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DIRITTO PENALE
PARTE-GENERALE
G.FIORE
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Introduzione:
Nozione ed ambito del diritto penale vigente.
Il diritto penale è costituito dall’insieme delle norme dell’ordinamento giuridico che prevedono e
disciplinano l’applicazione di una misura sanzionatoria di carattere giuridico-penale (sanzione
criminale), come conseguenza di un determinato comportamento umano.
La legge stabilisce quali misure giuridiche abbiano il carattere della sanzione criminale:
 Il nucleo costitutivo è fondamentale dl diritto penale è dato da quelle norme
dell’ordinamento giuridico statuale,che minacciano l’applicazione di una pena (pena
criminale), come conseguenza giuridica di determinati comportamenti umani;
 Il fatto dell’uomo per cui la realizzazione la legge prevede come conseguenza giuridica
l’applicazione di una pena criminale, si definisce reato.
All’interno dell’area di esperienza giuridica ricoperta dal diritto penale devono farsi rientrare anche
quei sottosistemi normativi che collegano a determinate situazioni e comportamenti individuali
conseguenze di carattere giuridico-penale, diverse dalla pena criminale.
L’ordinamento italiano vigente prevede e disciplina la possibilità di applicare, come conseguenza
della commissione di un fatto preveduto dalla legge come reato determinate misure di sicurezza,
come mezzo per prevenire l’ulteriore commissione di reati da parte del soggetto. Negli ultimi
decenni hanno acquistato importanza le misure di prevenzione. L’applicazione di queste misure
prescinde dall’accertamento dell’effettiva commissione di un reato, ma si ricollega ad una peculiare
connotazione di pericolosità criminale, che l’ordinamento desume da una condotta di vita del
soggetto colpito, tale da fondare un giudizio di rilevante probabilità che egli abbia commesso. Stia
commettendo o possa commettere determinati reati.
Pene,misure di sicurezza e misure di prevenzione costituiscono il sistema delle sanzioni criminali
che esprimono la triplice articolazione di interventi, in cui l’ordinamento giuridico vigente
organizza la funzione di repressione e prevenzione dei reati.
Il diritto penale come sistema di tutela dei beni giuridici.
Il diritto penale è caratterizzato dal fatto che esso prevede l’uso della forza non in funzione della
coercibilità di uno specifico obbligo giuridico, ma come reazione dell’ordinamento giuridico
statuale alla realizzazione dei comportamenti; il diritto penale assicura la tutela dei beni giuridici.
L’esigenza del diritto penale circoscrive realmente il suo intervento alla sfera degli interessi che
maggiormente si percepiscono come rilevanti per la vita della collettività. Inoltre, l’intervento del
diritto penale deve essere necessario per la salvaguardia dei beni giuridici tutelati.
Diritto penale e norme morali.
Il diritto penale mira a disciplinare e indirizzare l’agire umano nella sfera sociale.
La separazione di principio tra sfera morale e sfera giuridica è segnata in primo luogo dal fatto che
anche il diritto penale può dirigersi soltanto contro tangibili azioni esterne; in secondo luogo, dalla
indifferenza del diritto penale rispetto all’intrinseco valore di moralità o immoralità dei
comportamenti comandati o vietati.
Gli ordinamenti contemporanei sono contrassegnati dal principio di colpevolezza che si traduce
nella predeterminazione dei criteri in base ai quali è consentito attribuire a taluno personalmente la
responsabilità per un fatto preveduto dalla legge come reato.
La scienza del diritto penale.
La scienza del diritto penale mira a conseguire la corretta applicazione del diritto penale vigente,
ricercando l’esatto significato delle sue norme e riconducendole a un sistema di principi, in via di
integrazione con l’ordinamento giuridico generale e con l’ordinamento costituzionale.
La scienza del diritto penale attiene anche all’ambito delle scienze criminali.
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La scienza del diritto penale si configura come approccio empirico-naturalistico fornito dalla
criminologia che è costituita dall’insieme organico delle conseguenze sperimentali sul reato,sul
reo,sulla condotta sociale negativamente rilevante e sul suo controllo.
Scienza del diritto penale e “ teorie della pena”.
Le teorie tradizionali della pena vengono distinte in due gruppi fondamentali: teorie assolute e
teorie relative.
Alle teorie assolute corrisponde l’enunciato “ si punisce perché si è peccato” esse sono connesse
all’idea di una giusta retribuzione per il male compiuto, esse sono designate anche come teorie
retributive o teorie della giustizia; alle teorie relative corrisponde l’enunciato “ si punisce affinché
non si pecchi” si definiscono teorie della prevenzione.
Partizioni della scienza del diritto penale.
Il diritto penale si distingue fra una parte generale e una parte speciale.
Nello studio della parte generale si ricercano e si elaborano i principi,le categorie concettuali e gli
istituti giuridici ai quali si riconosce una validità generale rispetto a tutti i reati o ad intere categorie
di reati.
La parte speciale si occupa dei singoli fatti previsti come reato e presuppone la conoscenza e
l’utilizzazione dei concetti elaborati nella parte generale.
Per quanto riguarda l’ordinamento italiano vigente,la parte generale del diritto penale è riflessa nel
Libro Primo del codice penale.
Le materie che formano oggetto della parte generale vengono ripartite secondo il loro oggetto, e
cioè:
 La legge penale: quale inventario ragionato delle regole sulla produzione, interpretazione e
applicazione della legge;
 Il reato: come analisi del fatto penalmente rilevante, quale insieme dei presupposti richiesti
per l’applicazione delle pene, delle misure di sicurezza e delle misure di prevenzione;
 Le sanzioni: in quanto teoria sistematica della pena e delle altre conseguenze giuridiche del
reato.
Le fonti normative del diritto penale italiano.
Fonti normative del diritto penale sono:
 Il codice penale approvato con il r.d. 19 ottobre 1930, n. 1398 e entrato in vigore dal 1 luglio
1930. L e norme in esso contenute si applicano anche alle materie regolate da altre leggi
penali, in quanto non sia da queste stabilito altrimenti;
 Disposizioni costituzionali che al diritto penale fanno,direttamente o indirettamente, nella
misura in cui enunciano principi regolativi fondamentali del diritto penale vigente;
 Codici penali militari di pace e di guerra, approvati con r.d. 20 febbraio 1941, n. 303 e in
vigore dal 1 ottobre 1941. Le norme in essi contenute si applicano ai militari appartenenti ad
armi, corpi, navi,aeromobili o servizi in generale, destinati ad operazioni di guerra;
 Diritto penale complementare o speciale costituiti da innumeroveli leggi;
 Misure di sicurezza trovano la loro disciplina all’interno dello stesso c.p. mentre le misure di
prevenzione sono disciplinate in testi a se stanti.
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PARTE SECONDA
LA LEGGE PENALE
CAPITOLO PRIMO:LEGGE PENALE E STATO DI DIRITTO
Il principio di legalità.
Negli ordinamenti giuridici moderni, la funzione di garanzia della legge, in materia penale, si
riassume nel principio di legalità dei reati e delle pene.
Nell’ordinamento italiano, in virtù del principio di legalità penale sia il fatto che costituisce reato
sia la sanzione che si ricollega alla sua commissione devono essere espressamente previsti dalla
legge. Il principio di legalità è il principio che vieta di punire qualunque fatto che, al momento della
commissione, non sia espressamente previsto come reato e di sanzionarlo con pene che non siano
espressamente previste dalla legge. Il principio di legalità, nell'ambito del diritto penale, è posto a
presidio delle libertà fondamentali dell'individuo e si estrinseca in quattro sottoprincipi che ne
costituiscono altrettante espressioni: riserva di legge, la regola della passività e determinatezza della
fattispecie penale, il divieto dell’interpretazione analogica, l’irretroattività della legge penale.
La riserva di legge in materia penale.
La riserva di legge è il principio secondo cui i reati, pene e misure di sicurezza non possono avere
altra fonte che non sia la legge. Il principio della riserva di legge nel diritto penale
è posto a garanzia delle libertà individuali delle persone e si concretizza nella necessità che il
precetto e la sanzione che formano oggetto della fattispecie incriminatrice siano individuati dalla
legge.
La riserva di legge nel diritto penale si riferisce solo alla legge statale con esclusione di quella
regionale che può, tuttavia, produrre effetti scriminanti, riconoscendo, nelle sue materie di
competenza esclusiva, diritti ai propri cittadini.
La riserva di legge non si riferisce solo ai provvedimenti normativi licenziati dal Parlamento ma
anche agli atti aventi forza di legge, come i decreti legislativi e i decreti legge. Quanto alle leggi
delegate, si è rivelato che,rispetto ad esse, il potere legislativo si limita a formulare criteri direttivi
più o meno dettagliati, ma la concretizzazione del precetto è rimessa poi al potere esecutivo; quanto
al decreto legge, le perplessità sembrerebbero maggiori perché le esigenze di ponderazione richieste
dalla normazione penale sembrerebbero in contrasto con le ragioni di necessità e d’urgenza.
Con riferimento al diritto comunitario, deve escludersi che lo stesso possa stabilire nuove
fattispecie incriminatrici e ciò, sia alla luce dell'art. 25 della Cost che riserva la materia al
Legislatore statale, sia alla luce dell'art. 189 del Trattato di Roma che limita l'intervento normativo
comunitario al campo dei rapporti economici e ad alcune libertà fondamentali. Posto, però, il
principio generale del primato del diritto comunitario, esso potrà integrare alcuni elementi della
fattispecie incriminatrice o determinarne la disapplicazione qualora contrastante con norme poste
da regolamenti comunitari.
Si è posta, in dottrina, la questione dei rapporti tra la consuetudine ed il principio della riserva di
legge nel diritto penale. Esclusa la possibile operatività della consuetudine incriminatrice ed
abrogatrice (desuetudine), parte della dottrina ammette la possibilità che la consuetudine crei nuove
esimenti o cause di non punibilità (consuetudine integrativa).
La riserva di legge implica la predeterminazione legislativa anche della sanzione ad esso
applicabile; essa non solo deve essere legislativamente predeterminata e la predeterminazione
riguardi sia le pene principali che quelle accessorie, ma deve essere prestabilita in forma non
generica e articolata entro i limiti minimi e massimi ragionevoli.
Principio di tipicità dell’azione punibile.
Il legislatore, nel prevedere un reato, deve descrivere, sulla base dell’esperienza comune, un
processo della realtà, in modo tale che, quando esso in concreto si verifichi, sia agevolmente
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riconoscibile la sua corrispondenza all’azione vietata dalla legge sotto la minaccia della pena; così
da scongiurare fin dove possibile l’arbitrio del giudice e dell’interprete.
La norma, insomma, deve fornire una descrizione più o meno dettagliata, del fatto
punibile,mediante la previsione, astratta e generale, dei suoi caratteri essenziali: così da delineare
una fattispecie immediatamente riconoscibile quando si verifichi nella realtà fenolica.
Principio di tassatività e determinatezza della fattispecie legale.
Il principio di tassatività nell'ambito del diritto penale, è uno dei corollari del principio di legalità.
Ed infatti, se sotto il profilo formale il principio di legalità impone che, a mente degli artt. 1 cp e 25
cost, nessuno possa essere punito se non per un fatto che sia preveduto dalla legge, in via non
retroattiva, come reato, il principio di tassatività attiene alla tecnica di formulazione della
fattispecie e richiede che la stessa sia descritta in modo chiaro e non lasci discrezionalità
nell'individuazione della condotta punibile al Giudice.
principio di tassatività non implica che, sotto il profilo della tecnica di redazione della fattispecie
incriminatrice, non si possano creare i c.d. reati a forma aperta che si contrappongono ai reati a
forma vincolata in quanto, contrariamente a questi ultimi che descrivono la condotta punibile,
descrivono solo il risultato vietato essendo punibile qualsivoglia condotta commissiva od omissiva
che produca il risultato stesso.
Il Legislatore utilizza la tecnica di redazione della fattispecie penale a forma aperta quando il reato è
posto a tutela di beni giuridici di primaria importanza (si pensi al delitto d'omicidio che punisce
chiunque cagioni la morte di un uomo a prescindere dalle concrete modalità di produzione
dell'evento).
Neppure contrasta con il principio di tassatività il ricorso, da parte del Legislatore, nella
formulazione della fattispecie, ad elementi normativi di carattere giuridico o extragiuridico. Gli
elementi normativi della fattispecie penale si contrappongono agli elementi descrittivi che sono fatti
immediatamente percepibili della realtà materiale.
Gli elementi normativi, invece, quanto alla loro accezione semantica, fanno riferimento:
o ad altri campi del diritto (si pensi alla nozione civilistica di altruità nell'ambito del delitto del
furto);o a norme sociali o di costume (si pensi alla nozione del buon costume e del comune
sentimento del pudore).
Con riferimento agli elementi normativi della fattispecie penale, delicate problematiche sorgono in
relazione all'eventuale abrogazione o modificazione della norma integratrice della fattispecie
penale in quanto si discute se, in tal caso, sia immediatamente applicabile l'art. 2 del cp in materia
di successione delle leggi penali ove l'abrogazione o la modificazione della norma extrapenale abbia
fatto venir meno, per il futuro, l'illiceità penale di condotte precedentemente punibili.
La giurisprudenza e la dottrina dominante hanno optato per una soluzione da verificare caso per
caso, occorrendo infatti indagare se l'aborgazione o la modificazione della norma extra penale
abbiano fatto venir meno il disvalore della condotta precedentemente punita.
Il divieto di analogia.
L'analogia è il meccanismo con il quale determinate casistiche, non specificatamente disciplinate
normativamente, sono regolate secondo la normativa che disciplina casi simili (analogia legis) o
in base ai principi desumibili dall'ordinamento giuridico (analogia iuris).
Nell'ambito del diritto penale il meccanismo giuridico dell'analogia trova un ostacolo nel
necessario rispetto del principio di legalità e del suo corollario costituito dal principio di
tassatività.
Sul piano della normazione positiva, poi, l'analogia, nell'ambito del diritto penale, è espressamente
esclusa dall'art. 14 delle preleggi che stabilisce: "le leggi penali e quelle che fanno eccezione ai
principi generali non si applicano oltre i casi e i tempi in esse considerati".
L'esclusione dell'applicazione dell'analogia (sia legis che iuris) nel diritto penale, si desume, poi,
dagli artt. 1 e 199 del cp, a mente dei quali nessuno può essere sottoposto a pena o a misura di
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sicurezza se non sulla base di una norma di legge e dall'art. 25 della Cost secondo cui: "nessuno può
essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fato commesso".
Si discute in dottrina se l'analogia, sulla scorta dell'art. 14 delle preleggi richiamato, debba essere
espunta, sic et simpliciter, dall'ambito del diritto penale o il generale divieto debba essere riferito
esclsivamente all'analogia in malam partem residuando uno spazio d'applicazione per l'analogia in
bonam partem da valutare caso per caso.
L’analogia è applicabile alle scriminanti, in quanto le norme che le prevedono non hanno carattere
eccezionale, ma sono espressione di principi generali. un’ipotesi di causa di giustificazione non
codificata, ma frutto di applicazione analogica, è la pratica sportiva: la conseguenza è che non sono
punibili condotte lesive che si realizzano durante l’ordinario svolgimento della competizione (Cass.
2765/2000). Ciò nonostante il ricorso all’analogia è esclusa per talune cause di giustificazione in
quanto la legge le prevede nella loro massima portata logica (ad esempio, l’esercizio del diritto)
ovvero in termini tali da impedire che altre ipotesi extra-legali siano riconducibili alla ratio della
scriminante (ad esempio, il consenso dell’avente diritto). La dottrina prevalente, inoltre, esclude il
procedimento analogico anche per le c.d. immunità: infatti, le norme che le prevedono sono
eccezionali, poiché derogano al principio dell’ obbligatorietà della legge penale per tutti coloro che si
trovano nel territorio.
Attraverso l’analogia si applica ad un caso non coperto da alcuna norma la disposizione che
disciplina una caso simile. Diversa è la nozione di interpretazione estensiva, in base alla quale ad
una norma può essere data un’interpretazione più ampia, ma pur sempre nel rispetto della lettera
della legge: ad esempio il termine «figli» viene riferito sia a quelli legittimi, che naturali ed adottivi.
Poiché come detto in diritto penale l’interpretazione estensiva non è vietata, ne consegue, a
titolo esemplificativo, che l’aggravante del furto, prevista dall’art. 625, n. 6, c.p. «fatto commesso sul
bagaglio dei viaggiatori» è applicabile estensivamente se il fatto è commesso sul bagaglio del
personale di servizio viaggiante di un treno o di un aereo. Costituirebbe, invece, analogia (vietata) e
non interpretazione estensiva, applicare la disposizione al furto di borse in danno del personale non
viaggiante in servizio presso le stazioni e gli aeroporti.
L’art. 14 disp. prel. non pone alcuna limitazione alla interpretazione estensiva, che, pertanto, è
ammissibile per tutte le disposizioni, comprese quelle penali ed eccezionali; questo procedimento,
infatti, non estende la norma a casi non regolati, ma la rende applicabile a tutti quelli cui essa deve
riferirsi.
Norme penali in bianco.
Il problema delle c.d. norme penali in bianco, problema particolarmente rilevante principalmente in
riferimento alla loro costituzionalità, nasce dalla controversa interpretazione delle disposizioni che
prevedono, nel nostro ordinamento, il c.d. principio di legalità e, in particolare, quella sua
specificazione che è il principio della riserva di legge.
Costituiscono norme penali in bianco quelle che, contenendo già un precetto e una sanzione
(determinata almeno nei limiti massimi), rinviano per la specificazione o integrazione del contenuto
del precetto ad un atto normativo di grado inferiore o a un provvedimento della p.a. o ad una legge
extrapenale.
Se la norma di legge rinvia per la determinazione o specificazione della condotta vietata, ad una
fonte secondaria preesistente e ben definita allora il principio di legalità non è leso perché la legge
predetermina interamente il precetto di carattere non legislativo; se la legge rimette ad una fonte
secondaria la determinazione della regola di condotta penalmente sanzionata, il contrasto con la
riserva di legge è del tutto evidente. Diversamente accade se la legge predetermina in via generale
la condotta vietata demandando però ad altra fonte di specificare i presupposti per il suo verificarsi.
L’integrazione normativa può risultare ammissibile solo se la legge predetermina almeno i criteri in
base ai quali la fonte secondaria concorri alla specificazione del precetto.
In altri casi in cui una fonte secondaria sia chiamata ad integrare il contenuto di un precetto penale,
la legittimità costituzionale del relativo atto legislativo statuale dipende dalla misura della
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predeterminazione legislativa della regola di condotta penalmente sanzionata. Sulla questione di
costituzionalità, la corte costituzionale ha precisato che il principio di legalità non può ritenersi
violato quando sia una legge dello stato a stabilire i caratteri, i presupposti, il contenuto e i limiti
dell’atto o del provvedimento non legislativo che concorre alla determinazione della condotta
vietata.
Principio di irretroattività.
L’art.2 c.p, disciplina l’efficacia nel tempo della legge penale e della successione delle leggi, ipotesi
quest’ultima che ricorre quando una legge nuova regola in modo del tutto differente una materia
precedentemente disciplinata da altra norma normativa.
In particolare il primo comma sancisce il principio di irretroattività della legge penale, in linea con
le disposizioni generali contenute nell’art. 11 delle disp. prel. c.c. in campo penale, però, il principio
opera in maniera più rigida, in quanto trova presidio anche nell’art. 25 della Costituzione, in base al
quale « nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del
fatto commesso ». Come si vede la regola della irretroattività trova rigida applicazione solo per le
norme penali incriminatrici.
In campo penale, però, il principio opera in maniera più rigida, in quanto trova presidio anche
nell’art. 25 cost. in base al quale “ nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia
entrata in vigore prima del fatto commesso”. Come si vede la regola della irretroattività trova rigida
applicazione solo per le norme penali incriminatici.
Successione di leggi penali.
Gli ulteriori commi dell’art. 2 c.p. disciplinano la successione di leggi, prevedendo in tale caso
l’applicazione della norma più favorevole, nel rispetto del generale principio del favor rei.
in sintesi le disposizioni dell’art. 2 possono essere ricostruite nel loro contenuto, nel modo che segue:
•nuove incriminazioni (art. 2, comma 1, c.p.): quando una nuova norma elevi a reato un fatto
che in precedenza non era previsto come tale,
si applica il principio della irretroattività della legge, per cui ogni legge che prevede nuove figure
di reato si applica solo ai fatti commessi dopo la sua entrata in vigore (v. anche art. 25, c. 2°,
Cost.);
•abolizione di incriminazioni precedenti (art. 2, comma 2, c.p.): quando una nuova norma non
prevede più come reato un fatto che in precedenza era considerato tale, si applica il principio della
retroattività della legge nuova più favorevole al reo. L’abolitio criminis incide sul giudicato,
facendo cessare l’esecuzione della pena e gli altri effetti penali della condanna;
• se la nuova legge è solo modificatrice della precedente, soccorre,infine,il quarto comma
dell‘art.2, ai sensi del quale se la legge del tempo in cui fu commesso il reato e le posteriori sono
diverse, si applica quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo, salvo che sia stata
pronunciata sentenza irrevocabile.Il limite dell’intangibilità del giudicato trova, tuttavia,un’eccezione
nel disposto del terzo comma dell’art.2, neointrodotto dalla c.d. legge sui reati di opinione (L.24-22006, n. 85), a norma del quale se vi è stata condanna a pena detentiva e la legge posteriore prevede
esclusivamente la pena pecuniaria, la pena detentiva inflitta si converte immediatamente nella
corrispondente pena pecuniaria, ai sensi dell’articolo 135 del codice penale.
Per determinare quale sia la disposizione più favorevole, non deve farsi una valutazione astratta, ma
concreta: ad es. se una nuova legge penale prevede per il furto un inasprimento delle pene ma,
contemporaneamente lo rende procedibile a querela e non più d’ufficio, è più favorevole per il reo
la nuova legge se nel relativo processo non è stata presentata querela.
Le disposizioni dell’art. 2 non si applicano nel caso di leggi eccezionali o temporanee (art. 2,
comma 5, c.p.), per le quali si applica sempre la legge del tempo in cui è stato commesso il reato. La
ratio di una tale limitazione è palese: evitare che gli autori dei reati previsti da tali leggi si
sottraggano all’applicazione della pena, commettendo il fatto in prossimità della scadenza del
termine di efficacia della norma ovvero quando l’eccezionalità della situazione sta per cessare.
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Inoltre, esse non si applicano alle norme di carattere processuale, sicché queste ultime, anche se
«sfavorevoli» per l’imputato (ad es. in tema di custodia cautelare), possono avere efficacia
retroattiva.
Riguardo ai decreti legge non convertiti o convertiti con modifiche, le norme da essi poste, non
si applicano ai fatti commessi anteriormente alla loro entrata in vigore (v. Corte Cost. n. 51/1985),
anche se più favorevoli. La ragione di ciò va ricercata nel fatto che le norme del decreto legge non
convertito, perdono efficacia fin dall’origine (ex tunc); pertanto non si verifica alcun fenomeno di
«successione» a cui applicare le regole dell’art. 2 c.p. Parte della dottrina, però, ne sostiene
l’applicabilità ai fatti commessi durante la vigenza del decreto stesso.
Il divieto di applicazione di tali disposizioni alle norme finanziarie, previsto dall’art. 20 L.
4/1929, èstato abrogato dal d.Lgs.507/1999.
Le leggi penali dichiarate incostituzionali, poi, secondo un recente indirizzo della Corte
Costituzionale (sent. n. 148/1993), continuano ad applicarsi, se più favorevoli, ai fatti commessi
sotto il loro vigore, in omaggio al principio di irretroattività delle norme penali incriminatrici.
CAPITOLO SECONDO:L’EFFICACIA DELLA LEGGE PENALE NELLO SPAZIO.
Principio della territorialità penale.
In via generale vige il principio della territorialità della legge penale (artt. 3 e 6 c.p.) per il
quale essa obbliga tutti coloro che (cittadini o stranieri) si trovano nel territorio dello Stato e per i
reati ivi commessi.Il capoverso dell’art. 3 prevede la possibilità di
deroghe al principio della territorialità: ciò si verifica allorquando sono puniti dallo stato italiano e
secondo le leggi italiane i reati commessi all’estero.
Limiti della perseguibilità dei reati commessi all’estero.
Ai sensi dell’art. 7 c.p., come modificato dal d.L. 374/2001, (conv. in L.438/2001) è punito
incondizionatamente secondo la legge penale italiana il cittadino o lo straniero che commette in
territorio estero i seguenti reati:
1) delitti contro la personalità dello stato italiano;
2) delitti di contraffazione del sigillo dello stato e di uso di tale sigillo contraffatto;
3) delitti di falsità in monete aventi corso legale nel territorio dello stato e in valori di bollo, o
in carte di pubblico credito italiano;
4) delitti commessi da pubblici ufficiali a servizio dello stato abusando dei poteri o violando i
doveri inerenti alle loro funzioni;
5) ogni reato per cui speciali disposizioni di legge o di convenzioni internazionali stabiliscano
l’applicabilità della legge italiana.
Tale articolo accoglie, in sostanza, il principio della universalità e lo fa in considerazione della
particolare natura dei delitti elencati dall’articolo.
Delitti non politici commessi all’estero.
Ai sensi dell’ art. 9 c.p. (modificato dalla L. 29-9-2000, n. 300), il delitto comune commesso
all’estero dal cittadino italiano è punibile in Italia e secondo la legge italiana a condizione che:
 si tratti di delitto;
 sia punito con la reclusione e non con la sola multa;
 il reo sia presente nel territorio dello Stato.
Occorre, altresì, distinguere tra:
 delitto commesso a danno dello Stato o di un cittadino italiano, che è punibile solo se la
pena stabilita dalla legge è non inferiore nel minimo a tre anni di reclusione; se invece la
pena è inferiore a tre anni occorre anche la richiesta del Ministro della Giustizia, o l’istanza o
la querela della persona offesa;
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 delitto commesso a danno delle comunità europee, di uno Stato estero o di un cittadino
straniero, per il quale occorre che l’estradizione non sia stata concessa o non sia stata
accettata dallo stato estero, e che vi sia la richiesta del Ministro della Giustizia.
Ai sensi dell’art. 10 c.p. (modificato dalla L. 29-9-2000, n. 300) anche in questo caso deve
trattarsi di:
a)delitto;
b) punito con la reclusione;
c) il cui autore sia presente nel territorio dello Stato.
Occorre, inoltre, distinguere tra:
 delitto commesso a danno dello Stato o di un cittadino italiano, per il quale occorre una pena
minima non inferiore ad un anno di reclusione, la richiesta del Ministro, o la querela o
l’istanza dell’offeso;
 delitto commesso a danno delle comunità europee, di uno Stato estero o di un cittadino
straniero, per il quale occorre una pena minima non inferiore a tre anni di reclusione, la
richiesta del Ministro e la mancata concessione o accettazione dell’estradizione, sia da parte
del governo dello stato in cui il reato fu commesso sia da parte del Governo dello stato cui
appartiene il reo.
Il principio della territorialità del diritto penale importerebbe la inapplicabilità e ineseguibilità in
Italia delle sentenze pronunziate da tribunali stranieri; tuttavia è ammesso eccezionalmente il
riconoscimento delle sentenze straniere ai seguenti
fini:
 per stabilire la recidiva o altro effetto penale della condanna ovvero per dichiarare l’
abitualità o la professionalità nel reato o la tendenza a de-linquere;
 quando la condanna penale importerebbe secondo la legge italiana una pena accessoria;
 quando, secondo la legge italiana, si dovrebbe sottoporre la persona condannata o prosciolta a
misure di sicurezza;
 quando la sentenza straniera importa condanna alla restituzione o al risarcimento del
danno o ad altri effetti civili (esempio: separazione personale), che devono essere fatti
valere nel territorio dello stato.
Delitti politici.
Ai sensi dell’art. 8 c.p. è punito secondo la legge italiana, su richiesta del Ministro della Giustizia
(cui si deve aggiungere la querela della persona offesa se si tratta di delitto punibile a querela),
il cittadino o lo straniero che commette in territorio estero un delitto politico non compreso tra
quelli indicati nel n. 1 dell’articolo precedente.
Ai sensi dell’ultimo comma dello stesso art. 8, agli effetti della legge penale, è delitto politico ogni
delitto che offende un interesse politico dello Stato ovvero un diritto politico del cittadino; è altresì
considerato delitto politico il delitto comune determinato, in tutto o in parte, da motivi politici.
Due sono, dunque, le forme di delitto politico previste dal legislatore:
a) il delitto oggettivamente politico, che è quello che offende un interesse politico dello Stato
(integrità territoriale, indipendenza, sovranità, forma di governo etc.) ovvero un diritto
politico del cittadino(diritti elettorali attivi e passivi);
b) il delitto soggettivamente politico, che è il delitto comune determinato, in tutto o in parte,
da motivi politici. Secondo la giurisprudenza prevalente perché un reato comune possa essere
ritenuto soggettivamente politico è necessario che sia qualificato da un movente strettamente
ed esclusivamente politico; è necessario, cioè, che il reo sia stato spinto a delinquere al fine di
potere, a mezzo della sua azione, incidere sulla esistenza, costituzione o funzionamento dello
stato, oppure favorire o contrastare idee, tendenze politiche, sociali o religiose, al precipuo
scopo di realizzare una precisa idea politica. Rientrano in questa categoria il cd. delitto
anarchico e quello commesso per finalità di terrorismo.
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Estradizione.
L’estradizione, secondo la più consolidata dottrina, consiste nella consegna che uno stato fa di un
individuo, che si sia rifugiato nel suo territorio,ad un altro Stato, perché ivi venga sottoposto al
giudizio penale (se imputato) o alle sanzioni penali (se già condannato). Nei paesi aderenti all’unione
europea la procedura di estradizione è sostituita dal mandato di arresto europeo.
L’estradizione può essere:
 attiva, quando è lo Stato italiano che richiede ad uno stato estero la consegna di un
individuo imputato o condannato in italia;
 passiva, quando è lo Stato italiano che riceve da uno stato estero, la richiesta di consegna.
Per l’estradizione passiva, cioè la consegna di un imputato alle autorità Giudiziarie
estere, la legge italiana (art. 13 c.p.) pone le seguenti condizioni:
 Il fatto che forma oggetto della domanda di estradizione deve essere preveduto
come reato sia dalla legge italiana che da quella straniera (cd. requisito della doppia
incriminabilità);
 Non si deve trattare di reato per il quale le convenzioni internazionali facciano
espresso divieto di estradizione;
 L’estradando deve essere straniero: in caso contrario, se trattasi di cittadino italiano,
l’estradizione deve essere espressamente prevista da convenzioni internazionali (art.
26 Cost.).
In ogni caso, comunque, l’estradizione non può essere concessa:
 per reati politici (artt. 10 e 26 Costituzione), esclusi i delitti di genocidio (L. Cost. 21 giugno
1967, n. 1);
 per motivi di razza, religione o nazionalità (L. 30 gennaio 1963 n. 300);
 per reati puniti all’estero con la pena di morte (v. sent. Corte Cost. 27 giugno 1996, n. 223),
in quanto in contrasto con principi costituzionali.
La procedura per la concessione dell’estradizione è disciplinata dal codice processuale penale (artt.
697-722 c.p.p.).
Per un principio generale dell’ordinamento internazionale (principio che la dottrina chiama «di
specialità») la richiesta di estradizione per determinati reati importa la preventiva accettazione da
parte dello stato richiedente:
 dell’obbligo di non processare l’estradato per un fatto anteriore e diverso da quello per il
quale è stata concessa l’estradizione;
 del dovere di non assoggettare lo stesso ad una pena diversa da quella relativa al fatto per
cui è stata concessa l’estradizione.
il principio di specialità opera tanto nella estradizione attiva (art. 721 c.p.p.) quanto in quella passiva
(art. 699 c.p.p.).
Riconoscimento di sentenze penali straniere (art.12).
il principio della territorialità del diritto penale importerebbe la inapplicabilità e ineseguibilità in
italia delle sentenze pronunziate da tribunali stranieri; tuttavia è ammesso eccezionalmente il
riconoscimento delle sentenze
straniere ai seguenti fini:
 per stabilire la recidiva o altro effetto penale della condanna ovvero per dichiarare l’
abitualità o la professionalità nel reato o la tendenza a de-linquere;
 Quando la condanna penale importerebbe secondo la legge italiana una pena accessoria;
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 quando, secondo la legge italiana, si dovrebbe sottoporre la persona condannata o prosciolta a
misure di sicurezza;
 quando la sentenza straniera importa condanna alla restituzione o al risarcimento del
danno o ad altri effetti civili (esempio: separazione personale), che devono essere fatti
valere nel territorio dello stato.
CAPITOLO TERZO: I LIMITI PERSONALI ALL’OBBLIGATORIETÀ DELLA LEGGE PENALE.
Le immunità.
L’art. 3 c.p. stabilisce che la legge penale obbliga tutti coloro che, cittadini o stranieri, si trovano nel
territorio dello Stato.
Costituiscono eccezione a tale principio le c.d. «immunità»:
a) derivanti dal diritto pubblico interno
 il Capo dello Stato non è responsabile degli atti compiuti nell’esercizio delle sue
funzioni, tranne che per alto tradimento e attentato alla Costituzione (art. 90 Cost.);
 i Membri del Parlamento e dei Consigli Regionali non sono perseguibili per le opinioni
e i voti espressi nell’esercizio delle loro funzioni (art. 68 Cost.);
b) derivanti dal diritto internazionale riguarda i Capi di Stati esteri, i Ministri degli Esteri, gli
agenti diplomatici e consolari, etc., e sono dettate da necessità di ordine politico. Le
immunità sono considerate cause personali di esclusione della punibilità.
PARTE TERZA
IL REATO
SEZIONE PRIMA:INTRODUZIONE ALLA DOTTRINA DEL REATO
Il reato in generale.
Il reato, da un punto di vista formale o giuridico, è quel fatto giuridico volontaria illecita, alla quale
l’ordinamento ricollega, come conseguenza,una sanzione penale (ergastolo, reclusione, arresto,
multa, ammenda).
Se al fatto illecito non si ricollegano sanzioni penali bensì mere sanzioni amministrative o civili
(risarcimento), si è in presenza rispettivamente di un illecito amministrativo o di un illecito civile.
Secondo una visione sostanziale, la scelta del legislatore di individuare come illeciti
penali alcuni comportamenti è ancorata alla valutazione per cui taluni fatti umani aggrediscono beni
giuridici ritenuti meritevoli di particolare protezione, secondo la gerarchia dei valori contenuti nella
Costituzione, sicché per la loro tutela appare
necessario il ricorso alla minaccia dell’irrogazione di una pena criminale.
La dottrina penalistica, come detto a proposito del principio di legalità distingue due diverse
nozioni di reato:
 formale, secondo cui è reato ogni fatto umano al quale l’ordinamento giuridico ricollega una
sanzione penale, vale a dire una pena inflitta dalla autorità giudiziaria a seguito di un
procedimento giurisdizionale (c.d. pena criminale);
 sostanziale, secondo cui è reato ogni fatto considerato socialmente pericoloso.
La dottrina più attenta, servendosi dei principi dettati dalla Costituzione in materia penale, ha
elaborato una nozione formale-sostanziale, secondo cui è configurabile come reato un fatto umano,
previsto dalla legge (principio di legalità)in modo preciso (principio di tassatività), ed attribuibile
ad un soggetto (principio della personalità della responsabilità penale)sia casualmente
(principio di materialità) che psicologicamente (principio di soggettività), offensivo di un bene
giuridico costituzionalmente rilevante (principio di offensività) e sanzionato da una norma
preesistente al momento della commissione del fatto (principio di irretroattività), che preveda
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una pena proporzionata alla gravità del fatto e tesa alla rieducazione del condannato
(principio del finalismo rieducativo della pena).
La struttura del reato.
La dottrina, analizzando le singole figure criminose, ha elaborato una teoria generale del reato che
individua nella struttura dell’illecito penale una serie di elementi costitutivi comuni a tutte le
fattispecie criminose. L’analisi della struttura del reato ha condotto alla formazione di
due diverse concezioni: la teoria della tripartizione e la teoria della bipartizione.
Teoria della bipartizione e teoria della tripartizione.
1)Fatto tipico antigiuridico (antigiuridicità tipizzata): aderenza della condotta alla norma
incriminatrice e (contestualmente) dalla sua antigiuridicità . Il fatto tipico è ratio essendi
dell’antigiuridicità e l’antigiuridicità è presupposto della tipicità. (elemento oggettivo)
Quindi la tipicità è data dall’antigiuridicità; il fatto tipico si caratterizza per la mancanza di cause
di giustificazione.
La presenza di cause di giustificazione esclude il fatto tipico.
2)Colpevolezza: intesa non solo come presenza di un coefficiente psichico di condotta, ma anche
come giudizio di rimproverabilità dell’autore. (elemento soggettivo)
L’antigiuridicità non ha quindi una propria autonomia sicchè la presenza di una causa di
giustificazione si configura come un elemento negativo del fatto (in quanto esclude la tipicità del
reato) il reato non esiste.
L’errore di tale concezione ( teoria bipartita o teoria degli elementi negativi del fatto) è quella di
livellare sullo stesso piano fatti atipici per mancanza di un elemento positivo ( quindi non lesivo di
alcun interesse) e fatto realizzato in presenza di una causa di giustificazione (lesivo di un interesse,
ma lecito in forza di una scriminante) . Sarebbe come equiparare l’uccisione di una mosca (atipica
per difetto di requisiti positivi) all’uccisione di un uomo in stato di difesa legittima (risulterebbe
parimenti atipica per la presenza di un requisito positivo).
Inoltre fiore critica tale teoria poiché sostiene che la funzione delle norme permissive ( cause di
giustificazione)è quella di rendere lecito il compimento di azioni che costituiscono reato; Dunque
presuppongono un fatto che possieda già tutti gli elementi costitutivi del reato.
Nel nostro codice penale emerge un modello di struttura del reato fondato sul sistema della
tripartizione nei suoi elementi costitutivi :
1) fatto tipico:il fatto costituente reato è cristallizzato in una norma che ne descrive in maniera
precisa i contorni e l’ambito applicativo;
2) colpevolezza: intesa non solo come presenza di un coefficiente psichico nella condotta
(secondo la concezione psicologica), ma anche come giudizio di rimproverabilità dell’autore
(secondo la concezione normativa). Ad esempio, se una persona incapace di intendere e
volere uccide un’altra persona, benché la condotta tenuta aderisca alla fattispecie astratta
dell’omicidio, in realtà non si potrà configurare il delitto per difetto di rimproverabilità e
quindi di «colpevolezza», ciò in quanto l’imputabilità è un presupposto della
rimproverabilità.
3) Antigiuridicità: , costituita dalla contrarietà del comportamento, non solo alla norma penale
incriminatrice (c.d. norma di divieto), ma a tutto l’ordinamento, non essendovi altre norme
che giustificano detta condotta (c.d. norme permissiva) depotenziandone l’antigiuridicità. Ad
esempio, se una persona rompe una serratura e si introduce in un appartamento, non è detto
che abbia commesso i reati di danneggiamento e violazione di domicilio pur essendo tale
condotta prevista e sanzionata dagli artt. 635 e 614 c.p. (norme di divieto); invero se detta
persona è un ufficiale giudiziario che sta eseguendo uno sfratto, la sua condotta violenta è
giustificata (art. 51c.p.) dalle norme del codice di procedura civile che in tal caso operano
come norme permissive.
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Pertanto la tipicità è solo un «indizio» dell’esistenza di un reato, essendo necessario che non
sussista alcuna causa di giustificazione che consenta la condotta eliminando l’antigiuridicità (artt.
50-54 c.p.) e che detta condotta sia rimproverabile (colpevolezza).
La nuova tripartizione.
Lo schema classico della tripartizione esprime le esigenze dello stato di diritto di derivazione
liberale e l’atteggiamento mentale caratteristico del positivismo giuridico.
Nell’evoluzione della dottrina del reato entrò in crisi la distinzione degli elementi descrittivi da
quelli normativo-valutativo, sia la separazione tra oggettivo e soggettivo dell’illecito penale.
L’esistenza di una fattispecie in cui l’illiceità non può essere definita equivaleva a sottolineare che
non tutto ciò che è soggettivo appartiene alla colpevolezza, così come all’antigiuridicità non si può
assegnare solo ciò che è rigorosamente oggettivo.
Ad esempio, alcuni reati si possono distinguere da altri solo per un diverso atteggiamento interiore
del soggetto che sorpassa il fatto mirando ad un risultato ulteriore ( si pensi alla differenza tra
delitto di sequestro di persona a scopo di estorsione e quello di sequestro di persona a scopo di
terrorismo; per distinguere questi due articoli si deve osservare l’elemento soggettivo e non la
descrizione oggettiva).
Bene giuridico, causalità, azione nella dottrina del fatto tipico. La crisi del concetto causale
dell’azione.
Il bene giuridico è il valore tutelato da una fattispecie incriminatrice.
La dottrina tradizionale concepiva il bene giuridico come oggetto specifico della tutela normativa,
lo collocava fuori della sua sfera di vitalità. Ogni azione che presenti un efficienza causale per la
modificazione di una situazione preesistente, protetta dall’ordinamento penale, costituisce
aggressione del bene ed assume il carattere della tipicità. Di qui l’abituale connotazione del
concetto di azione come concetto causale dell’azione.
La natura dell’oggetto protetto comporta il superamento della sua intagibilità ed implica un nuovo
criterio per valutare l’idoneità dell’azione a costituire il nucleo del fatto tipico: questa non può piu
essere determinata esclusivamente in base alla sua efficienza causale per la lesione del bene, ma
deve essere stabilita a partire dal suo significato come processo della vita sociale.
Tale orientamento aveva comportato lo smembramento dell’azione che veniva astraendo dal suo
contenuto significativo e dal suo contenuto di volontà.
Il concetto di azione aveva quindi potuto svolgere una funzione negativa, di separazione da tutto ciò
che, non essendo sorretto dalla volontà, non è azione; ma non appariva idoneo a configurare la
condotta umana nello specifico significato di valore della tipicità, che doveva essere desunta dalla
sua efficienza causale per la lesione del bene. La dimensione della causalità materiale, infatti non è
di per sé idonea a segnalare le differenze tra uccidere e cagionare la morte: vale a dire fra l’azione
come struttura significativa e azione come processo causale.
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SEZIONE SECONDA:IL FATTO
La Struttura Del Fatto Tipico
Come già sottolineato, per affermare l’esistenza di un fatto rilevante per l’applicazione di una pena o di una
misura di sicurezza, si richiede, prima di ogni altro requisito oggettivo o soggettivo, che si tratti di un fatto
corrispondente a quello descritto da una norma incriminatrice di parte speciale. Il fatto storico in cui siano
presenti tutti gli elementi che compongono la fattispecie legale di un determinato reato è un FATTO TIPICO,
poiché riflette, in concreto, il “tipo di fatto” incriminato dall’ordinamento. E nell’analisi delle norme
incriminatrici, funzione rilevante assume la teoria generale del reato, idonea ad operare un collegamento
tra parte speciale e parte generale del diritto penale ed a fornire gli strumenti per la ricognizione della
tipicità, in relazione alle diverse tipologie della fattispecie. E’ mediante la teoria generale del reato,
attraverso l’integrazione del contenuto delle singole norme incriminatici con la normativa di parte generale
che stabilisce i requisiti oggettivi e soggettivi del fatto penalmente rilevante (art.. 40 - 49 c.p.), si perviene
ad una preliminare distinzione, all’interno del fatto tipico, tra fattispecie oggettiva e fattispecie soggettiva .
Alla prima si assegnano elementi si carattere oggettivo, in base a i quali si stabilisce il carattere tipico di un
fatto; alla seconda tutti gli elementi di ordine psichico, che ugualmente concorrono a definirne la tipicità.
Gli elementi appartenenti alla fattispecie oggettiva che concorrono a determinare il carattere tipico del
fatto sono:
1) L’autore (o soggetto attivo): autore è colui che realizza nel mondo esterno il fatto tipico di un
determinato reato. Può essere autore soltanto un essere umano ossia una persona fisica, anche se
va tenuto conto dell’ingresso nel nostro ordinamento di una particolare disciplina in tema di
responsabilità (amministrativa) delle persone giuridiche derivante da reato. Va precisato che la
qualità di autore è del tutto indipendente dal giudizio sulla colpevolezza del soggetto che agisce; in
altre parole il minore non imputabile che sottrae un oggetto dal banco del supermercato o il figlio
che ruba al padre, non punibili a norma dell’art.649 c.p., non cessano per questo di essere autori
del fatto tipico del furto. I reati il cui fatto tipico può essere realizzato da qualsiasi persona si dicono
reati comuni (ad es. art.575 c.p., che fa riferimento a “chiunque” cagioni la morte di un uomo). I
reati, invece, i cui autori possono essere soltanto determinati soggetti si definiscono reati propri (ad
es. l’omissione di referto, di cui all’art.365 c.p., è un fatto tipico che può essere commesso
esclusivamente da chi esercita una professione sanitaria). A loro volta i reati propri possono essere
distinti in reati propri esclusivi e non esclusivi: nei primi, l’assenza della qualifica soggettiva richiesta
fa venir meno la stessa rilevanza penale del fatto (ad es. l’omissione di referto, che non può essere
commesso se non da chi esercita una determinata professione, rimanendo assolutamente
irrilevante lo stesso fatto commesso da un soggetto non qualificato);nei secondo vale a qualificare
diversamente il fatto che comunque rimane penalmente rilevante (ad es. mentre il delitto di
peculato – art. 314 c.p., richiede la presenza di un pubblico ufficiale o di un incaricato di pubblico
servizio in veste attiva, quella stessa condotta materiale – appropriarsi della cosa mobile di cui si ha
la disponibilità, se posta in essere da un soggetto non qualificato, darà vita alla realizzazione di un
fatto di appropriazione indebita, ai sensi dell’art. 646 c.p.)
2) Il soggetto passivo: si definisce soggetto passivo del reato il portatore dell’interesse penalmente
protetto su cui incide la condotta tipica (soggetto passivo del reato di omicidio è ad esempio la
persona uccisa). L’espressione soggetto passivo è dunque un sinonimo di persona offesa dal reato
(art.120 c.p.), ma non coincide necessariamente con quella di danneggiato dal reato che designa il
soggetto che subisce il danno patrimoniale e non, derivante dal reato e suscettibile di risarcimento.
Soggetto passivo del furto è, ad esempio, colui che viene privato della detenzione della cosa, ma
quando il detentore non si identifica con il proprietario o il possessore della cosa, saranno questi
ultimi i danneggiati dal reato. Nell’omicidio, soggetto passivo sarà la vittima dell’azione omicida,
mentre soggetti danneggiati saranno gli stretti congiunti. Soggetti passivi del reato possono essere
sia le persone fisiche, la P.A, le persone giuridiche di diritto privato, ma anche collettività non
personificate. Quando l’interesse aggredito dal reato appartiene ad una cerchia indeterminata di
soggetti (come avviene, ad es., nei reati contro la pubblica incolumità - artt. 422 ss. c.p.), si parlerà
di soggetto passivo indeterminato. Anche il soggetto passivo, che normalmente può essere
“chiunque”, può contribuire alla descrizione di un fatto tipico, quando le qualità personali del
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soggetto passivo diventano determinanti nelle valutazioni del legislatore (ad es.la corruzione di
minorenne – art. 530 c.p.)
3) L’oggetto materiale dell’azione :con questa espressione si designa l’entità su cui incide la condotta
tipica, quando si concreti nell’estrinsecazione di energia fisica. Oggetto materiale dell’azione può
essere una cosa (es. il documento che viene contraffatto nei casi di falsità documentale: artt.476 e
ss c.p.), un animale o una persona umana. L’oggetto materiale dell’azione non va confuso con il
bene giuridico considerato come l’oggetto giuridico del reato: nel furto, ad esempio, mentre
oggetto materiale del reato sarà la specifica cosa mobile che viene sottratta, il bene giuridico è
invece rappresentato dal patrimonio del proprietario o possessore della suddetta cosa mobile.
4) La condotta: essa rappresenta il nucleo essenziale della fattispecie oggettivo-materiale, e per
essere tipica, deve corrispondere a quella descritta da una norma incriminatrice di parte speciale.
La condotta può consistere in un comportamento positivo, cioè in un “fare” (azione in senso
stretto) o in un comportamento negativo (cioè nel non fare qualcosa). Le modalità oggettive con cui
la condotta dell’autore si presenta nel mondo esterno rappresentano, in realtà, il dato costitutivo
essenziale per il suo inserimento in una fattispecie oggettiva di un reato, poiché è qui che si coglie,
anzitutto, il manifestarsi di un’azione o di un omissione che corrisponde esattamente al “tipo” di
fatto descritto dalla legge. È bene tener presente che il legislatore non utilizza sempre le stesse
tecniche normative, nella descrizione dei fatti penalmente rilevanti: in alcuni casi, con riferimento
alle modalità della condotta, il legislatore non fa riferimento ad alcun preciso parametro
descrittivo, limitandosi ad affermare la necessaria presenza di un nesso causale tra una condotta (in
qualunque forma essa si esprima, attiva od omissiva e con qualsiasi modalità) ed un evento: tipico è
l’esempio dell’omicidio, nel quale il legislatore si limita a punire chiunque “cagiona” la morte di un
uomo (e dunque si potrà rispondere di omicidio sia con una condotta attiva, sia con una condotta
omissiva, in qualunque maniera esplicata: attraverso l’utilizzo di armi, con la somministrazione di
veleni, omettendo di nutrire o di soccorrere la propria vittima, ecc.). In altri casi il legislatore,
invece, descrive compiutamente le modalità realizzative del fatto tipico, e ciò comporterà, ai fini
dell’applicazione di tali norme penali, che la condotta concretamente posta in essere dal soggetto
agente dovrà rispecchiare fedelmente il tipo di condotta più o meno minuziosamente descritto dal
legislatore: l’esempio classico, in questo caso, è quello del furto, nel quale il legislatore stabilisce
che verrà punito solo chi si “impossesserà della cosa mobile altrui, sottraendola a chi la detiene, al
fine di trarne profitto per se o per altri”. L’opzione per il primo modello di tipizzazione delle
condotte (fattispecie a forma libera) verrà preferita tutte le volte in cui si tratterà di tutelare beni
giuridici di particolare importanza (ad es. il bene vita), e quindi da proteggere contro ogni forma di
aggressione. Al secondo modello (fattispecie a forma vincolata) si ricorrerà nel caso di beni di
minor importanza sociale o che ricevono già altre forme di tutela attraverso altri settori
dell’ordinamento giuridico (come il patrimonio, meno importante del bene vita, e comunque
tutelato, in prima istanza, attraverso le norme di diritto privato).
5) Il bene giuridico: il bene giuridico (o oggetto giuridico del reato), corrisponde a quell’interesse,
individuale o collettivo, alla cui salvaguardia l’ordinamento connette un valore giuridico che si
riflette nella singola norma incriminatrice. Oltre che entità a sostrato materiale, percepibile dai
sensi, (es. integrità fisica dell’individuo), questi possono riguardare anche entità immateriali, ed
avere come contenuto, ad esempio, valori di natura spirituale (libertà di coscienza, riservatezza,
dignità umana ecc.). nella teoria generale del reato, il bene giuridico assolve a tre distinte funzioni:

