospensione condizionale della pena è estinto: l’estinzione inibisce l’esecuzione delle pene principali e accessorie, mentre restano fermi gli altri effetti penali della condanna. Quando, invece, entro il termine stabilito, il condannato commetta un delitto ovvero una contravvenzione della stessa indole, per cui gli venga inflitta una pena detentiva, ovvero non adempia agli obblighi impostigli, a norma dell’art. 168, I comma c.p., la sospensione è revocata di diritto; lo stesso art. 168 fa salvo quanto stabilito dall’art. 164, in relazione alla possibilità di una doppia concessione del beneficio. Se poi la nuova condanna interviene per un delitto commesso anteriormente alla concessione della sospensione, questa è revocata di diritto, allorché la pena inflitta, cumulata con quella precedente sospesa, oltrepassi il limite stabilito dal’art. 163. La revoca è, invece, facoltativa se il cumulo delle due pene rientri nei limiti stessi: la disposizione si giustifica in relazione al fatto che, pur essendo in questo caso ammissibile la reiterazione del beneficio, si deve tuttavia considerare che esso era stato concesso in base al presupposto che il reo non avesse in precedenza 97 Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) http://guidaunigiurisprudenza.blogspot.it/ commesso altri reati. Conseguentemente, il giudice, tenuto conto dell’indole e della gravità del reato, può revocare l’ordine di sospensione condizionale della pena. Sempre con la L. 145/2004 è stata infine introdotta una nuova figura di sospensione condizionale applicabile ai soli casi in cui la pena inflitta non sia superiore ad un anno. La concessione della sospensione è in questo caso condizionata alla integrale riparazione del danno, che deve avvenire prima che sia stata pronunciata la sentenza di primo grado, mediante il risarcimento di esso e, quando sia possibile, mediante le restituzioni, nonché qualora il colpevole, entro lo steso termine e fuori del caso previsto nel quarto comma dell’articolo 56, si sia adoperato spontaneamente ed efficacemente per elidere o attenuare le conseguenze dannose o pericolose del reato da lui eliminabili. In questa ipotesi il periodo di sospensione è ridotto ad un solo anno, trascorso il quale,se non interviene revoca,si produce l’effetto estensivo. La sospensione del processo con messa alla prova e il perdono giudiziale per i minorenni. Il nostro ordinamento contiene due particolari ipotesi di estinzione del reato, esclusive del diritto penale minorile: riservate, cioè, ai minori degli anni 18. Queste sono: Il perdono giudiziale: (art. 169 c.p.): consiste nella rinuncia dello stato a condannare un minore di anni diciotto, mai condannato per delitto, che abbia commesso un reato non grave (deve essere applicabile in concreto una pena detentiva non maggiore di anni 2 di reclusione o una pecuniaria non superiore a 1.549) per consentirne un più rapido recupero sociale. Il perdono può essere concesso solo quando il giudice, avuto riguardo alle circostanze dell’art. 133, presume che il colpevole si asterrà dal commettere ulteriori reati. Il perdono giudiziale non può essere concesso ai minorenni che siano già stati condannati a pena detentiva per delitto o che siano delinquenti o contravventori abituali o delinquenti professionali. Il perdono giudiziale può essere applicato una sola volta. Tale limite va escluso quando si tratti di reati uniti dal vincolo della continuazione a quelli per cui era stato concesso una prima volta il beneficio, o di reato commesso anteriormente al primo perdono, se il cumulo della pena non superi i limiti di applicabilità del beneficio. La sospensione del processo con messo della prova: il giudice dei minori può sospendere il processo per un periodo non superiore a tre anni quando si tratti di reati per i quali è prevista la pena dell’ergastolo o della reclusione non inferiore nel massimo a dodici anni; per non più di un anno negli altri casi, affidando nel contempo l’imputato ai servizi minorili della giustizia, per lo svolgimento delle opportune attività di osservazione, trattamento e sostegno ed eventualmente dettando prescrizioni dirette a riparare le conseguenze del reato e a promuovere la conciliazione del minore con la persona offesa del reato. All’esito positivo della prova consegue la dichiarazione giudiziale di estinzione del reato. L’estinzione del reato a seguito di applicazione della pena su richiesta delle parti. La pena applicata dal giudice su richiesta delle parti, a norma dell’art. 444 c.p.p. (patteggiamento) non solo esclude l’applicabilità di pene accessorie e di misure di sicurezza, ma produce, ove sia stata irrogata una pena detentiva non superiore a due anni soli o congiunti a pena pecuniaria, l’estinzione del reato e di ogni altro effetto della condanna, se nei cinque anni da essa (quando si tratta di delitto), nei due anni (quando si tratti di contravvenzione) il condannato non commette altri delitti o contravvenzioni della stessa indole. Le forme di definizione alternativa del procedimento davanti al giudice di pace. Gli artt. 34-35 contemplano due forme di definizione alternativa del procedimento penale, mediante previsione della esclusione della procedibilità nei casi di particolare tenuità del fatto ( art. 34) e di estinzione del reato conseguente a condotte riparatorie (art. 35). La prima è causa di improcedibilità: esso si fonda sull’applicazione di un criterio di tipo sostanziale vale a dire la irrilevanza del fatto. La particolare tenuità del fatto è sia di natura oggettiva (esiguità del danno o del pericolo rispetto all’interesse tutelato), che soggettiva (occasionalità e grado della colpevolezza); nel formulare questo giudizio il giudice deve tener conto del pregiudizio che l’ulteriore corso del procedimento può recare alle esigenze di lavoro di studio, di famiglia o di salute della persona sottoposta ad indagini o dell’imputato. 