Una funzione politico-garantista (o ideologica), in quanto il bene giuridico rappresenta un
punto di orientamento ed un limite nelle scelte del legislatore penale, che, di fronte alla
gravità della sanzione penale, deve accuratamente selezionare i beni giuridici da tutelare
con tale sistema repressivo, evitando di ricorrere alla pena tutte le volte in cui il bene non
sia di particolare importanza, o tutte le volte in cui è possibile proteggere efficacemente
quel bene anche con altre forme di tutela (ad es. attraverso sanzioni amministrative o
civili); deve inoltre selezionare accuratamente le forme di aggressione rispetto ai beni
giuridici, ricorrendo, come si è visto, alle fattispecie a forma aperta (o libera) solo di fronte
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a beni di particolare importanza, rinunciando a tale forma di tutela a 360° nei confronti di
beni gerarchicamente subordinati;

Una funzione sistematico-classificatoria, per cui è possibili individuare ed ordinare classi di
reati in base al comune denominatore, rappresentato proprio dall’oggettività giuridica di
riferimento (ad es. delitti contro la pubblica amministrazione, delitti contro il sentimento
religioso, delitti contro il patrimonio, ecc); metodo di classificazione e sistemazione delle
fattispecie, tra l’altro, seguito dal nostro codice penale, nella cui parte speciale le singole
disposizioni incriminatrici sono distribuite in Titoli, ciascuno dei quali è “dedicato” ad uno
specifico bene giuridico;

Una funzione esegetico-interpretativa, poiché svolge una funzione essenziale nella
interpretazione delle fattispecie, concorrendo a definirne i confini e a distinguerla sia da
altre fattispecie limitrofe, sia dalla serie innumerevole dei fatti penalmente irrilevanti.
6) L’evento: sono relativamente poche le ipotesi in cui la fattispecie oggettiva del reato si esaurisce
nella descrizione delle modalità del comportamento incriminato . Spesso infatti, la legge penale
non si limita a descrivere l’azione o l’omissione vietata, ma contiene un riferimento espresso ad un
accadimento naturalistico configurato come modificazione della realtà preesistente che consegue
alla condotta dell’autore. I reati la cui fattispecie legale si esaurisce nella sola descrizione del
comportamento vietato si definiscono reati di pura condotta (ad es. l’omissione di denuncia del
reato di cui all’art. 361 e 362 del c.p.) distinti a loro volta in reati di pura azione o pura omissione;
quelli in cui la norma descrive quale elemento costitutivo della fattispecie un evento naturalistico
(corrispondente, cioè, ad una modificazione della c.d. realtà sensibile), ben distinto dalla condotta,
anche se individuabile come sua conseguenza, vengono detti comunemente reati di evento ( tipico
reato con evento naturalistico è l’omicidio di cui all’art 575 del c.p.). Bisogna però fare molta
attenzione a non confondere la nozione di evento con quella di offesa, intesa come lesione o messa
in pericolo del bene giuridico tutelato. Mentre si può parlare di reati con o senza evento (in senso
naturalistico), non è opportuno parlare invece di reati privi di offesa, poiché, anche nei reati di pura
condotta, questa è sempre presente (se il reato “nasce” per la tutela di determinati beni giuridici,
non è, in effetti, congruo immaginare reati che non contengano un contenuto di offesa rispetto
all’oggettività giuridica di riferimento, anche se tale offesa non si sostanzia in un evento in senso
naturalistico – si pensi al delitto di ingiuria, art. 594 c.p., che pur non prevedendo un evento diverso
ed ulteriore rispetto alla condotta, comporta comunque la lesione del bene giuridico onore). A volte
ci si riferisce all’offesa anche con la locuzione evento giuridico del reato. Dal punto di vista
dell’offesa, i reati si distinguono in reati di danno, e rati di pericolo: nei primi la fattispecie legale
esige l’effettiva lesione del bene tutelato, nei secondi è sufficiente la semplice esposizione a
pericolo del bene. A loro volta i reati di pericolo si distinguono in:
 reati di pericolo concreto, in cui è presente un evento (di pericolo) in senso naturalistico, da
accertare di volta in volta da parte del giudice, in quanto elemento di fattispecie (es. art.
432 c.p.);
 reati di pericolo astratto, di pura condotta, in cui il legislatore presume relativamente la
pericolosità di una determinata condotta, dando però la possibilità di dimostrarne nel caso
concreto l’assenza (es. artt. 656- 657);
 reati di pericolo presunto, sempre di pura condotta, in cui la presunzione di pericolosità è
assoluta, e dunque non è possibile per l’imputato fornire, nel caso concreto, prova
contraria (tipico esempio è dato dalle norme che vietano la fabbricazione, la detenzione o il
commercio di armi e materiali esplodenti – artt. 435, 678 c.p. – oppure la detenzione ed il
porto abusivo di armi – artt. 697, 699 c.p.)
7) Il nesso di causalità: Affinché l’evento possa essere attribuito sul piano oggettivo ad un
determinato autore, è necessario che tra la condotta e l’evento sussista un rapporto di causa ad
effetto. In realtà il problema del rapporto causale non può essere confinato su un piano
meramente naturalistico poiché vi sono numerose fattispecie in cui esso non si configura affatto
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come un rapporto tra due entità di ordine naturalistico. Come tale il nesso di causalità tra condotta
ed evento va considerato come rapporto di conseguenzialità tra una determinata condotta ed un
determinato evento lesivo, la cui qualificazione come “conseguenza” può essere stabilita soltanto
sulla base di principi direttivi essenziali sulla cui base si decide appunto dell’attribuzione di un
evento ad una determinata condotta (c.d. l’imputazione oggettiva). La disciplina del nesso di
causalità: il nostro ordinamento contiene una espressa menzione del rapporto di causalità tra
condotta ed evento, quale elemento costitutivo del fatto tipico, disciplinato agli artt. 40 e 41 del
codice penale. Norma, l’art.40 c.p, che si limita ad enunciare l’esigenza del nesso causale ma non
chiarisce che cosa si debba intendere per rapporto di causalità, né tanto meno specifica quali
debbano essere i criteri in base ai quali si decide della rilevanza giuridica del rapporto causale. Da
qui l’elaborazione delle teorie volte a definire la portata ed il contenuto del nesso di causalità: la
teoria della condicio sine qua non, che considera causa di un evento qualsiasi condizione del suo
verificarsi, che non possa mentalmente essere eliminata, senza che venga meno l’evento stesso con
la sua concreta fisionomia (tale teoria pecca per eccesso poiché, prendendo in considerazione
l’insieme delle condizioni necessarie e sufficienti a produrre l’evento, non riesce poi a stabilire quali
siano realmente rilevanti perché, in definitiva, si equivalgono tutte ai fini della produzione
dell’evento: anche la condotta di chi vende l’arma da fuoco, ad esempio, risulta essere condicio
sine qua non del successivo omicidio che viene commesso proprio con l’utilizzo di quell’arma; per
assurdo, anche il padre dell’omicida, potrebbe essere preso in considerazione, poiché con la sua
condotta ha messo al mondo il futuro killer); la teoria della causalità adeguata considera causa
dell’evento, solo la condotta umana che risulta adeguata, e cioè idonea a produrre l’evento
secondo un criterio di normalità (l’id quod plerumque accidit): in questo modo dovrebbero
escludersi tutti i fattori causali che solo eccezionalmente hanno prodotto quell’evento, ma che di
regola, non hanno, come verosimile esito, la produzione di quell’evento; la teoria della causalità
umana considera la condotta umana quale causa dell’evento quando ne è la condicio sine qua non
e quando l’evento rientra nella sfera di dominabilità dell’uomo in base ai suoi poteri conoscitivi e
volitivi: sia la teoria della causalità adeguata che quella della causalità umana hanno però un vizio
metodologico di fondo, e cioè quello di fare riferimento ad elementi di natura soggettiva per
“correggere” gli eccessi della teoria condizionalistica, quando l’accertamento del nesso di causalità
deve avvenire su basi puramente oggettive (ciò che è prevedibile per un soggetto può non esserlo
per altri; a maggior ragione tale difetto viene amplificato quando si passa dalla prevedibilità, tipica
della causalità adeguata, alla dominabilità, propria della causalità umana); ecco perché si preferisce
la riconduzione del rapporto causale sotto leggi scientifiche di copertura (l’azione è causa
dell’evento quando, secondo la migliore scienza ed esperienza del momento storico, l’evento è
conseguenza certa o altamente probabile dell’azione). In questo modo si cerca di “coprire”,
attraverso l’apporto delle varie scienze, una valutazione in termini di maggiore o minore probabilità
che una determinata condotta sia causa di uno specifico evento. Una delle teorie oggetto di ampi
consensi, nata negli anni ’30 in Germania, e volta alla ricerca di correttivi alla causalità
condizionalistica è quella dell’imputazione oggettiva: la causalità andrebbe ricercata attraverso un
doppio ordine di valutazioni: un primo di carattere ricognitivo, volta appunto, a stabilire l’esistenza
del nesso di causalità, attraverso la teoria condizionalistica ed il supporto delle leggi scientifiche di
copertura; un secondo, di carattere valutativo, destinato a stabilire se il nesso di causalità, oltre che
esistente, sia anche giuridicamente rilevante. Per imputare un evento ad un determinato autore, ad
esempio, si richiede non solo che egli lo abbia causato ma anche che con la sua condotta abbia
creato o accresciuto il rischio giuridicamente riprovato, di una lesione di beni conforme a quella
descritta dalla fattispecie incriminatrice; pericolo che poi si è concretizzato nello specifico evento
lesivo in questione.
La fattispecie soggettiva del fatto tipico
Ad essa appartiene l’intero contenuto psichico dell’azione o omissione che presenti i requisiti oggettivi di
un fatto tipico. Gli art.. 42 e 43 del c.p. stabiliscono i requisiti minimi che un comportamento umano deve
presentare,dal punto di vista psichico per assumere la rilevanza di un fatto costituente reato.
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1) Il primo requisito di ordine psichico richiesto dalla legge è la “coscienza e volontà” dell’azione o
omissione, così come previsto dalla dall’art.42 c.p. Dunque è suscettibile di una valutazione in termini di
tipicità, antigiuridicità e colpevolezza, soltanto la condotta (oggettivamente tipica) che sia sorretta dalla
volontà ed assistita dalla consapevolezza del proprio operare nel mondo esterno. Non sono “azioni” per il
diritto penale, dunque, i movimenti che si compiono durante il sonno, quelli commessi come stimolazione
di un riflesso nervoso, ecc. Il fatto che alla base dell’illecito penale, sia esso colposo o doloso, vi debba
essere comunque un’azione cosciente e volontaria, permette, sulla base anche dell’accertata capacità di
intendere e di volere del soggetto agente, di unificare dolo e colpa nel concetto di rimproverabilità, proprio
della concezione normativa della colpevolezza: infatti non avrebbe alcun senso muovere un rimprovero nei
confronti di chi ha posto in essere una condotta che non sia accompagnata dalla coscienza e dalla volontà. Il
requisito in parola vale, comunque, solo a delimitare l’area della condotta penalmente rilevante, ma non
esaurisce i requisiti di ordine psichico, che sono richiesti per integrare la fattispecie soggettiva: il legislatore
richiede infatti che sia presente anche uno degli specifici elementi psicologici del reato (dolo, colpa, o
preterintenzione) che non riguardano più il solo rapporto soggettivo tra autore e condotta, ma coinvolgono
il legame psichico del soggetto agente rispetto all’intera fattispecie di reato.
2) Il 2° comma dell’art. 42 c.p. stabilisce la regola per la quale, nei delitti, si risponde solo se il fatto è stato
commesso con dolo, risultando possibile un imputazione a titolo di colpa o preterintenzione solo se
espressamente previsto dal legislatore; nelle contravvenzioni, stabilisce invece il 4° co. dello stesso articolo,
ciascuno risponde della sua azione od omissione cosciente e volontaria, sia essa dolosa o colposa. Ciò vuol
dire che, in assenza di specifiche indicazioni legislative, il fatto tipico nei delitti, si intende sempre come
doloso. Nelle contravvenzioni, si risponderà sia del fatto doloso che di quello colposo (dunque si può
rispondere di omicidio colposo, perché espressamente previsto – art. 589 c.p. – ma non, ad esempio, di
furto colposo: il furto è infatti un delitto e, mancando ogni altra espressa indicazione, richiede, ai sensi
dell’art. 624 c.p., che venga commesso con dolo). Che cosa si debba intendere per dolo, colpa o
preterintenzione lo stabilisce il successivo art. 43 c.p., secondo il quale il delitto è:

Doloso, o secondo l’intenzione, quando l’evento dannoso o pericoloso che è il risultato dell’azione
o dell’omissione, e da cui la legge fa dipendere l’esistenza del delitto, è dall’agente preveduto e
voluto come conseguenza della propria azione od omissione

Preterintenzionale, o oltre l’intenzione, quando dall’azione od omissione deriva un evento
dannoso o pericoloso più grave di quello voluto dall’agente

Colposo, o contro l’intenzione, quando l’evento, anche se preveduto, non è dall’agente voluto e si
verifica a causa di negligenza o imprudenza o imperizia, ovvero per inosservanza di leggi,
regolamenti, ordini o discipline.
CAPITOLO SECONDO: CONDOTTA ED ELEMENTO PSICOLOGICO NEL REATO DOLOSO IN AZIONE
Il dolo, in un’accezione assai generale si può definire come volontà di realizzare la fattispecie oggettiva di
reato. Gli elementi costitutivi del dolo sono: la rappresentazione (o momento intellettivo) e la volontà
(momento volitivo). Alla struttura generale del dolo appartengono più precisamente: 1) la volontà di agire
per la realizzazione del fatto tipico; 2) la conoscenza delle circostanze in cui si agisce, come condizione per
l’effettività dell’atto volitivo: è necessario, affinchè si possa parlare di un fatto doloso, che il soggetto
agente si sia prefigurato un determinato evento (in senso giuridico, o, se presente, in senso naturalistico)
quale possibile conseguenza di una determinata condotta, e che abbia, dunque, consapevolmente agito
sulla base delle sue personali conoscenze ed esperienze, in modo tale che dalla condotta posta in azione
scaturisse, appunto come conseguenza, l’evento previsto dalla norma incriminatrice speciale. Momento
intellettivo e momento volitivo sono egualmente imprescindibili nella nozione di dolo, poiché non può darsi
un atto di volontà, se esso non è fondato su una preventiva rappresentazione delle conseguenze dei propri
atti nel mondo esterno; né, d’altra parte, può assumere alcuna rilevanza per il diritto una mera
rappresentazione di possibili eventi, se ad essa non segua un atto di volontà che metta in moto energie
causali dirette alla modificazione della realtà preesistente. I due momenti (quello intellettivo e quello
volitivo) possono presentarsi con diverse gradazioni d’intensità (si può volere sia nel senso di desiderare
intensamente, sia di accettare semplicemente le conseguenze delle proprie azioni; la rappresentazione può
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raggiungere un grado di estrema certezza, o far prospettare solo come probabile o possibile il verificarsi di
un determinato evento, ecc) e diversamente combinarsi, dando vita ad alcune specifiche forme di dolo
individuate dalla dottrina e dalla giurisprudenza:
1) Dolo intenzionale (o dolo diretto di 1° grado) – si parla di dolo intenzionale quando il soggetto ha,
come obiettivo finalistico, proprio la realizzazione del fatto tipico, nel senso che questo rappresenta
lo scopo del suo agire. Si tratta della forma più intensa e più grave di dolo, poiché in questi casi il
soggetto vuole come proprio obiettivo proprio ciò che l’ordinamento vieta attraverso le norme
incriminatrici. In tutti i casi di dolo intenzionale non è fondamentale che il soggetto si rappresenti
come certo l’evento, potendo lo stesso, purchè rappresenti lo scopo dell’agente, essere solo
probabile o possibile (dunque risponderà a titolo di dolo intenzionale sia il killer, abile nella mira, e
quindi certo di raggiungere il proprio scopo, tanto l’occasionale omicida, che spari da grande
distanza e senza essere dotato di buona mira, se l’evento morte rappresenta comunque l’obiettivo
finale della sua azione)
2) Dolo diretto (o dolo diretto di 2° grado) – si parla di dolo diretto, invece, nelle ipotesi in cui
l’evento, non rappresentando l’obiettivo finalistico del soggetto agente, tuttavia si pone come
conseguenza certa (o altamente probabile) di una condotta diretta ad altri fini: sarà in dolo diretto
di 2° grado, ad esempio, chi, volendo truffare la propria compagnia assicurativa, decide di dar fuoco
al proprio stabile, pur sapendo che all’interno della palazzina si trova una persona (ad es. il
custode) che con tutta probabilità perirà proprio a causa dell’incendio. In questi casi, pur non
essendo l’evento morte propriamente voluto dal soggetto agente, nel senso che non rappresenta il
suo scopo, si tratterà comunque di conseguenza certa o altamente probabile riconnessa alle
proprie azioni, per cui il soggetto agente non può non essersi rappresentato anche il verificarsi di
quell’ulteriore evento.
3) Dolo indiretto (o dolo eventuale) - in questi casi, come nelle ipotesi di dolo diretto, l’evento non
costituisce lo scopo del soggetto agente, rappresentando ancora una volta una conseguenza
secondaria di azioni poste in essere per altri fini. Tuttavia, a differenza del dolo diretto, nel dolo
eventuale l’evento è una conseguenza solo possibile, di modo che il soggetto non possa essere
sicuro circa il suo verificarsi: in questa situazione di incertezza, tuttavia, egli accetta
consapevolmente il rischio del suo verificarsi, e tanto basta al legislatore per ritenere comunque
quell’evento voluto (tipico esempio, il lancio di sassi dal cavalcavia, ove il soggetto prevede le
possibili conseguenze lesive del proprio gesto – ad esempio la possibilità che una autovettura
sbandi per evitare il masso, provocando così un incidente mortale – e tuttavia non si astiene dal
compiere la propria azione, accettando il rischi del verificarsi di tutte le possibili conseguenze che
egli ha previsto). Normalmente, il legislatore, quando prevede una fattispecie dolosa, ritiene
sufficiente anche il semplice dolo eventuale ad integrare la fattispecie. Solo se stabilirà
diversamente, dovrà escludersi tale forma di imputazione soggettiva dell’evento, così come sarà
possibile escludere anche la rilevanza del dolo diretto (come ad es. nell’abuso d’ufficio – art. 323
c.p. – oppure nelle false comunicazioni sociali (artt. 2621-2622 c.c.)
Le tre forme di dolo appena descritte, rappresentano le tre forme in cui è possibile ipotizzare il dolo
generico, in cui l’evento del reato, voluto come obiettivo finalistico o solo come conseguenza secondaria,
deve comunque verificarsi dal punto di vista oggettivo. In alcune ipotesi, invece, il legislatore dà rilevanza
ad un determinato evento solo in quanto questo rappresenti lo scopo del soggetto agente, senza necessità
che si realizzi dal punto di vista naturalistico (l’evento, cioè, contribuisce solo alla descrizione della
fattispecie soggettiva, ma non anche di quella oggettiva): si parlerà in questi casi di dolo specifico (tipico
esempio di dolo generico è l’omicidio, nel quale basta che il soggetto voglia, nel senso prima chiarito – e
quindi anche semplicemente accettandone il rischio – l’evento morte, rimanendo indifferente il legislatore
rispetto alle ulteriori finalità del soggetto agente – che potrà agire per vendetta, per gelosia, per profitto
ecc.; il furto rappresenta invece l’esempio paradigmatico di dolo specifico, poiché in questi casi il legislatore
non si accontenta solo della realizzazione della condotta dal punto di vista oggettivo – la sottrazione della
cosa mobile altrui a chi la detiene – ma richiede che tutto ciò sia commesso al fine di trarne profitto).
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Oggetto del dolo.
Oggetto del dolo (cioè ciò che l’agente deve preventivamente conoscere) non è solo l’evento ma il fatto
oggettivo del reato, il complesso cioè di tutti gli elementi obiettivi della fattispecie criminosa. In particolare
costituiscono oggetto di mera rappresentazione:
 gli elementi positivi naturalistici, precedenti e concomitanti alla condotta: presupposti, strumenti e
mezzi, luogo e tempo della condotta, oggetto materiale, qualifiche del soggetto passivo;
 gli elementi normativi della fattispecie, quali ad es. l’altruità della cosa nel furto;


gli elementi negativi del fatto, cioè l’assenza di situazioni previste dalla legge come scriminanti,
generali o speciali;
la illiceità speciale, intesa come richiamo ad una specifica antigiuridicità della condotta (es. «senza
autorizzazione», «abusivamente»), quando questa costituisce un elemento normativo della
fattispecie (Cass. 11848/95).
Costituiscono, invece, oggetto di rappresentazione, ma anche di volizione:
 la condotta;
 l’evento naturale quale conseguenza dell’azione;
 il nesso di causalità , quantomeno nei tratti essenziali del suo decorso;
 l’evento inteso in senso giuridico, quale lesione o messa in pericolo del bene giuridico tutelato dalla
norma.
Ulteriori forme, classificazioni e partizioni del dolo.
Nella commissione dei reati possono ricorrere differenti tipi di dolo:

dolo di danno e di pericolo: si ha dolo di danno quando il soggetto agente vuole ledere il bene
protetto; si ha dolo di pericolo quando vuole solo minacciare il bene-interesse tutelato.

dolo d’impeto, di proposito e premeditazione: il dolo è d’impeto quando la decisione di
commettere il reato sorge improvvisa e viene immediatamente eseguita, senza che vi sia alcun
intervallo tra la formulazione del proposito criminoso e la sua attuazione; è invece di proposito
quando intercorre un consistente distacco temporale tra il sorgere dell’idea criminosa e la sua
esecuzione; una species del dolo di proposito è la premeditazione, prevista come circostanza
aggravante nell’omicidio e nelle lesioni personali.

dolo iniziale, concomitante, successivo:si dice iniziale il dolo che si riscontra solo nel momento della
condotta; concomitante, quello che accompagna lo svolgimento del processo causale da cui deriva
l’evento;successivo, quello che si manifesta dopo il compimento della condotta.
Nell’ambito del dolo indiretto si distinguono:
 il dolo eventuale: si ha quando il soggetto si rappresenta e vuole un evento ma, prevedendo la
possibile verificazione di un altro evento diverso, agisce anche a costo di produrlo;

il dolo alternativo: si ha quando il soggetto si rappresenta la possibilità del verificarsi di due eventi e
mostra indifferenza rispetto a quale dei due deriverà dalla sua condotta.
Differenze dal dolo occorre tener nettamente distinto il movente del reato: il movente, infatti, altro non
è che il motivo per cui il soggetto compie il fatto costituente reato e, generalmente, tale motivo è irrilevante
(salvo per la valutazione delle circostanze).
L’accertamento del dolo.
Si effettua considerando tutte le circostanze esteriori che in qualche modo possono essere espressione
dell’atteggiamento psichico e deducendo l’esistenza della rappresentazione e della volizione in cui si
concreta il dolo dalle comuni regole di esperienza.
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Dolo e coscienza dell’offesa.
Nei reati con evento materiale , l’agente deve, naturalmente, prevedere e volere, come conseguenza della
sua azione, l’evento che appartiene alla fattispecie oggettiva del reato e che concreta la lesione del bene
protetto. Ma anche nei reati senza evento materiale, l’agente deve rappresentarsi come conseguenza della
sua azione, la lesione di beni che contrassegnala fattispecie tipica. È necessario che l’autore si configuri il
realizzarsi dei momenti di fatto, su cui si radica l’offesa penalmente rilevante e non che egli rappresenti la
lesione del bene giuridico nella interezza delle sue implicazioni. La coscienza dell’offesa non deve essere
confusa con la coscienza dell’antigiuridicità penale, poiché essa non ha niente a che vedere con la
conoscenza o meno del divieto penalmente sanzionato, né include la conoscenza dei termini giuridici della
lesione del bene; ma corrisponde alla consapevolezza della portata offensiva dell’evento rispetto
all’interesse tutelato. La tesi che il dolo comprenda la coscienza dell’offesa trova supporto nell’art. 43 I
comma c.p. che indica come oggetto del dolo l’evento dannoso e pericoloso da cui la legge fa dipendere
l’esistenza del reato (concezione del reato come lesione di un bene giuridico); ancora l’art.49 II comma
sembra assumere l’attitudine lesiva del fatto come requisito costitutivo della sua tipicità.
Le ipotesi di errore sul divieto non esigono rilevanza attraverso l’assunzione della coscienza dell’offesa
come momento costitutivo del dolo; sono invece rilevanti i casi di errore ex art. 47 c. p., in cui l’errore
dell’agente non cade né sui presupposti del fatto, né sulle modalità della condotta, né sul rapporto di
causalità, ma concerne appunto il contenuto lesivo del fatto.
Si pensi a chi indirizzi a un terso, in pubblico, epiteti di cui conosce benissimo l’innocuo significato lessicale,
ignorando però che, secondo l’uso locale, costituiscono grave ingiuria. In questo caso il fatto risulta
oggettivamente lesivo dell’altrui reputazione; ma nell’agente manca il dolo dell’ingiuria o della
diffamazione perché è assente la consapevolezza del significato di offesa che la condotta assume rispetto al
bene tutelato.
CAPITOLO TERZO: L’ILLECITO OMISSIVO DOLOSO.
Nozione del reato omissivo.
L’omissione penalmente rilevante può definirsi una forma di condotta criminosa costituita dal
comportamento negativo di un soggetto il quale non compie un’azione possibile che aveva l’obbligo
giuridico di compiere (art. 40, c. 2°, c.p.: « Non impedire un evento, che di ha l’obbligo giuridico di impedire,
equivale a cagionarlo»).
Tradizionalmente i reati omissivi si distinguono in due grandi categorie: reati omissivi propri e reati omissivi
impropri.
La distinzione fra reati omissivi “propri” e “impropri”.
I reati omissivi si distinguono in reati omissivi proprio e reati omissivi impropri.
I reati omissivi propri (o altrimenti definiti di pura omissione): si esauriscono in una condotta violativa
dell’obbligo giuridico di agire senza produrre alcun evento naturalistico giuridicamente rilevante (reati di
mera condotta); classici delitti di pura omissione, contenuti nel codice penale, sono: l’omissione di soccorso (
art. 593 c.p.), l’omessa denuncia del reato ( art. 361-364 c.p.), l’omissione di referto ( art. 365 c.p.). in tutte
queste ipotesi, per la realizzazione del fatto incriminato è sufficiente che il soggetto abbia omesso di
prestare soccorso, di denunciare il reato di cui è venuto a conoscenza, di inoltrare il prescritto referto. Dal
punto di vista della struttura del fatto, i reati omissivi propri sono, per definizione, reati di pura condotta; dal
punto di vista dell’offesa sono reati di pericolo presunto.
Nei reati omissivi impropri o commissivi mediante omissione: la condotta è violativa di un obbligo giuridico
ed è idonea a produrre un evento in senso naturalistico (reati di evento); questi ultimi sono frutto della
combinazione tra la clausola estensiva generale dell’art. 40 c.p. 8 non impedire un evento che si ha l’obbligo
giuridico di impedire, equivale a cagionarlo), più altra fattispecie incriminatrice di parte speciale. Ad es. una
madre che non allatta un neonato, viene meno ad un suo obbligo giuridico (art. 40, c. 2), causando la morte
e quindi ponendo in essere un omicidio (art. 575). Dunque l’essenza del reato commissivo mediante
omissione sta nel fatto che l’autore non impedisce il verificarsi di un evento che concreta la fattispecie
obiettiva di un reato, essendo giuridicamente obbligato ad impedire l’evento stesso.
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La fattispecie oggettiva dei reati omissivi.
I presupposti generali dell’omissione penalmente rilevante.
Presupposti essenziali dell’omissione penalmente rilevante sono:
 Per affermare l’esistenza di una omissione penalmente rilevante deve potersi affermare la
possibilità di compiere l’azione omessa: sia da chiunque si trovasse nella condizione dell’autore, sia
da parte dello specifico autore dell’omissione. Omettere di lanciarsi in acqua per trarre in salvo un
bagnate in pericolo non costituisce omissione di soccorso, se per le condizioni del mare o per la
distanza del bagnante dalla riva, manca ogni chance di effettuare il salvataggio.
 L’azione positiva non deve essere tale da esporre l’autore stesso, o altri, a rischi e pregiudizi non
esigibili. L’esigibilità dell’azione dovuta corrisponde a un principio regolativi dell’omissione
penalmente rilevante, che condiziona direttamente il piano della fattispecie oggettiva.
 I requisiti generali, appena descritti, devono essere inerenti a una condotta di omissione che sia
tipica: o per essere conforme alla previsione espressa di un reato di omissione (proprio o improprio);
o perché tale da rientrare nello schema dell’equivalenza causale, di cui all’art. 40 c.p.
 Ciò comporta, in relazione ai reati omissivi impropri la verifica di un ulteriore presupposto. Occorre,
infatti, stabilire, con elevato grado di verosimiglianza, che il compimento dell’azione dovuta avrebbe
scongiurato il verificarsi dell’evento lesivo.
La regola dell’art. 40 c.p.
L’art. 40 c.p. consiste nel “ non aver impedito” il verificarsi dell’evento stesso, avendo l’obbligo giuridico di
attivarsi per evitarlo. Al di fuori delle ipotesi di fattispecie casualmente orientate, si ritiene che l’ambito di
applicazione dell’art. 40 c.p. sarebbe, in primo luogo, non estensibile a quei tipi di illecito, la cui fattispecie
presuppone una condotta attiva di carattere personale (es. incesto art. 564 c.p.); nonché ai reati abituali la
cui struttura implica la reiterazione di attività positive(es. maltrattamenti art. 572 c.p.). Per contro,
l’intercambiabilità fra condotte positive e negative, nelle ipotesi in cui la fattispecie legale non è incentrata
sulla causalità, ma riposa interamente sulla violazione di obblighi comportamentali incombenti al soggetto,
fa apparire incongruente il richiamo all’art. 40 c.p. S i pensi a reati come l’infedeltà del patricinatore o del
consulente (art. 380 c.p.) ove il nocumento agli interessi della parte può essere indifferentemente arrecato
con un’azione positiva (interrogando, ad esempio, un testimone in modo pregiudizievole per il proprio
cliente) o con una condotta omissiva (es. omettendo di produrre una prova documentale risolutiva).Ma
anche nell’ambito dei reati di evento a struttura causale emergerebbero fattispecie, la cui struttura tipica
sembra non poter prescindere da attività positive. Si fa l’esempio degli artifizi e raggiri, nella truffa (art.
640) ; si è qui intravisto un ulteriore limite generale alla operatività dell’art. c.p. che sarebbe invocabile in
tutti i casi di fattispecie a forma vincolata, la cui rilevanza penale appare legata non tanto al dato della
produzione dell’evento, quanto alla carica di disvalore inerente a specifiche modalità comportamentali.
Una interpretazione troppo restrittiva dell’art.40 rischia di impoverirne eccessivamente il significato, che
finirebbe per coincidere con l’apprezzamento di una sorta di efficienza causale dell’omissione. L’art.40 , in
sostanza, non avrebbe altro effetto, se non quello di semplificare, sia pure in modo decisivo, la soluzione
del problema causale nelle fattispecie imperniate sulla produzione di un evento naturalistico. La scelta del
non intervento, infatti, è pur sempre un modo di influire sui decorsi causali. Si pensi alla madre che lascia
morire di fame il proprio bambino. In questo modo, però, potrebbero restare fuori dall’ambito di
applicazione dell’art. 40 c.p. tutte le ipotesi in cui sarebbe alquanto azzardato parlare di una vera e propria
efficienza causale dell’omissione. Si pensi al non impedimento di un reato da parte della polizia giudiziaria.
In realtà l’ambito di operatività di questa disposizione può essere ultimamente circoscritto, venga posto in
una relazione significativa con le sue concrete possibilità di intervenire per impedimento dell’evento. Si
deve invece negare che l’art. 40 c.p., nell’equiparare il non impedire al cagionare, ricomprenda nel termine
evento anche il reato altrui che spesso costruisce esplicitamente la responsabilità dell’omittente in forma
concorsuale, come partecipazione omissiva a reato commissivo, a prescindere dalla circostanza che il reato
non impedito sia o meno un reato causale puro. Si tratta di una conclusione arbitraria: la clausola di
equivalenza dell’art. 40 c.p. risponde infatti ad una logica di incriminazione autonoma, fondata su di un
elemento eccentrico rispetto alla struttura del concorso. D’altra parte l’art. 40 c.p. ha per oggetto il
rapporto di causalità e, dunque, quando si parla di evento all’interno dell’art. 40, si fa riferimento a quella
componente del fatto tipico che corrisponde alla conseguenza della condotta.
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Il problema causale nei reati omissivi impropri.
Il giudizio sul valore causale non è identico a quello che caratterizza la verifica del nesso causale fra
condotta ed evento, nei reati di azione. L’art. 40 c.p. col dichiarare che “ non impedire un evento che si ha
l’obbligo giuridico di impedire equivale a cagionarlo”, postula espressamente un diverso criterio di
imputazione oggettiva dell’evento: evento che l’omissione non può aver propriamente cagionato;
trattandosi di un processo causativo , su cui l’autore si è astenuto dall’intervenire.
Particolarmente problematica è la ricostruzione del nesso causale tra condotta omissiva ed evento nel
settore della responsabilità medica.
In passato la tesi più accreditata era quella dell’alto grado di probabilità dell’evento: in sostanza si parte
dalla premessa che, nella attività medica, non è possibile un giudizio di certezza sull’esito che avrebbero
avuto determinati interventi, in ipotesi omessi. il criterio allora non potrà che essere di tipo probabilistico.
Occorre pertanto la prova che il comportamento non omissivo del medico (es. erogare un farmaco;
effettuare un intervento chirurgico) avrebbe impedito l’evento lesivo con un elevato grado di probabilità,
prossimo alla certezza. deve trattarsi, osservano talune rigorose sentenze, di una probabilità che si avvicini al
100%: solo, infatti, la più alta, rilevante, cospicua probabilità di successo dell’intervento terapeutico omesso
consentirebbe l’imputazione oggettiva dell’evento al medico.
La più recente giurisprudenza (Cass. sez. un. 30328/02, c.d. «sentenza Franzese») ha introdotto un diverso
criterio di valutazione della causalità in caso di omissione medica, quello della probabilità logica.
Si osserva che non è consentito dedurre dal coefficiente di probabilità espresso dalla legge statistica la
conferma o meno dell’esistenza del nesso causale, perché il giudice deve verificarne la validità nel caso
concreto, sulla base delle circostanze del fatto, cosicché si raggiunga la certezza processuale che la condotta
omissiva del medico è stata condizione necessaria dell’evento lesivo con alto o elevato grado di credibilità
razionale o di probabilità logica.
Ne deriva che,se per gli orientamenti precedenti della giurisprudenza le leggi statistiche erano
decisive,perché fornivano il «quantum» della percentuale di successo dell’attività omessa, adesso per la
suprema Corte rappresentano soltanto uno degli elementi che il giudice può e deve considerare,
unitariamente a tutte le altre emergenze del caso concreto.
Accanto alla sussunzione sotto leggi scientifiche occorre, pertanto, un successivo giudizio di conferma,
puramente logico che renda ragionevole, coerente e giusto il ragionamento puramente astratto effettuato in
un primo momento.
L’ambito soggettivo di applicazione delle fattispecie omissive: la posizione di garante.
Affinché il comportamento omissivo di un soggetto possa dirsi causa di un evento è necessario che questi
abbia una posizione di garanzia e cioè un obbligo di agire per evitare l’evento; detto obbligo può derivare
dalla legge ( il datore di lavoro deve garantire la sicurezza delle strutture aziendali); da contratto (la baby
sitter deve garantire la sicurezza del bambino affidatole); da una precedente azione pericolosa (colui che
scava una buca in strada, deve recintarla per evitare incidenti).
Il riconoscimento della sussistenza del rapporto di causalità in relazione ad un omissione assumerà
connotazioni diverse a seconda che si tratti di reato in senso naturalistico o meno. Solo nel primo caso sarà
possibile il suo accertamento sul piano sensoriale-percettivo. Nei reati dove manca l’evento in senso
naturalistico occorrerà, per contro, verificare se tenendo la condotta imposta dall’obbligo giuridico, l’offesa
al bene ( e cioè l’evento in senso giuridico) sarebbe stata evitata.
Sia la dottrina che la giurisprudenza ritengono che sia possibile trasferire la posizione di garanzia in capo ad
altri. Ad es. il datore di lavoro,imprenditore edile, può delegare al suo capocantiere il controllo del rispetto
delle norme di sicurezza. Ovviamente è necessario, perché la delega abbia efficacia, che la persona delegata
abbia le capacità professionali per assolvere all’incarico.
Il dolo nei reati omissivi.
Gli elementi costitutivi del dolo nei reati omissivi sono gli stessi che contrassegnano la struttura del dolo
nei reati di azione: anche nel reato omissivo l’autore deve rappresentarsi le circostanze in cui la sua
condotta si inserisce e deve volere la condotta omissiva,nonché l’evento ad essa ricollegabile secondo la
regola dell’art. 40 c.p.
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Nell’essenziale il dolo dei reati omissivo è costituito dalla volontà di non compiere l’azione dovuta, unito
alla consapevolezza di poter agire nel senso richiesto dall’ordinamento. Questo secondo elemento del dolo
include:
 La conoscenza delle circostanze da cui deriva l’obbligo di agire;
 La rappresentazione delle circostanze che abbiano indicato come presupposti generali
dell’omissione penalmente rilevante; e cioè la possibilità di compiere l’azione dovuta e la sua
esigibilità in concreto.
Nei reati omissivi impropri è inoltre necessario che l’autore percepisca il valore causale della propria
omissione: egli deve cioè rappresentarsi il fatto che l’intrapresa azione doverosa avrebbe, con alto grado di
probabilità,evitato il verificarsi dell’evento. È infine richiesta, da parte dell’autore,la consapevolezza dei
presupposti, giuridici o di fatto,su cui si radica la posizione di garante nei confronti del bene tutelato.
Anche l’elemento volitivo del dolo di omissione, si atteggia in modo particolare e risulta difficile distinguere
il dolo di omissione da altri atteggiamenti psicologici; es. dalla c.d. colpa cosciente.
Sta di fatto che, nei reati di azione, il momento della risoluzione si traduce nel pilotaggio di agire positivo
sorretto dall’accettazione del realizzarsi degli elementi oggettivi della fattispecie. Nei reati omissivi
invece trattandosi di una decisione che si concreta nel non intervento, non è sempre possibile
identificare il momento della volizione come dato autonomo dalla rappresentazione
CAPITOLO QUARTO: LA FATTISPECIE DELL’ILLECITO COLPOSO
Nozione di colpa.
Rispetto al dolo è una forma meno grave di volontà colpevole in quanto manca completamente nel
soggetto la volontà di cagionare l’evento. Per stabilire in che cosa consiste l’ essenza della colpa e perché
questa costituisce forma autonoma di responsabilità, distinta da quella dolosa, secondo la moderna
dottrina occorre impostare la teoria della colpa superando sia le teorie soggettive che oggettive ed
accettando la cd. Teoria mista. In particolare:
 Secondo le teorie soggettivistiche (della prevedibilità, evitabilità ed errore), la colpa consiste o
nella mancata previsione di un evento prevedibile o nel non aver evitato l’evitabile o in un errore di
valutazione o esecuzione;
 Di contro, per le teorie oggettivistiche l’essenza va ravvisata nella violazione di un dovere di
attenzione o nell’inosservazione di regole doverose di condotta;

Più esauriente è la teoria mista secondo cui l’essenza della colpa deve ravvisarsi nel « rimprovero
al soggetto per aver realizzato involontariamente, ma pur sempre attraverso la violazione di regole
doverose di condotta, un fatto di reato che egli poteva evitare mediante l’osservanza esigibile di tali
regole. Essa ricorre in tutti i casi in cui il soggetto, pur potendo prevedere che la sua azione era tale
da produrre eventuali conseguenze dannose o pericolose, ha agito con imprudenza o scarsa
attenzione o con leggerezza, senza cioè adottare quelle misure e quelle precauzioni che avrebbero
impedito il verificarsi dell’evento. ( art.43 I comma).
L’automobilista che investe un pedone, cagionandone la morte, è responsabile del delitto di omicidio
colposo se l’investimento è stato la conseguenza del suo imprudente comportamento di guida.
La fattispecie oggettiva di un reato colposo, dunque, può dirsi realizzata quando, nel caso concreto, essa
corrisponda allo schema generale delineato dall’art. 43: quando cioè si accerti che la lesione o l’esposizione
a pericolo del bene protetto non si sarebbe verificata, se il soggetto avesse tenuto una condotta conforme
alle regole di diligenza idonee a scongiurare la situazione di danno o di pericolo. Raramente la regola della
diligenza può essere compiuta dal legislatore; nella maggioranza dei casi, questo compito spetta
direttamente al giudice del caso concreto. Le singole previsioni dei reati colposi, infatti, sono caratterizzate
dalla mera evocazione del criterio di imputazione definito in via generale dall’art. 43 ( es. art. 589 c.p. “
chiunque cagiona per colpa la morte di un uomo”); talvolta il richiamo all’ipotesi colposa è solo indiretto ,
come, ad es. nell’art. 217 che punisce il fatto dell’imprenditore, dichiarato fallito, che abbia compiuto
operazioni di grave imprudenza per ritardare il fallimento.
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Come si vede le norme che incriminano una condotta colposa hanno un contenuto che non è mai, o quasi
mai, descrittivo; ma esclusivamente normativo e quindi bisognoso di essere volta per volta integrato
mediante la individuazione della regola della diligenza che è stata violata. Sta di fatto che le circostanze
della vita reale sono così multiforme e variegate, da non consentire in alcun modo la descrizione puntuale
di tutte le condotte che possono assumere rilevanza per un’ipotesi di colpa. Di qui il problema che
contrassegna la determinazione delle fattispecie dei reati colposi rispetto alle corrispondenti ipotesi di
reato doloso. Nei reati dolosi, infatti, l’ambito di applicazione della norma incriminatrice può essere
delimitata mediante il ricorso all’elemento psicologico; cosa che non può avvenire nei reati colposi. Per
stabilire che esiste la fattispecie oggettiva di un omicidio doloso, per esempio, può bene essere sufficiente
che si accerti, in base alla contestazione di un nesso di causalità materiale fra condotta ed evento, che
taluno “ha cagionato” la morte di un uomo. A decidere dell’applicabilità dell’art. 575 c.p. sarà, infatti, il
successivo accertamento dell’elemento psicologico: l’art. 575 non si applicherà, quando si dovrà escludere
che l’autore abbia preveduto e voluto l’evento morte come conseguenza della sua azione od omissione.
Nei reati colposi, le cose stanno diversamente, poiché qui l’esistenza della stessa fattispecie oggettiva
dipende dall’accertamento che una regola di diligenza è stata violata. L’art. 43 c.p., infatti, definisce il reato
colposo con espresso riferimento al fatto che l’evento si verifichi a causa di imprudenze, negligenze, ecc. ;
di talchè coinvolge la violazione della regola di diligenza nello schema del rapporto di causalità ed obbliga,
pertanto, all’accertamento che una regola di diligenza è stata violata. se due autoveicoli che procedono in
opposte direzioni si scontrano in una curva, provocando la morte di una o più persone trasportate, si può
ben dire che entrambi i conducenti hanno cagionato tale evento, ma la fattispecie oggettiva dell’omicidio
colposo sarà stata realizzata solo da quello di essi che l’avrà cagionato in violazione di una regola di
condotta inerente alla circolazione stradale.
Come si vede, la fattispecie legislativa ( chiunque cagiona per colpa ka morte di un uomo) dovrà essere qui
integrata dal riferimento ad un insieme di regole di condotta e richiederà l’individuazione della particolare
regola che è stata violata nel caso concreto.
La dottrina tradizionale del reato affiancava la colpa al dolo come forma alternativa della colpevolezza
assegnando all’uno e all’altra la medesima piattaforma oggettiva. In questo modo però, da un lato finiva
per identificare l’elemento oggettivo del fatto colposo con la mera causazione dell’evento; dall’altro finiva
per trascorrere dal piano psicologico-descrittivo al piano normativo che in realtà appartiene al piano al
piano della fattispecie oggettiva.
La dottrina contemporanea ,invece, è orientata a riconoscere che l’illecito colposo è contrassegnato già
nella sua tipicità dal dato dell’inosservanza della regola precauzionale ( o regola di diligenza obiettiva); al
piano della colpevolezza appartiene solo il giudizio sulla concreta esigibilità della diligenza richiesta.
Il contenuto di illecito del reato colposo è dunque costituito:

l’assenza della volontà dell’evento e cioè della lesione o messa in pericolo del bene giuridico
protetto dalla norma (cfr. art. 43 c.p.);

l’esistenza di una condotta obiettivamente contraria ad una norma precauzionale, sia essa codificata
(es. norme del codice della strada) o meno;

l’evitabilità dell’evento attraverso il rispetto della norma precauzionale (es. accertando che
l’eccessiva velocità di circolazione, nel rispetto del codice della strada, avrebbe evitato
l’investimento del pedone);

possibilità da parte dell’agente di rispettare la norma precauzionale (c.d. esigibilità della
condotta: ad es. non versa in colpa il casellante di un passaggio a livello che si addormenta, in
quanto alcuni amici per scherzo gli hanno messo un sonnifero nell’acqua).
L’accertamento del tipo di fatto del delitto colposo implica, quindi:
 l’accertamento di una fattispecie oggettiva:
 l’accertamento di una fattispecie soggettiva.
La fattispecie oggettiva dei reati colposi.
Reati colposi di mera condotta e reati colposi di evento.
Le fattispecie colpose si distinguono a seconda che corrispondano a reati di mera condotta (nei quali non è
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richiesta la verificazione di un evento naturalistico come effetto della condotta) e reati di evento, nei quali è
viceversa richiesto, per la perfezione dell’illecito, il verificarsi di un accadimento naturalistico(modificazione
della realtà esterna sensibile) come conseguenza della condotta vietata.
Le fattispecie colpose di mera condotta sono per lo più di carattere contravvenzionale (punibili, perciò,
alternativamente a titolo di dolo o di colpa: art. 42, IV comma).
Non mancano anche figure di delitto colposo che si configurano come fattispecie di mera condotta. Tale è,
ad esempio, il reato previsto dall’art. 451 c.p., che punisce il fatto di “ chiunque, per colpa, omette di
collocare, ovvero rimuove o rende inservibili apparecchi o altri mezzi destinati all’estinzione di un incendio,
o al salvataggio o al soccorso contro disastri o infortuni sul lavoro”.
A costituire la fattispecie oggettiva di un reato colposo di mera condotta, è sufficiente che l’autore abbia
tenuto un comportamento, attivo o omissivo, obiettivamente contrario alla norma di diligenza avocata
dall’incriminazione. Si tratta, dunque, di fattispecie di pericolo astratto in relazione alle quali la
contestazione di un concreto pericolo non è rilevante per la punibilità ma per la determinazione della
gravità del fatto.
Nei reato colposi di evento, l’evento può configurarsi sia come evento di danno che come evento di
pericolo concreto. Deve essere respinta l’idea che l’evento, nei reati colposi, costituisca una mera
condizione di punibilità del fatto e non entri, quindi, a comporre la fattispecie oggettiva del reato.
Per affermare l’esistenza di un reato colposo di evento, è necessario che si accerti l’esistenza di un nesso
causale fra condotta ed evento; deve altresì rappresentare la concertazione del danno o del pericolo che la
prescrizione della regola di diligenza violata mirava ad impedire. Chi guida un’auto in direzione vietata, non
per questo risponderà delle lesioni o della morte di un trasportato, cagionate dall’improvviso scoppio di un
pneumatico o dal ribaltamento della vettura, che non siano in alcun modo il rapporto con la direzione
vietata che il soggetto stava percorrendo. Del pari, chi procede a velocità eccessiva risponderà dei fatti
connessi con la violazione della specifica regola di diligenza che gli imponeva un’andatura più moderata; ma
non per essersi trovato esattamente nel luogo e nel momento in cui un incauto pedone abbia intrapreso
all’improvviso e senza alcuna cautela l’attraversamento della carreggiata!
La soluzione di questi casi discende direttamente dall’applicazione all’ambito dei reati colposi dei criteri
della imputazione oggettiva: in primo luogo quelli dell’aumento del rischio e dello scopo di tutela della
norma. In sintesi si può dire che la rilevanza del rapporto causale dipenda qui da una triplice constatazione:


che l’evento si è prodotto in conseguenza di una condotta obiettivamente contraria a una regola
precauzionale;
che l’osservanza della regola avrebbe con ogni probabilità evitato il prodursi dell’evento; che la
norma precauzionale trasgredita aveva come scopo proprio quello di evitare la produzione
dell’evento.
La violazione della diligenza oggettiva.
Rilevanza e limiti dell’obbligo di diligenza.
Per affermare che vi è stata negligenza, imprudenza ecc., è necessario stabilire preventivamente quale
fosse la misura della diligenza richiesta; ma la diligenza pretesa non può corrispondere ad una misura tale
da imporre ai consociati l’obbligo di astenersi da qualsiasi attività in vista dei rischi anche minimi. La misura
della diligenza richiesta incontra quindi due limiti fondamentali:


in primo luogo sono oggettivamente imputabili all’autore tutte e solo le conseguenze
obiettivamente prevedibili; quelle cioè prevedibili da un agente ipotetico che si fosse trovato nella
stessa situazione dell’autore;
un secondo limite si ricava dal concetto di rischio consentito o rischio socialmente adeguato,
espressione con cui ci si riferisce a quella misura di rischio ineliminabile in molte attività, non
rinunciabili come elemento di sviluppo della vita collettiva. ( voli spaziali, traffico aereo).
Fonti e contenuto del dovere della diligenza. La distinzione fra colpa generica e colpa specifica.
Nel nostro ordinamento si distingue tra colpa generica e colpa specifica.
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La colpa generica è derivante da:



imprudenza, consistente nell’aver agito senza adottare le opportune cautele; essa si sostanzia nell’
avventatezza e presuppone scarsa considerazione degli altrui interessi (es.: il titolare di un’attività
industriale di preparazione di gas tossici non adotta le misure tecniche per evitare perdite o
fuoriuscite di gas);
negligenza, consistente nell’aver agito senza l’accortezza e l’attenzione che sarebbero state
necessarie; essa si sostanzia nella mancanza di attenzione o sollecitudine (es.:il chirurgo dimentica
un tampone emostatico nel corpo del paziente operato);
imperizia, consistente nella inettitudine o nella scarsa preparazione professionale, di cui il soggetto è
perfettamente cosciente; di regola si risolve in una imprudenza o negligenza qualificata (es.: un
soggetto miope si pone alla guida di una autovettura senza occhiali pur sapendo di non essere in
grado di fronteggiare ogni situazione che gli si potrebbe presentare).
La colpa specifica deriva dalla inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline, cioè dalla violazione di
norme che, imponendo determinate cautele, mirano a prevenire proprio eventi del tipo cagionato dal
soggetto (es. norme antinfortunistiche).
A prescindere dalla distinzione fra colpa generica e colpa specifica la dottrina ha cercato di operare un’analisi
del contenuto di tale obbligo. Si sono così individuate: ipostesi in cui alla diligenza oggettiva corrisponde tout
court l’obbligo di astenersi dal compiere determinate azioni, in ragione della loro elevata pericolosità; ipotesi
in cui l’intrapresa dell’azione, nonostante presenti determinati rischi, di per sé non viola la diligenza
oggettiva,se e in quanto sia accompagnata dall’adozione di particolari misure di cautela; ipotesi in cui il
contenuto dell’obbligo di diligenza si traduce in un dovere di informazione.
Abbiamo poi:
la colpa propria che : è la forma normale di colpa e ricorre in tutti i casi in cui l’evento non è voluto
dall’agente; e colpa impropria che si ha quando l’evento è voluto dall’agente (e si dovrebbe quindi
rispondere a titolo di dolo) ma la legge stabilisce, in via eccezionale, che l’agente risponde a titolo di colpa. i
casi di colpa impropria sono i seguenti: eccesso colposo nelle cause di giustificazione (art. 55), supposizione
erronea dell’esistenza di una causa di giustificazione inesistente (art. 59, comma 3), errore di fatto
determinato da colpa (art. 47, comma 1).
Ulteriori limiti al dovere di diligenza. Il principio della divisione del lavoro e il principio dell’affidamento.
Per la determinazione dei contenuti specifici del dovere di diligenza gioca un ruolo anche il principio della
divisione del lavoro. Nelle condotte,in cui concorrono più soggetti, questo principio influisce sui limiti e sulla
conformazione dell’obbligo e di diligenza oggettiva. Viene qui, pertanto, in considerazione anche quella
particolare forma di responsabilità per colpa che si definisce culpa in eligendo; essa ricorre quando sia
violato, da parte di chi riveste una posizione gerarchicamente sovraordinata, l’obbligo prudenziale di
scegliere in modo appropriato i suoi collaboratori e di controllarne l’operato. Solo a queste condizioni,
infatti, diviene rilevante il fenomeno della delega e del conseguente trasferimento di funzioni, che implica,
nei congrui casi, anche il trasferimento del dovere di diligenza e della corrispondente responsabilità
colposa.
Per la soluzione dei relativi problemi viene in questione un limite generale al dovere di diligenza,
tradizionalmente contrassegnato come principio dell’affidamento: in base al quale si afferma che colui il
quale agisce nel rispetto dei doveri di diligenza oggettiva, è legittimato a fare affidamento su un
comportamento egualmente diligente dei terzi, la cui condotta interferisce con la sua. Questa regola trova
naturalmente il suo limite nelle ipotesi in cui non debba, invece, in virtù di particolari circostanze,
attendersi un comportamento poco diligente da parte dei terzi, o ne sia addirittura a conoscenza. Il
principio dell’affidamento fornisce anche un criterio risolutivo quando si tratta di stabilire l’esistenza di ma
responsabilità per colpa, in relazione al fatto di un terzo, sia esso doloso o colposo.
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Azione ed omissione nella condotta colposa.
L’obbligo della diligenza oggettiva può essere violato sia mediante una condotta attiva, sia mediante una
condotta omissiva. Possono aversi, conseguentemente, delitti colposi di azione (commissivi) e delitti di
omissione ( omissivi).
Si ha delitto colposo commissivo quando la diligenza oggettiva si concreta in un dovere di astenersi dal
compiere determinate azioni pericolose ( es. vendere attrezzi taglienti a bambini);si ha delitto colposo
omissivo quando la diligenza oggettiva implica il compimento di determinate azioni.
Ciò non significa che in questi casi si sia necessariamente di fronte a un reato omissivo. Veri e propri reati
colposi omissivi sono quelli di pura omissione ( artt. 451,672 c.p.) espressamente previsti dalla legge; è,
quelli impropri in cui venga in considerazione esclusivamente una condotta negativa. È questo il caso della
madre che cagioni un pregiudizio nella salute al proprio figlio di poche settimane di età, omettendo, per
dimenticanza, di nutrirlo per un’intera giornata.
Molto spesso la condotta rilevante per una fattispecie di reato colposo risulta costituita da una
commistione di comportamenti attivi ed omissivi; si pensi a chi intraprende un lavoro stradale (azione)
senza apporre le prescritte segnalazioni (omissione), in questo caso il reato va considerato come reato di
azione e non come reato di omissione.
L’ambito della punibilità non muta: il contenuto degli obblighi derivanti dall’assunzione di una posizione di
garante è, infatti, del tutto identica quello dell’obbligo di diligenza, che incombe sull’autore, nell’atto in cui
intraprende un’azione pericolosa.
La fattispecie soggettiva dei reati colposi.
La struttura psicologica della condotta colposa. Colpa cosciente e colpa incosciente.
Mentre il comportamento doloso, a norma dell’art. 43, implica in ogni caso la volizione dell’evento dannoso
o pericoloso che costituisce il risultato dell’azione od omissione, ai sensi dell’art. 43 si ha, invece, un reato
colposo quando l’evento, anche se preveduto, non è voluto dall’agente e si verifica a causa di negligenza o
imprudenza o imperizia.
Nei reati dolosi, la pretesa dell’ordinamento è rivolta ad ottenere che la volontà dell’agente non si indirizzi
finalisticamente alla realizzazione di un fatto dannoso o pericoloso: l’elemento psicologico del fatto doloso
corrisponde sempre e soltanto al manifestarsi di questa volontà finalistica che non doveva esserci. Nei reati
colposi, invece, la pretesa dell’ordinamento è indirizzata a far sì che ciascuno utilizzi al meglio le sue
capacità per prevedere i pericoli per i beni protetti, così da poterli evitare.
È con riguardo a questo aspetto soggettivo del giudizio che si parla di una doppia misura della colpa: una
volta stabilita l’esistenza di una condotta oggettivamente contraria alla diligenza richiesta è infatti anche
necessario stabilire che si possa imputare all’autore, il mancato esercizio del richiesto controllo sui decorsi
causali esterni.
Dal punto di vista dell’elemento soggettivo, due sono le ipotesi di colpa penalmente rilevante, riflesse nella
definizione dell’art. 43 c.p.. Ad esse corrisponde la distinzione tra colpa cosciente e colpa incosciente.
La colpa cosciente ricorre quando l’agente ha previsto l’evento senza averlo voluto. La sua struttura
psicologica è contrassegnata da un elemento negativo, costituito dalla non volizione dell’evento, e da un
elemento positivo, costituito dalla rappresentazione dell’evento stesso, come possibile conseguenza
dell’azione od omissione, accoppiata alla convinzione che esso non si verificherà. L’addebito di colpa
cosciente riguarda solo i reati di evento, poiché, nei reati di mera condotta, la consapevole violazione della
regola precauzionale presidiata dalla norma incriminatrice realizza un’ipotesi di comportamento doloso.
La colpa incosciente si ha quando l’evento non è voluto e nemmeno previsto dall’agente. Mancando in
questi casi sia la previsione che la volontà dell’evento e la consapevolezza di violare una regola oggettiva di
diligenza, parte della dottrina inclina ad escludere nella colpa incosciente la presenza di componenti
psicologiche reali. In altre parole, l’accertamento della colpa corrisponderebbe a un giudizio puramente
normativo: vi sarebbe un fatto colposo, solo quando sia possibile muovere all’autore un rimprovero per
non aver osservato la regola precauzionale, diretta e prevenire la lesione di beni. Lo stesso concetto di
azione dovrebbe essere considerato come puramente ascrittivi, poiché servirebbe solo fissare le condizioni
di imputazione di un fatto all’autore.
Alla fattispecie soggettiva del reato colposo appartiene la non volizione dell’evento, che nella colpa
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cosciente si organizza nella sua previsione; e nella colpa incosciente si radica sulla mancata o erronea
rappresentazione delle circostanze da cui scaturiva l’obbligo di osservare una particolare regola di diligenza.
Questa struttura psicologica della condotta colposa concerne la esigibilità dell’osservanza della norma di
diligenza violata, da parte del singolo autore.
Nei casi di colpa incosciente non si può escludere la presenza dei coefficienti minimi per l’imputazione
soggettiva, identificati dall’art. 42 c.p. nella coscienza e volontà del fatto.
Il fatto del conducente che prosegua nella condotta del guidare in una determinata direzione, non
essendosi avveduto del cartello che segnala una interruzione stradale, così provocando un sinistro, non ha
niente a che vedere con il caso di chi subisce una perdita di coscienza; anche se a quest’evento possono
conseguire movimenti o stati di inerzia corporea suscettibili di produrre la causazione di danni a terzi. In
questo secondo caso, infatti, non si pone un problema di colpa incosciente, ma entra in gioco la regola
dell’art. 42, I comma c.p., che pone le condizioni minime perché un fatto umano, astrattamente costitutivo
di reato, divenga penalmente rilevante. Conseguentemente, di fronte al caso dell’automobilista colto da
malore mentre è alla guida si dovrà semplicemente prendere atto che egli non ha agito nel senso del diritto
penale: cioè nel senso del concetto normativo dell’azione penalmente rilevante, quale si desume dall’art.
42, I comma c.p.
Il criterio discretivo fra colpa cosciente e dolo eventuale.
La colpa cosciente ricorre quando l’agente ha previsto l’evento senza averlo voluto. Si distingue dal dolo
eventuale perché nella colpa cosciente il reo agisce con la certezza che l’evento previsto come possibile non
si verificherà (e non agisce anche a costo della sua verificazione); il concetto di colpa cosciente non è un
frutto di una elaborazione teorica, ma è codificata nell’art. 41, n. 3, c.p. come aggravante dei delitti colposi,
la quale ricorre quando il soggetto ha «agito nonostante la previsione dell’evento». Come già accennato
sopra, la differenza tra dolo eventuale e colpa cosciente va rinvenuta nella previsione dell’evento. Questa,
nel dolo eventuale, si propone non come incerta, ma come concretamente possibile e l’agente nella
volizione dell’azione ne accetta il rischio, così che la volontà investe anche l’evento rappresentato. Nella
colpa cosciente la verificabilità dell’evento rimane un’ipotesi astratta che nella coscienza dell’autore non
viene concepita come concretamente realizzabile e, pertanto, non è in alcun modo voluta: ad es. se getto
una pietra in una vetrina per danneggiarla, accetto il rischio che una scheggia provochi lesioni ad una
persona; pertanto, se detto evento si verifica, risponderò di lesioni volontarie (art. 582 c.p.) con dolo
eventuale.
Si ricordi che la responsabilità per colpa, nei delitti,è eccezionale, quindi per la sua punibilità è sempre
necessaria la previsione espressa della legge, mentre le contravvenzioni sono punibili sia che siano dolose
che colpose (cfr. art. 42, c. 2 e 4, c.p.).
La misura soggettiva della colpa.
Una volta stabilito quale condotta era oggettivamente dovuta,si deve stabilire anche se quel determinato
autore, alla stregua delle sue personali capacità ed attitudini, era in grado di tenere la condotta richiesta.
Da ciascun autore può essere preteso, infatti, di esprimere, in una situazione data, il massimo delle sue
capacità, e non oltre. Al medico condotto che si trovi ad operare d’urgenza, con attrezzature di fortuna, non
potrà certo richiedersi lo stesso grado di perfezione tecnica che si pretende da un chirurgo altamente
qualificato, che agisca in condizioni ottimali dal punto di vista dell’igiene, dell’assistenza e della
strumentazione.
Questo esempio segnala tutte difficoltà che comporta la determinazione della misura soggettiva della
colpa. La sua valutazione implica, infatti, almeno parzialmente, il riferimento all’intero complesso di fattori
individuali che condizionano la capacità dell’autore di uniformarsi agli standards di diligenza richiesti. La
definizione della misura soggettiva della colpa pone, perciò, i problemi tipici di ogni generalizzazione: es. chi
continua a guidare un’auto, pur avendo percepito un allentamento della sua prontezza di riflessi, a causa
della stanchezza, agisce certo in contrasto con la diligenza oggettiva; ma questa condotta non potrà
fondare un rimprovero di colpa, se l’interruzione del viaggio lo avrebbe esposto a pericoli mortali: in vista
dell’approssimarsi di una bufera di neve,nottetempo, lungo un percorso di montagna isolato e
particolarmente aspro. Tutt’altro problema è, naturalmente, stabilire se un segmento di condotta
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precedente presenti gli estremi per un addebito di colpa: non essersi preventivamente informato sulle
condizioni meteorologiche, o, addirittura aver intrapreso il viaggio nonostante che la bufera fosse prevista.
Da questo esempio emerge un importante criterio di valutazione della c.d. misura soggettiva della
colpa,che si connette all’anormalità delle circostanze in cui si agisce, quando esse determinano la non
esigibilità dell’osservanza dei doveri di diligenza, che può essere pretesa in condizioni normali.
Il grado della colpa.
Il diritto civile distingue la colpa secondo il grado di essa e fa talora dipendere da questo elemento la sua
stessa rilevanza giuridica.
Il vigente codice penale, menziona nell’art. 133 il grado della colpa fra gli indici ai quali il giudice deve
attenersi nello stabilire la pena da infliggere in concreto, nell’ambito dei limiti, minimo e massimo, previsti
dalla legge; l’interprete è quindi obbligato a definire in base a quali criteri si debba determinare il grado
della colpa. Tali criteri possono essere soggettivi ed oggettivi.
Criteri soggettivi di graduazione:
 consapevolezza o meno di tenere una condotta pericolosa;
 quantum di esigibilità dell’osservanza delle regole cautelari;
 motivi che hanno spinto il soggetto ad agire.
Criteri oggettivi:
 quantum di evitabilità;
 quantum di divergenza tra la condotta doverosa e quella tenuta.
Nel caso di concorso di più indici, il giudice deve procedere ad un giudizio di cumulo o di equivalenza o di
prevalenza della stessa.
CAPITOLO QUINTO: LE CAUSE GENERALI DI ESCLUSIONE DEL FATTO TIPICO.
Premessa.
Il codice penale prevede una pluralità di situazioni ricorrendo le quali non può configurarsi un reato. In
particolare, ricordando ancora una volta che secondo la teoria tripartita la struttura del reato è composta dal
fatto tipico (comprensivo di elemento oggettivo e soggettivo), colpevolezza ed antigiuridicità, vi sono
situazioni che escludono in radice la tipicità del fatto (ad es. perché fanno venir meno l’elemento soggettivo
o parte di quello oggettivo); ovvero, pur essendo presente un fatto tipico, escludono l’antigiuridicità (es. la
legittima difesa).
Esempio: se un soggetto asporta una borsa ritenendo che sia sua, poiché l’errore esclude il dolo (art.
47c.p.),non sussiste il fatto tipico del furto (art. 624 c.p.) per mancanza dell’elemento soggettivo. Se invece
una persona ne uccide un’altra in situazione di legittima difesa (art.52 c.p.), pur sussistendo il fatto tipico
dell’omicidio, difetterà l’altro elemento costitutivo del reato che è l’ antigiuridicità.
Le cause di esclusione del fatto tipico sono situazioni caratterizzate dalla esclusione di un requisito
essenziale del fatto tipico. Ciò può accadere perché mancano i requisiti minimi della tipicità penale (es. il
reato impossibile, art. 47, c. 2, c.p.); perché difetta il nesso psichico (es. quando ricorre la forza maggiore,
art. 45); perché difetta parte dell’elemento oggettivo (es. in ipotesi di caso fortuito, art. 45); perché manca
l’elemento soggettivo (es. in caso di errore, art. 47).
In tali ipotesi il fatto commesso strutturalmente non aderisce alla fattispecie astratta prevista dal
legislatore e pertanto manca di “tipicità”.
Le ipotesi di esclusione del fatto penalmente rilevanti.
Forza maggiore.
L’art. 45 c.p. stabilisce che non è punibile chi ha commesso il fatto per forza maggiore.
La forza maggiore consiste in una forza esterna all’uomo che per il suo potere superiore determina
inevitabilmente il soggetto all’azione, anche contro la sua volontà (es.: un operaio, intento a lavorare su
un’impalcatura che, sbalzato al suolo da un violentissimo colpo di vento, cadendo cagiona la morte di un
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passante schiacciato dal peso del suo corpo). In tal caso si dice che il soggetto non agit, sed agitur.
In una situazione del genere mancano i presupposti per l’imputazione oggettiva dell’evento. Il processo
causativo dell’evento, infatti, non appartiene al soggetto, non può essere considerato opera sua, poiché non
è padroneggiato dalla sua volontà e, conseguentemente, non è azione, nel senso normativamente descritto
dall’art. 42 c.p. che esige la coscienza e la volontà dell’azione e dell’omissione.
Il caso fortuito.
L’art. 45 c.p. prevede e disciplina, unitamente alla forza maggiore, il caso fortuito.
Il caso fortuito che ricorre quando manca il nesso di causalità tra la condotta e l’evento e quest’ultimo si è
verificato per l’operare di fattori eccezionali, indipendenti dalla condotta dell’agente.
Secondo altra parte della dottrina il caso fortuito non sarebbe determinato dall’assenza del nesso causale,
ma dal difetto dell’elemento soggettivo della colpa : per i sostenitori di tale orientamento, il caso fortuito
non è altro che un evento imprevedibile. Per la più recente dottrina, invece, il caso fortuito sarebbe una
figura dogmaticamente “polivalente” e quindi invocabile sia per il difetto del nesso causale, che per la
mancanza di colpa.
Costringimento fisico.
L’art. 46 c.p. stabilisce che non è punibili chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto da altri
mediante violenza fisica alla quale non poteva resistere o sottrarsi.
Il costringimento fisico è un’ipotesi di forza maggiore in virtù della quale l’autore del reato è la longa
manus di altro soggetto che è l’unico responsabile del reato (es.: chi è costretto con la forza a premere il
grilletto di una pistola, uccidendo altra persona).
Le ipotesi normative di esClusione dei presupposti dell’imputazione soggettiva: l’errore sul fatto.
L’errore sul fatto costituente reato (art. 47 c.p.): consiste in una inesatta percezione della realtà da parte
dell’agente che, pertanto, ritiene di porre in essere un fatto concreto diverso da quello vietato dalla
norma penale. L’ errore può incidere:


sul processo di formazione della volontà, la quale nasce, quindi, viziata da una falsa
rappresentazione della realtà: c.d. errore-motivo (art. 47);
sulla fase esecutiva del reato, cioè sul momento in cui la volontà viene attuata: si parla, in tal caso,
di errore-inabilità, che si ha nel c.d.reato aberrante (artt. 82-83).
Va precisato che tra le cause di esclusione del fatto tipico rientra solo l’errore motivo (errore sul fatto), non
anche l’errore inabilità (c.d. aberratio), che non esclude la tipicità penale del fatto, e la cui trattazione
andrebbe collocata piuttosto nel capitolo dedicato al concorso di reati. La scelta di parlarne in questa sede è
determinata dal fatto di segnalarne le differenze con l’ipotesi di cui all’art. 47 c.p.
L’errore-motivo si distingue in:
 errore sul fatto , che cade sul fatto previsto dalla norma (art. 5 c.p.);
 errore sul divieto , che cade sulla norma che prevede il fatto (art. 47).
Il problema della qualificazione giuridica della condotta viziata da errore colposo.
Per affermare che l’errore è determinato da colpa è necessario, da un punto di vista oggettivo, che alla
radice dell’errore si riscontri la violazione di una regola di diligenza, che si ponga in connessione causale con
l’evento cagionato; dal punto di vista soggettivo, è fuori discussione che la lesione del bene protetto sia
stata da lui prodotta involontariamente, dimodochè l’evento debba ritenersi da lui non voluto.
Errore sul fatto ed errore sul divieto.
L’errore sul fatto si ha quando il soggetto, anche se conosce con precisione la norma penale, crede di
realizzare un fatto diverso da quello vietato dalla norma penale (art. 47 comma 1). L’errore è determinato
da una falsa rappresentazione della realtà. L’errore sul fatto può derivare:

da un errore di fatto che consiste in una mancata o imperfetta percezione di un dato della realtà
sensibile, per effetto del quale il soggetto agente ritiene di porre in essere un fatto concreto diverso
da quello vietato dalla norma penale. Esso può cadere sugli elementi positivi e negativi del reato: es.
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il cacciatore spara in un cespuglio pensando vi sia una lepre, invece vi è un uomo che, a seguito delle
ferite, muore. in tal caso l’errore esclude il dolo dell’omicidio;

da un errore sulla legge extrapenale richiamata dalla legge penale laddove per legge extrapenale
s’intende una norma diversa da quella penale e da quest’ultima richiamata ai fini della
determinazione della fattispecie criminosa; sono tali, ad esempio, le norme civilistiche con- cernenti
la proprietà, rilevanti per la definizione del concetto di altruità della cosa nei reati contro il
patrimonio. Inoltre, l’ errore sulla legge extrapenale
Può tradursi in:


un errore sul precetto, che non esclude la responsabilità penale (salvo che, come si è detto, non sia
inevitabile);
un errore sul fatto, che esclude la responsabilità penale quando è scusabile;