98 Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) http://guidaunigiurisprudenza.blogspot.it/ La seconda ipotesi introduce invece una nuova causa di estinzione del reato, che il giudice di pace dichiara con sentenza quando l’imputato dimostra di aver proceduto, prima dell’udienza di comparizione, alla riparazione del danno cagionato dal reato, mediante le restituzioni o il risarcimento e di aver eliminato le conseguenze dannose o pericolose del reato. L’estinzione del reato è subordinata ad una valutazione positiva del giudice circa l’idoneità di dette condotte a soddisfare le esigenze di riprovazione del reato e quelle di prevenzione. Le cause di estinzione della pena. Le cause di estinzione della pena non hanno altro effetto se non quello di impedire o far cessare l’esecuzione della pena concretamente inflitta al reo. Esse presuppongono necessariamente l’esistenza di una sentenza di condanna definitiva, lasciando impregiudicata ogni altra conseguenza giuridica del reato per il quale la condanna è stata pronunciata. Le cause di estinzione della pena previste dal codice sono: la morte del reo dopo la condanna; l’amnestia impropria; la prescrizione della pena; l’indulto; la grazie; la liberazione condizionale;la riabilitazione; la non menzione della condanna nei certificati del casellario giudiziale. La morte del reo. L’estinzione della pena a seguito della morte del reo, intervenuta dopo la condanna è implicazione del tutto ovvia del principio mors omnia solvit. Da rilevare che la morte del reo, pur estinguendo ogni effetto della condanna, ivi comprese le obbligazioni civili per il pagamento delle multe o delle ammende, non estingue però la confisca, né le obbligazioni civili derivanti dal reato. L’amnestia impropria. L’amnestia è detta impropria se intervenuta dopo una condanna definitiva. Essa è causa di estinzione della pena perché presuppone che, pur essendo stato il reato commesso entro i termini di applicazione dell’amnestia, su di esso si sia tuttavia formato un giudicato irrevocabile di condanna. Per tale motivo, pur facendo cessare l’esecuzione delle pene principali e accessorie e delle misure di sicurezza diverse dalla confisca, l’amnestia impropria lascia intatto ogni altro effetto della condanna. La prescrizione della pena. Il decorso del tempo, dopo che la sentenza di condanna è divenuta irrevocabile, è causa estintiva delle pene che, per qualsiasi motivo, non siano state, in tutto o in parte, eseguite. A norma degli artt. 172 e 173 c.p., la pena della reclusione si estingue con il decorso di un periodo di tempo pari al doppio della misura della pena stessa. Il termine di prescrizione decorre dalla data del passaggio in giudicato della sentenza di condanna, ovvero dalla data in cui il condannato si è sottratto volontariamente all’esecuzione della pena, già iniziata. La pena della multa si estingue dopo dieci anni. L’estinzione non opera nel caso di recidivi aggravanti o reiterati, e dei delinquenti abituali, professionali o per tendenza, né nei confronti di chi, durante il tempo necessario al prescriversi della pena, abbia riportato una condanna alla reclusione per un delitto della stessa indole. Le pene dell’arresto e dell’ammenda si prescrivono in cinque anni; il termine è raddoppiato nel caso dei recidivi aggravati e dei delinquenti abituali, professionali e per tendenza. Indulto e grazia. Indulto (art. 174 c.p.): atto di clemenza generale che opera non sul reato ma sulla pena principale che è condonata in tutto o in parte; non estingue le pene accessorie ed è concesso con la stessa procedura dell’amnistia. Grazia (art. 174 c.p.): atto di clemenza particolare (perché individuale) che presuppone una sentenza irrevocabile di condanna ed è rimesso (art. 87 Cost.) al potere discrezionale del Presidente della repubblica; opera solo sulla pena principale, condonandola in tutto o in parte. La liberazione condizionale. La liberazione condizionale (artt. 176-177 c.p.) consiste nella concessione di un premio ad un condannato che durante il periodo della detenzione abbia dato prova di buona condotta. La concessione della liberazione condizionale è subordinata all’adempimento delle obbligazioni civili derivanti dal reato, a meno che il condannato non dimostri la sua impossibilità ad adempiere. La concessione della liberazione 99 Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) http://guidaunigiurisprudenza.blogspot.it/ condizionale ha come effetti immediati la scarcerazione del condannato, la sospensione dell’eventuale misura di sicurezza detentiva, l’applicazione della libertà vigilata assistita dal servizio sociale. Con il decorso del tempo della pena residua, o di cinque anni, se si tratta di condannati all’ergastolo, la liberazione condizionale determina la definitiva estinzione della