da un errore su una norma sociale richiamata dalla legge penale.
Concludendo, l’errore sul fatto esclude il dolo e, quando sia scusabile, anche la colpa; quando invece
l’errore sul fatto è inescusabile, l’agente risponde a titolo di colpa , se il fatto è previsto dalla legge come
delitto colposo (art. 47, co. 2, c.p.: nell’esempio sopra riportato, il cacciatore potrebbe rispondere di
omicidio colposo).
L’errore sul divieto (o sul precetto) si ha quando il soggetto si rappresenta, vuole e realizza un fatto materiale
che è perfettamente identico a quello vietato dalla norma penale, ma che egli, per errore, crede non
costituisca reato. Ad es., in quanto mussulmano mi sposo in italia più volte, pensando che ciò mi sia
concesso, mentre invece integra il reato di bigamia (art. 556 c.p.).
L’errore sul divieto può derivare:
 dalla ignoranza o erronea interpretazione della legge penale;
 dalla ignoranza o erronea interpretazione della legge extrapenale, richiamata dalla norma penale,
quando non si traduca anche in un errore sul fatto.
L’errore sul precetto è penalmente irrilevante, a meno che non sia inevitabile: infatti, l’art. 5 c.p., nel testo
modificato recentemente dalla Corte Costituzionale con sentenza n. 364/1988, prevede che «l’ignoranza
della legge penale non scusa, tranne che si tratti di ignoranza inevitabile».
Responsabilità per un reato diverso.
A norma dell’art. 47, II comma “ l’errore sul fatto che costituisce un determinato reato non esclude la
punibilità per reato diverso”. Ciò vuol dire che, quando l’agente realizza la fattispecie oggettiva di un
determinato reato, rispetto al quale, però per effetto dell’errore, manca il dolo, egli non cesserà per questo
di essere punibile per quel reato diverso, rispetto al quale egli era in dolo. Ad esempio: chi incendia una
cosa altrui, credendola propria, non risponderà del delitto di cui all’art. 423, I comma , ma sarà punibile ai
sensi del II comma dello stesso articolo, che incrimina appunto l’incendio di cosa propria.
La regola dell’ordinamento, insomma, sembra essere quella di ritenere la responsabilità dell’agente per il
reato di cui egli si è rappresentato la fattispecie oggettiva. Questo principio incontra, tuttavia, un limite
generale nell’efficacia concorrente del principio del favor rei: essa non si applica, cioè, quando l’agente si
rappresenta una figura di reato più grave di quello che realmente commette. Ad esempio: il corriere che,
incaricato da una organizzazione criminale, introduce nel territorio dello stato tabacchi lavorati esteri,
credendo di trasportare sostanze stupefacenti, risponderà del ben più lieve reato di cui all’art. 291 bis delle
disposizioni legislative in materia doganale ( punito con la reclusione da due a cinque anni con pene
pecuniarie proporzionali) e non del reato di cui all’art. 73, d.p.r. 9 ottobre 1990, n° 309, che prevede per il
fatto la reclusione da sei a vent’anni, oltre la multa.
Errore sul fatto determinato dall’altrui inganno.
L’art. 48 c.p. stabilisce: “ le disposizioni dell’articolo precedente si applicano anche se l’errore sul fatto che
costituisce il reato è determinato dall’altrui inganno; ma, in tal caso, del fatto commesso dalla persona
ingannata risponde chi l’ha determinato a commetterlo”.
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La legge prevede il trasferimento della responsabilità penale, dall’autore materiale o immediato del fatto,
all’autore mediato di esso.
Si pensi al notaio che autentichi una sottoscrizione apocrifa, perché tratto in inganno dai testimoni, circa la
vera identità del firmatario, convalidata da un documento, anch’esso falso. In questo caso, solo per l’autore
mediato sussistono i presupposti per un’imputazione soggettiva del fatto,a titolo di dolo. Solo chi pone
consapevolmente dell’azione od omissione dell’autore materiale.
Ulteriori cause di esclusione della tipicità: il reato putativo e il reato impossibile. Il concetto di azione
socialmente adeguata.
L’art. 49,II comma dispone: “ la punibilità è altresì esclusa quando, per la inidoneità dell’azione o per la
inesistenza dell’oggetto di esso, è impossibile l’evento dannoso o pericoloso”.
L’art. 49, II comma serve a rendere chiaro che, nel configurare il modello legale di un reato, la norma
penale si riferisce sempre ad azioni idonee, vale a dire tali da costituire una effettiva minaccia per i beni
protetti dall’ordinamento.
L’idea che l’attitudine aggressiva del fatto costituisca un momento essenziale della conformità al tipo pur
avendo incontrato crescenti e significatici riconoscimenti anche nella giurisprudenza, non riscuote tuttavia
unanime consenso.
Le perplessità avanzate concernono una asserita inconciliabilità fra le tesi prospettate e un sistema
imperniato, come il nostro, sul principio di legalità. Si osserva, da un lato, che un fatto conforme al modello
legale, ma al tempo stesso privo di lesività, sembra costituire una sorta di contraddizione in termini;
dall’altro, che esigere, oltre alla tipicità anche la sua lesività, darebbe adito al ricorso a criteri
extranormativi, con il rischio di soggettivismo nelle opzioni giurisprudenziali.
In realtà, la derivazione del principio formulato dall’art. 49, II comma da quello più generale del principio di
offensività dei fatti costituenti reato è evidente ed innegabile: parlare di una necessaria attitudine lesiva
del fatto non significa altro se non ribadire la regola dell’ordinamento vigente, per cui l’illecito penale si
configura solo in funzione dell’effettiva aggressione a qualcosa che rappresenta un bene della comunità o
del singolo, così importante da doversi tutelare con la minaccia della pena.
A prescindere da queste impostazioni,non vi è dubbio circa il fatto ricevuto nella elaborazione dottrinale;
né in verità, è possibile trascurare del tutto l’intenzione dei compilatori del codice, che al principio
enunciato dall’attuale art. 49, II comma attribuirono espressamente valore generale e fondamentale anche
per il reato consumato, in quanto attinente all’esecuzione del reato, ossia alla condotta punibile, elemento
essenziale del reato.
Questo principio concerne l’essenza stessa della tipicità e altro non rappresenta se non l’esigenza di
un’effettiva rispondenza del fatto alla ipotesi normativa. La portata dell’art. 49, II comma in realtà, si coglie
pienamente solo quando si consideri che, essendo l’idoneità degli atti autonomamente richiesta dalla
legge, quale requisito essenziale dei comportamenti rilevanti come delitto tentato, l’analoga esigenza,
postulata in via generale dal legislatore con la figura del reato impossibile, assume rilievo non tanto in
rapporto a casi di tentativo impossibile, quanto piuttosto in relazione a quelle ipotesi di reato, di cui si
potrebbe dire che solo ad un esame superficiale si presentano come reati consumati.
L’inidoneità dell’azione deve essere riconosciuta in tutti i casi in cui la condotta non riesce a raggiungere un
livello di aggressività, a cui si possa connettere il rischio di una lesione del bene.
L’art. 49, II comma si profila, quindi, anche come il veicolo normativo attraverso cui dare ingresso alla
regola della irrilevanza penale delle azioni socialmente adeguate: cioè, quelle azioni che non possono farsi
rientrare, al tempo stesso, nella fattispecie di un reato.
L’idea della adeguatezza sociale non è altro che un punto di vista nell’interpretazione della fattispecie, che
serve ad escludere dalla previsione normativa le condotte che non vi corrispondono perché in esse manca
una reale dimensione aggressiva del bene. Essa nasce da una concezione del bene giuridico che sostituisce,
alla nozione statica di esso, una visione dinamico – funzionale del suo ruolo nella vita sociale, che ne
valorizzi il reale significato. Si pensi alla condotta di atti osceni: fino a che si è legati ad un concetto
meramente causale del bene giuridico e si definisce quindi per identificare l’atto osceno con la esibizione di
certe parti del corpo, non si riuscirà a comprendere mai la vera ragione per cui non è punibile la modella
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che posa nuda davanti ad una classe di allievi dell’accademia d’arte. Per stabilire la non punibilità di queste
condotte si finisce per ricorrere ad improbabili ipotesi di giustificazione; che però non potrebbero mai
spiegare perché lo stesso comportamento sia ammissibile su una spiaggia e non in chiesa.
In realtà, il disvalore giuridico della condotta è qui strettamente connesso alla sua capacità di aggredire, che
è poi quanto dire la concezione, storicamente condizionata, del comune sentimento del pudore.
Si può dire che l’adeguatezza sociale inibisca la rilevanza delle condotte che si inquadrano in una attività di
promozione degli stessi beni che, sul piano causale, possono tuttavia soffrire di un pregiudizio.
L’errore sul reato impossibile e sull’adeguatezza sociale.
L’errore risulta irrilevante quando risponde ad un errore sul divieto; non invece se consiste in un errore su
presupposti di fatto che, se esistenti,avrebbero escluso la tipicità della condotta. Ciò è particolarmente
chiaro per quanto attiene al reato impossibile per inesistenza dell’oggetto. Non è punibile, ad esempio, chi
abbia cagionato, seppellendone il corpo, la morte di un uomo, credendo di trovarsi di fronte ad un
cadavere, mentre trattatasi di catalessi.
Lo stesso discorso deve farsi per i casi di errore sull’adeguatezza sociale. Non sarà punibile per corruzione il
pubblico ufficiale che accetti in dono una preziosa e rara incisione, nella convinzione erronea che si tratti di
una produzione fotografica di infimo valore; ma la punibilità non potrà invece essere esclusa, se egli l’avrà
accettata donativi di elevato valore economico. In questo caso, infatti, l’errore nell’adeguatezza sociale non
nasce da un errore sul fatto,ma costituisce un tipico errore sui limiti del divieto e risulta, perciò, irrilevante.
SEZIONE TERZA: L’ANTIGIURIDICITA’
Le cause di giustificazione e le altre cause che escludono la punibilità di un fatto tipico.
Tipicità e antigiuridicità ella struttura dell’illecito penale: rapporti fra norma di divieto e norme
permissive.
Sull’esistenza del fatto tipico si fonda la ragionevole presunzione di essere di fronte anche a un fatto
antigiuridico. L’accertamento dell’antigiuridicità, però, se presuppone l’esistenza di un fatto tipico, richiede
( in negativo) l’inesistenza di situazioni o circostanze, a cui l’ordinamento giuridico attribuisca una efficacia
giustificante. In presenza di situazioni o circostanze del genere, viene meno, infatti, il valore indiziante del
fatto tipico, che, pur restando tale, tuttavia non è antigiuridico, per effetto di una norma permissiva che lo
autorizza e lo impone; con la conseguente elisione dell’applicabilità, in concreto, della norma di divieto.
I rapporti fra la norma di divieto e la norma permissiva sono contrassegnati dal fatto che l’eventuale
operare della norma permissiva non modifica, né limiti, la materia del divieto, ma soltanto ne esclude
l’applicabilità ai casi concreti, in cui ricorra anche l’ipotesi prevista dalla norma permissiva. Il principio
fondamentale, sottostante a tutte le ipotesi di giustificazione di un fatto tipico è dunque il principio di non
contraddizione dell’ordinamento giuridico. Ogni norma permissiva viene a trovarsi in una situazione di
conflitto con la norma che contiene il divieto penalmente sanzionato.
In questo conflitto, la norma permissiva prevale, in quanto presenta, rispetto alla norma di divieto, un
elemento specializzante: essa, infatti, disciplina i casi in cui, oltre a tutti gli elementi descritti dalla singola
norma incriminatrice, sono altresì presenti quelli descritti dalla norma permissiva. Si pensi a chi uccide
taluno, da cui sia stato assalito: il caso appare, in astratto, regolato contemporaneamente sia dall’art. 575
c.p. che dall’art. 52 c.p., che stabilisce, in via generale, la non punibilità dei fatti, preveduti dalla legge come
reato, che vengono commessi per necessità di difendere un diritto proprio o altrui dal pericolo attuale di
un’offesa ingiusta. Se, nell’ipotetico conflitto fra le due norme, a soccombere fosse l’art. 51. la disposizione
risulterebbe inutiliter data, perché mai applicabile; la sua prevalenza, nei singoli casi, invece, non esclude
affatto la validità generale di divieto di uccidere, che rimane applicabile a tutti i casi di uccisione, in cui non
sia contemporaneamente presente l’elemento specializzante “ legittima difesa”.
L’art. 52, dunque, non modifica il contenuto della norma che incrimina l’omicidio; allo stesso modo
l’esistenza della legittima difesa non toglie il fatto che un uomo è stato ucciso; ma questo fatto, pur gravido
di contenuto di offesa così pregnante, non riveste, tuttavia, i caratteri del torto antigiuridico.
Il procedimento di ricostruzione delle fattispecie permissive è differente da quello che caratterizza
l’individuazione degli elementi del fatto tipico. Ciò dipende dal fatto che, mentre la risposta alle domande
che concernono l’esistenza di un fatto tipico è interamente contenuta nel diritto penale, la risposta alla
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domanda se quel fatto tipico sia anche antigiuridico, va invece ricercata guardando all’intero ordinamento
giuridico. Nel primo caso, infatti, si tratta di stabilire se si è verificato, in concreto, un fatto che corrisponde
a quello descritto in una norma incriminatrice; nel secondo, si tratta, invece, di confrontare il fatto tipico
con l’insieme delle regole espresse da un ordinamento giuridico.
La fonte delle singole fattispecie permissive può essere rinvenuta non solo nell’ambito del diritto penale ma
anche in altri settori dell’ordinamento. Basti pensare alle disposizioni costituzionali. La norma che riconosce
il diritto di sciopero ( art. 40 cost.) ha una destinazione di carattere generale, che trascende sicuramente il
ruolo che essa può essere chiamata occasionalmente a svolgere nel diritto penale; tuttavia è proprio
nell’art. 40 cost. che deve essere attualmente ricercata la fonte della non antigiuridicità di talune condotte
tipiche: per esempio, di un fatto di interruzione di un pubblico servizio ( art. 340 c.p.), che si realizzi
nell’ambito di una condotta di sciopero.
Secondo l’opinione della dottrina dominante, infatti, in materia di cause di giustificazione non vige il divieto
di applicazione per analogia e ciò per due ragioni:

Le disposizioni, su cui si fondano le ipotesi di non punibilità in questione, non sono propriamente
norme penali ma costituiscono norme dell’ordinamento giuridico generale;

La ratio sottesa al divieto di analogia in materia penale è strettamente connessa al principio di
legalità, nella misura in cui quel divieto è inteso ad evitare la creazione di reati per via
giurisprudenziale, e cioè in violazione di una regola espressa dell’ordinamento; il divieto di
applicazione analogica è, perciò, tendenzialmente inoperante.
Profili di una sistematica generale delle circostanze di esclusione della pena ( art. 59 c.p.): individuazione
della categoria delle esimenti.
Prima di procedere all’analisi delle singole cause di giustificazione (scriminanti), è necessario fare una
premessa. Più volte il codice prevede la non punibilità di un fatto, in presenza di determinate circostanze: ad
es. in caso di legittima difesa (art. 52 c.p.); oppure in caso di favoreggiamento per salvare un prossimo
congiunto (art. 384 c.p.); ovvero in caso di furto in danno di un parente convivente (art. 649 c.p.).
La dottrina ha individuato un dato normativo comune a tutte le ipotesi. Questo punto di riferimento
normativo è costituito dall’art. 59 c.p. . Il I comma di questa disposizione dispone delle circostanze che
escludono la pena; al IV comma lo stesso articolo dispone le circostanze di esclusione della pena. L’art. 59
c.p. obbliga dunque l’interprete a stabilire a quali situazioni il legislatore si sia riferito con le locuzioni “
circostanze che escludono la pena” e “ circostanze di esclusione della pena”.
Con l’espressione “circostanze di esclusione della pena”il codice ha inteso disegnare tutte quelle ipotesi
normative di non punibilità che, da un lato, presuppongono la realizzazione di un fatto tipico, e
dall’altro,non si riferiscono all’imputabilità o ad altre condizioni o qualità personali del soggetto, rilevanti per
il giudizio di colpevolezza.
E, invero, il fatto stesso che l’art. 59 c.p. disciplini l’errore sulle circostanze di esclusione della pena come
ipotesi a sé stanti, rispetto all’errore sulle circostanze sul fatto che costituisce il reato ( art. 47 c.p.) rende di
per sé evidente che l’ambito delle circostanze di esclusione non può essere confuso con quello del fatto
tipico: quando l’errore cade su un elemento essenziale del fatto è l’art. 47 ad applicarsi e non l’art. 59 ultimo
comma. D’altra parte, la logica della rilevanza dell’errore, che è comune ad entrambe le ipotesi sembra
essere per definizione estranea alle cause di esclusione della colpevolezza. È in effetti del tutto impensabile
che l’ordinamento giuridico possa attribuire rilevanza all’errore del soggetto sulla propria capacità di
intendere e di volere.
La regola dell’efficacia dell’errore traccia anche la linea di demarcazione fra le circostanze di esclusione della
pena, di cui parla l’art. 59 IV comma c.p. e altre situazioni che fanno venir meno la rilevanza penale del fatto
in un momento successivo a quello in cui essa si è costituita: come avviene nella ritrattazione della falsa
testimonianza. Poiché, in queste ipotesi, la non punibilità del fatto dipende da un evento che sopravviene ad
incidere sulla sua rilevanza in un momento successivo a quello in cui il fatto è stato realizzato, sembra del
tutto evidente che l’eventuale errore dell’agente circa la loro esistenza, non può che essere del tutto
irrilevante.
Sembra dunque ragionevole limitare l’efficacia dell’errore sulle circostanze di esclusione della pena, a quelle
ipotesi di non punibilità, in cui la situazione scriminante incide sulla rilevanza di un fatto tipico con cui si
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realizza contestualmente, o al quale addirittura preesista. Sul piano terminologico per questa categoria
normativa è stata proposta la denominazione di esimenti.
Nella categoria delle esimenti rientrano:
1) le cause di giustificazione (scriminati);
2) le c.d. scusanti, cioè le cause di non punibilità determinate da inesigibilità di una condotta diversa
(es. art. 384 c.p.);
3) le cause di non punibilità determinate da scelte politico-criminali (es. art. 649 c.p.).
le ipotesi normative delle cause di giustificazione.
Il problema del fondamento delle cause di giustificazione.
Gli artt. 50 ( consenso dell’avente diritto), 51 ( esercizio di un diritto o adempimento di un dovere), 52 (
difesa legittima), 53 (uso legittimo delle armi) del codice penale vigente riflettano in modo puntuale il
modello della causa di giustificazione.
Un eguale statuto dommatico viene oggi riconosciuto dalla dottrina dominante anche all’ipotesi dello “stato
di necessità” ( art. 54 c.p.). la cui collocazione ha allungo oscillato tra il piano dell’antigiuridicità e quello della
colpevolezza.
Il fondamento unitario delle cause di giustificazione è stato racchiuso in formule di vario tenore, ed
espresso volta a volta nell’idea del perseguimento di uno scopo giuridicamente approvato attraverso un
mezzo adeguato, nel principio della prevalenza del vantaggio sul danno, nel regola del bilanciamento degli
interessi in conflitto.
Ognuna di queste formule esprime i criteri ai quali il legislatore sembra essersi attenuto nel configurare le
fattispecie normative delle cause di giustificazione; i principi in esse sintetizzati richiedono tuttavia pur
sempre di essere riempiti, mediante il riferimento agli elementi costitutivi di ciascuna ipotesi.
Anche il tentativo di ricostruire in termini pluralistici il fondamento generale delle cause di giustificazione
non si sottrae allo stesso inconveniente. Attraverso la formula dell’interesse mancante e quella
dell’interesse prevalente, la dottrina pluralistica riesce solo a fornire una rappresentazione più ravvicinata
dell’asserito fondamento delle cause di giustificazione, consentendone così la ripartizione in due gruppi
distinti.
In tutti i casi, la situazione delineata dalla legge sembra presentare, infatti, una caratteristica saliente,
consistente nel fatto che il realizzarsi del diritto obiettivo passa necessariamente attraverso il compimento,
da parte dell’agente, di un fatto preveduto dalla legge come reato.
Il tenore delle previsioni contenute negli artt. 52,53 e 54 c.p. conferma nel modo più esplicito questa
intuizione, giacchè in esse la necessità di compiere il fatto tipico è espressamente indicata come requisito
della fattispecie giustificante. La legge allude infatti, in modo del tutto esplicito, al fatto che la difesa di un
diritto proprio o altrui, il mantenimento o il ripristino della legalità, la salvaguardia del più elementare fra i
diritti rendono necessaria la commissione di un fatto tipico.
Aspetti caratteristici della disciplina delle cause di giustificazione.
Le cause di giustificazione sono, al tempo stesso, cause di esclusione dell’antigiuridicità.
Il fatto giustificato non è soltanto un fatto che non può avere come conseguenza l’applicazione all’autore di
una pena o di una misura di sicurezza; esso è altresì non impedibile: non può esservi legittima difesa, per
esempio, contro un fatto commesso nell’adempimento di un dovere imposto da una norma giuridica o da
un ordine legittimo. Il fatto giustificato, inoltre, non può costituire presupposto per un reato accessorio; né
è possibile ipotizzare la punibilità di altri soggetti, che abbiano concorso alla sua realizzazione, com’è,
invece, perfettamente concepibile in presenza di altre cause personali di non punibilità; o quando la non
punibilità dell’autore dipenda da una causa di esclusione della colpevolezza: ad esempio dalla sua
condizione di non imputabile.
Il fatto giustificato in quanto fatto non antigiuridico rimane lecito per qualsiasi settore dell’ordinamento e
pertanto non potrà produce alcun effetto sanzionatorio a carico dell’autore, anche in ambito non penale:
sarà quindi escluso sia l’obbligo di risarcimento, sia la possibilità di applicare sanzioni disciplinari o
amministrative di qualsiasi genere.
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Le singole cause di giustificazione: presupposti, principi informatori e limiti di funzionamento.
L’antigiuridicità è definita dalla mancanza di cause di giustificazione, nel senso che il suo accertamento
deriva da un procedimento negativo, che consiste nel prendere atto dell’assenza di un’ipotesi di
giustificazione del fatto tipico. L’idea della necessità del fatto giudicato, pur segnalando quello che sembra
un contrassegno comune delle cause di giustificazione non può dirci molto sui principi informatori e sui
limiti di funzionamento delle singole ipotesi, poiché in ciascuna di esse la necessità di compiere il fatto
tipico si combina variamente con altri dati, che solo un’analisi dei contenuti specifici di ciascuna fattispecie
giustificante permette di enucleare.
Il consenso dell’avente diritto. (art.50 c.p.)
Il consenso del titolare del bene o del diritto protetto dalla norma esclude la illiceità di un fatto che
normalmente arrecherebbe offesa a quel bene o a quel diritto in quanto viene a priori a cadere la possibilità
di un danno. Ad es. se il proprietario di casa consente l’ingresso di Tizio nell’appartamento, non vi sarà
alcuna violazione di domicilio.
Il consenso, a norma dell’art. 50, deve:



avere ad oggetto un diritto disponibile. Secondo la dottrina più recente debbono ritenersi
indisponibili i diritti appartenenti alla collettività, nonché i beni dell’individuo che sono tutelati
indipendentemente dalla sua volontà , perché riconosciuti di interesse pubblico (es. la vita);
essere prestato validamente dal soggetto capace e titolare di tale diritto. Legittimato a prestare il
consenso è colui che, altrimenti, sarebbe il soggetto passivo del reato, sempre che abbia capacità di
intendere e di volere al momento della manifestazione del consenso. Quanto alla capacità di agire, si
discute in dottrina sul limite di età richiesto per il suo acquisto;
sussistere al momento del fatto. Il consenso deve essere espresso con volontà non viziata da errore,
violenza o dolo, e deve essere lecito (non contrario a norme imperative, all’ordine pubblico e al buon
costume) e attuale (cioè esistente al momento del fatto).
Un consenso successivo ha un senso solo in quanto serva ad esplicitare un consenso non espresso in
precedenza, ma tacitamente prestato. Il consenso, infatti, può essere tacito, cioè desumibile con certezza
da un comportamento univoco del titolare del diritto. Si parla, a questo riguardo, di consenso presunto.
Le ipotesi di consenso presunto si distinguono in due categorie, a seconda che nella condotta dell’agente si
ravvisi:
 un’azione intrapresa nell’interesse del titolare del bene, ad esempio chi si introduce nell’abitazione
altrui per spegnere un incendio;

un’azione, rispetto alla quale sembri mancare un interesse del soggetto passivo alla tutela del bene,
ad esempio la moglie che regali gli abiti smessi del marito a un mendicante, in forza di una
consuetudine in tal senso, a lei nota.
L’esercizio di un diritto e l’adempimento di un dovere come cause di giustificazione. ( art. 51 c.p.)
Il titolare di un diritto, nell’esercizio di esso, può compiere alcuni atti che normalmente costituiscono reato,
rimanendo immune da pena. Il fondamento di tale scriminante va rinvenuto nella logica considerazione che,
se l’ordinamento ha attribuito ad un soggetto un diritto e, quindi, la facoltà di agire nell’esercizio di esso in
un certo modo, l’azione riconosciuta non potrà certamente integrare un fatto illecito (esempio: il giornalista
che riferisce obiettivamente fatti che ledono l’onore di una persona non commette il reato di
diffamazione, perché esercita un diritto (di cronaca) riconosciutogli dalla legge).
Nell’ambito dei diritti l’esercizio dei quali è scriminato, la dottrina individua, oltre al diritto di cronaca
giornalistica ed alla disciplina familiare, anche il diritto di critica ed i c.d. offendicula. In particolare, questi
ultimi sono mezzi a tutela della proprietà atti ad offendere (es. vetri rotti sopra un muro di recinzione). La
giurisprudenza ammette, entro determinati limiti, l’uso degli offendicela.
Presupposti della scriminante sono:
 l’esistenza di un diritto;
 che il diritto sia esercitato dal suo titolare;
 che l’esercizio di esso non superi i limiti imposti dalla sua natura e dalla esistenza di diritti altrui.
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Nell’adempimento del dovere, il comportamento del soggetto non costituisce reato in quanto lo stesso non
aveva alcuna facoltà di scelta, ma era tenuto a porlo in essere dovendo adempiere ad un dovere; del fatto,
eventualmente, risponderà il superiore gerarchico che ha impartito l’ordine (art. 51 comma 2).
Il dovere può derivare:

da una norma giuridica (ad esempio: il soldato che uccide in guerra non commette il delitto di
omicidio);

da un ordine dell’Autorità : ordine è qualsiasi manifestazione di volontà che un superiore rivolge ad
un inferiore gerarchico affinché tenga un determinato comportamento. Presupposto della
scriminante è l’esistenza, tra il superiore e l’inferiore, di un rapporto di subordinazione di diritto
pubblico. L’ordine, inoltre, deve essere legittimo, tanto sotto il profilo sostanziale quanto sotto
quello formale.
Per il primo tipo di legittimità devono esistere i presupposti richiesti dalla legge. L’ordine può essere
disatteso solo se manifestamente criminoso.
Per la legittimità formale dell’ordine è invece richiesto che:



il superiore abbia la competenza ad emetterlo;
l’inferiore abbia la competenza ad eseguirlo;
siano state rispettate le procedure e le formalità di legge previste per la sua emissione.
L’inferiore gerarchico può sindacare l’ordine ricevuto solo dal punto di vista formale e non nel merito. Ad
esempio un poliziotto che deve eseguire un ordine di arresto contenuto in una misura cautelare, deve solo
controllare che essa provenga e sia firmata da un giudice.
Non deve valutare se detta misura sia sufficientemente motivata. dell’eventuale arresto illegale risponderà il
giudice. Il sindacato può investire il merito, se l’ordine ricevuto è manifestamente criminoso: in tal caso se il
subordinato esegue l’ordine, anch’egli risponderà del reato, non operando la scriminante (ad es. un
funzionario di Polizia che, durante il servizio di ordine pubblico, immotivatamente comanda di sparare
contro un corteo; in tal caso l’ordine non deve essere eseguito). ( ordine illegittimo vincolante).
La difesa legittima. ( art. 52)
Purché vi sia un pericolo attuale per un proprio od altrui diritto, derivante da una aggressione ingiusta da
parte di un terzo, il soggetto può reagire compiendo in danno dell’aggressore una azione che
normalmente costituisce reato, sempre che tale reazione sia assolutamente necessaria per salvare il diritto
minacciato e sia proporzionata all’offesa (esempio: il soggetto che uccide per difendersi da chi gli si sta
scagliando contro armato di coltello e con evidente intenzione omicida).
È talvolta ammessa la legittima difesa anticipata.
Requisiti dell’ aggressione perché ricorra la scriminante sono:
 oggetto dell’offesa deve essere un diritto;
 l’offesa deve essere ingiusta, cioè contraria al diritto;
 il pericolo minacciato deve essere attuale.
Agli stessi fini la reazione deve essere:
 necessaria;
 proporzionata all’offesa; proporzione che secondo la dottrina più recente deve sussistere tra il male
minacciato e quello inflitto.
Diritto all’autotutela in un privato domicilio.
L’art. 52 c.p. ha subito una modifica strutturale con la legge n° 59 del 2006 la quale ha aggiunto il secondo ed
il terzo comma nei quali si prevede che il rapporto di proporzione, enunciato nel primo comma, “sussiste”
qualora, nei casi di violazione di domicilio o di luogo ove si svolga attività commerciale, professionale o
imprenditoriale, il legittimato a presenziare in tali luoghi utilizza un’arma, legittimamente detenuta o altro
idoneo mezzo,al fine di difendere la propria o altrui incolumità e/o i propri o altrui beni subordinando ciò alla
sussistenza del pericolo di aggressione e alla mancata desistenza.
L’innovazione legislativa ha agito prevalentemente sul rapporto di proporzione tra aggressione e reazione in
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specifiche ipotesi, lasciando, per la verità, immutate le valutazioni relative agli altri elementi dell’esimente. si
è intervenuto, infatti, su tale rapporto di proporzione, attraverso la presunzione ex lege della sua sussistenza
allorquando l’aggressione sia realizzata con l’introduzione abusiva nel domicilio privato e vi sia pericolo per
l’incolumità o di aggressione senza desistenza. in presenza di tali requisiti la proporzionalità è presunta in
modo assoluto e non relativo, non essendo ammessa prova contraria: altrimenti non si spiegherebbe l’uso
nella norma del predicato verbale “sussiste”. La modifica de qua incide solo sul parametro della proporzione,
ma non certo su quelli dell’attualità e del l’inevitabilità del pericolo, che devono pur sempre sussistere.
L’uso legittimo delle armi. ( art. 53)
Un caso particolare di attività giustificata da una norma giuridica è quello dell’uso legittimo delle armi.
Possono invocare tale scriminante i pubblici ufficiali e quei soggetti che su legale richiesta del p.u. gli
prestino assistenza.
La legge ha, dunque, previsto una «riserva di competenza» a favore del pubblico ufficiale relativamente ai
casi in cui è legittimo il ricorso alle armi. La richiesta di assistenza è legale quando è fatta nei limiti e nei casi
previsti dagli artt. 652 c.p. e 380 c.p.p.
Le condizioni perché si possa invocare la scriminante sono le seguenti:
 che il soggetto sia determinato dal fine di adempiere un dovere del proprio ufficio;
 che il soggetto sia costretto a far uso delle armi dalla necessità (l’uso delle armi costituisce « extrema
ratio ») di respingere una violenza, vincere una resistenza, impedire la consumazione dei delitti di cui
all’ultimo inciso dell’art. 53.
Quanto alla resistenza è discusso se in essa rientri, oltre quella attiva, anche la passiva quale l’inerzia o la
fuga per impedire al pubblico ufficiale di adempiere un dovere di ufficio (ad es. dimostranti che bloccano il
traffico ferroviario sedendosi sulle rotaie).
L’art. 53 comma 3 c.p. richiama altri casi in cui la legge autorizza l’uso delle armi o di altri mezzi di coazione
fisica.
Lo stato di necessità fra cause di giustificazioni e scusanti.
Il I comma dell’art. 54 c.p. disciplina e circoscrive un’ipotesi particolare di conflitto di interessi, in cui il
pericolo di lesione, che incombe su un interesse meritevole di tutela, non può essere scongiurato, se non a
patto di sacrificare un altro interesse, parimenti meritevole di tutela giuridica.
Ciò che contrassegna lo stato di necessità rispetto ad altre cause di giustificazione non è però l’esistenza di
un conflitto di interessi ma l’impossibilità di inserire il conflitto di interesse in uno schema di
contrapposizione fra diritto e illecito. Nella legittima difesa, ad esempio, all’origine del pericolo per il bene,
c’è la condotta ingiusta di un aggressore; e la reazione difensiva si giustifica appunto in quanto si dirige
contro un interesse dell’aggressore. Vi sono però situazioni in cui la necessità di agire con prontezza non sia
in alcun modo riconducibile a una condotta umana, ma sia l’effetto di eventi naturali come l’incendio
causato da un fulmine. Ma quale che sia la fonte del pericolo, può comunque accadere che l’azione diretta a
scongiurarlo implichi il pregiudizio dell’interesse di un terzo, perfettamente estraneo al determinarsi della
situazione pericolosa. Si pensi a chi sia costretto a sfondare l’uscio di una casa altrui per cercare riparo da
una bufera di neve che l’ha colto durante una escursione in alta montagna; in questo caso l’insorgere della
situazione di pericolo, da cui ha origine la necessità, non può essere ricondotta a un comportamento del
soggetto. Di qui l’impossibilità di risolvere il conflitto mediante il riferimento a una qualificazione giuridica
differenziata degli interessi in gioco. Si distingue tuttavia tra stato di necessità difensivo e stato di necessità
aggressivo. Lo stato di necessità difensivo ricorre quando la fonte del pericolo è riconducibile alla sfera
giuridica del titolare dell’interesse che viene sacrificato: come nel caso di chi provveda a demolire un
manufatto del vicino, che minaccia di crollare, con pericolo per l’incolumità delle persone. Lo stato di
necessità aggressivo ricorre quando il terzo colpito nei suoi interessi è completamente estraneo rispetto alla
situazione pericolosa da cui nasce la necessità di agire: come nell’esempio di chi trovi rifugio dalla bufera in
abitazione altrui. La differenza tra le due ipotesi concerne l’eventuale rilevanza della condotta necessitata
per quanto attiene alla responsabilità civile dell’agente. Il fatto compiuto in stato di necessità può dar
luogo,infatti, a obblighi di natura risarcitoria ai sensi dell’art. 2045 c.c. Da questo punto di vista lo stato di
necessità non costituirebbe una causa di giustificazione ma causa di esclusione della colpevolezza, poiché
lascerebbe intatto il connotato dell’antigiuridicità del fatto. In altre parole, nell’azione commessa in stato di
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necessità si sarebbe dovuto prendere atto di una sorta di coazione psicologica, tale da escludere le
condizioni per una libera autodeterminazione dell’agente e, quindi, i presupposti per l’imputazione
soggettiva del fatto. Questa tesi è oggi completamente superata per il fatto che sarebbe difficilmente
configurabile l’idea di una sollecitazione emotiva, tale da rendere psicologicamente inesigibile dall’agente
l’astensione dal compimento del fatto tipico. Secondo parte della dottrina, nei casi di azione compiuta in
stato di necessità,il fondamento della non punibilità andrebbe sempre cercato nell’impossibilità di esigere
dall’autore un comportamento conforme al precetto e si dissolverebbe, pertanto, in un elemento negativo
della colpevolezza. Secondo altri, il fondamento della non punibilità risiederebbe esclusivamente nel
principio del bilanciamento degli interessi in conflitto: quando la comparazione dei beni in conflitto mette a
capo un giudizio di prevalenza del bene,alla cui salvezza l’azione era diretta, rispetto a quello
sacrificato,l’azione dovrebbe ritenersi non antigiuridica e quindi giustificata. Il bilanciamento degli interessi
in conflitto esclude il disvalore di evento del fatto tipico necessitato, perché il risultato che consegue
all’inevitabile sacrificio di uno dei beni in gioco è comunque il migliore possibile, nella situazione data. Il
canone del bilanciamento dei beni non è però idoneo a fondare la non punibilità delle condotte compiute in
stato di necessità quando il rapporto di propostone fra i beni in conflitto sia a favore del bene che viene
sacrificato. In questi casi la non esigibilità di una condotta rispettosa del divieto si profila perciò esclusivo
fondamento della non punibilità. Si consideri, ad esempio, la disposizione contenuta nell’art. 384, I comma
c.p. che dichiara non punibili la maggior parte dei delitti contro l’amministrazione della giustizia, quando la
falsa testimonianza, il favoreggiamento ecc. sia stato commesso da chi vi è costretto dalla necessità di
salvare sé medesimo o un prossimo congiunto da un grave e inevitabile nocumento nella libertà o
nell’onore. Alle condotte menzionate nell’art. 384,I comma non è applicabile il disposto dell’art. 2045 c.c.
dovendosi ritenere l’autore obbligato all’integrale risarcimento di eventuali danni patrimoniali. Tutte le
volte in cui il rapporto di proporzione fra i beni non risulti sbilanciato a favore del bene che l’azione
necessitata tende a salvaguardare, è la logica delle scusanti ad apparire decisiva per l’esclusione della
punibilità. Dunque, il fatto commesso in stato di necessità può considerarsi giustificato, solo quando esso
comporti il sacrificio di un bene di minor valore, rispetto a quello da salvare; in tutti gli altri casi esso sarà
solamente scusabile: il che significa che potrà essere legittimamente impedito e che restano impregiudicate
le eventuali conseguenze di carattere civilistico derivanti dall’azione necessitata.
Presupposti e limiti dello stato di necessità ex art. 54 c.p.
Differenze tra difesa legittima e stato di necessità.
Difesa legittima:
 il male minacciato può riguardare sia diritti personali che patrimoniali;
 si reagisce contro colui che aggredisce;
 esclude l’antigiuridicità del fatto.
Stato di necessità:
 il male minacciato deve riguardare solo diritti personali;
 si agisce contro un terzo estraneo ed incolpevole, a tal proposito la dottrina definisce lo stato di
necessità come la scriminante amorale;
 esclude l’antigiuridicità del fatto, ma residua per l’agente l’onere di versare un equo indennizzo alla
vittima ( art. 2045 c.c.)
limiti soggettivi all’applicabilità dell’art. 54 c.p.
Il II comma dell’art. 54 c.p. esclude l’applicabilità della disposizione contenuta nel I comma “ a chi ha un
particolare dovere giuridico di esporsi al pericolo”. La ratio di questa norma è intuitiva: ai soggetti su cui
l’ordinamento giuridico fa assegnamento per la salvaguardia di beni primari della collettività o del singolo
non può essere consentito di sottrarsi ai propri doveri d’intervento a cagione dei rischi a cui sarebbero
esposti. Il vigile del fuoco, il bagnino di salvataggio, l’agente della forza pubblica non possono anteporre la
propria incolumità personale ai doveri del loro stato.
Beninteso, il limite della esigibilità, anche per questi soggetti, non coincide con la pretesa di prestazioni
eroiche e tanto meno dell’inutile sacrificio della vita: anche chi ha dovere giuridico di esporsi al pericolo è
autorizzato a provvedere alla propria salvezza quando le circostanze non gli consentirebbero un intervento
diretto a salvare beni altrui.
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Lo stato di necessità determinato dall’altrui minaccia.
La disposizione dell’ultimo co. dell’art. 54 c.p. è analoga a quella contenuta nell’art. 46, II comma c.p. in
materia di costringimento fisico. La differenza tra violenza fisica e minaccia impedisce, nel caso dell’art. 54,
di parlare di autore mediato. La persona minacciata né è infatti anche l’autore sia pure non punibile.
Ulteriori cause di giustificazione e altre esimenti normative previste.
Oltre alle ipotesi descritte negli artt. 50-54 c.p. , il nostro sistema prevede diverse cause di non punibilità,
applicabili però solo a determinate fattispecie di reato, senz’altro riconducibili allo schema delle cause di
giustificazione. Ad esempio, l’esclusione della punibilità dei fatti di ingiuria e diffamazione, nelle ipotesi
previste dall’art. 596 appare ispirata all’idea della giustificazione, radicata sulla evidente prevalenza
dell’interesse pubblico alla conoscenza dei fatti che concernono la gestione della cosa pubblica o
l’andamento della criminalità, sull’interesse del diffamato alla conservazione della propria onorabilità.
La speciale causa di giustificazione prevista dalla l. 124/2007
Una interessante novità legislativa nel settore delle cause di giustificazione è rappresentata dalla speciale
causa di giustificazione introdotta e disciplinata dagli artt. 17 ss. L. 124/2007, avente ad oggetto : sistema di
informazione per la sicurezza della Repubblica e nuova disciplina del segreto. Nella disciplina di questa
speciale ipotesi di non punibilità sono espressamente evocati i principi essenziali che contrassegnano il
funzionamento delle cause di giustificazione. Ma quel che più conta è che la legge in questione esclude
l’applicabilità della speciale causa di giustificazione in rapporto a una serie di delitti, selezionati in funzione
dell’interesse volta a volta pregiudicato; con il risultato di escludere ogni ipotesi di bilanciamento fra
interesse della sicurezza nazionale e la lesione di diritti fondamentali. La causa di giustificazione prevista
dall’art. 17, se per un verso è speciale in quanto riservata ad una determinata categoria di autori, per un
altro verso si configura come causa di giustificazione generale: in quanto riferibile a qualsiasi tipo di reato.
Dal punto di vista dell’interpretazione sistematica la sussidiarietà della norma rispetto a quella contenuta
nell’art. 51 c.p. vede come conseguenza la carenza dei presupposti per autorizzare le condotte in questione
determinando una scissione tra chi ha dato l’ordine e di chi lo ha eseguito: il primo risponderà del fatto
costituente reato secondo le norme ordinarie; mentre l’esecutore potrà evocare l’applicazione del III e IV
comma dell’art. 51: in questo caso ci troveremo davanti ad un ipotesi di esclusione della colpevolezza e non
di fronte ad una causa di giustificazione.
Principi informatori e limiti di funzionamento delle scusanti.
A fondamento delle cause di giustificazione c’è la prevalenza oggettiva di un interesse giuridicamente
tutelato; a fondamento delle scusanti, l’interesse che la legge prende in considerazione per l'esclusione
della pena è solo soggettivamente prevalente. L’ordinamento, in sostanza, prende atto dei limiti di
esigibilità della pretesa normativa, ovvero, l’ordinamento nel punto in cui prende atto della non esigibilità
del comando si limita a giudicare quelle azioni come scusabili. Il termine scusabili è adoperato come
sinonimo di cause di esclusioni della colpevolezza; in realtà, non pone affatto un problema di esclusione di
colpevolezza poiché la rilevanza delle esimenti in questione precede, e non segue, l’accertamento
dell’imputabilità e non può costituire la base per l’accertamento di una pericolosità sociale dell’autore. La
logica delle scusanti non ne permette l’estensione in via analogica; ma, a differenza delle cause di
giustificazione, queste ipotesi sono caratterizzate dalla possibilità che l’azione ancorché punibile, venga
legittimamente contrastata; in determinati casi e con determinati limiti, si da luogo a responsabilità civile.
I limiti istituzionali della punibilità.
Esimenti riconosciute dalla dottrina nelle ipotesi di cui all’art. 627, e nella previsione dell’art. 649
costituiscono limiti istituzionali della punibilità poiché l’ordinamento penale guarda al nucleo eticopatrimoniale della famiglia come ad un limite della sua applicabilità. Le esimenti di questo tipo sono
caratterizzate da una efficacia che è limitata esclusivamente all’applicabilità delle sanzioni penali e lascia
inalterate le altre conseguenze giuridiche del fatto: sia nell’ambito del diritto penale, sia in altri settori
dell’ordinamento. L’azione può essere legittimamente impedita; le relative previsioni normative non
possono essere interpretate in via analogica; possono costituire idoneo presupposto per un reato
accessorio ( es. recitazione); sono subordinate alle altre esimenti nell’ordine della rilevanza giuridica e la
loro applicazione non esclude la responsabilità civile dell’autore.
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Aspetti problematici di alcune ipotesi della non punibilità.
La dottrina ritiene che possa farsi ricorso al procedimento analogico per individuare altre cause di
giustificazione non contemplate espressamente dalla legge. sono state individuate le seguenti ipotesi:

Informazioni commerciali : allorché tali informazioni vengano fornite dietro richiesta a più persone e
per il contenuto siano offensive dell’altrui reputazione (esempio: il signor X suole non far fronte ai
suoi impegni), formalmente ricorrerebbero gli estremi del reato di diffamazione (art. 595): il fatto,
tuttavia, non è punibile in base all’art. 51, trattandosi di facoltà riconosciuta da una norma
consuetudinaria o implicita nella tutela dell’attività commerciale ex art. 41 Cost.;