pena e la revoca delle eventuali misure di sicurezza personali. La liberazione condizionale è soggetta a revoca, se durante il periodo di libertà sotto condizione la persona liberata commette un delitto o una contravvenzione della stessa indole, ovvero trasgredisce agli obblighi impostigli con la libertà vigilata. A seguito della revoca, il condannato riprende a scontare la pena detentiva. La riabilitazione. La riabilitazione (artt. 178 e ss. c.p.): estingue le pene accessorie e gli altri effetti penali della condanna dopo che sia trascorso il periodo di almeno 3 anni (o almeno 8 anni) dal giorno in cui la pena principale sia stata eseguita o si sia estinta, se il condannato ha dato prova effettiva di buona condotta e ha eseguito le obbligazioni civili nascenti dal reato. La non menzione della condanna nei certificati del casellario giudiziale. La non menzione della condanna, disciplinata nell’art. 175 c.p., non è una causa di estinzione della pena, ma solo una limitazione degli effetti della condanna penale. Essa consiste, infatti, in un provvedimento giudiziale, dato in uni alla sentenza di condanna, con cui si stabilisce che della condanna stessa non si faccia menzione nei certificati rilasciati dal casellario. Questa misura persegue dunque l’obiettivo di eliminare taluni ostacoli al reinserimento sociale del condannato. Il beneficio è rimesso alla valutazione discrezionale del giudice, avuto riguardo all’art. 133 c.p. Può essere concesso per condanne che non superino una certa entità sempre che si tratti della prima condanna subita del soggetto; a meno che non si tratti di reati anteriormente commessi, quando il cumulo delle pene non superi i limiti stabiliti dall’art. 175 I e II comma. L’ordine di non menzione della condanna è revocato di diritto se il condannato commette successivamente un altro delitto. La revoca può intervenire senza limiti di tempo. CAPITOLO QUINTO: LE CONSEGUENZE GIURIDICHE DEL REATO. IL TRATTAMENTO DELL’ILLECITO DEPENALIZZATO. Gli effetti penali della condanna. Si definiscono “effetti penali della condanna” le conseguenze giuridiche che derivano di diritto dalla condanna stessa, diverse dalle pene, principali e accessorie, e dalle misure di sicurezze. Gli effetti penali si concretano in limitazioni al godimento di particolari benefici o in un aggravio di posizioni soggettive del condannato. Esse sono previste oltre che nel codice, in molte leggi speciali. Esempi di effetti penali sono: l’impossibilità di ottenere la sospensione condizionale in conseguenza di una o più condanne precedenti; l’acquisizione della condizione di recidivo a seguito della condanna da cui essa scaturisce; l’iscrizione della condanna nel casellario giudiziale; l’impossibilità a svolgere determinate attività, ottenere determinate autorizzazioni o concessioni, o si partecipare a determinati concorsi per effetto della condanna penale. Gli effetti penali vengono a cessare con la riabilitazione mentre, di regola, non vengono meno per il verificarsi delle altre cause estintive del reato e della pena. Le obbligazioni civili nascenti dal reato. Le conseguenze giuridiche del fatto costituente reato in quanto illecito civile. Oltre che illecito penale, un determinato fatto può anche costituire illecito di diversa natura (civile, amministrativo, disciplinare etc.) e, quindi, da esso possono derivare conseguenze giuridiche diverse ed ulteriori rispetto a quelle penali. La maggior parte dei reati (ma sarebbe meglio precisare: dei delitti) costituisce, generalmente, anche una forma di illecito civile ai sensi dell’articolo 2043 c.c., per cui da essi deriva anche una sanzione civile. In alcuni casi è la stessa norma civile che prevede la sanzione (civile) per un illecito penale; così: gli eccessi, le sevizie, le minacce o le ingiurie gravi possono essere causa di separazione personale tra coniugi (art. 151 c.c.); la condanna per determinati delitti può essere causa di divorzio (cfr. art. 3 L. 1-12-1970, n. 898); l’omicidio, il tentato omicidio o la falsa denuncia del de cuius importa indegnità a succedere (art. 463 c.c.) nonché la revocazione della donazione per ingratitudine (art. 801 c.c.). 100 Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) http://guidaunigiurisprudenza.blogspot.it/ Le più importanti conseguenze di natura civile sono previste nel titolo VII del libro i del codice penale, e sono le restituzioni, il risarcimento , l’obbligo del rimborso delle spese allo Stato per il mantenimento del condannato e l’obbligazione civile per l’ammenda. Per il primo comma dell’art. 185 c.p. «ogni reato obbliga alle restituzioni, a norma delle leggi civili». La restituzione di cui parla la legge si riferisce non soltanto al maltolto, ma anche al ripristino della situazione di fatto preesistente al reato. L’obbligo della restituzione, naturalmente, sorge solo nel caso in cui una restituzione, nel senso prima inteso, sia possibile naturalisticamente e giuridicamente. Per il secondo comma dell’ art. 185 c.p. « ogni reato, che abbia cagionato un danno patrimoniale o non patrimoniale, obbliga al risarcimento il colpevole e le persone che, a norma delle leggi civili, debbono rispondere per il fatto di lui ». Il danno patrimoniale è l’offesa di un interesse patrimoniale, nei suoi due aspetti di danno emergente e di lucro cessante. Il danno non patrimoniale è il