Trattamento medico-chirurgico : per la liceità dell’attività medico-chirurgica diretta a circoscrivere
o guarire gli effetti di una malattia o ad eliminare o ridurre una deformità si ritiene necessario il
consenso del paziente (o consenso presunto nel caso dell’infortunato operato urgentemente in stato
di incoscienza). il fondamento di tale scriminante è da ricercare nel fatto che l’attività medicochirurgica risponde ad un interesse sociale;

Attività sportiva: il danno prodottosi fortuitamente nel corso di un’attività sportiva violenta, pur nel
pieno rispetto delle regole del gioco, non può dirsi scaturente da atto illecito. Il fondamento di tale
scriminante non risiede nella consuetudine e neppure nel consenso dell’offeso (perché vi osta l’art. 5
c.c.), ma, secondo Bettiol, allorché si abbia a soddisfare un dato interesse che si ritiene proprio di
tutta la collettività (come il potenziamento fisico della gioventù attraverso lo sport), occorre anche
assumere il rischio della lesione di un interesse individuale relativo alla integrità fisica.
Errore ed eccesso nella disciplina normativa delle circostanze di esclusione della pena.
La regola della rilevanza oggettiva delle circostanze di esclusione della pena ( art. 59, I comma c.p.) e il
problema delle elemento soggettivo delle esimenti.
L’errore sulle scriminanti è disciplinato specificamente dall’art. 59 c.p., il quale, conformemente alla
disciplina dettata per l’errore sul fatto, stabilisce che: “se l’agente ritiene per errore che esistano circostanze
di esclusione della pena, queste sono sempre valutate a favore di lui”. Questa disposizione, dunque,
assoggetta le circostanze di esclusione della pena alla regola della rilevanza oggettiva. Ciò significa che la
punibilità del fatto rimane esclusa, in presenza di elementi oggettivi della situazione esimente, anche se
l’agente non se li rappresenti affatto o sia convinto della loro inesistenza.
A seguito della l. 7 febbraio 1990, n. 19 che ha soppresso la clausola “ salvo che la legge disponga altrimenti”
è divenuto più difficile la soluzione dei casi in cui, nella struttura delle esimenti, figuri un elemento di
carattere soggettivo. Si pensi al “fine di adempiere ad un dovere del proprio ufficio” , caso in cui la legge
sembra voler attribuire rilevanza, nel delineare la fattispecie, non solo ai dati oggettivi, ma altresì ai dati di
carattere soggettivo. L’opinione dominante propende per l’irrilevanza dell’atteggiamento psicologico
dell’agente facendo leva sul tenore letterale dell’art. 59 I comma. Il pubblico ufficiale che fa uso legittimo
delle armi, non dovrebbe ritenersi giustificato per aver agito al fine di adempiere un dovere, ma perché, in
presenza della situazione obiettiva descritta dalla norma l’uso delle armi è conforme agli scopi
dell’ordinamento e quindi obiettivamente lecito. La dottrina tedesca, invece, afferma che una condotta può
risultare giustificata quando il disvalore dell’evento e quello di azione del fatto tipico risultino neutralizzati
dagli elementi della fattispecie giustificante. La rilevanza degli elementi soggettivi delle cause di
giustificazione è del tutto evidente nei casi in cui l’essenza stessa della causa di non punibilità risiede nello
scopo dell’azione ma è altrettanto innegabile, quando la struttura dell’ipotesi normativa di non punibilità
include il riferimento a un dato psicologico-motivazionale che si rivela essenziale per il configurarsi della
esimente. Tuttavia, se si tratta di errore determinato da colpa, la punibilità non è esclusa, quando il fatto è
preveduto dalla legge come delitto colposo».
La disciplina delle esimenti putative. Rinvio.
Per l’operatività della scriminante putativa è necessario che l’agente supponga di trovarsi in una situazione
di fatto tale che, ove sussistesse realmente, egli eserciterebbe un diritto, adempirebbe un dovere giuridico,
si troverebbe in uno stato di necessità o di legittima difesa.
Qualora, invece, il soggetto agente ritenga erroneamente esistente una scriminante, in realtà non prevista
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dalla legge, il suo è un errore sul precetto, e come tale penalmente irrilevante.
Esempio: andrà assolto, perché il fatto non costituisce reato, colui che uccida una persona credendo di
essere assalito da un malvivente, qualora il suo errore non sia colposo e qualora nella sua condotta non si
ravvisi un eccesso di legittima difesa (nel qual caso risponderà per omicidio colposo ex artt. 59, comma 3, e
55 c.p.). Ad es. un gioielliere spara verso un rapinatore che impugna una pistola e che minaccia di ucciderlo:
in realtà trattatasi di un amico che, a volto coperto e con una pistola finta, stava per scherzo simulando una
rapina. Se però, pur sussistendo tutti i presupposti per il ricorrere di una causa di giustificazione, l’agente
colposamente ne travalichi i limiti (eccesso colposo) «si applicano le disposizioni concernenti i delitti colposi,
se il fatto è preveduto dalla legge come delitto colposo» (art. 55 c.p.).
L’eccesso colposo.
Si parla di eccesso colposo quando le regole e condizioni previste dalla legge perché sussista la scriminante
non vengono rispettate dal soggetto agente. In altri termini, in tale ipotesi esistono i presupposti di fatto
della causa di giustificazione
ma il soggetto ne travalica i limiti (es. nella legittima difesa si supera il limite della proporzione nella
reazione: ad un rapinatore che minaccia a mani nude, si spara con una pistola). In tal caso si risponderà del
fatto commesso a titolo di colpa se esso è previsto come reato colposo (es. omicidio colposo). L’eccesso
colposo, in quanto si risolve in una abuso del diritto determinato da errore, può essere solo colposo, non
essendo concepibile un errore doloso. Per una parte della dottrina e della giurisprudenza il reato commesso
per eccesso colposo nelle cause di giustificazione è un reato doloso perché l’evento più grave può
essere dall’agente previsto e voluto, tuttavia esso è trattato come colposo soltanto quoad poenam. Sarebbe
in altri termini una ipotesi di colpa impropria.
Secondo altra autorevole dottrina (Mantovani), invece, il reato è colposo a tutti gli effetti. Ed infatti la colpa,
essendo non volontà del fatto tipico, può sussistere sia quando l’evento non è voluto sia quando è voluto,
ma l’agente non si è rappresentato una altro elemento positivo o negativo del fatto.
Ne consegue che la distinzione tra colpa propria e colpa impropria è meramente descrittiva.
Cause di giustificazione e reati colposi.
Le cause di giustificazione sono applicabili anche ai reati colposi. Non solo gli att. 50-54 c.p., infatti, non
distinguono tra fatto doloso e fatto colposo; ma non vi è alcun dubbio che, anche in relazione a questi
ultimi, l’antigiuridicità possa risultare esclusa per il ricorrere dei presupposti di una causa di giustificazione.
Se, infatti, la presenza dei presupposti di una causa di giustificazione ha l’effetto di rendere non punibile la
condotta dolosa, gli stessi effetti giuridici dovranno conseguire, nell’ipotesi in cui, quella lesione di beni si
verifichi come conseguenza di una condotta colposa. Esempio: si supponga che Tizio estragga un revolver
che ha in tasca, e che dall’arma, maldestramente impugnata, parta un colpo che ferisce o uccide Caio. La
legittima difesa, che, nelle circostanze ipotizzate, avrebbe sicuramente giustificato anche l’esplosione
volontaria e mirata di un colpo d’arma da fuoco da parte dell’aggredito, ne giustifica a pari titolo la
condotta colposa. Non solo i casi di colpa incosciente possono venire in considerazione sotto il profilo della
giustificazione dell’azione, ma anche quelli di colpa cosciente, o con previsione. In pratica, un problema di
giustificazione sorge ogni volta un comportamento si colloca oggettivamente e soggettivamente, a un
livello inferiore a quello della diligenza doverosa, a cagione di una situazione di necessità che condiziona la
condotta. Si pensi, a chi si pone alla guida di un’auto che sia dotata di freni difettosi o la conduca ad
eccessiva velocità, per trasportare d’urgenza in ospedale un ferito grave, nonostante ciò comporti un
rischio per l’incolumità di altri utenti della strada. L’applicabilità dell’esimente richiede in ogni caso
l’esistenza di una proporzione fra i rischi indotti dalla condotta necessitata e il pericolo che incombe sul
bene che la condotta colposa mira a salvaguardare. Nelle ipotesi appena esemplificate, dunque, una
condotta di guida del tutto sconsiderata darebbero luogo senz’altro a una responsabilità colposa, in caso di
incidenti. Le ipotesi di fatto colposo giustificato non vanno confuse con i casi di eccesso colposo nelle cause
di giustificazione. L’eccesso colposo presuppone un’azione intenzionalmente diretta a una lesione di beni,
che nei risultati appare sproporzionata rispetto alle necessità di tutela. Controversa in giurisprudenza è la
configurabilità del consenso ex art. 50, quale causa di giustificazione di una condotta colposa. Si è obiettato,
che la struttura del consenso richiederebbe una convergenza della volontà dell’agente con quella del
soggetto passivo, in rapporto alla lesione di un bene del secondo: di qui la impossibilità di attribuire una
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efficacia esimente al consenso, relativamente a condotte da cui esula una volontà di lesione. Si dimentica,
però, che l’art. 50 configura il consenso dell’avente diritto, non solo in rapporto alla lesione di un bene ma
anche con riguardo alla messa in pericolo dello stesso. Ora, chi liberamente acconsente ad una esposizione
a rischio, che violi la diligenza oggettiva, è d’accordo, necessariamente, anche con il verificarsi della
lesione, che eventualmente consegua alla condotta imprudente posta in essere con il suo consenso. Anche
il consenso presunto può assumere un ruolo per la giustificazione di una condotta che violi la diligenza
oggettiva. Presunto è, ad esempio, il consenso del paziente in tutti i casi di intervento con mezzi di fortuna,
giudicato dal medico come unica chance di salvezza dell’accidentato.
Cause di non punibilità in senso stretto e cause generali di estinzione del reato.
Le cause di estinzione del reato sono definite cause di non punibilità in senso stretto per distinguerle dalle
cause di giustificazione e dalle altre esimenti.
Le cause di non punibilità previste dal codice penale sono:





artt. 308 e 309 (non punibilità di chi partecipi ai delitti di associazione e cospirazione politica e di
banda armata)
art. 376 (ritrattazione della falsa testimonianza)
art. 387 (non punibilità del custode che procuri la cattura dell’evaso, a lui imputabile per colpa)
art. 463 (non punibilità del concorso in falsificazione di carte di pubblico credito e valori di bollo,
per chi riesce a impedire la contraffazione, l’alterazione, la fabbricazione o la circolazione dei valori
stessi)
art. 641 ( non punibilità dell’insolvenza fraudolenta a seguito dell’adempimento dell’obbligazione).
Queste previsioni normative sono tutte contrassegnate dal fatto che la circostanza rilevante per la non
punibilità è costituita da un comportamento del reo, successivo alla consumazione del reato; e
l’accostamento alle cause di estinzione del reato si giustifica proprio in quanto presuppongono l’avvenuto
realizzarsi di un reato perfetto, sotto il profilo della tipicità, dell’antigiuridicità e della colpevolezza. La
rilevanza delle cause di estinzione del reato è subordinata rispetto alla eventuale rilevanza di una esimente.
Inoltre le cause di non punibilità in senso stretto sono contrassegnate dalla inestensibilità ai concorrenti,
dal divieto di applicazione analogica, dal permanere delle conseguenze civili, disciplinari e amministrative
del fatto illecito, dalla idoneità a fungere dal presupposto per un reato accessorio; è infine esclusa ogni
rilevanza all’erronea supposizione della loro esistenza da parte dell’agente.
SEZIONE QUARTA: LA COLPEVOLEZZA
CAPITOLO I : FUNZIONI E LIMITI DEL CONCETTO DI COLPEVOLEZZA
Nozione di colpevolezza.
La colpevolezza è un concetto giuridico del diritto penale che racchiude il complesso degli elementi
soggettivi sui quali si fonda la responsabilità penale. Secondo l'impostazione tradizionale la responsabilità
del singolo autore dipende dalla possibilità di muovergli a livello personale un rimprovero per la
commissione di un fatto illecito,per questo si dice che la colpevolezza è RIMPROVERABILITA'. Ad evitare
confusioni tra rimprovero giuridico e morale dal punto di vista del diritto penale ciò che interessa ai fini del
giudizio di colpevolezza è il fatto che l'autore si è deciso per l'illecito pur essendo in condizioni di agire in
modo conforme alle pretese dell'ordinamento. Ciò ci lascia intuire che i problemi della colpevolezza non
riguardano il dover essere dell'autore ma la possibilità di orientamento di un autore nella scelta tra diritto e
illecito. Da un punto di vista Formale la definizione di colpevolezza è incontroversa nella misura in cui la si
intenda come l'insieme dei requisiti di ordine soggettivo in base ai quali è dato affermare la responsabilità
di un autore in relazione alla commissione di un fatto tipico e antigiuridico. Meno agevole risulta la
definizione di colpevolezza A Priori quando si passa dal piano formale a quello dei contenuti del giudizio di
colpevolezza perché dipendono dai referenti in base ai quali si stabiliscono le premesse per un rimprovero
personale in termini di colpevolezza. Oggetto, contenuto e limiti del giudizio di colpevolezza risultano
condizionati dagli scopi che si assegnano al diritto penale in un ordinamento giuridico dato e risultato
quindi influenzati dai connotati ideologici e culturali che lo contrassegnano. Ma la colpevolezza individuale
dell'autore è un presupposto indispensabile per l'applicazione della pena.
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IRRINUNCIABILITA’ DEL PRINCIPIO DI COLPEVOLEZZA
Alla base della colpevolezza c'è la convinzione che l'uomo sia in grado di regola di signoreggiare i propri
istinti cosi da reagire agli stimoli esterni non in modo meccanico ma utilizzando l'intelletto per scegliere le
diverse possibilità di condotta. La sua irrinunciabilità emerge dalla constatazione dei progressi di cui il
diritto contemporaneo gli è debitore. Solo con l'ausilio dell'idea di colpevolezza è possibile impostare
correttamente il problema dei rapporti fra dolo e imputabilità, e quello concerne la responsabilità per i fatti
commessi in stato di ebbrezza alcolica o sostanza stupefacenti, ed appare insostituibile quale criterio di
graduazione della misura della pena, quindi è tutt'altro che una vuota formula anzi è ricco di implicazioni
pratiche di grande importanza. La capacità di colpevolezza va stabilita in base a un criterio che è stato
definito empirico-normativo, sulla capacità individuale da un punto di vista psichico di autodeterminarsi
che è empiricamente verificabile si fonda il postulato normativo della sua possibilità di comportarsi
secondo le pretese dell'ordinamento. Ciò non ha nulla a che vedere con l'antica disputa sulla libertà del
volere perchè non equivale all'affermazione che l'uomo è libero ma vuol dire che quando le sue capacità di
autodeterminazione dal punto di vista psichico sono intatte egli dev'essere trattato come se fosse libero la
capacità di colpevolezza non è altro che la capacità dell'individuo di dominare e indirizzare i propri impulsi
psichici e la conseguente capacità di essere motivato dalle pretese normative di una situazione. Cosi un
concetto di colpevolezza conformato in tal modo esclude confusioni fra giudizio morale e giuridico. (Il
valore morale gioca un ruolo quando per l'interpretazione della norma sia necessario farvi riferimento).
Il rimprovero di colpevolezza non implica anche un rimprovero morale per il diritto penale è sufficiente
dedurre dalla colpevolezza dell'autore che egli dovrà rispondere per il fatto commesso secondo la misura
della colpevolezza. In termini di prevenzione generale si può concepire come una sorta di appello rivolto
alla volontà del singolo perchè non si orienti verso la realizzazione di fatti vietati dall'ordinamento ma un
tale appello è concepibile sulle capacità di autodeterminazione del potenziale autore e non potrebbe
neppure configurarsi qualora la legge punisce qualsiasi causazione di evento anche indipendentemente
dalla colpevolezza dell'agente cioè dalla sua capacità di indirizzare e controllare i propri impulsi psichici.
D'altra parte non è provato che la minaccia di una pena anche in assenza di colpevolezza abbia una
maggiore efficacia deterrente ma se ciò può apparire plausibile sembra ragionevole ritenere che solo una
pena dipende dalla colpevolezza dell'autore per il fatto di essere considerata giusta dalla generalità dei
destinatari meglio si presenti a svolgere una funzione di orientamento dei consociati (prevenzione
generale) e di risocializzazione (prevenzione speciale). Nel quadro di un sistema penale orientato dagli scopi
della prevenzione la penalizzazione di una responsabilità senza colpevolezza o dell'errore inevitabile sul
divieto non verrebbero accettate nella situazione culturale oggi acquisita. La dottrina contemporanea
riconosce alla colpevolezza di costituire un limite alla ammissibilità di sanzioni orientate secondo criteri di
prevenzione. Invece inerente al ruolo di limite garantistico rispetto alla prevenzione,è meglio assolto
dall'idea di colpevolezza quanto sia concepita come colpevolezza per il fatto la cui misura sia strettamente
collegata al singolo fatto di reato in relazione al quale l'entità della colpevolezza dev'essere stabilita. Il
rimprovero di colpevolezza si rivolge contro l'agente in quanto autore di un determinato fatto tipico e
antigiuridico non vi è spazio per una colpevolezza d'autore che tenga cioè conto della personalità criminale
del reo desunta dal suo carattere o dalla sua condotta di vita globalmente considerata.
CAPITOLO II: IL PRINCIPIO DI COLPEVOLEZZA NELLA PROSPETTIVA COSTITUZIONALE
L'art.27,1°co.Cost. IL VALORE DEL PRINCIPIO DI PERSONALITA' DELLA RESPONSABILITA' PENALE.
Il concetto di colpevolezza, pur non essendo esplicitato nel ordinamento giuridico italiano (il codice penale,
infatti, non utilizza questo termine), ne rappresenta un imprescindibile fondamento giacché ha per
funzione la delimitazione dell'area del penalmente illecito e costituisce il presupposto per l'applicabilità
della pena. Il ruolo centrale della colpevolezza nel sistema penale italiano è peraltro confermato dall'art. 27
della Costituzione, che sancisce il principio della personalità della responsabilità penale.
Art.27.1: "La responsabilità penale è personale."
Tale principio va infatti inteso, come ha stabilito la Corte Costituzionale, oltre che come divieto di
responsabilità per fatto altrui, anche come responsabilità per fatto proprio colpevole. La stessa funzione
rieducativa della pena, sancita dall'art. 27 3° comma della Costituzione, presuppone l'operatività del
principio della colpevolezza, giacché la pretesa rieducativa della pena non avrebbe più alcun senso laddove
si assoggettasse a pena un individuo al quale nessun rimprovero, neanche a titolo di colpa, possa essere
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mosso. Si può dunque sostenere che colpevolezza implica rimproverabilità dell'agente per contrarietà o
riprovevole indifferenza mostrata verso l'ordinamento giuridico.
Art.27.3: "Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla
rieducazione del condannato."
La Costituzione repubblicana, inoltre, fissa un preciso limite alla nozione di colpevolezza con il principio di
presunzione d'innocenza:
Art.27.2: "L'imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva."
La Repubblica, infine, non ammette la pena capitale, ritenendola in contrasto sia con il principio
rieducativo alla base della pena sia con i diritti umani, essi stessi oggetto di tutela costituzionale. Recita,
infatti, l'articolo 27 comma 4: Art.27.4: "Non è ammessa la pena di morte."
SENTENZA 364/88
Con la sentenza 364/88 la Corte Costituzionale ha identificato il precetto dell'art.27,1°co ,Cost. con il
principio di colpevolezza ed ha affermato al riguardo: "la colpevolezza costituzionalmente richiesta non
costituisce elemento da poter essere per discrezione del legislatore,condizionato,scambiato,sostituito con
altri o paradossalmente eliminato. Ma nella stessa sentenza e per la prima volta la Corte Cost. ha collegato
in modo significativo il 1 co dell'art.27 con il 3 co,della stessa disposizione ove si stabilisce che le pene devo
tendere alla rieducazione del condannato.
Il primo necessario presupposto per la formulazione del rimprovero dev'essere dato dalla tipicità del fatto
non solo sotto il profilo oggettivo ma anche sotto il profilo degli elementi subiettivi di esso identifichi con il
dolo o colpa.
Debbono considerarsi come requisiti costituzionali della responsabilità penale:

L'attribuibilità psichica del fatto al suo autore,nella forma del dolo e della colpa per quanto
concerne gli elementi più significati della fattispecie

l'esistenza degli ulteriori presupposti in base ai quali il fatto doloso o colposo è rimproverabile
all'autore medesimo.
La costituzionalizzazione del principio di colpevolezza implica il ripudio di tutte le ipotesi della c.d.
responsabilità oggettiva,dall'altro l'esigenza del riconoscimento nel singolo autore della possibilità di
orientare le proprie scelte secondo le pretese dell'ordinamento come ulteriore inderogabile presupposto
del rimprovero di colpevolezza, a questo secondo elemento del giudizio di colpevolezza si lega il dispositivo
della sentenza 364/88 recate la dichiarazione di incostituzionalità dell’art.5 c.p. nella parte in cui non
esclude dall’inescusabilità dell’ignoranza della legge penale l’ignoranza evitabile. La Corte Cost. precisa che
è proprio la possibilità di conoscenza della legge penale a fondare la sicurezza giuridica delle consentite
libere scelte d’azione.
PRINCIPIO DI COLPEVOLEZZA E RESPONSABILITA’ OGGETTIVA
La conseguenza minima del carattere personale della responsabilità penale cosi come definita dalla Corte
Cost. sembra essere l’illegittimità cost. delle disposizioni che si configurano come ipotesi di responsabilità
oggettiva, basate sul mero rapporto di causalità materiale fra condotta ed evento anche in assenza di un
elemento psichico,rilevante per la colpevolezza (dolo colpa preterintenzionale), a livello della legge
ordinaria la categoria della responsabilità oggettiva risulta legittimata dall’art.42 c.p. questa norma oltre a
menzionare la responsabilità oggettiva nella rubrica ne enuncia l’essenza la dove dopo aver definito la
struttura del fatto doloso colposo,preterintenzionale stabilisce: “la legge determina i casi nei quali l’evento
è posto altrimenti a carico dell’agente come conseguenza delle sue azioni od omissione”.
I punti da esaminare sono tanti ma ciò che interessa stabilire è l’illegittimità della responsabilità oggettiva:
la Corte Cost. distingue fra i casi in cui il <il risultato ultimo vietato dal legislatore non è sorretto da alcun
coefficiente psichico> , e quello in cui <un solo magari accidentale elemento del fatto a differenza di altri
elementi non è coperto dal dolo o colpa dell’agente>. La corte esclude esplicitamente che il 1°comma
dell’art.27 Cost. contenga un tassativo divieto di responsabilità oggettiva e la Corte Cost. non ha neanche
dichiarato l’illegittimità cost. dell’art.42 c.p. nella parte in cui annovera la responsabilità oggettiva fra i
criteri d’imputazione del fatto.
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Successivamente la Corte chiamata a decidere della costituzionalità dell’art.626 c.p. ha dichiarato
costituzionalmente illegittima la norma in esame nella parte in cui estende la disciplina del furto d’uso alle
ipotesi di mancata restituzione dopo l’uso momentaneo della cosa sottratta quando la mancata
restituzione sia dovuta a caso fortuito o a forza maggiore. La restituzione della cosa costituisce elemento
essenziale e significativo della fattispecie di furto d’uso ma altrettanto significativo è la mancata
restituzione. Il dato obiettivo della mancata restituzione necessita per essere addebitato all’agente
investita dal dolo o dalla colpa, l’elemento psicologico del furto d’uso dev’essere ravvisabile in relazione a
ciascuno dei 2 momenti della condotta idoneo per generare il rimprovero. Quindi la mancata restituzione
se dovuta a caso fortuito o forza maggiore non è addebitabile al soggetto agente.
IL PROBLEMA DEL DELITTO PRETERINTENZIONALE
L’art.42, 2°comma c.p. elenca fra i criteri dell’imputazione soggettiva anche la preterintenzione mentre il
successivo art.43 stabilisce che il delitto è preterintenzionale quando “all’azione od omissione deriva un
evento più grave di quello voluto dall’agente”. Ciò interferisce con la problematica della responsabilità
oggettiva in quanto una parte della dottrina ravvisa nella preterintenzione un ipotesi di dolo misto e
responsabilità oggettiva nel senso che su una condotta dolosa per definizione (quella diretta a cagionare
l’evento meno grave) si innesterebbe una responsabilità per l’evento più grave fondata sul mero rapporto
di causalità fra condotta ed evento. Il contrasto della figura del delitto preterintenzionale con il principio di
colpevolezza sotto il profilo della riferibilità psicologica del fatto all’autore almeno a titolo di colpa viene
escluso da parte della dottrina che sia pure con impostazione parzialmente diverse ravvisa nel criterio di
imputazione del fatto preterintenzionale l’implicito riferimento a un elemento di colpa nella condotta
dell’agente tale da sottrarre il dispositivo dell’art.42 c.p. ad ogni censura di incostituzionalità in rapporto
con l’art.27, 1co. Cost. E’ stato notato che il delitto preterintenzionale rivela analogie strutturali con la
condotta colposa e ciò che viene incriminato è un’azione realizzata volontariamente da cui deriva un
risultato diverso da quello propostosi dall’agente e cmq da lui non voluto. Quando si consideri che
assegnare il delitto preterintenzionale all’ambito della responsabilità oggettiva che a quello del fatto
colposo significa escludere ogni rilevanza al dato della prevedibilità dell’evento più grave, il ricorso
all’interpretazione sistematica permette subito di accorgersi che è più severo trattamento dell’omicidio
preterintenzionale rispetto all’ipotesi generale dell’art.83. In realtà il fatto di cagionare un evento
antigiuridico non voluto più grave di quello (egualmente antigiuridico) voluto dall’agente non è altro che lo
schema atto a delimitare la tipicità del delitto preterintenzionale ma non per questo deve ritenersi eversivo
dei criteri generali dell’imputazione soggettiva.Quando si considera il delitto preterintenzionale sotto il
profilo dell’imputazione oggettiva non può non trovare un limite nel caso fortuito in quanto ipotesi
caratteristica di irrilevanza del rapporto causale, dal punto di vista dell’imputazione soggettiva in tutti i casi
di preterintenzione in cui non dovrà escludersi lo stesso rapporto di causalità risulta riconoscibile un
elemento di prevedibilità dell’evento più grave di per sé sufficiente a fondare un rimprovero in termini di
colpa. Ma riconducendo il delitto preterintenzionale nell’alveo della responsabilità per colpa la figura del
delitto preterintenzionale si rivela estranea alla tematica della responsabilità oggettiva.
LA RESPONSABILITA’ PER I REATI COMMESSI A MEZZO DELLA STAMPA.
L’art. 57 c.p nel testo originario stabiliva che nell’ipotesi di reati commessi a mezzo della stampa periodica il
direttore o redattore responsabile della pubblicazione periodica rispondesse per ciò solo del fatto, per la
stampa non periodica lo stesso art. stabiliva una sorta di responsabilità sussidiaria dell’editore per il caso in
cui fosse ignoto o non imputabile l’autore della pubblicazione e dello stampatore nel caso in cui fosse
ignoto o non imputabile anche l’editore. Con una della prime sentenza della Corte Cost. rigetto le censure
di incostituzionalità avanzata contro l’art.57c.p. in base al rilievo che il direttore del periodico risponde per
fatto proprio per lo meno perché tra la sua omissione e l’evento c’è un nesso di causalità materiale,al quale
si accompagna un nesso psichico sufficiente a conferire alla responsabilità il connotato della personalità. In
base alla nuova disciplina dell’art 57 c.p e successivo art.57 bis ferma restando la responsabilità dell’autore
della pubblicazione e fuori dei casi di concorso nel reato, il direttore o vice-direttore responsabile nel caso
di stampa periodica “il quale omette di esercitare sul contenuto del periodico da lui diretto il controllo
necessario ad impedire che col mezzo della pubblicazione siano commessi reati,è punito a titolo di colpa,se
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un reato è commesso,con la pena stabilita per tale reato,diminuita in misura non eccedente un terzo”. Nel
caso di stampa non periodica le stesse regole si applicano all’editore, se l’autore della pubblicazione è
ignoto o non imputabile, ovvero allo stampatore se l’editore non è indicato o non è imputabile. La
normativa vigente ha ricevuto 3 diverse interpretazioni:

Secondo un primo punto di vista anche l’attuale art 57 c.p. configurerebbe un ipotesi di
responsabilità obiettiva cioè una sorta di presunzione di colpa ,ma la tesi non appare sostenibile
per l’illegittimità del nuovo art.57 per violazione del principio di colpevolezza.

Una seconda tesi interpretativa pur rispettosa del principio di colpevolezza appare discutibile da un
punto di vista tecnico-giuridico nella misura in cui riduce il fatto del direttore,editore ecc.. nello
schema del concorso di persone nel reato. Da un lato infatti l’art 57 esclude dall’oggetto della
speciale disciplina in esso contenuta i casi di concorso nel reato,dall’altro l’ipotesi stessa del
concorso colposo in un fatto doloso altrui è controversa nella sua ammissibilità.

E’ da condividere l’opinione attualmente dominante in dottrina secondo la quale l’omesso controllo
della pubblicazione fuori dei casi di concorso doloso con l’autore configuri una autonoma
fattispecie di reato e precisamente una fattispecie di reato colposo commissivo mediante
omissione la cui illiceità è imperniata sulla posizione di garante che ai soggetti considerati compete
in rapporto ai fatti illeciti che possono essere commessi con il mezzo della pubblicazione.
CONDIZIONI OGGETTIVE DI PUNIBILITA’ E PRINCIPIO DI COLPEVOLEZZA
L’art.44 c.p. <sotto la rubrica obiettiva di punibilità> stabilisce: “quando per la punibilità del reato, la legge
richiede il verificarsi di una condizione,il colpevole risponde del reato ,anche se l’evento da cui dipende il
verificarsi della condizione non è da lui voluto”. Come fondamento di questa disposizione fonte di
inesauribili controversie in dottrina si adduce al legislatore di subordinare in base a motivazioni di ordine
polico-criminale la punibilità di condotte in cui è presente un disvalore giurdico-penale già apprezzato come
tale nell’ordinamento al verificarsi di determinate circostanze di fatto dal cui instaurarsi dipende il
concreto interesse statuale alla punizione del reo. Nella dottrina tedesca nella presenza di una condizione
di punibilità ravvisa una ipotesi di non coincidenza fra la dimensione della c.d. meritevolezza di pena e
quella del bisogno di pena nel senso che alla previsione di condizione corrisponderebbe un fatto di per sé ,è
meritevole di pena ,ma per la cui punibilità occorre tuttavia che si aggiunga un quid rappresentato appunto
dall’evento di condizionante per fondare anche la necessità della pena. Ma essendo problematico
individuare in una fattispecie ciò che è essenziale per la meritevolezza da ciò che fonda, invece il bisogno di
pena,non resterebbe che rifarsi dal punto di vista del legislatore desunto dagli indici testuali e linguistici che
segnalano la previsione di una condizione di punibilità che la ricaverebbe induttivamente dalle stesse
figure legali delle condizioni finendo di tornare al punto di partenza vale a dire opzioni politico-criminali del
legislatore. Nell’ordinamento italiano è costituito da una previsione normativa con cui il legislatore si
riserva in via generale di subordinare la punibilità di un fatto al verificarsi di un evento che per
determinazione di legge è svincolato dalla volontà del soggetto. Il vero problema è quello di stabilire se la
figura delle condizioni di punibilità sia compatibile con il principio costituzionale di colpevolezza. Questa
norma si limita a fissare il regime d’imputazione quando per la punibilità è richiesto l’avverarsi di una
condizione,ciò che conta è il suo oggettivo sopravvivere,senza che vi sia bisogno di ricollegarla alla volontà
dell’agente. Altri riscontri testuali sembrano indicare che si possa parlare di condizioni di punibilità nel
senso dell’art. 44 in quanto il fatto per la cui punibilità è richiesto dalla legge il verificarsi di una condizione
presenti per intero i caratteri di un fatto tipico,antigiuridico e colpevole: l’art. 44 non solo qualifica il
soggetto agente come colpevole,ma definisce l’efficacia della condizione come relativa a un reato. Quindi
sembra che l’art.44 collochi la condizione di punibilità in uno spazio esterno alla struttura dell’illecito
penale con l’esclusiva funzione di rendere punibile un reato già completo in tutti i suoi elementi costitutivi
compresa la colpevolezza dell’autore. Se cosi fosse la questione dei rapporti fra condizioni di punibilità e
principio di colpevolezza sarebbe risolta in partenza,giacché un problema di colpevolezza non si pone,se
non con riguardo agli elementi che appartengono alla struttura illecito penale. Ma la distinzione più
aggredita è quella fra condizioni estrinseche ed intrinseche di punibilità. Le estrinseche: non presentano
alcun nesso funzionale con l’offesa del bene protetto in quanto non aggiunge nulla alla sua lesione
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riflettendo mere valutazioni di opportunità connesse ad un interesse esterno al profilo offensivo del reato,
le intrinseche: registrerebbero una forma di progressione o aggravamento dell’offesa già implicita nella
commissione del reato e dev’esserci una partecipazione psicologica diversamente a quanto avviene in
quelle estrinseche in quando non c’è bisogno della partecipazione psicologica e vengono sottratti dalla
regola della rimproverabilità.
CAPITOLO III: LA COLPEVOLEZZA NELLA STRUTTURA DEL REATO.
Il ruolo della colpevolezza nella costruzione sistematica del reato.
Nell’ordine delle valutazioni giuridico-penali, l’accertamento della tipicità e dell’antigiuridicità del fatto
precede il giudizio sulla colpevolezza dell’autore. La valutazione della conformità della condotta al tipo di
un determinato reato e l’apprezzamento del valore scriminante di una causa di giustificazione o di un’altra
ipotesi di esimente,infatti, non soltanto non implica alcun giudizio sulla colpevolezza personale dell’autore,
ma è obbligatoriamente sottratta all’influenza di elementi di valutazione, che appartengono ad una fase
successiva dell’accertamento giudiziale. Questa gerarchizzazione delle categorie sistematiche del reato è
accolta se l’indagine di intendere e di volere dell’agente interferisca con il giudizio di tipicità o di
antigiuridicità del reato poiché si correrebbe il rischio di applicare una misura di sicurezza a chi ha
commesso un fatto non preveduto dalla legge come reato o lo ha commesso in stato di legittima difesa.
L’antecedenza logico.giuridico dell’accertamento della tipicità e dell’antigiuridicità dipende anche da una
connotazione strutturale di queste categorie dell’illecito penale. I giudizi di valore che esse sottintendono
sono riferibili a qualsiasi autore. Il principio di rilevanza a cui esse si uniformano rimane oggettivo anche
quando fra gli elementi che concorrono a costituirla, figurano dati di carattere soggettivo: ad esempio
condizioni o qualità personali dell’agente. La dottrina contemporanea del reato aggiunge un ulteriore
fondamento alla separazione tra fatto e antigiuridicità, da un lato, colpevolezza dall’altro. Al fatto vanno
assegnate tutte le componenti, sia oggettive che soggettive, dell’illecito penale, nel loro valore descrittivo
del tipo; con il giudizio sull’antigiuridicità, l’insieme degli elementi che compongono il fatto, vengono
apprezzati sotto il punto di vista della loro contrarietà o conformità al diritto obiettivo; l’accertamento della
colpevolezza è invece la risposta alla domanda se l’autore del fatto tipico e antigiuridico può anche essere
ritenuto personalmente responsabile. I parametri ai quali ancorare il giudizio sulla possibilità di agire
vengono generalmente riferiti: imputabilità del soggetto; coscienza del carattere antigiuridico del fatto;
inesistenza di peculiari circostanze, incidenti sui processi motivazionali dell’autore, con l’effetto di annullare
le sue possibilità di scelta.
Elemento psicologico del reato e colpevolezza.
L’esistenza di un nesso psichico tra l’autore e il suo fatto costituisce una premessa essenziale del giudizio di
colpevolezza. Parlare di dolo e della colpa come forme della colpevolezza non significa identificare la
colpevolezza con l’elemento psicologico del reato. Nella concezione normativa della colpevolezza, dolo e
colpa non appartengono al contenuto della colpevolezza ma si configurano come il suo oggetto, in quanto
forme della volontà contraria all’obbligo. Il valore sistematico della concezione normativa della
colpevolezza si può cogliere solo quando lo svuotamento della colpevolezza viene posto in relazione con la
restituzione dell’elemento psicologico del reato alla dimensione della tipicità. All’interno del fatto, dolo e
colpa assumono un ruolo costitutivo della conformità al tipo, in cui si esaurisce senza residui il loro valore
empirico – descrittivo; rispetto alla colpevolezza, dolo e colpa svolgono invece la funzione di delimitare
l’oggetto del rimprovero: questo, infatti, può dirigersi solo nei confronti di chi ha realizzato dolosamente o
colposamente un fatto penalmente illecito. L’accertamento del dolo o della colpa dell’autore costituisce
una condizione imprescindibile della sua rimproverabilità, ma dolo e colpa non costituiscono il criterio del
rimprovero, bensì soltanto un suo necessario presupposto. La sussistenza del dolo deve essere accertata in
sede di fatto tipico; l’eventuale esclusione della responsabilità dell’autore potrà dipendere solo dall’assenza
di altri requisiti della colpevolezza: imputabilità, possibilità di conoscere la norma violate, ecc.
Diversamente stanno le cose per ciò che riguarda i fatti colposi. L’apprezzamento della misura soggettiva
della colpa costituisce un tipico problema di colpevolezza. Non si tratta, infatti, di accertare e descrivere il
carattere oggettivamente imprudente, negligente ecc., di una determinata condotta ,a di stabilire se era
possibile pretendere l’osservanza dell’obbligo di diligenza, da quel determinato autore.
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L’affermazione di una responsabilità colposa richiede una vera e propria doppia valutazione della colpa:
una volta, a livello del fatto tipico; una seconda volta, secondo un parametro di giudizio relativo alla misura
di diligenza che può essere richiesta al singolo autore.
L’imputabilità come presupposto della colpevolezza. Le cause di esclusione dell’imputabilità.
Nozione di imputabilità.
La disposizione dell’art. 85 ha come presupposto un contenuto precettivo, che consiste nell’assumere
l’imputabilità come presupposto della punibilità; e un contenuto definitorio, che mette capo alla
identificazione della imputabilità con la capacità di intendere e di volere dell’autore. La capacità di
intendere corrisponde alla capacità del soggetto di percepire la realtà esterna e di rapportarsi ad essa; la
capacità di volere corrisponde, invece, alla capacità di controllare i propri impulsi e di orientare le proprie
determinazioni di volontà alla stregua del significato e della portata del proprio agire nel mondo esterno.
Per la sussistenza dell’imputabilità si richiede il possesso, da parte dell’agente, di entrambe le capacità
distintamente menzionate dall’art. 85.
Sinteticamente, l’imputabilità può definirsi come la capacità del soggetto di autodeterminarsi secondo
valori di cui sono portatrici le norme giuridiche. La regola dell’ordinamento che assume l’imputabilità come
presupposto della colpevolezza ha dunque un ovvio fondamento teorico nell’idea che la personale
rimproverabilità ha un senso, solo se riferita ad un autore che possedeva la capacità di orientare
diversamente il proprio agire e di essere motivato dalle norme giuridiche.
Ma il significato di questa regola si coglie con precisione quando si fa riferimento alle funzioni della pena. La
minaccia della sanzione penale non svolge un ruolo general-preventivo se non a patto che i destinatari
siano in grado di essere motivati da tale minaccia.
L’imputabilità costituisce il classico punto di biforcazione del sistema penale “ a doppio binario”.
L’affermazione dell’imputabilità costituisce una premessa essenziale per l’affermazione della colpevolezza
e, quindi, per l’applicazione della pena; mentre l’esclusione dell’imputabilità lascia aperta la strada solo
all’eventuale applicazione di misure di sicurezza, quando siano presenti esigenze di tutela dei beni giuridici,
a cagione della pericolosità dell’autore. Negli art. 87 ss. c.p. la nozione legislativa di imputabilità viene
definita, sia attraverso regole che ne precisano il contenuto, sia per mezzo di altre disposizioni che ne
limitano la portata.
Imputabilità e dolo.
Nella nostra dottrina gli art. 222 e 224 c.p., ipotizzano le differenze di trattamento del non imputabile, a
seconda del carattere doloso o colposo del fatto da lui commesso, sembrano presupporre nel non
imputabile la capacità di dolo. La tesi opposta partiva, invece, dall’assunto che una condotta qualificabile
come dolosa o colposa non può che essere espressione di conoscenza e volizione che presupporrebbero
uno stato di maturità e normalità psichica, assenti per definizione nel non imputabile.
Quanto alle condotte colpose, l’apprezzamento della colpa secondo la sua misura soggettiva, poiché non è
altro se non un giudizio sull’esigibilità della condotta rispettosa della diligenza, da quel determinato autore,
in quelle determinate circostanze storiche, non può che condurre direttamente alla esclusione della
colpevolezza, quando manchi l’imputabilità dell’autore e la possibilità di pretendere da lui l’osservanza
della norma. Quanto alle condotte dolose, pur essendo accettata in dottrina l’idea che anche il non
imputabile possa essere capace di dolo, è però persistente l’idea di una differenza ontologica fra il dolo
degli imputabili e quello dei non imputabili. Ne consegue, a titolo esemplificativo, che può esserci fatto
tipico doloso, ma non colpevolezza: un pazzo che volontariamente uccide, commette il fatto tipico
dell’omicidio (art. 575 c.p.), con dolo (avendo voluto l’evento); ma in quanto mancante di capacità di
intendere e volere (imputabilità), non è rimproverabile e quindi manca il requisito della «colpevolezza»
necessario per integrare il reato.
Le singole cause di esclusione dell’imputabilità.
Il vigente codice penale considera come cause di esclusione dell’imputabilità:

Età minore: a norma dell’art. 79 c.p. è esclusa, per presunzione assoluta di legge, la capacità di
responsabilità penale dei minori infraquattordicenni ( sussiste la possibilità di applicare misure di
sicurezza, se ne ricorrono le condizioni). Rispetto ai minori fra i 14 e 18 anni, l’imputabilità deve
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essere accertata caso per caso dal giudice, sulla base dei fattori fisico-psichici e ambientali, che
possono aver condizionato il processo di maturazione psicofisica del soggetto. Al minore
infraquattordicenne può essere riconosciuta l’imputabilità rispetto ad alcuni reati il cui disvalore
etico-sociale sia facilmente percepibile, come l’omicidio o il furto.