perturbamento morale derivato dalla commissione del reato, perturbamento morale consistente non in un valutabile detrimento fisico o patrimoniale, bensì nell’offesa, nell’angoscia, nel dolore, nel risentimento etc. Tanto il danno patrimoniale quanto quello non patrimoniale, per essere risarcibili, devono porsi in rapporto di immediatezza col reato, essere cioè legati ad esso da uno stretto rapporto di causa ad effetto (art. 1223 c.c.). L’art. 186 c.p. aggiunge alle ordinarie misure di riparazione del danno civile una forma particolare di riparazione, consistente nella pubblicazione della sentenza di condanna, a spese del colpevole, qualora la pubblicazione costituisca un mezzo per riparare il danno non patrimoniale cagionato dal reato. La sanzione prevista dall’art. 186 non deve essere confusa con la pena accessoria di cui all’art. 36 c.p. Soggetto tenuto al risarcimento del danno è il colpevole; in caso di concorso di persone nel reato, tutti gli autori del fatto sono tenuti in solido al risarcimento (art. 187, comma 2 c.p.). Oltre al colpevole, inoltre, è tenuto al risarcimento del danno, in solido con lui, il responsabile civile ove vi sia. Soggetto attivo (creditore) del rapporto obbligatorio di risarcimento del danno è il c.d. danneggiato, che può esser persona diversa dal soggetto passivo del reato. Le obbligazioni civili del condannato verso lo Stato. Per il disposto dell’ art. 188 c.p., il condannato è obbligato a rimborsare all’erario dello stato le spese per il suo mantenimento negli stabilimenti di pena, e risponde di tale obbligazione con tutti i suoi beni mobili ed immobili, presenti e futuri, a norma delle leggi civili. Tale obbligazione non si estende alla persona civilmente obbligata per l’ammenda né agli eredi del condannato. Per il disposto dell’art. 2 della L. 26-7-1975, n. 354, in materia di ordinamento penitenziario, il rimborso delle spese di mantenimento ha luogo per una quota non superiore ai due terzi del costo reale del mantenimento stesso. L’obbligazione civile per la multa e per l’ammenda. L’art. 196 c.p., in caso di insolvibilità del condannato a pena pecuniaria, stabilisce l’obbligazione sussidiaria al pagamento di una somma pari all’ammontare della pena pecuniaria a carico della persona rivestita dell’autorità o incaricata della direzione o vigilanza del soggetto condannato. Affinché sorga questa obbligazione, occorre che si tratti di violazione di una norma che la persona preposta doveva far osservare e, nello stesso tempo, occorre che la persona preposta non ne debba rispondere penalmente. Del pari l’art. 197 c.p. stabilisce che «gli enti forniti di personalità giuridica, eccettuato lo Stato, le regioni, le province ed i comuni, qualora sia pronunciata condanna per reato contro chi ne abbia la rappresentanza o l’amministrazione, o sia con essi in rapporto di dipendenza, e si tratti di reato che costituisca violazione degli obblighi inerenti alla qualità rivestita dal colpevole, ovvero sia commesso nell’interesse della persona giuridica, sono obbligati al pagamento, in caso di insolvibilità del condannato, di una somma pari all’ammontare della multa o dell’ammenda inflitta». Anche questa «obbligazione» nasce solo in caso di insolvibilità del condannato (e perciò ha carattere sussidiario) ed è stata estesa ai delitti dalla L. 689/1981. Le due norme di cui sopra non fanno eccezione al principio della personalità della pena in quanto non sanciscono una responsabilità penale a carico di persone estranee al reato, ma contemplano ipotesi di responsabilità puramente civile a garanzia dell’adempimento di un obbligo penale. L’individuo o l’ente obbligati versano una somma pari all’ammontare della pena pecuniaria che il colpevole non è in condizioni di pagare. In entrambi i casi, se l’obbligazione non può essere adempiuta si applica l’art. 136 (conversione della pena pecuniaria). 101 Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) http://guidaunigiurisprudenza.blogspot.it/ Le garanzie per le obbligazioni civili del condannato e del civilmente obbligato. Gli artt. 189-195 c.p. contengono una serie di disposizioni tese a garantire l’adempimento delle obbligazioni civili da parte dell’imputato. Tali garanzie possono così sintetizzarsi: a) sequestro conservativo di beni del condannato, per garantire il pagamento delle pene pecuniarie, delle spese processuali e del risarcimento del danno; b) prelievo, in misura non superiore ai 2/5, sulla remunerazione ai condannati per il lavoro prestato negli istituti penitenziari, a garanzia delle obbligazioni civili, non altrimenti adempiute, relative nell’ordine: alle somme dovute a titolo di risarcimento del danno;alle spese di mantenimento in carcere; al rimborso delle spese del procedimento; c) azione revocatoria penale, finalizzata a rendere inefficaci atti negoziali del condannato, che possono depauperare il suo patrimonio e rendere difficile la riscossione dei crediti (sanzioni, spese, risarcimento). La responsabilità da reato delle persone giuridiche e degli enti collettivi. La L. 29 settembre 2000, n. 300 ha introdotto la responsabilità amministrativa delle persone giuridiche e degli enti collettivi per i reati commessi dai loro organi o da loro sottoposti, poi compiutamente disciplinata con d.lgs. 8 maggio 2001, n. 231, e successive modifiche. L’ente sarà considerato responsabile quando il reato commesso se non è espressione diretta della politica d’impresa, quantomeno dipende da una colpa di organizzazione, nel senso della mancata adozione di protocolli di comportamenti ,strumenti di controllo, sistemi disciplinari adeguati a prevenire lo specifico rischio – reato. Il legislatore attribuisce valore esimente alla prova da parte dell’ente di avere adottato ed efficacemente applicato un modello di organizzazione, gestione e controllo idoneo a prevenire reati della specie di quello verificatosi. Questo tipo di responsabilità ha un ambito applicativo delimitato dalla elencazione tassativa di una serie di specifici reati – presupposto; nel corso degli anni il legislatore ha ampliato l’elenco dei reati dalla cui commissione può derivare il tipo di responsabilità previsto dal d.lgs. 231/2001. Per quel ce riguarda le sanzioni, accanto a quella pecuniaria, sono previste sanzioni interdittive e la pubblicazione della sentenza di condanna. Innovativo per il nostro ordinamento è il sistema commisurativi della pena pecuniaria, la cui misura non viene determinata mediante la individuazione di limiti edittali fissi, bensì per quote: in base all’art. 11 il numero delle quote viene determinato dal giudice tenendo conto della gravità del fatto, del grado della responsabilità dell’ente nonché dell’attività svolta per eliminare o attenuare le conseguenze del fatto e per prevenire la commissione di ulteriori illeciti; mentre l’importo della quota è fissato sulla base delle condizioni economiche e patrimoniali dell’ente allo scopo di assicurare l’efficacia della sanzione. Il sistema sanzionatorio degli illeciti depenalizzati. Il diritto penale amministrativo può essere considerato parte del diritto penale perché esso concerne illeciti a cui la legge ha conferito lo statuto di illecito amministrativo e non penale. L’interesse della dottrina penalistica per la materia è giustificato da tre ordini di ragioni: La disciplina dell’illecito amministrativo depenalizzato appartiene di diritto al quadro generale della evoluzione e trasformazione del sistema penale; Alcuni atti normativi hanno fornito significativi spunti per il delinearsi di una nozione sostanziale di reato ancorata ai principi di proporzione e di sussidiarietà, o extrema ratio, del ricorso alla sanzione penale; Fra illecito penale e illecito amministrativo intercorrono rapporti che possono assumere rilevanza per la disciplina del concorso di norme. 102 Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) http://guidaunigiurisprudenza.blogspot.it/ SEZIONE SECONDA Le misure di sicurezza. La crisi del doppio binario e prassi delle misure di sicurezza. Le misure di sicurezza sono speciali provvedimenti di carattere educativo o curativo ovvero anche cautelativo, applicabili dall’autorità giudiziaria, in sostituzione, oppure in aggiunta alla pena, nei confronti di un reo ritenuto socialmente pericoloso. I destinatari delle misure di sicurezza si possono distinguere in tre categorie: I delinquenti imputabili, socialmente pericolosi; I delinquenti semi – imputabili, socialmente pericolosi; I soggetti non imputabili, socialmente pericolosi. Alle prime due categorie di soggetti si applicano congiuntamente pena e misure di sicurezza; alla terza, la sola misura di sicurezza. Presupposto generale dell’applicazione delle misure di sicurezza, per tutte e tre che categorie indicate, è che il soggetto abbia commesso un fatto preveduto dalla legge come reato o un altro fatto espressamente determinato dalla legge. Le misure di sicurezza si applicano anche agli stranieri che si trovano nel territorio dello Stato; l’applicazione delle misure di sicurezza allo straniero non ne impedisce l’espulsione dal territorio dello Stato, a norma delle leggi di pubblica sicurezza. Le misure di sicurezza possono applicarsi anche per fatti commessi all’estero, quando si proceda, o si rinnovi il giudizio, nello Stato. Misure di sicurezza e principio di legalità. L’art. 25, III comma Cost. afferma “ nessuno può essere sottoposto a misure di sicurezza se non nei casi previsti dalla legge”. Secondo quanto affermato anche la C. Costituzionale (sent. n.157/72), il principio di legalità delle misure di sicurezza include l’esigenza della tassatività della relativa previsione, nel senso di una completa, tassativa e non equivoca previsione legislativa delle relative ipotesi. L’art. 200 c.p. stabilisce che le misure di sicurezza sono regolate dalla legge in vigore al tempo della loro applicazione. Da ciò non sembra potersi derivare la retroattività delle misure di sicurezza. L’applicabilità di una misura di sicurezza, infatti, implica sempre e comunque la commissione di un fatto preveduto dalla legge come reato. Di conseguenza, l’applicazione retroattiva di una misura di sicurezza, non potendo queste certo applicarsi per un fatto che, al tempo della sua commissione, non costituiva reato; la stessa regola si ritiene concordemente che debba valere anche per le ipotesi di quasi reato. Presupposti generali, limiti e modalità di applicazione delle misure di sicurezza. I presupposti per la loro applicazione sono: — la commissione di un fatto previsto dalla legge come reato o di un « quasi- reato » riguarda un fatto non punibile, né tipico, ma considerato come estrinsecazione di pericolosità. Le ipotesi presenti nel sistema sono due: reato impossibile art. 49 c.p.; istigazione a commettere un reato non accolta o accordo criminoso non eseguito: art. 115 c.p.; — la pericolosità sociale: l’art. 203, I comma c.p., definisce come socialmente pericolosa la persona, anche se non imputabile o non punibile, quando è probabile che commetta nuovi fatti preveduti dalla legge come reato. A norma dell’art. 203, II comma, la qualità di persona socialmente pericolosa si desume dalle circostanze indicate nell’art. 133 c.p. Le categorie normative della pericolosità sociale. Il codice penale individua 3 categorie di delinquenti socialmente pericolosi: Il delinquente abituale: si distingue tra abitualità presunta dalla legge (art. 102 c.p.) e abitualità ritenuta dal giudice (art. 103 c.p.). Essendo superata per effetto dell’art. 31 L. 663/86, ogni ipotesi di pericolosità presunta, deve ritenersi operante il solo art. 103 c.p., che implica in ogni caso l’apprezzamento in concreto della pericolosità e indica i presupposti minimi per la dichiarazione di abitualità nel reato. Il delinquente professionale: corrisponde alla situazione di chi, trovandosi nelle condizioni richieste per la dichiarazione di abitualità nel reato, riporta condanna per un altro reato, quando si debba ritenere, avuto riguardi alla natura dei reati, alla condotta e al genere di vita del colpevole, nonché alle altre circostanze rilevanti per l’art. 133 c.p., che egli viva abitualmente dei proventi del reato. 103 Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) http://guidaunigiurisprudenza.blogspot.it/ Il delinquente per tendenza: prescinde del tutto dalla condizione di recidivo: può essere dichiarato delinquente per tendenza, infatti, colui che commette un delitto non colposo contro la vita o l’incolumità individuale, quando la commissione di tale delitto, per sé e unitamente alle circostanze indicate nel capoverso dell’art. 133, riveli una speciale inclinazione al delitto, che trovi la sua causa nell’indole particolarmente malvagia del colpevole. La dichiarazione di abitualità o professionalità nel reato o di tendenza a delinquere comporta, ai sensi dell’art. 109 c.p., l’applicazione di misure di sicurezza che l’art. 216 c.p. individua nella colonia agricola e nella casa di lavoro. Applicazione, esecuzione,revoca delle misure di sicurezza. Le misure di sicurezza sono applicate, di regola, con la sentenza di condanna o di proscioglimento. Talune misure di sicurezza possono essere applicate provvisoriamente, anche prima della sentenza definitiva, naturalmente previo accertamento della pericolosità. A queste ipotesi, l’esecuzione delle misure di sicurezza, quando la misura di sicurezza si aggiunge a una pena, è sempre successiva all’esecuzione della pena. A norma dell’art. 213, III comma c.p., l’esecuzione delle misure di sicurezza comporta l’adozione di un particolare regime educativo o curativo e di lavoro, avuto riguardo alle tendenze e alle abitudini criminose della persona e, in genere, al pericolo sociale che da essa deriva. La durata delle misure di sicurezza è predeterminata, all’atto dell’applicazione, solo nella misura minima , ma è indeterminata nel massimo. Alla scadenza del termine minino di durata, il giudice procede al riesame della pericolosità, che può condurre alla revoca della misura, ovvero alla sua proroga per un nuovo periodo minimo di durata, al termine del quale si procederà a un nuovo riesame; e così via fino a che il giudizio sulla pericolosità non risulti negativo. Se la persona sottoposta a misura di sicurezza si sottrae all’esecuzione della stessa, il periodo minimo di durata della misura ricomincia a decorrere dall’inizio, a meno che non si tratti di ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario o in una casa di cura e custodia. Le singole misure di sicurezza. Sono misure di sicurezza detentive: L’assegnazione a una colonia agricola o a una casa di lavoro: è una misura di sicurezza destinata ai delinquenti abituali, professionali o per tendenza e a coloro che essendo già sottoposti a misura di sicurezza, commettono un nuovo delitto non colposo che costituisca ulteriore manifestazione dell’abitualità, della professionalità o della tendenza a delinquere. Ha la durata minima di un anno elevata a due per i delinquenti abituali, a tre per i delinquenti professionali, a quattro per i delinquenti per tendenza. Il ricovero in una casa di cura e custodia: è riservata ai condannati a una pena diminuita per infermità psichica, per intossicazione cronica da alcool e da sostanze stupefacenti, ovvero per sordomutismo e agli ubriachi abituali. Ha durata minima variabile dai sei mesi a cinque anni. Nei casi meno gravi può essere sostituita con libertà vigilata. Il ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario:è la misura di sicurezza riservata ai soggetti prosciolti per infermità psichica, per intossicazione cronica da alcool o da sostanze stupefacenti o per sordomutismo, salvo ipotesi di lieve entità. La durata minima del ricovero non può essere inferiore a due anni; il minimo è però di cinque anni, se per il fatto commesso la legge stabilisce la pena alla reclusione non inferiore nel minimo di dieci anni; di dieci anni se per il fatto commesso la pena prevista è l’ergastolo. Se la persona ricoverata deve scontare una pena restrittiva della libertà personale, l’esecuzione di questa è differita fino a che perdura il ricovero. Il riformatorio giudiziario: è misura di sicurezza speciale per i minori imputabili e non imputabili, ritenuti pericolosi. È sempre applicata ai minori degli anni 18 che siano stati dichiarati delinquenti abituali, professionali o per tendenza. 104 Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) http://guidaunigiurisprudenza.blogspot.it/ Sono misure di sicurezza personali non detentive: La libertà vigilata: consistente in una serie di limitazioni e di prescrizioni imposte per evitare nuove occasioni di reato (ad esempio, l’obbligo di una stabile attività lavorativa,l’obbligo di non ritirarsi la sera dopo una certa ora, l’obbligo di non accompagnarsi a pregiudicati, ecc.). Divieto di soggiorno: consistente nell’obbligo di non soggiornare in uno o più comuni ovvero in una o più province. Divieto di frequentare osterie e pubblici spacci di bevande alcoliche: in caso di trasgressione del divieto, può essere ordinata la libertà vigilata o la prestazione di una cauzione di buona condotta. Espulsione od allontanamento dello straniero dallo Stato: prevede che il giudice ordina l’espulsione dello straniero ovvero l’allontanamento dal territorio dello Stato del cittadino appartenete ad uno stato membro dell’Unione europea, oltre che nei casi espressamente preveduti dalla legge, quando lo straniero sia condannato alla reclusione per un tempo superiore ai due anni. Le misure di sicurezza patrimoniali sono: La cauzione di buona condotta: consistente nel deposito di una somma di danaro presso la Cassa delle ammende, variabile da 103 a 2.065, per la durata massima di 5 anni. Se il soggetto commette un nuovo reato punito con pena detentiva durante tale periodo, la somma viene incamerata; altrimenti, decorso il termine, essa viene restituita. La confisca: consistente nella espropriazione a favore dello stato di cose che servono a commettere il reato (es.: gli arnesi da scasso) o che ne sono il prodotto o il profitto, ovvero di cose la cui fabbricazione, uso, detenzione o alienazione costituisce reato (es.: armi, monete false). La confisca è una misura facoltativa: sarà infatti il giudice a stabilire nel caso concreto se il provvedimento ablativo è necessario al fine di impedire che la disponibilità della cosa da parte del reo possa rappresentare un incentivo alla commissione di nuovi reati. Il II comma dell’art. 240 c.p. dichiara invece obbligatoria la confisca delle cose che costituiscono il prezzo del reato e delle cose di cui la fabbricazione, l’uso, il porto, la detenzione e l’alienazione costituiscono reato. Il VII comma dell’art. 416 bis c.p. ha reso obbligatoria la confisca per tutte le cose che servirono o furono destinate a commettere il reato di cui all’art. 416 bis ( associazione mafiosa), nonché delle cose che ne sono il prezzo, il prodotto o il profitto o che ne costituiscono l’impiego. L’art. 446 c.p. estende il regime di obbligatorietà della confisca indicate nel I comma dell’art. 240 c.p. alle ipotesi di condanna per i reati di cui agli artt. 439,440,441,442 c.p., se dal fatto è derivata la morte o la lesione grave o gravissima di una persona. Di regola la confisca colpisce gli specifici beni che sono serviti a commettere il reato o ne costituiscono il profitto (arma utilizzata nella rapina; banconote consegnate allo spacciatore). Per taluni reati, art. 322ter c.p. (delitti dei P.U. contro la P.A.) ed artt. 640bis e ter (ipotesi aggravate di truffa), il codice consente la confisca per equivalente. Si tratta di un provvedimento di ablazione che colpisce i beni della persona condannata per detti reati, in misura proporzionale al prezzo od al profitto dei reati stessi, ed in assenza di qualsiasi prova d’un «rapporto di pertinenzialità» tra i beni appresi ed il fatto illecito cui si riferisce la sentenza di condanna. Il presupposto logico e giuridico della confisca per equivalente, anzi, è costituito proprio dalla mancata individuazione od apprensione dei beni che, fisicamente, costituiscano il prezzo od il profitto del reato preso in considerazione (pertanto, ad es., al P.u. corrotto può essere confiscata la retribuzione, nei limiti consentiti, fini alla concorrenza dell’illecito profitto). all’istituto della confisca per equivalente il legislatore è, da ultimo, ricorso in occasione della predisposizione di un complesso di misure anti-riciclaggio, ad opera del d.Lgs. 21-11-2007, n. 231, introducendo l’art. 648quater c.p., il quale affianca, ad una ipotesi speciale di confisca obbligatoria connessa a condanne per reati di riciclaggio o reimpiego, la confisca delle somme di denaro, dei beni o delle altre utilità delle quali il reo ha la disponibilità, anche per interposta persona, per un valore equivalente al prodotto, profitto o prezzo del reato, per il caso in cui la confisca ordinaria non sia possibile. 105 Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) http://guidaunigiurisprudenza.blogspot.it/ SEZIONE TERZA Le misure di prevenzione. La vicenda legislativa delle misure di prevenzione. Le misure di prevenzione hanno lo scopo di giurisdizionalizzare il procedimento di applicazione di un complesso di misure secondo le disposizioni contenute negli artt. 134-176 t.u. delle leggi di pubblica sicurezza del 1931, in precedenza dichiarati costituzionalmente illegittimi. Le misure di prevenzione di cui alla L. 27 dicembre 1956, n. 1423, possono applicarsi: A coloro che debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto, che sono abitualmente dediti a traffici illeciti. A coloro che per la condotta ed il tenore di vita debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto, che vivono abitualmente, anche in parte, con proventi di attività delittuose. A coloro che per il loro comportamento, debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto, che sono dediti sulla commissione di reati che offendono o mettono in pericolo l’integrità fisica o morale dei minorenni, la serenità, la sicurezza o la tranquillità pubblica. Le persone così individuate ricevono dal questore avviso orale dei sospetti a loro carico e l’invito a tenere una condotta conforme alla legge; di ciò è redatto processo verbale al solo fine di dare all’avviso data certa. Trascorsi 60 giorni e non più di tre anni, se la persona avvisata non ha cambiato condotta e risulta pericolosa per la sicurezza pubblica il questore può avanzare al tribunale motivata proposta per l’applicazione nei suoi confronti della sorveglianza speciale della pubblica sicurezza. La sorveglianza speciale non può avere durata inferiore ad un anno, né superiore a cinque anni. Alla sorveglianza speciale possono aggiungersi il divieto di soggiorno in uno o più comuni o in una o più province, quando le circostanze del caso lo richiedono, e l’obbligo di soggiorno nel comune di residenza o di abituale dimora. L’inottemperanza degli obblighi imposti con il decreto che dispone la misura costituisce contravvenzione punibile con l’arresto, quando concerna la sola sorveglianza speciale; delitto punito con la reclusione da uno a cinque anni, se concerne la sorveglianza con obbligo o divieto di soggiorno. È invece di esclusiva competenza del questore il rimpatrio con foglio di via obbligatorio: provvedimento adottato qualora le persone sospette si trovino fuori dei luoghi di residenza e siano dall’autorità di pubblica sicurezza ritenute pericolose per la sicurezza pubblica. Il fogli di via obbliga il soggetto a rientrare nel luogo di residenza, con divieto di ritornare nel comune da cui venga allontanato per un periodo non superiore a tre anni. La relativa contravvenzione è punita con l’arresto. Le misure di prevenzione contro la criminalità organizzata. Con la L. 31 maggio 1965,n. 575 fu stabilita l’applicabilità delle misure della sorveglianza speciale, dell’obbligo e del divieto di soggiorno, nei confronti dei soggetti indiziati di appartenere ad associazioni mafiose. Con la L. 13 settembre 1982, n. 646 venne modificato l’art. 1 della L. 575/65 stabilendo l’applicabilità agli indiziati di appartenere ad associazioni di tipo mafioso, alla camorra o ad altre associazioni che perseguono finalità o agiscono con metodi corrispondenti a quelli delle associazioni di tipo mafioso. A seguito delle ultime modifiche introdotte dal l. 24 luglio 2008,n. 125, il novero dei possibili destinatari delle misure di prevenzione è stato esteso ai soggetti indiziati di uno dei reati previsti dall’art. 51, III bis comma, del codice di procedura penale e la competenza a richiedere l’applicazione della misura risulta attribuita al procuratore nazionale antimafia, al procuratore della repubblica presso il tribunale del capoluogo di distretto ove dimore la persona, al questore o al direttore della direzione investigativa antimafia. La parte maggiormente innovativa della legge dell’82 è costituita dalla introduzione di misure di carattere patrimoniale. Le misure patrimoniali previste sono il sequestro e la confisca. Il sequestro è disposto dal tribunale investito della proposta, quale provvedimento di natura provvisoria e cautelare, in base al sospetto che i beni ricadenti nella disponibilità, diretta o indiretta, dell’indiziato siano il frutto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego. La confisca viene disposta all’esito di un procedimento giurisdizionale ad hoc, quando la persona, nei cui confronti è instaurato il procedimento, non possa giustificare la legittima provenienza e di cui, anche per interposta fisica o giuridica, risulti essere titolare o avere la disponibilità a qualsiasi titolo in valore sproporzionato al proprio reddito, dichiarato ai fini delle imposte sul reddito, o alla propria attività economica, nonché dei beni che risultino essere frutto di attività 106 Giammo Helps You! Il Portale Gratuito di sopravvivenza universitaria ;) http://guidaunigiurisprudenza.blogspot.it/ illecite o ne costituiscano il reimpiego. Se la proposta di applicazione della misura è respinta, il tribunale ne dispone la restituzione; diversamente, con il provvedimenti che applica la misura, ne dispone la confisca. La L. 22 maggio 1975, n. 152 Con l’art. 18 della L. 22 maggio, n. 152 venne prevista l’applicabilità delle misure previste dalla legge del 65 a diverse categorie di soggetti, tra i quali coloro che avessero compiuto atti preparatori, obiettivamente rilevanti, di taluni delitti contro la personalità dello Stato, l’ordine pubblico e la persona, ovvero diretti alla ricostituzione del partito fascista; o che, essendo stati condannati per determinati reati, fossero da ritenersi, per il loro comportamento successivo, proclivi a commettere un reato della stessa specie col fine di sovvertire l’ordinamento dello Stato. 107