Vizio totale di mente: l’art. 88 c.p. stabilisce: “ non è imputabile chi, nel momento in cui ha
commessoli fatto, era, per infermità, in tale stato di mente da escludere la capacità di intendere o
di volere”. Dall’art. 88 c.p. si desume che qualsiasi infermità può assumere rilievo per escludere
l’imputabilità, purchè abbia avuto l’effetto di escludere la capacità di intendere o di volere. Per
converso, anche una conclamata malattia mentale può determinare l’inimputabilità del soggetto,
se non ne ha compromesso in concreto la capacità di intendere o di volere. È stato discusso se il
concetto di infermità rilevante per l’art. 88 debba rifarsi a un modello medico oppure si estenda
anche a disturbi psichici atipici; la dottrina penalistica ritiene superato il modello medicoorganicistico nella definizione di vizio di mente. Coerentemente con la funzione di presupposto che
l’imputabilità è chiamata a svolgere nel giudizio di colpevolezza, si ritiene infatti che la capacità di
intendere e di volere possa essere esclusa, nel caso concreto, anche dalla presenza di disturbi della
personalità, che tuttavia non siano classificabili come malattie mentali alla stregua del paradigma
medico di infermità. Per quanto riguarda gli orientamenti applicativi, un intervento delle Sezioni
Unite ha impresso una decisa svolta in direzione dell’accoglimento di una nozione più aperta di
infermità rilevante ex art. 88: con la citata sentenza si è affermata l’idoneità dei disturbi della
personalità ad integrare un vizio di mente tale da escludere la capacità di intendere e di volere, a
condizione che siano di consistenza, intensità, rilevanza e gravità tali da incidere concretamente
sulla stessa, mentre è stata esclusa la rilevanza delle altre anomalie caratteriali. Infine, hanno
specificato che deve sussistere un nesso eziologico tra disturbo mentale e reato commesso, tale da
poter fare ritenere che lo specifico fatto di reato trovi, in effetti, la sua genesi e sua motivazione nel
disturbo mentale. L’art. 89 c.p. prende in considerazione l’ipotesi in cui la capacità di intendere o di
volere, a causa dell’infermità, sia non esclusa, ma grandemente scemata. In questo caso, la
responsabilità penale sussiste, ma la pena è diminuita, salva la possibilità di assoggettare il
colpevole anche a una misura di sicurezza.

Il sordomutismo: l’art. 96 c.p. indica quale causa di esclusione dell’imputabilità il sordomutismo,
se il sordomuto, nel momento in cui ha commesso il fatto non aveva, per causa della sua infermità,
la capacità di intendere o di volere. Per quanto la legge non operi alcuna distinzione, parte della
dottrina ritiene che l’art. 96 si riferisca non a tutte le categorie di sordomuti, ma solo a quelle
inquadrabili nella patologia del sordomutismo congenito o precoce, che ostacolerebbe lo sviluppo
psichico del soggetto, mentre non potrebbe riferirsi al sordomutismo acquisito dopo la fase
dell’apprendimento socioculturale.

Cronica intossicazione da alcol o da sostanze stupefacenti: l’art. 95 c.p. stabilisce, infatti, che ai
fatti commessi in stato di cronica intossicazione prodotta da alcol ovvero da sostanze stupefacenti
si applicano le disposizioni contenute negli art. 88 e 89. ciò vuol dire che, rispetto a questi casi,
l’imputabilità è esclusa, quando lo stato di degrado psicofisico prodotto dalla intossicazione ha
determinato una condizione, in cui il soggetto non può in alcun modo determinare le proprie
scelte ed è da considerarsi come vero e proprio infermo di mente.

Ubriachezza accidentale: lo stato di ebbrezza alcolica. Che assuma il carattere dell’ubriachezza
piena, e l’equivalente condizione dovuta all’azione di sostanze stupefacenti escludono
l’imputabilità, quando siano derivate da caso fortuito o da forza maggiore; come nel caso
dell’operaio di una distilleria, reso ebbro dai vapori inalati a causa di un accidentale guasto
all’impianto di depurazione. L’ubriachezza non derivante da caso fortuito o da forza maggiore,
invece, non esclude né diminuisce l’imputabilità.
La disciplina dell’ubriachezza nel codice penale vigente e l’actio libera in causa.
Al di fuori dei casi di ubriachezza accidentale, il codice penale vigente non considera l’ubriachezza
rilevante per l’esclusione dell’imputabilità.
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L'ubriachezza può essere definita come una alterazione temporanea e reversibile dei processi cognitivi e
volitivi di un soggetto in seguito alla ingestione di sostanze alcoliche. Il codice penale, in relazione
all'imputabilità, distingue:





L'ubriachezza accidentale o fortuita: è definita in tal modo l'ubriachezza che deriva da caso fortuito
o forza maggiore. Si pensi ad esempio all'individuo che lavora in una distilleria di alcool e che si
ubriachi in seguito a una fuoriuscita accidentale di gas etilico. Se l'ubriachezza è tale da escludere la
capacità di intendere e di volere il soggetto non è punibile; se invece non esclude, ma scema
grandemente la capacità di intendere e di volere la pena viene applicata, ma in misura ridotta.
L'ubriachezza volontaria o colposa
L'ubriachezza preordinata si ha nell'ipotesi in cui un soggetto si ponga volontariamente in stato di
incapacità di intendere o di volere al fine di commettere un reato o al fine di procurarsi una scusa:
in tal caso la imputabilità non è esclusa e la pena è aggravata. Si tratta di una ipotesi specifica di
actio libera in causa;
L'ubriachezza abituale si ha in riferimento ad un soggetto che sia dedito al consumo di sostanze
alcoliche e che sia di frequente in stato di ubriachezza. In tal caso la ubriachezza non esclude
l'ìimputabilità e la pena è aggravata;
La cronica intossicazione da alcool si ha, secondo la giurisprudenza della Suprema Corte, qualora
l'intossicazione sia, per il suo carattere ineliminabile tale da comportare una malattia psichica di
carattere patologico. Si applica in tale caso la medesima disciplina prevista per il vizio di mente in
quanto colui che compie l'azione a causa della cronica intossicazione da alcool o da sostanze
stupefacenti non riacquista in nessun frangente la capacità di intendere e volere contrariamente a
chi è in stato di ubriachezza abituale.
La disciplina dell'ubriachezza è equipollente all'imputabilità derivante dall'assunzione di sostanze
stupefacenti. La locuzione latina actio libera in causa indica il fenomeno che si verifica allorquando taluno si
pone in stato di incoscienza al fine di commettere un reato o di procurarsi una scusante. In tal caso viene
applicata la pena sebbene chi abbia commesso il fatto era in stato di incapacità di intendere e di volere al
momento del compimento della condotta. Nel diritto italiano la teoria è stata accolta nell'art. 87 del codice
penale ai sensi del quale: «la disposizione della prima parte dell'art. 85 non si applica a colui che si è messo
in stato di incapacità di intendere e di volere al fine di commettere il reato o di prepararsi una scusa». In
pratica i requisiti del dolo e della colpa vengono valutati non al momento in cui il soggetto compie l'azione,
ma in un momento precedente, ossia quando il soggetto si pone in stato di incapacità. La ratio della teoria
delle actiones liberae in causa sta allora nel principio causa causae est causa causati: chi determina
volontariamente una situazione dalla quale deriva un evento lesivo, è chiamato a rispondere dell'evento
stesso, a prescindere dalla eventuale volontarietà dell'evento.
Stati emotivi e passionali.
L’art. 90 c.p. stabilisce: “ gli stati emotivi e passionali non escludono né diminuiscono l’imputabilità”.
Il significato della disposizione viene identificato con una sorta di appelli normativo ad esercitare sulle
proprie spinte di carattere emozionale un controllo diretto ad inibire impulsi antisociali. Nella prassi,
l’incidenza della norma è modesta; la dottrina ne auspica l’abrogazione: essa potrebbe infatti costituire un
ostacolo al riconoscimento degli stati transitori di mancanza dell’imputabilità, relative ad ipotesi in cui una
condizione emotiva ( ad esempio, panico) in relazione alla personalità del soggetto e alla sua intensità, può
assumere le caratteristiche e la valenza di una vera e propria infermità, ricadente nell’ambito dell’art. 88
c.p..
Le altre cause di esclusione della colpevolezza
Dal punto di vista del senso comune è indebito rimproverare a taluno l'inosservanza di una regola di
comportamento che il soggetto inosservante non conosceva affatto. Ma negli ordinamenti giuridici
contemporanei c’è un principio secondo il quale nessuno può addurre come scusa per la violazione di una
norma penale l’ignoranza o l’errore di essa. Infatti l’art.5 del c.p. stabilisce che “Nessuno può invocare a
propria scusa l’ignoranza della legge penale” questa regola ha un fondamento politico nell’esigenza di non
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compromettere l’efficacia delle norme penali col subordinarne l’applicazione alla loro conoscenza da parte
dei destinatari. Nella materia contravvenzionale di fronte ai casi di errore inevitabile la giurisprudenza della
Cassazione aveva elaborato il punto di vista c.d. della “buona fede” che permetteva di riconoscere una
rilevanza scusante a determinate situazioni: in particolare quando l’erronea opinione di liceità del fatto
fosse stata indotta nell’agente da un provvedimento o parere dell’autorità amministrativa da una
precedente pronuncia assolutoria,infine dalla persistente tolleranza manifestata dall’autorità competente a
intervenire; ma la c.d. buona fede non implicava nessun caso un problema di elemento psicologico e non si
sarebbe cmq sottrarre dalla regola di inescusabilità posta dall’art.5 c.p. Ma con la sentenza 364/88 il
trattamento dell’errore e dell’ignoranza inevitabile della legge penale,ha ricevuto anche nel nostro
ordinamento un assetto che si può considerare compatibile col principio di colpevolezza.
I limiti del principio di inescusabilita’ dell’ignoranza legis dopo la sentenza cost. N. 364/88
La tipicità (oggettiva e soggettiva)del fatto costituisce il primo presupposto della punibilità ed è distinta
dalla valutazione e rimproverabilità del fatto stesso. L’esigenza costituzionale di riscontrare la possibilità di
conoscenza della norma violata si deduce a giudizio della Corte dal collegamento tra il 1°e il 3° comma
dell’art.27 Cost. vale a dire dal riferimento alle funzioni rieducative della pena. Dal collegamento tra il 1 e 3
comma prosegue infatti la Corte, risulta insieme con la necessaria rimproverabilità della personale
violazione normativa,l’illegittimità costituzionale della punizione di fatti che non risultino essere
espressione di consapevolezza,rimproverabile contrasto con i valori della convivenza,espresse dalle norme
penali. Ma la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art.5 c.p. nella parte in cui
non esclude dall’inescusabilità dell’ignoranza della legge penale l’ignoranza inevitabile precisando in
motivazione con il nuovo testo dell’art. 5 derivante dalla dichiarazione di parziale incostituzionalità deve
intendersi cosi formulato: l’ignoranza della legge penale non scusa tranne che si tratti d’ignoranza
inevitabile. La Corte ha sottolineato che la inevitabilità dell’ignoranza e dell’errore non può farsi discendere
da criteri soggettivi puri cioè fondati su criteri di tipo oggettivo o misto. Per i criteri oggettivi la Corte ha
indicato i casi dell’assoluta oscurità del precetto o di un gravemente caotico atteggiamento interpretativo
degli organi giudiziari che mettono capo ad una sorta di oggettiva mancanza di riconoscibilità del dato
normativo quali ipotesi riconducibili a criteri di tipo misto, la Corte ha indicato i casi in cui l’inevitabilità
dell’errore sia derivato da particolari circostanze positive di fatto,in cui si è formata l’opinione dell’autore.
Ma la Corte ha precisato che il fondamento della scusa per l’inevitabile ignoranza della legge penale vale
soprattutto per chi versa in condizioni soggettive d’infermità.
L’erronea supposizione di una esimente
L’ART.59 ult.comma c.p. stabilisce: “se l’agente ritiene per errore che esistano circostanze di esclusione
della pena queste sono sempre valutate a favore di lui. Ma se si tratta di errore determinato da colpa la
punibilità non è esclusa quando il fatto è preveduto dalla legge come delitto colposo. E’pacifico che l’errore
contemplato dall’art.59 non riguarda i casi in cui l’agente supponga come esistente una circostanza di
esclusione della pena,che in realtà non è affatto prevista dalla legge ovvero attribuisca ad una esimente
effettivamente prevista,limiti di applicabilità diversi o più ampi. In entrambe queste ipotesi l’errore
sull’esimente configura un errore sul divieto che non scusa e non ricade nell’ambito dell’applicazione
dell’art.59. Questa norma in realtà si riferisce alle ipotesi in cui il soggetto suppone l’esistenza di
presupposti di fatto di una esimente si rappresenta cioè: per errore,una situazione di fatto tale che se
effettivamente sussistente renderebbe il fatto da lui commesso inquadrabile in una ipotesi esimente.
ESEMPIO: Caio per salvarsi dal pericolo di un incendio danneggia gravemente l’altrui proprietà ad
esempio,sollevando un infisso mentre esisteva una diversa e agevole via di scampo. In questi casi si parla d
legittima difesa putativa,di consenso putativo,di stato di necessità putativo e cosi via. Ma la rilevanza
dell’errore non è limitata ai casi di errore sulle cause di giustificazione,essa si estende anche alle altre
ipotesi di esimenti il cui ambito è definito dalla regola di rilevanza dell’errore,dovrà ritenersi non punibile ex
art.59 ult.co anche chi abbia commesso un furto ai danni del padre putativo o abbia reso falsa
testimonianza per salvare da un grave pregiudizio colui che ha sempre ritenuto fosse suo fratello,ignorando
che tratta vasi invece di un trovatello accolto fin dall’infanzia nella casa dei propri genitori,in queste ipotesi
dev’essere esclusa la colpevolezza dell’agente. Non può essere condivisa l’opinione secondo cui l’errore
sulle esimenti esclude il dolo dell’agente,fra l’altro questo punto di vista se è coerente con una struttura
bipartita del concetto di reato esclude l’autonoma rilevanza dell’antigiuridicità come suo elemento
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costitutivo risulta a dir poco sorprendente nel quadro di una sistematica del reato a 3 elementi. -Appare in
contraddizione con la preliminare delimitazione dell’oggetto del dolo(che non include la coscienza
dell’antigiuridicità) e con la definizione dei confini del fatto tipico. In realtà chi agisce nell’erronea
supposizione che esistano i presupposti di fatto di una esimente,prevede e vuole gli elementi oggettivi del
fatto tipico cosi come sono individuati nella concezione tripartita del reato poiché si rappresenta
compiutamente condotta,rapporto di causalità ed evento e vuole la lesione di beni che con il suo fatto
realizza,ciò che egli erroneamente suppone è che il fatto tipico sia permesso che cioè il divieto non si
applichi in virtù delle circostanza che egli crede esistenti(danneggiare l’infisso). Nell’ipotesi dell’art.47
l’agente non sa quello che fa invece nell’ipotesi dell’art.59 egli sa benissimo cosa sta facendo ma crede che
gli sia permesso farlo. Non è dunque il dolo ad essere escluso lo è però la colpevolezza del SG il cui
atteggiamento è analogo a quello di chi versa in errore sulla legge penale. L’identità di trattamento non può
cancellare le differenze di struttura fra errore sul fatto ed errore sull’antigiuridicità del fatto, nell’errore sul
fatto ciò che si punisce è n vero e proprio reato colposo: la condotta cioè di chi realizza attraverso una
violazione della diligenza oggettiva un evento lesivo che non ha preveduto ne voluto. Nell’erronea
supposizione di un’ esimente l’eventuale punibilità concerne sempre un fatto volontario e l’oggetto del
giudizio di colpevolezza è costituito dal processo motivazionale che ha prodotto il dolo del fatto: a cui si
riferisce appunto l’apprezzamento dell’eventuale violazione della diligenza oggettiva. Quando l’errore
sull’antigiuridicità appare scusabile il dolo dell’agente risulta irrilevante per la colpevolezza,ma anche
quando l’errore sia inescusabile sarebbe egualmente ingiustificato con un rimprovero di colpevolezza a
titolo di dolo,la colpevolezza dell’agente non si radica nella volontà di azione che si è costituita e
conformata sulla base dell’errore,bensì sulla violazione della diligenza oggettiva da cui è scaturito l’errore.
L’ordine illegittimo vincolante
L’art.51 c.p. stabilisce che se un fatto costituente reato è commesso per ordine dell’Autorità di esso
rispondono sia il pubblico ufficiale che ha impartito l’ordine dia chi lo ha eseguito salvo che per errore di
fatto abbia ritenuto di obbedire a un ordine legittimo. Il 4° comma dello stesso articolo stabilisce: non è
punibile chi esegue l’ordine illegittimo quando la legge non gli consente alcun sindacato sulla legittimità
dell’ordine. Quando si leggono congiuntamente il 3°e il 4° comma dell’art.51 si desume che l’applicazione
della disposizione di cui al 4°co. Presuppone nell’esecutore la percezione di carattere illegittimo dell’ordine,
se infatti egli ritiene di obbedire a un ordine legittimo a suo favore si applicherà non il 4° ma il 3° co. che
d’altra parte non è se non una ipotesi particolare di erronea supposizione dei presupposti di una causa di
giustificazione la cui rilevanza si ricaverebbe cmq dall’art.59 ult.comma. Al di fuori dei casi di errore si
dovrebbe parlare di ordine criminoso trattandosi di compiere un fatto costituente reato,può restare
escluso quando si tratta di un ordine insindacabile quando cioè la legge non consente all’esecutore né di
discutere né di disattendere l’ordine ricevuto. Ordine di tal fatta si rinvengono solo nell’ambito di rapporti
di subordinazione gerarchica la cui natura esiga la più stretta e pronta obbedienza dell’inferiore. Ma è in
ogni caso sindacabile la legittimità c.d. esterna (o formale) dell’ordine,il subordinato ha sempre la
possibilità di disattendere l’ordine in mancanza dei requisiti di validità dello stesso, che attengono alle
competenze di chi lo ha impartito e a quella di chi dovrebbe eseguirlo,nonché alla forma prescritta per quel
determinato ordine, ESEMPIO l’ufficiale di polizia giudiziaria non può eseguire un ordine di custodia
cautelare se non in base ad atti che siano redatti in un certo modo,forma scritta sottoscrizione del
magistrato ecc e provenienti da chi ha la competenza ad esaminarli. Sono invece insindacabili nell’ambito di
rapporti di subordinazione gerarchica di tipo militare i profili di legittimità dell’ordine che siano di natura
sostanziale che attengono cioè al merito dell’ordine. Il secondo limite che generalmente si oppone
all’insindacabilità dell’ordine è costituito dalla sua manifesta criminosità,che ricorrerebbe ad esempio nel
caso di un ufficiale di polizia che ordini ai militari da lui dipendenti di sparare un gruppo di passanti inermi.
Al carattere manifestamente criminoso dell’ordine faceva riferimento l’abrogato art.40 c.p. che prevedeva:
“se un fatto costituente reato è commesso per ordine del superiore o di altra Autorità del reato risponde
sempre chi ha dato l’ordine. Il vigente art 25,2°comma del d.p.r 545/86 stabilisce che il militare al quale
viene impartito un ordine manifestamente rivolto contro le istituzioni dello Stato o la cui esecuzione
costituisce cmq manifestamente reato,ha il dovere di non eseguire l’ordine e di informare i superiori. Da
queste norme si desume che solo nelle ipotesi in cui la criminosità dell’ordine non sia manifesta,l’inferiore
può invocarne a propria scusa l’insindacabilità.
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PARTE QUARTA
LE FORME DI MANIFESTAZIONE DEL REATO
Il reato può avere diverse forme di manifestazione: può essere incompiuto o perché non si è realizzata la
lesione di beni a cui la condotta era diretta (Tizio spara a Caio ma sbaglia la mira), o perché la stessa
condotta esecutiva del reato non è portata a compimento(Tizio si introduce in un appartamento per rubare
ma viene sorpreso e messo in fuga dal proprietario mentre fruga nei cassetti prima ancora di essersi
impossessato di alcunché). Un reato può essere il frutto di più persone le cui energie e volontà convergono
verso la produzione di un evento di lesione di beni giuridici ( Tizio fornisce a Caio una chiave che gli
consente di introdursi in una casa per rubare,quindi rafforza il suo proposito criminoso assicurandogli che
provvederà a piazzare la refurtiva) ciò corrisponde alla figura del Tentativo e del reato plurisoggettivo, si
tratta di ipotesi normative di estensione della tipicità oggettiva e per quanto attiene al tentativo ed in
mancanza dell’evento si dovrebbe escludere la rilevanza della condotta come fatto tipico. Dunque la
punibilità di un reato semplicemente tentato può essere assicurata solo dalla presenza di un’apposita
disposizione (art.56c.p) che ha appunto la funzione di estendere anche a quelle ipotesi la tipicità oggettiva.
Le cose sono diverse per il c.d. reato circostanziato in quanto il fatto tipico del reato è presente nel suo
nucleo essenziale e appare arricchito da modalità particolari della sua esecuzione o da speciali circostanze
di fatto che la legge considera ai fini di una maggiore o minore gravità del reato con conseguente incidenza
sulla misura della pena applicabile. A seconda che la gravità del reato risulti accresciuta o diminuita per
effetto di una particolare circostanza ci si ritrova di fronte a circostanza aggravanti e attenuanti.
SEZIONE PRIMA: IL REATO CIRCOSTANZIATO
CAPITOLO PRIMO: CIRCOSTANZE E STRUTTURA DEL REATO
Fatto tipico e circostanze. Significato e limiti della distinzione fra elementi essenziali ed elementi
accidentali del reato.
La nozione di circostanza del reato può essere compresa solo in rapporto ad una fattispecie non
circostanziata (c.d.reato semplice) che costituisce il punto di riferimento per l’individuazione della
circostanza la cui presenza determina l’effetto di un aumento o di una diminuzione della c.d. pena-base.
ES. l’uccisione di un uomo comunque realizzata è sufficiente a costituire il delitto di omicidio nella sua
forma semplice, ma se l’omicidio è stato commesso contro l’ascendente o il discendente ovvero col mezzo
di sostanze venefiche saremo di fronte ad un omicidio aggravante, viceversa si parlerà di omicidio
attenuate quando sia stato commesso a seguito di una grave provocazione.
Ma non sempre è agevole come in questi casi capire quando si è di fronte ad un reato circostanziato, la
questione riveste notevole importanza sul piano applicativo sia perché il regime di imputazione soggettiva
delle circostanze che aggravano o attenuano la pena è diverso da quello che concerne gli elementi
costitutivi del reato, e sia per il peculiare regime applicativo che contrassegna l’ipotesi di concorso fra
circostanze aggravanti e attenuanti. Ponendosi da un punto di vista pre-legislativo la differenza di ratio che
passa tra la configurazione di una circostanza,aggravante o attenuante e la previsione di una autonoma
ipotesi di reato è quanto mai chiara, col delineare una nuova fattispecie incriminatrice il legislatore
provvede a colmare una reale o supposta lacuna della protezione penalistica apprestando in forma
adeguata la tutela di un determinato bene giuridico contro una specifica forma di aggressione mediante la
previsione di una circostanza aggravante o attenuante il legislatore mira ad adeguare la pena applicabile al
maggiore o minore disvalore del fatto tipico,che si ritiene consegua a una particolare modalità esecutiva del
fatto o più in generale alla presenza di determinate circostanze del suo realizzarsi.
I criteri di individuazione delle circostanze.
Le previsioni delle circostanze aggravanti o attenuanti non sono di grande aiuto per individuare se si è di
fronte ad elementi costitutivi di una autonoma fattispecie di reato. Il problema non si pone per le
circostanza c.d. estrinseche: quelle cioè che non attengono alla condotta o ad altri elementi costitutivi del
fatto tipico,risultando cosi estranee alla struttura del reato ad esempio perché consistono in fatti successivi
alla sua esecuzione o consumazione. Al di fuori di questa ipotesi non è facile individuare con sicurezza una
circostanza come tale e si distingue: tra elementi essenziali del reato (condotta materiale,elemento
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psicologico,evento ecc…) che sono indispensabili per la realizzazione del tipo di reato, ed elementi
accidentali che sarebbero le circostanze.
La qualificazione delle circostanza come elementi accidentali del reato non ci fornisce un criterio di
orientamento atto ad individuare i caratteri specifici delle circostanze, la loro connotazione come
accidentali delicti ha un senso solo in quanto sia riferita alla struttura del reato nella sua forma semplice
giacché le circostanze si presentano di volta in volta come elementi essenziali a costituire la fattispecie del
reato circostanziato. La dottrina specifica che le circostanze si presentano come elementi specializzanti di
corrispondenti elementi essenziali alla fattispecie semplice e tale connotazione fornice un punto di
orientamento idoneo ad escludere dal novero delle circostanze le ipotesi in cui si sia di fronte a un
elemento che anziché specificare sostituisce o si aggiunge al corrispondente elemento della fattispecie
semplice presentandosi come un dato alternativo.
Ma se il carattere di elemento specializzante se è condizione necessaria a fondare la fattispecie
circostanziata, non è sufficiente a distinguerle dalle ipotesi in cui l’elemento specializzante dà vita a una
fattispecie di reato a sé stante. La dottrina dominante ritiene che l’individuazione delle circostanze
aggravanti o attenuanti resti affidata a criteri estrinseco-formali.
Le circostanze cc.dd. Indefinite o discrezionali
Nel codice penale vigente la circostanza di fatti a cui la legge collega come conseguenza un aumento o una
diminuzione della pena edittale è caratterizzata di regola da un contrassegno di tipicità. Il dato che
differenzia la fattispecie circostanziata dalla fattispecie semplice è descritto dalla norma in modo più o
meno puntuale così da essere agevolmente riconoscibile in concreto sia che si tratti di una speciale
modalità esecutiva de reato,sia che si tratti di un altro elemento che valga a qualificare in modo particolare
l’autore,il soggetto passivo l’evento ecc… Vi sono ipotesi in cui la circostanza da cui dipende l’effetto di
aumento e diminuzione della pena non appare definita dalla norma che lo preveda, tanto da porre in crisi la
stessa connotazione generale delle circostanze come elementi specializzanti del reato-base.
Cosi nelle circostanze c.d. indefinite quando ad esempio la legge si limita a stabilire che la pena sia
aumentata,nei casi più gravi o diminuita nei casi di lieve entità. Ciò che viene in questione non è soltanto un
minor grado di definizione dell’elemento circostanziale si deve anche prendere atto dell’aumento e
diminuzione della pena che il giudice in ordine all’entità del contenuto di offesa che contrassegna il fatto in
concreto, sia sotto il profilo del disvalore di azione che sotto quello del disvalore di evento.
CAPITOLO SECONDO: I DIVERSI TIPI DI CIRCOSTANZE ED IL LORO REGIME GIURIDICO
Classificazione delle circostanze.
Oltre al diverso livello di predeterminazione normativa del loro contenuto che permette di distinguere le
circostanze tipiche e indefinite o discrezionali distinguiamo le circostanze Aggravanti e attenuanti a seconda
della loro applicazione consegua un aggravamento o una attenuazione della pena, nella maggior parte dei
casi si tratta di un aumento o diminuzione quantitativa della pena che opera secondo un criterio di
proporzionalità rispetto alla pena-base (aumento o diminuzione di pena fino ad un terzo alla metà ecc..
della pena prevista per il reato semplice),e sono meno frequenti le ipotesi in cui l’effetto di aggravamento o
attenuazione che consegue all’applicazione della circostanza consiste in una modificazione qualitativa della
pena (dalla reclusione all’ergastolo della pena detentiva e quella pecuniaria) e ci sono casi in cui la pena per
il reato circostanziato è prevista in aumento o in diminuzione in modo indipendente dalla pena-base. Si
definiscono circostanze a effetto proporzionale quelle circostanze aggravanti o attenuanti in presenza delle
quali l’aumento o la diminuzione della pena si esplicano secondo un rapporto predeterminato di
proporzione rispetto alla pena-base (esempio: la pena è aumentata fino a un terzo,fino al triplo,fino alla
metà). Si definiscono Autonome le circostanze in presenza delle quali la legge stabilisce una pena di specie
diversa ovvero determina per il reato circostanziato una diversa cornice edittale indipendente da quella
prevista per il reato-base e non parametrata su un determinato rapporto proporzionale con essa. Si
distingue inoltre tra circostanze a effetto comune e speciale a seconda che ad esse consegua un aumento o
diminuzione della pena in misura superiore a un terzo della pena prevista per il reato non circostanziato , le
circostanze autonome e le circostanze ad effetto speciale sono accomunate da un particolare regime
giuridico nelle ipotesi di concorso omogeneo di circostanze. Da notare che a norma degli artt. 64 e 65 n 3,
c.p. quando la legge non determina altrimenti la misura dell’aumento o della diminuzione di pena
56
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conseguente all’applicazione di una circostanza aggravante o attenuante la pena si intende rispettivamente
aumentata o diminuita fino a un terzo.
Le circostanze di reato si distinguono in comuni e speciali:
 Comuni: (si applicano a tutti i reati) le circostanze aggravanti o attenuanti previste dalla parte
generale del codice (artt.61,62,112,114) in quanto potenzialmente applicabili a qualsiasi reato o
comunque ad una serie di reati non preventivamente determinati o determinabili.
 Speciali:(si applica solo a un determinato reato) le circostanze previste dalla legge con esclusivo
riferimento a singoli reati o determinati gruppi di reati.
-A norma dell’art. 70 c.p. le circostanze devono essere distinte in oggettive e soggettive.
Sono Oggettive: (che riguardano il fatto) le circostanze che concernono la natura, la specie, i
mezzi,l’oggetto,il tempo,il luogo e ogni altra modalità dell’azione la gravità del danno o del pericolo,ovvero
le condizioni o le qualità personali dell’offeso. Sono Soggettive(che riguardano il reo o l’intensità
dell’elemento soggettivo): le circostanze che concernono la intensità del dolo o il grado della colpa,o le
condizioni e le qualità personali del colpevole o i rapporti fra il colpevole e l’offeso, ovvero che sono
inerenti alla persona del colpevole. Il 2°comma dell’art. 70 precisa che per circostanze inerenti alla persona
del colpevole si intendono quelle che riguardano la imputabilità e la recidiva.
La distinzione fra circostanze oggettive e soggettive rivela essenzialmente in materia di concorso di persona
del reato con riguardo al problema della loro estensibilità a tutti coloro che hanno partecipato al reato.
Di fronte al testo vigente dell’art. 69, 4à co, c.p. che parifica le circostanze inerenti alla persona del
colpevole ad ogni altra circostanza non sembra dunque poter assumere rilievo l’assunto fondato su un
ontologia delle circostanze che nega carattere di circostanze in senso tecnico alle circostanze inerenti alla
persona del colpevole. La dottrina distingue anche le circostanze in intrinseche ed estrinseche a seconda
che si riferiscano ad uno o più degli elementi costitutivi del fatto tipico ovvero ad altri aspetti dell’illecito
tali da condizionare la gravità. Ancora parte della dottrina distingue tra le circostanze antecedenti,
concomitanti e successive in base al loro rapporto col tempo dell’esecuzione del reato. Antecedente
sarebbe ad esempio l’aggravante prevista nell’art.61 (avere nei delitti colposi agito nonostante la
previsione dell’evento). Le circostanze vengono infine distinte in obbligatorie e facoltative, a seconda che il
giudice una volta stabilita l’esistenza della circostanza debba o possa far luogo all’aumento o diminuzione
della pena. La massima parte delle circostanze è ad applicazione obbligatoria ma non mancano ipotesi di
circostanze ad applicazione facoltativa esempio attenuanti previste dall’art.114 c.p. in materia di concorso
di persone nel reato. Sotto il profilo dell’innovazione legislativa l.99/74 con cui l’applicazione degli aumenti
di pena previsti per i casi di recidiva venne resa da obbligatoria qual’era, meramente facoltativa e l’art. 69
vieta la somma algebrica.
I criteri di imputazione delle circostanze l’art. 59 c.p.
Nel testo originario del c.p. l’imputazione delle circostanze sia aggravanti che attenuanti erano di carattere
oggettivo, e l’effetto di aggravante o attenuante della pena conseguiva alla mera esistenza obiettiva della
circostanza indipendente dall’atteggiamento psichico dell’agente; la regola dell’art.59 trovava un limite
implicito in quelle circostanze di natura tale da implicarne un requisito di ordine psichico.
Una deroga espressa al criterio della imputazione oggettiva delle circostanze era contenuta nell’art.60 che
nelle ipotesi di errore sulla persona dell’offeso escludeva l’attribuibilità a carico dell’agente delle
circostanze aggravanti concernenti le condizioni o qualità della persona offesa o i rapporti tra offeso e
colpevole. La regola della rilevanza oggettiva delle circostanze riprendeva il suo vigore pur in presenza di un
errore sulla persona dell’offeso quando si trattasse di circostanze concernenti l’età o altre condizioni della
persona offesa. L’art.59 implicava quanto alle circostanze aggravanti una lesione del principio di
colpevolezza, pur trattandosi di un elemento accidentale rispetto alla struttura del reato restava il fatto che
conseguenze di ordine sanzionatorio venivano a ricadere sull’autore del reato indipendentemente da ogni
legame psichico con il dato ignorato dall’agente su cui la circostanza aggravante si radicava a prescindere
dalla conoscibilità. A questa grave anomalia è stato riformulato il 1°comma dell’art.59 inserendo un nuovo
2°comma con il risultato di differenziare nettamente la disciplina dell’errore sulle circostanze attenuanti da
quelle delle aggravanti. Per le attenuazioni la legge ha mantenuto la ferma la regola della rilevanza
obiettiva ( art.59 1 comma: le circostanze che attenuano la pena sono valutate a favore dell’agente anche
se da lui non conosciute o per errore ritenute inesistenti) per le circostanze aggravanti alla regola della
57
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rilevanza oggettiva si è sostituita una disciplina fondata sulla responsabilità colpevole, infatti il 2 comma del
testo attuale dell’art.59 stabilisce “le circostanze che aggravano la pena sono valutate a carico dell’agente
soltanto se da lui conosciute ovvero ignorate per colpa o ritenute inesistenti per errore determinato da
colpa” e i parametri idonei a stabilire l’esistenza di una responsabilità per colpa possono essere rinvenuti
con riferimento sia alla colpa generica che specifica. Le innovazioni apportate dalla l.19/90 al regime di
imputazione delle circostanze non hanno toccato la regola dell’irrilevanza delle circostanze putative sia
aggravanti che attenuanti. Inoltre l’attuale 3 comma dell’art. 59 lascia immutata la disposizione secondo la
quale “se l’agente ritiene per errore che esistano circostanze aggravanti o attenuanti queste non sono
valutate contro o a favore di lui”.
La disciplina dell’error in persona (art.60 c.p.)
Il 1 comma dell’art.60 c.p. stabilisce “nel caso di errore sulla persona offesa da un reato, non sono poste a
carico dell’agente le circostanze aggravanti che riguardano la condizione o la qualità della persona offesa o i
rapporti tra offeso e colpevole.( Alla stregua di queste disposizioni non risponde quindi dell’aggravante di
cui all’art.577 n 1 c.p. chi uccida il proprio padre scambiandolo per un altro) Secondo l’art.60 devono essere
valutate a favore dell’agente le circostanze attenuanti erroneamente supposte che concernono le
condizioni, le qualità o i rapporti predetti, ciò significa ad esempio che l’attenuante della provocazione
compete anche a chi uccide o ferisce taluno,nell’erronea convinzione di aver a che fare con la persona che
ha commesso ai suoi danni un fatto ingiusto. La situazione non è mutata per quanto attiene ai rapporti fra
l’art.60,2 comma e l’attuale art.59, 3 comma che sancisce l’irrilevanza delle circostanze putative sia
aggravanti che attenuanti. Quanto al 1 comma dell’art. 60 da un lato può considerarsi in linea con la
disciplina generale e dall’altro estende l’irrilevanza delle aggravanti anche alla ipotesi in cui ex art.59 2
comma di esse potrebbe farsi carico l’agente nel caso in cui l’errore di persona appaia determinato da colpa
dell’agente. Il riesame dell’attuale art.60 va completato con il riferimento al suo 3 comma che stabilisce:
“le disposizioni di questo articolo non si applicano se si tratta di circostanze che riguardano l’età o altre
condizioni o qualità fisiche psichiche della persona offesa”. Con questa disposizione al fine di dare una
rafforzata tutela ai soggetti più deboli (minori,infermi di mente) il legislatore circoscrivendo l’efficacia
dell’art.60 ripristinava la regola generale della rilevanza oggettiva delle circostanze. La particolare
normativa dell’art.60 è richiamata anche dell’art. 82 c.p. che disciplina la c.d. ABERRATIO ICTUS e ricorre
quando il reo per errore nell’uso dei mezzi di esecuzione del reato (es.il proiettile deviando colpisce un
soggetto anziché un altro) o per altra causa (es.nel momento in cui l’agente preme il grilletto la persona
presa di mira cade e viene colpito altro soggetto) cagiona offesa a persona diversa da quella alla quale
l’offesa era diretta. Il colpevole risponde come se avesse commesso il reato in danno della persona che
voleva offendere, quando poi oltre alla persona diversa sia colpita anche quella alla quale l’offesa era
diretta, il colpevole soggiace alla pena stabilita per il reato più grave aumentata fino alla metà.
I cc.dd. Reati aggravati dall’evento
Si dicono aggravanti dell’evento i reati che subiscono un aumento di pena per il verificarsi di un evento
ulteriore rispetto al fatto che già costituisce reato consumato, evento che viene posto a carico dell’agente
come semplice conseguenza della sua azione od omissione. Esempio sono reati aggravanti dell’evento la
calunnia (ipotesi prevista nell’ultimo comma art.368) l’abuso dei mezzi di correzione e di disciplina, i
maltrattamenti in famiglia.
Tra i reati aggravati dall’evento si distinguono:
 reati in cui l’evento più grave può essere indifferentemente voluto o disvoluto (es.la calunnia è
aggravata se da essa deriva una condanna)
 reati in cui l’evento più grave deve necessariamente non essere voluto in caso contrario muterebbe
il titolo del reato (es.nell’aborto se l’agente vuole la morte della donna,risponde di omicidio
doloso).
La natura giuridica dei reati aggravati dall’evento è oggetto di discussione in dottrina; alcuni autori
ritengono che si tratti di reati circostanziati ai quali quindi sarebbe possibile applicare il giudizio di
comparazione delle circostanze ex art.69 c.p. Altri autori invece ritengono che la natura di tali reati non sia
unitaria accanto ad ipotesi riconducibili al reato circostanziato ne esistono altre qualificabili come reato
autonomo ed in particolare come ipotesi di reato preterintenzionale.
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L’applicazione delle circostanze
A) Nel caso in cui ricorra una sola circostanza.
Quando si deve applicare una sola circostanza aggravante o attenuante si differenziano a seconda che si
tratti di circostanza a effetto proporzionale o autonoma.
Nel caso di circostanza a effetto proporzionale il giudice praticherà l’aumento o la diminuzione in misura
proporzionale (un terzo, la metà ecc…) sulla pena-base che avrà preventivamente determinata come se la
circostanza non ricorresse. Quando la legge non dispone altrimenti,l’aumento o la diminuzione di pena non
potranno eccedere un terzo della pena-base determinata in concreto, ma in nessun caso la pena della
reclusione da applicare per effetto dell’aumento potrà superare gli anni trenta.Nel caso di delitto punito
con l’ergastolo quando si tratta di applicare una sola circostanza attenuante alla pena dell’ergastolo è
sostituita la reclusione da 20 a 24 anni.
Quando si tratta di applicare una circostanza autonoma in cui la pena è fissata dalla legge in modo
indipendente da quella prevista per il reato non circostanziato il giudice provvederà a stabilirne la misura
tra il minimo e il massimo come se si trattasse di un reato a sé stante e utilizzerà i criteri indicati nell’art.133
c.p. per la commisurazione della pena.
Nell’ipotesi di concorso omogeneo di circostanze quando cioè ricorrano più circostanze tutte aggravanti o
tutte attenuanti la regola generale stabilita dall’art.63, 2°comma c.p. è che i singoli aumenti o diminuzioni
della pena quale che sia l’ordine in cui si procede alla valutazione delle varie circostanze si applicano uno di
seguito all’altro sulla quantità di pena risultante dall’aumento o dalla diminuzione precedente, e ciò vale
solo per il caso in cui le circostanze da applicare siano tutte a effetto proporzionale comune. Quando invece
concorrono circostanze a effetto comune con circostanze autonome che importino una pena di specie
diversa o con una circostanza a effetto speciale, sempre in base all’art.63 3 comma il giudice dovrà tenere
conto in primo luogo di quest’ultima circostanza e applicare l’ulteriore aumenti o diminuzioni di
pena,derivanti dalle circostanze a effetto comune,calcolandoli sulla pena risultante dall’applicazione delle
circostanze a effetto speciale. Se concorrono più circostanze autonome si applicherà solo la circostanza a
cui consegua il maggior aggravamento o la maggior attenuazione di pena ma il giudice può rispettivamente
aumentare o diminuire la pena. Quando si tratta di circostanze a effetto comune in nessun caso si può
eccedere il triplo del massimo stabilito per il reato semplice. Invece per le circostanze a effetto speciale la
pena non potrà comunque eccedere gli anni 30 se si tratta della reclusione, anni 5 se si tratta di arresto.
Per la diminuzione della pena è previsto dall’art.67 nell’ipotesi di concorso di più circostanze attenuanti la
pena da applicare non può essere inferiore a 10 anni, quando per il delitto la legge stabilisce la pena
dell’ergastolo sempre se si tratti di circostanze a effetto comune non può risultare inferiore a un quarto
della pena-base.
Il concorso fra circostanze aggravanti e attennuanti.
Le circostanze sono elementi accidentali del reato, non indispensabili per la sua esistenza in quanto
possono indifferentemente sussistere o mancare. La presenza di una o più circostanze che comporta la
trasformazione del reato da semplice in circostanziato influisce soltanto sulla gravità del reato e quindi sulla
misura della pena per esso prevista.
Le circostanze si distinguono in:
 aggravanti ed attenuanti: le prime determina maggiore gravità del reato e quindi comportano un
aumento della pena, le seconde una minore gravità di esso ed una riduzione della pena.
 comuni e speciali: le prime sono applicabili a tutti i reati (es.art.61,62c.p.)o quantomeno ad ampie
categorie (es.reati colposi), le seconde sono previste soltanto con riferimento ad un reato o ad
alcuni reati (es. art.625 per il furto).
CAPITOLO TERZO: LE SINGOLE CIRCOSTANZE
Le circostanze aggravanti comuni
Le circostanze aggravanti comuni cioè potenzialmente applicabili a qualsiasi reato è contenuto nell’art. 61
c.p. e sono le seguenti:
 L’avere agito per motivi obietti o futili
 L’avere commesso il reato per eseguire od occultare un altro(c.d. nesso teleologico) , ovvero per
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conseguire o assicurare a sé o ad altri il prodotto o il profitto o il prezzo ovvero la impunità di un
altro reato.
L’avere nei delitti colposi,agito nonostante la previsione dell’evento
L’avere adoperato sevizie o l’aver agito con crudeltà verso le persone
L’avere profittato di circostanze di tempo,di luogo o di persona o anche in riferimento all’età (il
riferimento all’età della persona offesa nella previsione dell’aggravante comune della minorata
difesa è stato introdotto dalla L. 15/7/2009 n.94 cd. Pacchetto sicurezza) tali da ostacolare la
pubblica o privata difesa,
L’avere il colpevole commesso il reato durante il tempo in cui si è sottratto volontariamente
all’esecuzione di un mandato o di un ordine di arresto o di cattura o di carcerazione spedito per un
precedente reato
L’avere nei delitti contro il patrimonio o che comunque offendono il patrimonio ovvero nei delitti
determinati da motivi di lucro,cagionato alla persona offesa dal reato un danno patrimoniale di
rilevante gravità
L’avere aggravato o tentato di aggravare le conseguenze del delitto commesso
L’avere commesso il fatto con abuso dei poteri o con la violazione dei doveri inerenti ad una
pubblica funzione o a un pubblico servizio ovvero alla qualità di ministro di culto
L’avere commesso il fatto contro un pubblico ufficiale o una persona incaricata di un pubblico
servizio o rivestita dalla qualità di ministro del culto cattolico o di un culto ammesso nello stato
,ovvero contro un agente diplomatico o consolare di uno stato estero,nell’atto o a causa
dell’adempimento delle funzioni o del servizio
L’aver commesso il fatto con abuso di autorità o di relazioni domestiche ovvero con abuso di
relazioni d’ufficio ,di presentazione d’opera, di coabitazione o di ospitalità
L’avere il colpevole commesso il fatto mentre si trova illegittimamente sul territorio nazionale
L’aver commesso un delitto contro la persona ai danni di un soggetto minore nell’interno o nelle
adiacenze di istituti d’istruzione o di formazione
Le circostanze attenuanti comuni
Le circostanze attenuanti comuni prevedono la diminuzione della pena fino a un terzo è contenuto
nell’art.62 c.p. che elenca le seguenti circostanze:
 L’aver agito per motivi di particolare valore morale e sociale (di natura soggettiva)
 L’aver reagito in stato d’ira,determinato da un fatto ingiusto altrui (c.d. provocazione)
 L’aver agito per suggestione di una folla in tumulto quando non si tratta di riunioni o
assembramenti vietati dalla legge o dall’Autorità e il colpevole non è delinquente o contravventore
abituale o professionale o delinquente per tendenza
 L’avere nei delitti contro il patrimonio o che comunque offendono il patrimonio,cagionato alla
persona offesa dal reato un danno patrimoniale di speciale tenuità,ovvero nei delitti determinati da
motivi di lucro l’aver agito per conseguire o l’avere comunque conseguito un lucro di speciale
tenuità,quando anche l’evento dannoso o pericoloso sia di speciale tenuità
 L’essere concorso a determinare l’evento insieme con l’azione o l’omissione del colpevole,il fatto
doloso della persona offesa
 L’avere prima del giudizio riparato interamente il danno,mediante il risarcimento di esso e quando
sia possibile mediante la restituzione o l’essersi prima del giudizio e fuori dall’ipotesi prevista
nell’ultimo capoverso dell’art.56 c.p. adoperato spontaneamente ed efficacemente per elidere o
attenuare le conseguenze dannose o pericolose del reato (c.d ravvedimento operoso)
Il ravvedimento operoso si distingue dal recesso attivo in quanto quest’ultimo interviene durante
l’esecuzione del reato e prima della sua consumazione, il ravvedimento costituisce invece un
comportamento tenuto post delictum che interviene dopo la cessazione della condotta punibile. Infine
l’art. 62 bis c.p. prevede l’applicabilità di altre circostanze diverse da quelle previste nell’art.62 con le quali
queste possono anche concorrere qualora siano ritenute tali da giustificare una diminuzione della
pena.Limitata è la possibilità di concessione di tali attenuanti per chi è gravato dalla recidiva reiterata.
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Inoltre a seguito dei correttivi effettuati sul disposto dell’art. 62 bis ad opera del D.L. 23/5/2008 n 92
convertito in L.24/7/2008 n 125 (decreto di sicurezza) l’assenza di precedenti condanne per altri reati a
carico del condannato non può essere per ciò solo posta a fondamento della concessione delle circostanze
attenuanti generiche.
LA RECIDIVA
La recidiva è la condizione personale di chi dopo essere stato condannato per un delitto non colposo ne
commette un altro . La norma distingue 3 tipologie di recidiva:
 SEMPLICE: è recidivo semplice chi dopo essere stato condannato per un delitto non colposo ne
commette un altro.Questi può essere sottoposto ad un aumento di un terzo della pena da
infliggere per il nuovo delitto non colposo.
 AGGRAVATA: comprende la recidiva specifica,se il nuovo delitto non colposo sia della stessa
indole,la recidiva infraquinquennale, se il nuovo delitto non colposo sia stato commesso nei 5 anni
della condanna precedente, nonché la recidiva vera e finta configurabile rispettivamente nel caso in
cui il nuovo delitto non colposo sia stato commesso durante o dopo l’esecuzione della pena,ovvero
durante il tempo in cui il condannato si sottragga volontariamente all’esecuzione della pena.In tali
ipotesi la pena può essere aumentata fino ala metà di quella da infliggere per il nuovo delitto non
colposo.Qualora concorrono più circostanze fra quelle appena descritte (c.d. recidiva
pluriaggravata) l’aumento di pena è della metà.
 REITERATA: è recidivo reiterato chi già da recidivo commetta un altro delitto non colposo. In tal
caso l’aumento di pena è della metà di quella da infliggere per il nuovo delitto non colposo,se chi lo
commette è un recidivo semplice,mentre è di due terzi se chi lo commette è un recidivo aggravato.
SEZIONE SECONDA:IL DELITTO TENTATO
CAPITOLO SECONDO:LA FATTISPECIE DEL DELITTO TENTATO.
I requisiti della fattispecie oggettiva del delitto tentato:
L’idoneità degli atti.
A norma dell’art. 56 c.p., per la punibilità del tentativo si richiede il compimento di atti idonei a
commettere un delitto. L’idoneità va valutata secondo il criterio della «prognosi postuma»: riportandosi
idealmente alla situazione concreta al momento del fatto, con giudizio quindi effettuato ex ante, bisogna
cioè valutare se la condotta era idonea a ledere il bene giuridico protetto, con rilevante grado di possibilità.
Ad es. se tizio lancia una bomba in un salotto ove da poco, occasionalmente, si è allontanato il suo nemico,
potrà essere imputato di tentato omicidio, in quanto, con giudizio ex ante, era verosimile che l’avversario si
trovasse in salotto e quindi morisse. In assenza di idoneità degli atti, ricorrerà una un’ipotesi di reato
impossibile ai sensi del secondo comma dell’art. 49 c.p.
L’univocità degli atti.
L’art. 56 richiede che gli atti costituenti delitto tentato, oltre ad essere idonei, appaiono anche diretti in
modo non equivoco alla commissione del delitto prefigurato. L’univocità consiste nel fatto che la condotta
deve avere raggiunto una progressione tale di sviluppo da lasciare trasparire, oggettivamente, che
verosimilmente il delitto sarebbe stato commesso. Ad es. se un pregiudicato viene trovato con una pistola in
tasca a poca distanza da una Banca, per ciò solo non può dirsi che stava per commettere una rapina. invece
se viene fermato nell’atrio, mentre già impugna l’arma, ben può dirsi che lo sviluppo dell’azione,
oggettivamente, lasciava trasparire l’intenzione di commettere la rapina. Il requisito della necessaria
univocità degli atti lascia intendere perché il tentativo sia ammissibile solo in relazione ai delitti dolosi, in
quanto per quel- li colposi non può configurarsi una volontà diretta univocamente alla commissione del
reato.
L’elemento psicologico del delitto tentato.
L’atteggiamento psicologico rilevante per il tentativo è costituito esclusivamente dal dolo. La dottrina è
concorde nel ritenere che il dolo del delitto tentato sia in tutto e per tutto identico al dolo del
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corrispondente delitto consumato. Si sottolinea, però, che l’accertamento del dolo, a differenza che nel
delitto consumato, precede, e non segue, la valutazione che concerne la rilevanza degli elementi della
fattispecie oggettiva. Solo in rapporto al fine perseguito dell’agente, e in relazione al suo concreto piano di
azione, è possibile infatti stabilire l’idoneità e l’univocità degli atti compiuti.
Tentativo e dolo eventuale.
La dottrina ritiene che non è possibile imputare ai fini del delitto tentato gli eventi che, nell’ipotesi di
consumazione, si sarebbero potuti imputare all’agente a titolo di dolo eventuale. Negli ultimi anni, nella
stessa direzione appare orientata anche la giurisprudenza della Cassazione, essenzialmente in base
all’argomento che esclude una condotta diretta in modo non equivoco alla commissione di un delitto
nell’atteggiamento psicologico di chi, perseguendo un fine diverso, si rappresenti soltanto come possibile il
verificarsi di un evento secondario. Va precisato che, dalle ipotesi di dolo eventuale si distinguono quelle di
dolo diretto di II grado, in cui l’evento necessario costituisce il mezzo o una necessaria implicazione del
realizzarsi dello scopo dell’agente.: come nel caso di chi incendi uno stabile al fine di riscuotere
un’assicurazione, ben sapendo che nell’incendio perirà un abitante dello stabile. Impedito a mettersi in
salvo perché paralitico. Le conclusioni dovrebbero essere diverse, secondo l’opinione dominate, se l’autore,
invece, si sia semplicemente rappresentata l’eventualità che, nell’incendio dello stabile, apparentemente
disabitato, abbia a perire qualcuno che, in realtà, vi dimora e che effettivamente ha poi corso tale pericolo.
L’opposta tesi ritiene legittima l’imputazione di atti di tentativo anche a titolo di dolo eventuale. La formula
atti diretti in modo non equivoco, adoperata dall’art. 56, sembra autorizzare l’ipotesi di una restrizione
dell’elemento psicologico rilevante per il tentativo alla categoria del dolo diretto; ma una conclusione in
questo senso non solo appare contrastante con il carattere oggettivo dell’univocità degli atti ma, risulta
convalidata da una fondazione politico.criminale della punibilità del tentativo. Quindi se Tizio, al fine di
cagionare la morte di Caio, gli esplode contro un colpo di fucile a grossi pallini, prevedendo che da ciò potrà
derivare anche la morte di Sempronio che cammina accanto a Caio, e non lasciandosi distogliere dal
compiere l’atto dalla previsione di tale possibilità, risponderà, qualora Sempronio rimanda illeso, o soltanto
ferito, anche di tentato omicidio in persona di costui, così come avrebbe risposto di omicidio doloso,
qualora Sempronio fosse rimasto ucciso.
Tentativo e circostanze.
Per quanto riguarda il rapporto fra delitto tentato e circostanze del reato, la maggior parte degli autori
distinguono due serie di ipotesi: tentativo circostanziato di delitto e tentativo di delitto circostanziato. Alla
prima serie di ipotesi si assegnano i casi in cui l’azione di tentativo si presenta essa stessa corredata dalla
circostanza: o perché preesistente all’azione stessa( esempio, rapporti fra il colpevole e l’offeso); o perché
l’accompagna nel suo svolgersi ( tempo, luogo, modalità esecutive della condotta). Alla seconda serie di
ipotesi appartengono invece i casi in cui viene in questione il tentativo di un delitto che, se fosse pervenuto
alla consumazione, sarebbe stato qualificato da una o più circostanze aggravanti o attenuanti: si pensi alla
circostanza aggravante del danno patrimoniale di particolare gravità e alla contrapposta attenuante del
danno di lieve entità. Sul tentativo di delitto circostanziato vi è dissenso: in linea di principio è concepibile
l’idea del tentativo di un delitto circostanziato e se è vero che l’art. 56 c.p. può astrattamente combinarsi
con tutte le fattispecie di delitto, sia semplice sia circostanziato, è d’altra parte innegabile che l’art. 59 c.p.
nel disciplinare l’imputazione oggettiva della circostanza, ne presuppone in ogni caso l’esistenza. E dunque
violerebbe il principio di legalità l’imputazione oggettiva di un elemento accidentale del reato, che non si è
realizzato. Controversa è anche la configurabilità di un tentativo circostanziato di delitto, nei casi in cui la
circostanza non si è ancora compiutamente realizzata: Tizio tenta, senza riuscirvi, di forzare la porta
d’ingresso di una abitazione, al cui interno si propone di commettere un furto. Si domanda se in questo
caso sia configurabile o meno, come circostanza aggravante del tentativo, quella prevista dal n. 2 dell’art.
605 c.p.. La risposta dev’essere positiva, poiché non sembrano sussistere ostacoli di ordine strutturale o
giuridico che si oppongano alla combinazione della fattispecie dell’art. 56 c.p. con quella del delitto
circostanziato.
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Tentativo e tipologie delittuose.
Per quanto l’art. 56 c.p. si riferisca in modo indifferenziato a qualsiasi categoria di delitti, non vi è dubbio
che la fattispecie del tentativo punibile non si presti ad essere configurata per taluni tipi delittuosi.
Il tentativo è inammissibile:

nelle contravvenzioni , dato che l’art. 56 c.p. parla di «delitto», non di reato;

nei delitti abituali, che si perfezionano con la reiterazione delle condotte criminose che di per sé
non assumono rilevanza autonoma;

nei delitti di attentato (o a consumazione anticipata), per i quali ciò che costituisce il minimum per
l’esistenza del tentativo già integra la consumazione del reato stesso;

nei reati omissivi propri, ove prima della scadenza del termine per compiere l’azione non vi è ancora
reato; dopo la scadenza esso è consumato;

nei delitti colposi, nei quali manca l’intenzione di realizzare il fatto contemplato dalla norma
incriminatrici, quindi non è possibile identificare il requisito della «univocità».
La pena per il delitto tentato è quella prevista per il delitto consumato ridotta da un terzo a due terzi.
CAPITOLO TERZO:DESISTENZA E RECESSO
La desistenza volontaria dal tentativo.
Nozione.
Il III comma dell’art. 56 c.p. configura l’ipotesi speciale di non configurabilità degli atti di tentativo, cha va
sotto il nome di desistenza volontaria. Si ha desistenza (art. 56 comma 3) correlata al tentativo
incompiuto, quando l’agente, dopo aver iniziato l’esecuzione del delitto volontariamente interrompe
l’attività criminosa (es. ladro che, dopo aver forzato una porta, si allontana senza introdursi
nell’appartamento). essa determina l’ impunità, a meno che l’attività criminosa, fino a quel momento posta
in essere, costituisca di per sé reato diverso (es. danneggiamento della porta). Nell’interpretazione della
desistenza volontaria e nella definizione dei limiti della sua configurabilità, emergono alcuni punti di
partenza:
 La formulazione dell’art. 56 c.p. rende manifesto che la speciale ipotesi di irrilevanza degli atti di
tentativo concerne esclusivamente la figura del tentativo incompiuto mentre è strutturalmente
incompatibile con l’ipotesi del delitto mancato.

L’art. 56 III comma, integra la descrizione del tentativo punibile aggiungendo ai requisiti della
idoneità e univocità degli atti quello della interruzione ab externo.
Gli aspetti problematici sono:
 Il fondamento politico criminale della non punibilità.
 La desistenza nei reati omissivi.
 Volontarietà come requisito della desistenza.
 Il concetto dommatico della desistenza volontaria.
Il fondamento politico-criminale della non punibilità nei casi di desistenza.
Secondo l’opinione tradizionale, la non punibilità dell’azione di tentativo a cui lo stesso autore abbia posto
fine con una volontaria scelta di desistenza, è fondata su una valutazione di ordine politico-criminale che
viene espressa attraverso la metafora del ponte d’oro. Questa concezione del fondamento politicocriminale dell’istituto si inquadra in una prospettiva interna alla funzione general preventiva della pena.
Essa è stata criticata poiché la sua validità presuppone l’idea che l’uomo si comporti in ogni occasione come
un essere perfettamente razionale.
La dottrina più recente ricerca il fondamento della desistenza nella visuale della prevenzione speciale;
movendo dal rilievo che la condotta di colui che, di sua iniziativa, è ritornato sui propri passi, manifesta
nell’autore una scarsa e riluttante determinazione a delinquere, per cui, nei suoi confronti, non
sorgerebbero concrete esigenze di prevenzione, in particolare sotto il profilo della necessità di una pena
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rieducativi. Si è tuttavia osservato che si dovrebbe richiedere qualche cosa in più della sua semplice
volontarietà, intesa come mera inesistenza di costrizione esterna. L’osservazione è esatta: basti pensare
che la non punibilità degli atti di tentativo per desistenza volontaria ricorre anche nell’ipotesi di chi desista
dal tentativo di un determinato reato, per compierne un altro, molto più grave: come nel caso di chi,
introdottosi in una casa per rubare,riconosca nel proprietario un odiato rivale e, a seguito di questa
scoperta, abbandoni del tutto l’idea del furto, commettendo, in luogo di quello, un omicidio. La
giustificazione politico-criminale della desistenza si completa con la considerazione del piano general
preventivo: in questi casi, infatti, la non punibilità dovuta alla scarsa o assente presenza di esigenze di
prevenzione speciale, non presenta alcuna controindicazione di prevenzione generale, visto che una
spontanea desistenza del soggetto, prima che venga attivato qualsiasi intervento coercitivo, non richiede
un intervento atto a reintegrare nei consociati la fiducia nel valore delle norme violate.
La desistenza nei reati omissivi.
Nei delitti omissivi si richiede, ai fini della desistenza, che l’autore commetta l’azione doverosa. In
particolare, nei reati commissivi mediante omissione, si richiede che l’agente intraprenda la condotta
dovuta: come nel caso della madre che riprende a nutrire l’infante, che aveva deciso di lasciar morire.
Quanto ai reati omissivi propri la desistenza appare configurabile negli stessi termini. Si può ad esempio,
ipotizzare come desistenza volontaria dall’omissione di un atto di un ufficio il comportamento del pubblico
ufficiale che, essendo partito per luoghi lontani allo scopo di porsi nelle condizioni di non compiere l’atto
nei termini dovuti, discenda dall’aereo al primo scalo e ritorni in sede, in tempo per adempiere ai doveri del
suo ufficio.
Il requisito della volontarietà nella desistenza.
Il concetto della volontarietà, nell’art. 56 deve essere inteso negli stessi termini in cui si apprezza la volontà
richiesta per il fatto costitutivo del delitto tentato: e ciò perché la desistenza altro non esprime se non la
mancanza di dolo terminale dell’azione che non si compie. Posto che la volontarietà sussiste ogniqualvolta,
alla volontà di realizzare il fatto tipico, si sostituisce nel piano intenzionale dell’agente la volontà di non
proseguire nella condotta tipica, è evidente che il carattere di autonomia di quest’ultima risoluzione dovrà
essere escluso non solo quando la volontà risulti coartata in modo assoluto ma anche quando egli si sia
trovato di fronte a una situazione che, pur non rendendo assolutamente impossibile la prosecuzione
dell’azione, tuttavia non lasciava al soggetto un normale margine di autonomia decisionale. Se un ladro
desiste dal sottrarre la cosa perché si accorge di essere stato scoperto, la sua desistenza non è volontaria,
anche se in astratto sussisteva la possibilità di proseguire nell’azione. Per stabilire il carattere volontario
della desistenza, ciò che decide non è la obiettiva realizzabilità del fatto, ma l’opinione dell’autore circa la
sua realizzabilità del fatto, ma l’opinione dell’autore circa la sua realizzabilità. La desistenza, in altre parole,
rimane involontaria anche quando, pur essendo oggettivamente non impossibile la continuazione del fatto,
l’autore si trova di fronte ad una modificazione, a suo svantaggio, della situazione, che lo induce a desistere.
È questo, il criterio di determinazione della volontarietà della desistenza che esclude l’applicabilità dell’art.
56 III comma , nei casi in cui l’autore sia dissuaso a proseguire nell’azione dalla reazione della vittima,
dall’abbaiare di un cane ecc. La desistenza resta non volontaria ai fini dell’art. 56 anche quando l’agente ha
soltanto supposto di essere stato scoperto o si p convinto che la prosecuzione del delitto era impossibile.
Il concetto dommatico della desistenza volontaria.
La non punibilità delle condotte di tentativo, da cui l’autore abbia volontariamente desistito, esprime una
configurazione legislativa dell’istituto, in cui l’interruzione ab externo dell’azione corrisponde a un requisito
essenziale del tipo di fatto che costituisce il delitto tentato. la sussistenza del dolo necessario ad integrare
la fattispecie del tentativo punibile, infatti, non può essere stabilita, se non con riferimento all’intenzione
con cui l’autore compie l’ultimo atto: quando risulta che in luogo dell’atto diretto in modo non equivoco
alla commissione del delitto c’è il volontario abbandono dell’azione intrapresa, viene a mancare il dolo
stesso del tentativo e non sussiste quindi neppure l’azione costitutiva del delitto tentato.
Nell’ipotesi di desistenza volontaria dell’azione, l’agente è punibile solo per gli atti, fin lì compiuti, che
costituiscono un reato diverso, rende infatti egualmente chiaro che il dolo rilevante per il tentativo sussiste
solo quando la parte terminale dell’azione sia inequivocamente sorretta dalla volontà di realizzare il fatto.
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Il problema della delimitazione fra desistenza volontaria e recesso attivo.
Si ha recesso attivo (art. 56 comma 4) correlato al tentativo compiuto, allorché il colpevole abbia già
condotto a termine l’attività delittuosa e, desiderando, in seguito a riflessioni, evitare il verificarsi
dell’evento, si attiva per impedirlo (es.: Tizio, dopo aver gettato Caio nel fiume, lo salva prima che anneghi).
Il recesso ha carattere solo e sempre positivo, in quanto esige una nuova attività da parte dell’agente, ed
anche per esso, come per la desistenza, occorre il requisito della volontarietà.
Il recesso attivo non importa, come la desistenza, la totale impunità ma solo una ulteriore diminuzione della
pena da un terzo alla metà. esso, dunque, si configura come una circostanza attenuante (l’unica prevista per
il tentativo). L’articolo 5 della legge n. 15/80 disciplina una figura particolare di recesso attivo del terrorista;
stabilisce, infatti, tale articolo: « fuori del caso previsto dall’art. 56 del codice penale, non è punibile il
colpevole di un delitto commesso per finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico che
volontariamente impedisce l’evento e fornisce elementi di prova determinanti per la esatta ricostruzione del
fatto e per la individuazione degli eventuali concorrenti».
SEZIONE TERZA: IL CONCORSO DI PERSONE NEL REATO
CAPITOLO PRIMO: IL FENOMENO DELLA PARTECIPAZIONE DI PIÙ PERSONE AD UN REATO E LA NOZIONE GIURIDICA
DEL CONCORSO DI PERSONE.
Le varie ipotesi del reato plurisoggettivo: a) i reati a concorso necessario; b) i reati a concorso eventuale;
in particolare: le condotte atipiche di partecipazione del reato; l’esecuzione del fatto tipico frazionata tra
più persone.
Il reato, in quanto fatto umano, può essere commesso tanto da un solo soggetto quanto da una pluralità di
soggetti: in quest’ultimo caso, ricorre l’ipotesi del “concorso di persone nel reato”.
Il concorso può essere di due tipi:
 concorso necessario: si verifica nei casi di reato c.d.plurisoggettivo, che, per sua natura, non può
essere commesso che da due o più persone e la cui disciplina è contenuta direttamente in una
norma di parte speciale: es.: la rissa, art. 588 c.p.; l’associazione per delinquere, art. 416 c.p.
I reati a concorso necessario vengono classificati, a seconda che si tratti di reati genericamente
collettivi, detti anche reati soggettivi unilaterali;ovvero che essi siano caratterizzati dalla direzione
delle condotte dei vari soggetti l’una verso l’altra (corruzione), o addirittura l’una contro l’altra
(rissa): in questo secondo caso si parla di reati plurisoggettivi bilaterali. Si distingue anche fra reati a
concorso necessario propri e impropri, a seconda che i soggetti necessari per l’esistenza della
fattispecie siano tutti autori punibili, o alcuno di essi rivesta un ruolo diverso, non rilevante
penalmente, che in qualche caso corrisponde addirittura ad una posizione sostanziale di vittima (
ad esempio nella corruzione di minorenne).

concorso eventuale: ricorre per i reati che possono indifferentemente essere commessi da una o più
persone (e la relativa disciplina si ottiene attraverso la combinazione tra una norma incriminatrice di
parte speciale, che prevede una fattispecie di reato monosoggettiva, ed una norma di parte
generale, art.110 c.p.).
Il concorso di persone, dunque, è disciplinato dall’articolo 110 c.p. , che dispone: « Quando più persone
concorrono nel medesimo reato, ciascuna di esse soggiace alla pena per questo stabilita». Tale articolo
svolge una funzione estensiva della tipicità penale, infatti, consente di punire, oltre ai concorrenti che
pongono in essere una condotta tipica (prevista dalla norma incriminatrice), anche quei concorrenti che
compiono azioni atipiche (che cioè in base alla sola norma incriminatrice non sarebbero punibili: ad es.
il «palo» in una rapina non compie il fatto tipico, ma è punibile a titolo di concorso). La norma in questione,
nello stabilire l’applicazione di una pena identica per tutti i concorrenti, quale che sia l’entità della loro
partecipazione, parte dal presupposto che il reato, anche se commesso da più persone, è comunque da
considerarsi unico ed Indivisibile in quanto l’azione posta in essere da ciascuno dei concorrenti perde la
propria individualità, confluendo nel risultato finale complessivo rappresentato dal reato. Nonostante
l’affermazione di principio della uguale responsabilità di tutti i concorrenti, il codice, per elementari esigenze
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di giustizia, ammette la possibilità di graduazione della pena in rapporto al reale contributo apportato in
concreto da ciascun concorrente, ciò soprattutto attraverso il riconoscimento di specifiche circostanze
aggravanti e attenuanti
(artt. 112 e 114).
Opzioni politico-criminali e tecniche di incriminazione delle condotte di partecipazione al reato.
Alla normativa sul concorso di persone, in modo analogo a ciò che avviene per il tentativo, spetta un ruolo
di integrazione, in funzione incriminatrice, della norma di parte speciale che descrive il reato. Gli
ordinamenti positivi contemporanei vi provvedono due opzioni fondamentali:

Il modello differenziato di incriminazione delle condotte di concorso: si serve di una tecnica
normativa che individua e descrive singolarmente le diverse forme di partecipazione al reato,
penalmente rilevanti, distinguendole in base al ruolo che ciascun concorrente svolge nell’economia
della realizzazione comune.

Il modello unitario di disciplina del concorso di persone: il legislatore sceglie di prescindere dal tipo
particolare di condotta posta in essere dai singoli compartecipi, valorizzando essenzialmente, come
criterio di punibilità, in una tendenziale parificazione della loro rilevanza penale; salva la possibilità
di recuperare specifiche valenze dei singoli comportamenti a livello di circostanze aggravanti o
attenuanti.
Il modello di incriminazione fondato sulla differenziazione delle forme di partecipazione al reato è più
rispettoso dei momenti di garanzia, impliciti nella regola della tipicità delle condotte penalmente rilevanti.
La scelta di un modello unitario è destinata, per contro a costituire uno strumento dotato di maggiore
flessibilità, e asseconda l’estensione dell’area delle condotte penalmente rilevanti. Non sorprende, dunque,
che i compilatori del codice penale del 1930 abbiano optato per una scelta radicalmente diversa rispetto a
quella del codice Zanardelli, passando da un modello differenziato a un modello unitario di incriminazione
del concorso.
Le teorie giuridiche del concorso.
La dottrina del concorso di persone oscilla fra due poli: l’accessorietà delle condotte di concorso e la
riconduzione dell’istituto all’idea di una fattispecie plurisoggettive eventuali. L’idea dell’accessorietà
costituisce riflesso dei modelli differenziati di disciplina del concorso; ma esprime, al tempo stesso,un dato
sicuramente connaturale alle condotte atipiche di partecipazione al reato (determinazione, istigazione,
agevolazione). La rilevanza penale di questi comportamenti implica infatti necessariamente l’esistenza di
un rapporto servente rispetto alla realizzazione di una fattispecie conforme a quella descritta, nella forma
monosoggettiva, da una norma incriminatrice speciale. Si osserva, tuttavia, che proprio in quanto
presuppone l’esistenza di un fatto principale, il principio di accessorietà non sarebbe idoneo ad esprimere
in una formula unitaria e omnicomprensiva la struttura del concorso di persone nel reato. Fondato appare
anche il rilievo che, nei casi di esecuzione frazionata del reato, il carattere di complementarietà delle
condotte concorrenti solo con una certa forzatura può essere ricondotta all’idea dell’accessorietà visto che
mancherebbe la realizzazione per intero di un fatto principale, idoneo di per sé ad essere configurato
secondo una dimensione di conformità alla fattispecie del reato monosoggettivo. Quanto al concetto della
fattispecie plurisoggettiva eventuale l’integrazione della norma incriminatrice di parte speciale all’art. 110
scaturisce non solo l’effetto di attribuire rilevanza a condotte di per sé atipiche; ma anche quello di dar
luogo a una autonoma fattispecie normativa che include fra i suoi elementi costitutivi il verificarsi
dell’ipotesi di parte speciale ed è contrassegnata dalla imputazione della sua realizzazione anche a soggetti
diversi dall’esecutore. In mancanza di una definizione legislativa dei tipi delle condotte di partecipazione
penalmente rilevanti, resta, però, interamente aperto il problema dei requisiti, la cui presenza conferisce
alla condotta del concorrente la peculiare dimensione di tipicità, richiesta dalla fattispecie concorsuale. Una
dogmatica del concorso, infatti, ha senso solo nella misura in cui i criteri di imputazione del fatto al
concorrente divergano da quelli che definiscono, in via generale, l’attribuzione della responsabilità per un
fatto tipico, antigiuridico e colpevole. È dunque facile capire perché i problemi giuridici della
partecipazione criminosa concernono essenzialmente la qualificazione dei comportamenti atipici e non
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presenta problemi nelle ipotesi in cui tutti i concorrenti realizzino la fattispecie tipica di un reato e nei casi
si esecuzione frazionata. Nell’una come nell’altra ipotesi, la sintesi fra l’art. 110 e la disposizione di parte
speciale dà luogo a fattispecie plurisoggettive implicite, in cui l’unica variante rispetto alla fattispecie di
riferimento è costituita dal numero dei soggetti attivi considerati. Dunque la nozione di accessorietà, di per
sé, non può né intende fornire criteri, in base ai quali si definisce la rilevanza delle condotte accessorie;ma
ha l’esclusiva funzione di ribadire che essa non può essere costruita senza il riferimento al fatto principale
ed è sempre condizionata alla commissione del reato da parte di altri.
CAPITOLO SECONDO: LA STRUTTURA DEL CONCORSO.
La realizzazione di un fatto tipico doloso come centro di imputazione della responsabilità dei concorrenti
ex art. 110 c.p.
Per il configurarsi di una condotta di concorso penalmente rilevante è necessario che taluno dei concorrenti
realizzi un reato quanto meno nella forma del tentativo. Alla locuzione reato, adoperata nell’art. 110 c.p.
non può assegnarsi il significato che essa assume tradizionalmente nel linguaggio della dottrina: vale a dire
il significato di fatto tipico, antigiuridico, colpevole. Che la colpevolezza personale dell’esecutore non
costituisca una condicio sine qua non per la rilevanza del concorso è comprovato dall’art. 111 c.p. e dal
successivo art, 119, I comma. Dunque se la legge prevede un aggravamento della pena per chi ha
determinato a commettere il reato una persona non imputabile o altrimenti non punibile a cagione di una
condizione o qualità personale e lascia espressamente inalterata la rilevanza delle condotte di concorso, se
ne deve concludere che la colpevolezza dell’autore non appartiene alla nozione di reato, nel significato che
questa espressione assume nel contesto degli artt. 110 ss. c.p. Il II comma dell’art. 119 c.p. asserisce anche
la irrilevanza del carattere antigiuridico del fatto in cui si concorre, ai fini della struttura del concorso di
persone nel reato. Infatti le circostanze di esclusione della pena presuppongono il dato della partecipazione
criminosa e si applicano o non si applicano ai concorrenti a seconda della logica normativa che ne definisce
la rilevanza. La dottrina e la giurisprudenza sono concordi circa il fatto che la base di riferimento per il
configurarsi di condotte di concorso nel reato sia costituita dalla realizzazione di un fatto che sia conforme
a una fattispecie legale dell’incriminazione, a prescindere dalla sua antigiuridicità e dalla colpevolezza
personale dell’autore o degli autori.
Il valore dell’art. 115 c.p. per la determinazione del concetto di reato, rilevante per il concorso di
persone.
L’art. 115 c.p. costituisce un punto di riferimento essenziale per l’individuazione della struttura del
concorso di persone. Da essa si evince che le condotte con cui si può concorrere in un reato, assumono
rilevanza per un’ipotesi di compartecipazione criminosa, solo in quanto, o costituiscono esse stesse azione
esecutiva del reato, ovvero accedano a una condotta esecutiva altrui: se il reato non viene commesso, le
condotte di partecipazione al reato progettato, risultano irrilevanti per l’applicazione della pena. La non
punibilità delle condotte prese in considerazione dall’art. 115 dipende dal fatto che le condotte rientranti
nello schema dell’accordo o dell’istigazione non integrano il modello legale del reato e non possono essere
sottoposte a pena, in mancanza di una norma espressa dettata ad hoc, se non a prezzo di una palese
violazione del principio di legalità. La regola dell’irrilevanza, dettata dall’art. 115 espressamente per
l’istigazione e per l’accordo non seguiti dalla commissione del reato, si applica, in base alla medesima ratio,
anche alle condotte di agevolazione e ad ogni altra forma di complicità, quando sia mancato ogni atto di
esecuzione del reato. Fornire a taluno strumenti idonei allo scasso è un atto non rilevante come condotta di
concorso, se il furto, poi, non viene neppure tentato. L’art. 115 non esclude l’autonoma rilevanza delle
condotte di partecipazione, che, per quanto atipiche, tuttavia costituiscono esse stesse atti di esecuzione
del reato. Dare il segnale convenuto con complici perché aprano il fuoco sulla vittima designata, costituisce
di per sé atto di un tentativo di omicidio; e resta punibile come tale , anche se coloro che dovrebbero
materialmente eseguire il resto se ne stiano inerti, rinunziando per qualsivoglia motivo a procedere
all’azione omicida. Dunque la rilevanza o irrilevanza dell’atto di partecipazione non è creata dall’art. 115,
ma dipende interamente dalla sua qualità di atto esecutivo, alla stregua del modello legale
dell’incriminazione. Ciò non significa che la rilevanza delle singole condotte di istigazione, di accordo e di
agevolazione possa essere stabilita senza tener conto dell’attività degli altri concorrenti. Se taluno si
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accordo con un complice perché recapiti alla vittima designata a un plico contenente una bomba ad
orologeria, non sarà certo punibile, per il solo fatto dell’accordo, nell’ipotesi che il complice non lo recapiti,
gettandolo invece in un fiume; ma se taluno consegna al servizio postale o a un ignaro fattorino il plico
esplosivo, sarà responsabile addirittura di un tentativo perfetto di omicidio, per questo solo atto, con il
quale si è spogliato del dominio finalistico del fatto, liberando le energie causali dirette a produrlo.
Diversamente stanno le cose nell’ambito del fatto collettivo, ove l’attività del singolo concorrente ripete la
sua qualità giuridica proprio dal rapporto che si viene a stabilire con i comportamenti altrui. La condotta di
chi fa da palo, ad esempio, riveste il carattere di atto iniziale della realizzazione criminosa, se egli si pone di
guardia davanti a un negozio, nell’atto stesso in cui il complice ai appresta ad introdurvisi, per eseguire
materialmente il furto; ma non potrà assumere alcuna autonoma rilevanza penale, se il suo compito è
quello di sorvegliare una strada, in cui segnalare al complice potenziali vittime di furti con violenza o
destrezza, fintanto che il concorrente non ponga in essere una qualche attività di esecuzione del comune
proposito criminoso. In conclusione la condizione imprescindibile per il configurarsi di una condotta
collettiva, rilevante come concorso in un reato, è che almeno uno dei concorrenti realizzi nel mondo
esterno un fatto che riveste quanto meno il carattere di un inizio dell’attività esecutiva del reato.
Il ruolo dell’elemento psicologico nella struttura del concorso. Concorso di persone e reità mediata.
L’intero fenomeno del concorso di persone è ridotto allo schema della mera efficienza causale e,
implicitamente o esplicitamente, al meccanismo del concorso di cause, regolato dall’art. 41 c.p.. Anche a
voler prescindere dai puntuali riscontri ove la responsabilità ex art. 48 c.p. viene esplicitamente definita
come un caso di responsabilità mediata, non è difficile mostrare la differenza che passa tra il fatto di chi
induce all’azione un soggetto privo di dolo e quello di chi concorre nel fatto doloso altrui. Basterebbe
osservare che mentre, a norma dell’art. 115 c.p., chi istiga altri a commettere un reato, non è mai punibile
per il solo fatto dell’istigazione, nell’ipotesi dell’art. 48, invece, l’invito ad agire costituisce di per sé atto di
esecuzione del reato. La condotta dell’ingannatore si differenzia dalla normale ipotesi dell’istigazione,
proprio perché le energie causali dirette alla produzione dell’evento sono già messe in moto nel momento
in cui egli agisce per determinare l’istigato a compiere l’atto di cui ignora le conseguenze. Si pensi
all’esempio di chi consegni al servizio postale un plico esplosivo da inoltrare alla vittima designata. In
queste ipotesi, non siamo di fronte ad una condotta che acceda ad un reato commesso da altri ( vale a dire
l’ignaro esecutore). Al contrario, colui che possiede il dominio finalistico è, e resta il solo vero autore del
reato. Ciò è tanto vero che, se l’esecutore agisce, a sua volta, con leggerezza risponderà a titolo di colpa
dell’evento cagionato ( art. 47 c.p.); dando così luogo a due distinte ipotesi di responsabilità, che nulla
hanno a che vedere con la struttura di una di una asserita fattispecie concorsuale. Quanto appena detto
vale per l’altra ipotesi normativa: costringimento fisico, di cui all’art. 46 c.p.
L’autonoma rilevanza come tentativo, in questa ipotesi, della condotta di istigazione o di violenza fisica,
indipendentemente dall’esecuzione del fatto che costituisce oggetto della determinazione o della violenza,
indica che non ci si trova di fronte a un’ipotesi di compartecipazione nel reato, ma a un tipico caso di reità
mediata. La rilevanza giuridico-penale della condotta di chi determina altri a cagionare l’evento costitutivo
di reato varia sensibilmente, a seconda che si tratti di un normale caso di concorso o di una responsabilità
mediata ( artt. 46 e 48 c.p.). Del resto appare evidente l’imprescindibilità del riferimento all’elemento
psicologico del reato, dal momento che, nella struttura della fattispecie di tentativo, il dolo opera come
fattore essenziale della tipicità degli atti. Se la legge prevede espressamente, come sorta di ipotesi
specializzante del concorso di persone, la figura della cooperazione colposa, ciò vuol dire che l’elemento
psicologico ha fin dall’inizio il ruolo di un elemento tipicizzante nella struttura del concetto di reato. Anche
nelle ipotesi dell’esecuzione frazionata del reato, a ben vedere, la esecuzione in comune del fatto tipico dà
luogo ad un’ipotesi di concorso, solo in quanto sia sorretta da una comune volontà di agire. Si pensi al fatto
di chi immobilizza taluno sulla soglia della sua abitazione, tenendolo sotto la minaccia di un’arma, mentre
un altro soggetto sottrae il danaro che la vittima conserva in casa. A seconda che i due agiscano di
concerto, o invece, ciascuno dei due agisca ignorando del tutto l’azione dell’altro o, ancora, che sia soltanto
uno dei due a trarre consapevolmente profitto dalla condotta altrui, si configurano rispettivamente un
concorso in rapina o distinte responsabilità per violenza privata, furto o rapina.
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Autori e partecipi nella struttura del concorso di persone. I limiti normativi della reità mediata.
Il concorso di persone è una manifestazione del reato la cui modalità di realizzazione del fatto è
caratterizzata dalla pluralità di soggetti che vi concorrono. Siccome, l’azione collettiva non riguarda la
somma di tante azioni individuali, come avviene nel concorso di cause indipendenti, ma esprime il carattere
unitario dell’intrapresa comune, distinguiamo tra autori e partecipi. Autore del fatto è colui che realizza,
con l’elemento psicologico richiesto, la fattispecie esecutiva di un reato. Per stabilire a chi spetti la qualità
di autore, non è sufficiente riportarsi alla distinzione fra condotte esecutive e quelle di istigazione,
preparazione e agevolazione. In realtà, la qualità di autore può essere condivisa anche da altri soggetti: ad
esempio, da chi, pur non prendendo parte alla esecuzione del reato, tuttavia possiede il potere di decidere
se esso debba essere compiuto o meno. L’istigatore, di regola, non è autore. Ma se si pensa al capo di un
organizzazione criminale che ordini ad un gregario di sopprimere un avversario, si deve riconoscere che le
cose stanno in modo diverso. Qui, infatti, possiede la signoria di fatto chi ha la disponibilità dell’azione
plurisoggettiva, nel senso che la commissione del reato dipende dalla sua decisione. La qualità di autore,
perciò, è sempre posseduta da chi esegue il fatto tipico; ma può essere composseduta anche da soggetti
che, in un diverso contesto, sarebbero da considerarsi semplici partecipi, in virtù del carattere accessorio
della loro condotta rispetto alla condotta dell’autore o degli autori. Partecipe è colui che, in sostanza, vuole
il fatto, ma pour sempre sotto condizione della decisione dell’autore e che, pertanto, non ne compossiede il
dominio finalistico. Chi realizza la fattispecie oggettiva di un reato in assenza dell’elemento psicologico
richiesto, può assumere la qualità di concorrente; né come autore né come partecipe. La figura dell’autore
mediato non può essere utilizzata al di là delle ipotesi normative in cui l’esecutore materiale realizzi la
fattispecie oggettiva di un reato, senza il concorso della sua volontà. In particolare, non configurano casi di
reità mediata la fattispecie di cui all’art. 5 II comma, ne quella di stato di necessità determinato dall’altrui
minaccia ( art. 54, III comma). In entrambi i casi la condotta dell’esecutore materiale, poiché integra gli
estremi di un fatto tipico doloso, realizza i requisiti minimi per il concorso del determinatore ai fini e per gli
effetti dell’art. 110 c.p.. Il tipo di fatto di cui il determinatore sarà chiamato a rispondere dipenderà dalla
decisione di chi esegue l’ordine, o subisce la minaccia. Si faccia il caso di taluno che, inseguito con evidenti
intenzioni omicidie da un malvivente armato, trovi una via di scampo mediante un fatto lesivo dell’altrui
proprietà. La decisione dell’esecutore può determinare il tipo di fatto anche nell’ipotesi dell’ordine
illegittimo: se l’ordine, ad esempio, è quello di neutralizzare taluno con ogni mezzo, sarà in definitiva
l’esecutore a decidere se chi ha dato l’ordine risulterà poi responsabile di omicidi9, di un ferimento o di un
sequestro di persona. Del resto, se l’ordine non viene affatto eseguito, il fatto di chi ha dato l’ordine
risulterà rilevante solo nei limiti del quasi reato, ai sensi dell’art. 115, II comma c.p.; sicché risulta
indirettamente confermato il suo carattere di accessorietà rispetto al fatto dell’esecutore. Il determinatore
deve essere qualificato come coautore del fatto, quando ne compossiede il dominio finalistico: in
pratica,sempre o quasi sempre nei casi di ordine illegittimo vincolante; e quanto allo stato di necessità
indotto all’altrui minaccia, quanto meno tutte le volte che, in concreto, egli agisca con l’elemento
psicologico del reato di cui all’art. 611 c.p.. Per quanto attiene alla fattispecie disciplinata dall’art. 86 c.p.
occorre distinguere fra i casi in cui lo stato di incapacità determinato in altri è tale da escludere ogni
contenuto di volontà nell’azione dell’esecutore e i casi in cui il soggetto sia tuttavia capace di assumere
decisioni. Nel primo caso, poiché ci si trova di fronte ad una non – azione, ed è evidente il possesso
esclusivo del dominio finalistico da parte di chi ha provocato lo stato di incapacità, lo schema idoneo di
rappresentazione della fattispecie è quello della reità mediata; nel secondo caso, il carattere doloso
dell’azione dell’incapace è sufficiente a connotare come concorso nel reato il fatto di chi ha cagionato lo
stato di incapacità.
Il concorso nelle fattispecie omissive.
In materia di concorso dolosi, sono proprio il soggetto, o i soggetti, che si trovano nella situazione di
obbligo, ad agire come autori. Per la sussistenza del dolo di concorso non occorre il previo concerto tra gli
agenti, potendo sorgere l’accordo criminoso anche durante l’esecuzione del reato. Il dolo di concorso è
coscienza e volontà del fatto prevista dalla fattispecie plurisoggettiva del concorso e, quindi, implica:
1) coscienza e volontà di realizzare un fatto di reato;
2) consapevolezza delle condotte che altri hanno esplicato, esplicano o esplicheranno;
3) coscienza e volontà di contribuire con la propria condotta al verificarsi del fatto criminoso.
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Se l’omissione dell’atto dovuto effettivamente si verifica, ma per una causa riconducibile a terzi e non
imputabile alla volontà dell’obbligato, secondo le regole generali viene meno il presupposto per la
configurabilità di un concorso di persone profilandosi un caso di reità mediata.
La cooperazione colposa.
Detta l’art. 113 c.p.: « nel delitto colposo, quando l’evento è stato cagionato dalla cooperazione di più
persone, ciascuna di queste soggiace alle pene stabilite per il delitto stesso. La pena è aumentata per chi ha
determinato altri a cooperare nel delitto, quando concorrono le condizioni stabilite nell’art. 111 e nei numeri
3 e 4 dell’articolo 112». Circa la nozione di cooperazione nel delitto colposo, essa ricorre quando più
persone pongono in essere una data autonoma condotta nella reciproca consapevolezza di contribuire
all’azione od omissione altrui che sfocia nella produzione dell’evento non voluto, determinato da negligenza,
imprudenza o imperizia (Cass. sez. un., sent. n. 5 del 11-3-1999): ad es. un omicidio colposo determinato
dalla imperizia dei due chirurghi operatori facenti parte dell’equipe. Si tratta, come appare evidente, di
un concorso improprio, in quanto manca l’ elemento della volontà di cooperare nel reato, necessario nel
concorso proprio (doloso). Quest’ultimo elemento (consapevolezza),deve necessariamente sussistere
affinché ricorra l’ipotesi di cooperazione nel reato colposo (l’esempio classico è quello dell’incendio
provocato da due persone, di cui una prepara la legna e l’altra l’accende per riscaldarsi). Qualora esso
manchi non vi sarà più «cooperazione» (art. 113) ma concorso di fatti colposi indipendenti (art. 41): è il caso
di due automobilisti che si scontrano, provocando lesioni reciproche, per avere entrambi contravvenuto alle
norme del codice della strada. In questo caso, a differenza che nella cooperazione, non si ha un reato
colposo cagionato da due o più soggetti, ma si hanno tanti reati colposi quanti sono gli agenti (nell’esempio
fatto, ciascun autista risponderà di lesioni colpose in danno dell’altro). Va ribadito, pertanto, che la
cooperazione nel delitto colposo (art. 113 c.p.) va tenuta distinta dal concorso di cause indipendenti (art. 41
c.p.). Nel primo caso due o più persone agiscono insieme, ognuno consapevole della condotta altrui (es. un’
equipe operatoria chirurgica) e per negligenza commettono un reato (nell’es. l’omicidio colposo del
paziente). Nel secondo caso, i soggetti agiscono separatamente e ciascuno inconsapevole della condotta
altrui (ad esempio due automobilisti provocano un incidente mortale con separate negligenti condotte di
guida: uno non rispettando lo stop, l’altro impegnando l’incrocio a velocità elevata).
Inammissibilità del concorso doloso nel fatto colposo e del concorso colposo nel fatto doloso.
Si noti che ricorre l’ipotesi della pluralità di reati anche quando uno dei due soggetti sia in dolo e l’altro in
colpa (Tizio, per esempio, istiga Caio a spingere l’automobile a forte velocità affinché con essa sia
travolto un suo nemico che di solito in una determinata ora, transita in bicicletta per quella stessa strada).
Anche in tale caso, pur essendovi pluralità di reati, non v’è concorso (nell’esempio fatto, Tizio
risponderà di omicidio doloso e Caio di omicidio colposo). Non è pertanto concepibile l’ipotesi di
concorso doloso in delitto colposo (e viceversa).
Il concorso di persone nei reati contravvenzionali.
La dottrina è concorde circa l’ammissibilità del concorso di persone nelle contravvenzioni dolose, essendo il
termine reato, contenuto nell’art. 110, ovviamente riconducibile sia ai delitti che alle contravvenzioni. Non
eguale concordia sussiste, invece, per quanto attiene alla configurabilità del concorso nelle contravvenzioni
colpose: da una parte si osserva che l’art. 113 menzionando solo i delitti colposi, sembra aver voluto
limitare l’ammissibilità del concorso nei fatti colposi ai soli delitti; dall’altra, si osserva che se l’art. 113 si è
riferito ai soli delitti, ciò è avvenuto per adempiere all’obbligo, posto dall’art. 42 II comma c.p., dell’esplicita
previsione della ipotesi di responsabilità per colpa, che non sussiste quanto alle contravvenzioni. Dunque
l’art. 110 c.p., conferma che la rilevanza della partecipazione dolosa in un fatto doloso, sia esso un delitto o
una contravvenzione; l’art. 1113 svolge una funzione incriminatrice di disciplina che va sotto il nome di
cooperazione colposa. La rilevanza del concorso nei fatti contravvenzionali colposi resta dunque racchiusa
nell’ambito di applicazione del concorso di cause, regolato dall’art. 41 c.p.
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I requisiti oggettivi del concorso:1) la pluralità dei soggetti attivi; 2) il calore causale dell’atto di
partecipazione.
Da un punto di vista oggettivo, il concorso è formato da:

una pluralità di agenti: occorre che il reato sia posto in essere da almeno due soggetti; sussiste
pluralità di agenti anche se alcuno dei concorrenti sia non imputabile o non punibile;

una realizzazione dell’elemento oggettivo del reato: è necessario che almeno uno dei
concorrenti abbia realizzato il fatto materiale previsto dalla norma incriminatrice. È sufficiente che
sia stato posto in essere anche il «minimum» per la configurabilità del solo tentativo mentre, «salvo
che la legge disponga altrimenti» (art. 115 comma 1 c.p.), non basta il mero accordo (a meno che
non si traduca in reato associativo) o la mera istigazione;

un contributo causale alla verificazione del fatto: ciascun concorrente deve aver posto in essere
un’azione od omissione, la cui mancanza avrebbe fatto sì che diverso sarebbe stato il
comportamento degli altri concorrenti.
L’elemento soggettivo della partecipazione criminosa.
Dottrina e giurisprudenza concordemente ritengono che nel concorso debba esistere anche un nesso
psicologico tra ciascun concorrente e l’intero fatto realizzato, ossia occorre l’elemento soggettivo che poi
si atteggia diversamente a seconda che si tratti di concorso doloso o colposo. Si ritiene che non occorra la
reciproca consapevolezza dell’altrui concorso, ma che sia sufficiente la coscienza di concorrenze nel reato,
anche quando esista unilateralmente. Concorre, dunque, nel reato, anche la domestica infedele che, in odio
ai suoi datori di lavoro, essendo venuta casualmente a conoscenza che nella notte si perpetrerà un furto in
casa, lasci di proposito socchiusa la porta dell’abitazione, per facilitare l’accesso ai ladri. Certo, la sua
incriminabilità dipenderà dall’effettiva esecuzione del reato ma ciò non toglie che risulti comunque
indifferente l’esistenza di un accordo preventivo con gli autori materiali del reato.
CAPITOLO TERZO: FORME E LIMITI DEL CONCORSO PUNIBILE NELLA DISCIPLINA NORMATIVA.
Le forme del concorso negli art. 11 ss. c.p.
Gli art. 111 ss. c.p. permettono la rilevanza delle differenti modalità con cui si manifestano le diversi ipotesi
di partecipazione al reato. Le forme di partecipazione di concorso nel reato possono essere morali o
materiali : nel primo caso il concorrente non pone in essere il fatto tipico; nel secondo pone in essere, in
tutto o in parte, la condotta criminosa tipica. Ipotesi di concorso morale, sono quelle del determinatore
(colui che fa sorgere in altri un proposito criminoso prima non esistente); nonché dell’ istigatore (colui che
rafforza od eccita un proposito criminoso già esistente). Ipotesi di concorso materiale, sono quelle
dell’agevolatore (quando il concorrente si limita a fornire un ausilio materiale nella preparazione od
esecuzione del reato: es. il “palo”, colui che consapevolmente fornisce gli strumenti per la consumazione
dell’illecito); nonché dell’esecutore (colui che commette il fatto tipico: es. colui che spara; che rapina; ecc.).
Le circostanze aggravanti e attenuanti del concorso.
Gli artt. 112 (modificato dalla L. 94/2009) e 114 c.p., prevedono aggravanti e attenuanti di pena (le prime
obbligatorie, le seconde facoltative, cioè applicabili a discrezione del giudice) per alcuni dei concorrenti che
si trovino in particolari situazioni. L’art. 112, I comma contempla quattro distinte circostanze aggravanti del
concorso di persone. La pena è aumentata:
• se il numero delle persone, che sono concorse nel reato, è di cinque o più, salvo che la legge disponga
altrimenti;
• per chi, anche fuori dei casi preveduti dalle due ipotesi seguenti, ha promosso od organizzato la
cooperazione nel reato, ovvero diretto l’attività delle persone che sono concorse nel reato medesimo;
• per chi, nell’esercizio della sua autorità, direzione o vigilanza, ha determinato a commettere il reato
persone ad esso soggette;
• per chi, fuori del caso preveduto dall’art. 111, ha determinato a commettere il reato un minore degli anni
18 o una persona in stato di infermità o di deficienza psichica, ovvero si è comunque avvalso degli stessi o
con gli stessi ha partecipato nella commissione di un delitto per il quale è previsto l’arresto in flagranza.
La norma prosegue (secondo comma) prevedendo un incremento sanzionatorio fino alla metà della pena per
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chi si è avvalso di persona non imputabile o non punibile, a cagione di una condizione o qualità personale, o
con la stessa ha partecipato nella commissione di un delitto per il quale è previsto l’arresto in flagranza. Nel
caso in cui chi abbia determinato altri a commettere il reato o si sia avvalso di altri o con questi abbia
partecipato nella commissione del delitto ne sia il genitore esercente la potestà, nel caso previsto dalla
quarta ipotesi, la pena è aumentata fino alla metà e in quello previsto dal secondo comma la pena è
aumentata fino a due terzi. La previsione si chiude affermando che gli aggravamenti di pena stabiliti nelle
prime tre ipotesi si applicano anche se taluno dei partecipi al fatto non è imputabile o non è punibile.
Viceversa la pena è diminuita:
 Per coloro che hanno avuto una parte minima nella partecipazione ed esecuzione del reato;
 Per i minori di anni 18 e gli infermi di mente;
 Per le persone determinate a commettere il reato da soggetti rispetto ai quali si trovano in stato di
soggezione.
Limiti di comunicabilità delle circostanze ordinarie.
Quanto alla comunicabilità delle circostanze, che riguardano uno solo dei concorrenti la disciplina è
contenuta nell’art. 118 c.p. che è stato modificato dalla L.7/2/90, n. 19. Per effetto di tale modifica, le
circostanze che aggravano o diminuiscono le pene concernenti i motivi a delinquere, l’intensità del dolo, il
grado della colpa e le circostanze inerenti alla persona del colpevole devono essere valutate soltanto
riguardo alle persone cui si riferiscono ( circostanze soggettive).
Per le circostanze oggettive, invece, vale la disciplina dettata dall’art. 59, e cioè:
• le circostanze oggettive attenuanti si applicano per il solo fatto di concorrere;
• le circostanze oggettive aggravanti si applicano solo se conosciute dal correo ovvero ignorate per colpa o
ritenute inesistenti per errore determinato da colpa.
Tale impostazione, come già accennato, deriva da una applicazione rigorosa dell’art. 27 Cost. («La
responsabilità penale è personale»), tesa alla considerazione delle circostanze aggravanti alla luce del
principio di colpevolezza.
La responsabilità del partecipe per un reato diverso da quello voluto.
Può accadere che, nell’eseguire il piano criminoso, taluno dei concorrenti commetta di propria iniziativa altro
reato « al posto » di quello voluto, o altro reato «oltre» quello voluto dagli altri cooperatori. Sicché,
mancando nel concorrente il dolo di concorrere nel reato diverso, si pone il problema di stabilire se tale
reato possa essere penalmente attribuitogli ed a quale titolo. Il codice penale, all’art. 116, ha accolto la
soluzione più drastica, sancendo che «quando il reato commesso sia diverso da quello voluto da taluno dei
concorrenti, anche questi ne risponde se l’evento è conseguenza della sua azione od omissione». Tale
rigidità è parzialmente attenuata al comma 2, laddove si prevede che «se il reato diverso è più grave di
quello voluto, la pena può essere diminuita nei confronti di chi volle il reato meno grave». La norma in
esame sembrerebbe configurare un’ipotesi di responsabilità oggettiva, fondando la responsabilità di tutti i
concorrenti esclusivamente sulla base del contributo causale dato. Ciò dunque in contrasto con i principi in
tema di responsabilità penale sanciti dall’art. 27 Cost. La Corte Costituzionale (sent. 42/1965), investita della
questione di legittimità del suddetto articolo, l’ha ritenuta infondata osservando che la responsabilità, ex art.
116, ha come base la sussistenza non solo del rapporto di causalità materiale, ma anche psichica, essendo
sufficiente che il reato diverso e più grave rispetto a quello concordato si rappresenti alla psiche degli altri
come uno sviluppo logicamente prevedibile di quello voluto.
Facciamo due esempi:
1) Tre ladri si introducono in una villa per consumare un furto; una volta scoperti, per vincere la
reazione della vittima, esercitano violenza, trasformando il furto in rapina.
2) Tre ladri si introducono in una villa per consumare un furto. scoperti dalla padrona di casa,
esercitano violenza sessuale sulla vittima.
Orbene se, in entrambi i casi, all’esterno dalla villa vi era un quarto complice con funzione di “palo”,
quest’ultimo, ai sensi dell’art. 116 c.p., risponde del reato diverso commesso dai complici?
Secondo l’interpretazione costituzionalmente orientata della norma, fornita dalla Corte Costituzionale, nel
primo caso il “palo” risponderà della rapina, in quanto un’evoluzione di un furto in rapina, all’interno di una
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villa abitata, è un evento prevedibile. Nel secondo caso non risponderà della violenza sessuale, in quanto tale
condotta diversa era del tutto imprevedibile.
La partecipazione al reato proprio e i limiti di applicabilità dell’art. 117 c.p.
È indiscusso che nel reato proprio possano concorrere, oltre ai soggetti che rivestono la qualifica voluta dalla
legge (intraneus), anche i soggetti che non hanno tale qualifica (extraneus): ad es. se Tizio istiga un sindaco a
concedergli una concessione edilizia illegittima, entrambi risponderanno di abuso di ufficio, pur rivestendo
solo il sindaco la qualità di P.u. Discussa è poi la responsabilità dell’ extraneus nel caso in cui ignori che
l’intraneus rivesta la qualità richiesta dal reato proprio. infatti, secondo i principi generali, egli non dovrebbe
rispondere di alcun reato se si tratti di reati propri ed esclusivi, mentre dovrebbe rispondere di reato comune
se la qualifica soggettiva comporti solo un mutamento del titolo di reato, e di reato proprio se, senza
qualifica, il fatto costituisce un illecito extrapenale o offensivo di altrui interessi. Ciò detto, l’ art. 117 c.p.
disciplina una particolare ipotesi di concorso dell’extraneus nel reato proprio. Va premesso che taluni
reati propri sono definiti «non esclusivi», in quanto il codice prevede una corrispondente figura di reato
comune: ad es. se il P.u. si appropria di danaro di cui ha la disponibilità per ragioni d’ufficio (es. il vigile
urbano delle somme incassate dalle contravvenzioni stradali), risponderà di peculato (art. 314 c.p.); se la
stessa condotta la commette un privato (es. amministratore di condominio in relazione alle somme
riscosse dai condomini), risponderà di appropriazione indebita (art. 646 c.p.). Ciò premesso, se il P.u.
commette il peculato per istigazione di un privato, quest’ultimo risponderà di appropriazione indebita o
anch’egli di peculato? A tale quesito dà risposta l’art. 117 c.p. che prevede che per l’ estraneo muti il
«titolo» del reato; pertanto anche l’extraneus risponderà di peculato. Va pertanto ribadito, come sostenuto
dalla dottrina dominante, che detta norma disciplina appunto la sola ipotesi di concorso dell’estraneo nei
reati propri non esclusivi.
Desistenza e recesso attivo nel concorso di persone.
La desistenza volontaria (art. 56, p. c. 3), in quanto causa soggettiva di estinzione del tentativo, non si
estende agli altri compartecipi. Per la sua sussistenza, in precedenza, si riteneva necessario impedire il
compimento dell’evento, ma oggi, più realisticamente, si ritiene sufficiente l’ eliminazione degli effetti della
propria condotta, cioè, tanto il contributo causale diretto, quanto il maggior pericolo derivante dalla propria
partecipazione. Il pentimento operoso, in quanto circostanza attenuante soggettiva (art. 56,p.c. 4),non si
estende agli altri compartecipi. Per la sua sussistenza è richiesto che il recidente riesca ad impedire il
verificarsi dell’evento lesivo dell’azione collettiva già giunta ad esaurimento.
I limiti di applicabilità della disciplina del concorso eventuale alle ipotesi di concorso necessario.
Il concorso è necessario quando la struttura della condotta incriminata richiede necessariamente la
partecipazione di più soggetto, riflessa nella fattispecie descrittiva del reato. Vi sono però, reati
plurisoggettivi (detti propri) caratterizzati dalla espressa assoggettabilità a pena di tutti i concorrenti ( si
pensi alla rissa) e reati plurisoggettivi impropri, rispetto ai quali la legge dichiara punibili solo alcuni fra i
necessari partecipanti al fatto: è il caso degli atti sessuali con minorenne. La dottrina afferma che il
partecipe non espressamente dichiarato punibile non possa rispondere del reato a titolo di concorso
eventuale; in base al rilievo che, punendo il concorrente non espressamente assoggettato a pena della
legge, si tradirebbe la scelta del legislatore finendo colo disattendere il principio del nullum crimen sine
lege. Il concorso necessario è applicabile anche alle circostanze aggravanti e attenuanti a meno che le
norme in questione non siano espressamente escluse o derogate dalle disposizioni che incriminano il reato
necessariamente plurisoggettivo.
Concorso di persone e reati associativi.
Circa la differenza tra il concorso di persone ed il reato associativo, la giurisprudenza è giunta a consolidati
indirizzi. Il criterio distintivo sta nel fatto che, mentre nel concorso di persone le intese tra i concorrenti sono
dirette alla commissione di uno o più reati determinati con la consumazione del quale o dei quali l’accordo si
esaurisce, nei reati associativi , e nell’associazione per delinquere in particolare, l’accordo è stabilmente
indirizzato all’attuazione di un determinato e più vasto programma delittuoso, precedente e comunque
autonomo rispetto agli accordi particolari relativi ai singoli delitti, e destinato a sopravvivere ai medesimi per
l’ulteriore realizzazione del programma stesso.
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PARTE QUINTA
CONCORSO DI REATI E DI NORME
CAPITOLO PRIMO: CONCORSO DI REATI
Si ha concorso di reati a norma degli artt. 71 ss. c.p. nell’ipotesi in cui uno stesso soggetto viola più volte la
legge penale e perciò deve essere giudicato per più reati. Viceversa si parla di concorso di norme quando
due o più norme incriminatrici si presentano almeno prima facie come applicabili a una medesima
condotta.
Ma il concorso di norme penali è per definizione concorso apparente essendo evidente che ogni singola
fattispecie concreta penalmente rilevante non può che essere ricondotta ad una sola norma,essendo
impensabile che sia contemporaneamente disciplinata sulla base di due o più regole non omogenee
contenute in norme diverse. Esempio: non posso applicarsi contemporaneamente l’art.624bis 2°comma
(furto commesso strappando la cosa di mano o di dosso alla persona) e l’art.628 c.p. (rapina), ma occorrerà
stabilire in base al principio di tipicità sotto quale delle due disposizioni incriminatrici debba essere
sussunta l’ipotesi concreta.
Può accadere però:
- Che una singola condotta realizzi contestualmente la violazione di più norme incriminatrici
- Che taluno debba essere giudicato contemporaneamente per più fatti connessi in qualche modo fra
loro nello spazio, nel tempo,nell’occasione ciascuno dei quali concreti la violazione di una specifica
norma incriminatrice.
Inoltre il concorso di reati si definisce:
- CONCORSO FORMALE: se l’agente con una sola azione od omissioni viola più disposizioni di
legge,ovvero realizza più violazioni della medesima disposizione di legge
- CONCORSO MATERIALE: se l’agente con più azioni od omissioni viola diverse diverse disposizioni di
legge ovvero viola più volte la stessa disposizione di legge
Il Concorso Materiale: Struttura E Disciplina
Quando con più azioni od omissioni un soggetto violi più volte la stessa o differenti disposizioni di legge
(ES.Tizio ruba più volte oppure ruba e poi uccide la vittima); da un punto di vista della struttura si distingue
il concorso materiale omogeneo che corrisponde all’ipotesi in cui l’autore realizza più volte lo stesso reato,
nel concorso materiale eterogeneo si ha quando con le diverse azioni od omissioni l’autore da vita a reati
diversi (come nell’ipotesi in cui chi ha commesso una rapina, per fuggire ruba un auto e uccide un
passante).
Si fa luogo in tal caso al c.d. cumulo materiale delle pene al responsabile vengono comminate tante pene
per quante sono le violazioni commesse con alcuni temperamenti circa la pena massima da infliggere.
La disciplina dettata da codice penale per il concorso materiale di reati si applica sia nel caso che un stessa
persona sia giudicata per più fatti, sia nel caso che contro di essa debbano eseguirsi più condanne.
Il Trattamento Sanzianatorio Del Concorso Materiale
La regola del cumulo materiale è enunciato come criterio generale per il trattamento sanzionatorio del
concorso materiale di reati, per il quale si applicano tante pene quanti sono i reati commessi.
Per il cumulo giuridico si applica la pena prevista per il reato più grave aumentata proporzionalmente alla
gravità delle pene previste per gli altri reati, la pena complessiva risulta però inferiore al cumulo materiale.
Il Concorso Formale Dei Reati
Il concorso formale si ha quando con una sola azione od omissione l’autore realizza la violazione di più
disposizioni di legge. Va distinto in:

Omogeneo: quando con una sola azione od omissione si compiono più violazione della medesima
disposizione di legge (es. una parola che ingiuria contemporaneamente più persone)

Eterogeneo: quando con una sola azione od omissione si violano diverse disposizioni di legge (es.
con un colpo di pistola si uccide una persona e si danneggia una porta)
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Il concorso formale omogeneo presuppone l’identità della norma violata e si realizza ogniqualvolta il fatto
tipico esecutivo di uno dei reati in concorso è al tempo stesso senza residui,esecutivo anche dell’altro. Il
presupposto per il determinarsi di un concorso formale eterogeneo per altro è costituito dall’esistenza già a
livello di fattispecie legali astratte,di un nucleo di tipicità comune alle diverse figure di reato,(c.d. rapporto
di interferenza) e la realizzazione del fatto tipico costitutivo di uno dei reati in concorso,si presenta a
configurare anche quello dell’altro reato in concorso formale.
Il Regime Sanzionatorio Del Concorso Formale Di Reati
Al concorso formale sia omogeneo che eterogeneo era riservato lo stesso trattamento sanzionatorio
previsto per le ipotesi di concorso materiale vale a dire la somma aritmetica delle pene da infliggere per i
singoli reati sia pire con i correttivi limiti risultanti dagli art. 72,79 c.p. Ma il legislatore del 74 ha optato per
la sostituzione del criterio del cumulo materiale con quello del CUMULO GIURIDICO e il 1 comma dell’art.81
c.p. dedicato al concorso formale stabilisce: “è punito con la pena che dovrebbe infliggersi per la violazione
più grave aumentato sino al triplo chi con una sola azione od omissione viola diverse disposizioni di legge
ovvero commette più violazioni della medesima disposizione di legge. Il giudice determina l’aumento in uno
spazio edittale che è vincolato solo nel massimo e che dipende dal numero e dalla gravità dei reati
commessi. L’art. 81, 4°comma introdotto con la L.251/2005 prevede però: “ fermi restando i limiti indicati
dal terzo comma, se i reati in concorso formale o in continuazione con quello più grave sono commessi da
soggetti ai quali sia stata applicata la recidiva prevista dall’art. 99 4° comma l’aumento della quantità di
pena non può comunque essere inferiore ad un terzo della pena stabilita per il reato più grave.”Viene cosi
fissata una misura minima dell’aumento di pena che arricchisce ed aggrava ulteriormente il quadro degli
inasprimenti sanzionatori derivanti dalla dichiarazione di recidiva.
Problemi Applicativi Dell’attuale Regime Sanzionatorio Del Concorso Formale
Nel reintrodurre in forma generalizzata il criterio del cumulo giuridico per i casi del concorso formale il
legislatore del 74 non ha precisato se esso sia applicabile, e con quali regole anche nell’ipotesi in cui le pene
previste per i singoli reati siano di specie diversa anche se omogenee o eterogenee e se sia applicabile al
concorso fra delitti e contravvenzioni. Con sentenza n. 312/88 la Corte Costituzionale ha respinto
l’obiezione dell’applicabilità del cumulo giuridico fondata sull’assunto che attraverso questo meccanismo si
finirebbe con sanzionare uno dei fatti in concorso con una pena diversa da quella prevista in violazione del
principio di legalità. Si osserva in sentenza che è pena legale non solo quella prevista dalla singola norma
incriminatrice, ma anche quella risultante dall’applicazione delle varie disposizioni incidenti sul trattamento
sanzionatorio e perciò anche quella derivante dal cumulo giuridico previsto dall’art.81 c. p. La Corte ha
sottolineato che essendo fuori discussione che l’intento della riforma fosse quello di rendere più mite il
regime sanzionatorio del concorso di reati,la nuova normativa andava interpretata in modo da consentire al
reo di godere comunque di una minore limitazione della libertà personale,rispetto a quella che deriverebbe
dal cumulo materiale. Il caso di specie portato all’esame della Corte (continuazione tra furto d’auto e guida
senza patente) la Corte osserva che per l’imputato era senz’altro da considerarsi un beneficio ispirato al
favor rei riconosciuto come ratio dell’istituto ottenere una condanna che aumenti di qualche giorno la pena
per il furto anziché vedersi sommata a questa la pena di altri 3 mesi almeno di arresto per la guida senza
patente e ciò anche se quel qualche giorno in più si chiamerà reclusione dato che ambo le specie indicano
con la stessa sofferenza nella privazione della libertà personale. La sentenza della Corte Cost. coronava una
controversa evoluzione giurisprudenziale iniziatasi nel segno del diniego di applicabilità del cumulo
giuridico in presenza di pene di specie e /o genere diverso,ma successivamente approdata a una maggiore
espansione applicativa della ratio del nuovo trattamento sanzionatorio. Diverse sono le ipotesi che possono
verificarsi: che ciascun reato sia punibile con una sola pena,l’una detentiva l’altra pecuniarie,che un reato
sia punibile con una pena unica e altri con pena detentiva o pecuniaria Le soluzioni prospettate in dottrina
e in giurisprudenza oscillano dalla tesi che vorrebbero la trasformazione della pena pecuniaria in una quota
aggiuntiva della pena detentiva,sulla base del criterio indicato dall’art.135 c.p. a quella opposta secondo cui
l’aumento ex art. 81 andrebbe effettuato a soli fini di calcolo sulla pena detentiva ma dovrebbe poi essere
ragguagliato alla specie originaria per approdare a ipotesi di soluzione ancora più articolate specialmente
per il caso in cui alcuni dei reati in concorso formale siano puniti con pene detentive e pecuniarie
congiunte. Il problema è che si trovano contrapposte l’esigenza di salvaguardare la legalità delle pene e
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quella di assicurare effettività al principio unificante proprio del sistema del cumulo giuridico.
CAPITOLO SECONDO: LE DEROGHE LEGISLATIVE AL REGIME SANZIONATORIO DEL CONCORSO DI REATI
Le Eccezioni Alla Disciplina Del Concorso Materiale: Il Reato Continuato
Il reato continuato è previsto dal secondo comma dell’art.81 c.p. appartiene alla categoria dei c.d. reati a
struttura complessa,i quali sono composti da una pluralità di fattispecie di per sé già costituenti reato.
Nel diritto penale si ha reato continuato quando una medesima persona una medesima compie, con più
azioni od omissioni, una pluralità di violazioni della stessa o di diverse disposizioni di legge, anche in tempi
diversi, in esecuzione del medesimo disegno criminoso.Si tratta di un particolare tipo di concorso materiale
di reati, caratterizzato dalla presenza di un disegno criminoso unico che accomuna i reati commessi nella
sua esecuzione. Il codice penale italiano in seguito alla riforma del 1974 che ha modificato l'art. 81 punisce
tale ipotesi con pene più mitigate rispetto al normale concorso materiale. In caso di reato continuato è
prevista l'applicazione del cumulo giuridico. La difficoltà di provare la presenza di un "medesimo disegno
criminoso", ha indotto nel tempo la giurisprudenza a presumere l'esistenza del reato continuato in tutti
quei casi in cui un soggetto compia più reati anche a distanza di tempo, estendendo quindi ulteriormente
l'area di operatività del cumulo giuridico.L'espressione medesimo disegno criminoso identifica l'ipotesi in
cui l'agente ha, prima dell'inizio dell'esecuzione del primo reato, programmato con sufficiente precisione i
tipi di reati che è intenzionato a commettere.
La Struttura Del Reato Continuato
Gli elementi del reato continuato sono:

Pluralità di azioni od omissioni: poiché si possa parlare di continuazione è necessaria la
commissione di una pluralità di condotte criminose autonome che sfociano in più episodi criminosi
distinti in modo da non risultare più riconducibili ad una sola azione od omissione (altrimenti si
cade nell’ipotesi del 1 comma dell’art.81 di concorso formale) ad esempio rapina accompagnata da
sequestro di persona ed omicidio di una delle vittime. Le distinte condotte criminose possono
anche essere commesse a notevole distanza di tempo tra loro ed anche se per uno dei
reati,giudicato in separato processo sia comunque intervenuta una sentenza definitiva es. il caso
del padre di una ragazza violentata che uccide i tre violentatori con omicidi commessi in tempi
diversi.

Pluralità di violazioni della stessa o di diverse disposizioni di legge: Si osservi che l’art.81 2 comma
nella sua stesura originaria era restrittivo in quanto limitava la continuazione alle sole violazioni
della stessa disposizione di legge (es. più furto) sicchè successivamente si è ammessa la
continuazione non solo tra violazioni della stessa norma (reato continuato omogeneo) ma anche
tra violazioni di diposizioni diverse (reato continuato eterogeneo es.porto abusivo d’armi ed
omicidio) a condizioni che siano espressione di un medesimo disegno criminoso.

il medesimo disegno criminoso: secondo la dottrina prevalente esso consiste nell’iniziale
programmazione e deliberazione di una pluralità di reati,diretti al conseguimento di un unico fin.
Tale requisito funge da coefficiente psicologico che unifica i vari reati e distingue il reato continuato
dal concorso di reati. Da ciò segue che la continuazione non è configurabile rispetto ai reati colposi
(non potendo sussistere in tal caso il disegno criminoso)
Il Trattamento Sanzionatorio Del Reato Continuato E Criteri D’individuazione Della Violazione Piu’ Grave
(Nel nesso teleologico (aver commesso un reato per eseguirne un altro,es. porto abusivo d’arma per
effettuare una rapina) costituisce ai sensi dell’art. 61 n. 2 c.p. un’aggravante comune. Però l’avere eseguito
i reati in esecuzione di un medesimo disegno criminoso ai sensi dell’art.81 comma 2 c.p. (reato
continuato),consente di temperare la pena attraverso il cumulo giuridico, ci si è chiesti allora se vi sia
compatibilità tra l’aggravante del nesso teleologico e la disciplina del reato continuato, in quanto lo stesso
fenomeno una volta è visto con disfavore per il reo (aggravante), un’altra con favore (cumulo giuridico delle
pene) . La dottrina e la giurisprudenza dominanti sono favorevoli alla compatibilità,in quanto l’aggravante
riguarda il singolo reato teleologicamente connesso,mentre la continuazione si riferisce al complesso dei
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reati riguardati unitariamente.) La pena che si applica per il reato continuato è quella prevista per il
concorso formale e cioè la pena prevista per il reato più grave,aumentabile fino al triplo. Se l’imputato è
gravato dalla recidiva reiterata (art.99c.4) l’aumento non può essere inferiore ad un terzo (fermo restando
il limite massima del triplo).Si è posto il problema di come computare l’aumento (fino al triplo) per i reati
satellite rispetto a quello più grave quando detti reati minori sono puniti con pene eterogenee o di specie
diversa (es. reato più grave con la reclusione ed il reato meno grave con l’ammenda o multa). Parte della
dottrina ha sostenuto che in tali casi non può farsi luogo al cumulo giuridico delle pene,in quanto si
violerebbe il principio di legalità che investe non solo il reato, ma anche la pena infatti si aumenterebbe la
reclusione prevista per il reato più grave,laddove per il reato satellite è prevista la sola pena
pecuniaria.Altra dottrina ha sostenuto che in tali ipotesi non si aumenta la pena più grave,ma ad essa si
aggiunge quella prevista per i reati meno gravi(es. alla reclusione si aggiunge l’ammenda).La giurisprudenza
dominante invece,ritiene che sia ammissibile l’aumento della pena prevista per il reato più grave senza
rischio di vulnerare il principio di legalità in quanto lo stesso art.81 (che prevede il sistema del cumulo
giuridico) è una norma di legge che disciplina la pena.
Gli Ulteriori Profili Della Disciplina Normativa Del Reato Continuato.Reato Continuato E Cosa Giudicata.
Il reato continuato viene considerato e disciplinato come un fatto unitario ma sotto alcuni aspetti si
presenta come reati in concorso materiale. Ciò avviene soprattutto sul piano della rilevanza processuale
non solo per ciò che attiene alla procedibilità si deve aver riguardo ai singoli episodi criminosi,ma il nuovo
codice di procedura penale ha eliminato la rilevanza della continuazione,ai fini della determinazione della
competenza per materia e per territorio. Anche per decidere dell’applicabilità delle cause estintive del
reato e della pena si dovrà guardare ai singoli fatti che compongono il reato continuato.La continuazione
cessa con il perfezionamento dell’ultimo reato commesso in esecuzione dell’originario disegno criminoso. Si
ritiene per altro che taluni eventi in ordine processuale siano idonei a interrompere la continuazione nel
reato con l’effetto di inibire la rilevanza del disegno criminoso ai fini della continuazione con episodi
successivi. Oggi l’orientamento prevalente nella giurisprudenza è che una siffatta rilevanza può essere
riconosciuta solo alla sentenza di condanna passata in giudicata. Quest’ultimo orientamento è da
condividere in quanto l’effetto di interruzione della continuazione non ha nulla a che vedere (come in
passato si è ritenuto) con un interruzione del disegno criminoso, esso dipende piuttosto dall’esigenza
general-preventiva che impone di evitare che si crei per le violazioni successive al giudicato una sorta di
autorizzazione preventiva a commettere reati a pena ridotta o nulla (se l’aumento del triplo è stato già
applicato).Il giudicato non preclude la possibilità di valutare ai fini della pena complessiva da applicare la
continuazione con altre violazioni commesse anteriormente al formarsi del giudicato anche se accertate in
epoca successiva ma si rende necessario in questi casi di rideterminare la pena coordinando il nuovo
giudizio con quello irrevocabile precedente cosi da contenere l’eventuale ulteriore aumento nei limiti
dell’art.81, 2 e 3 comma.Oggi la questione è definitivamente superata dall’art.671 del vigente codice di
procedura penale che consente l’applicazione della disciplina sanzionatoria del reato continuato e del
concorso formale anche in sede di esecuzione: vale a dire in rapporto a sentenze passate in giudicato senza
statuizione alcuna sulla continuazione fra i singoli reati.Il giudice dell’esecuzione provvede determinando la
pena complessiva a norma dell’art.81, 2°comma in misura non superiore alla somma di quelle inflitte con
ciascuna sentenza. Se la pena conseguente al riconoscimento del concorso formale o della continuazione lo
consente il giudice dell’esecuzione sempre a norma dell’art.671 c.p.p. può altresì concedere la sospensione
condizionale della pena e la non menzione della condanna nei certificati del casellario giudiziario.
Le Eccezioni Alla Disciplina Del Concorso Formale: Il Reato Aberrante
L’art. 82 c.p. (offesa di persona diversa da quella alla quale l’offesa era diretta) stabilisce: “quando per
errore nell’uso dei mezzi di esecuzione del reato,o per altra causa è cagionata offesa a persona diversa da
quella alla quale l’offesa era diretta,il colpevole risponde come se avesse commesso il reato in danno della
persona che voleva offendere,salvo per quanto riguarda le circostanze aggravanti e attenuanti le
disposizioni dell’art.60. Qualora oltre alla persona diversa,sia offesa anche quella alla quale l’offesa era
diretta,il colpevole soggiace alla pena stabilita per il reato più grave aumentata fino alla metà. Il successivo
art.83 (evento diverso da quello voluto dall’agente) stabilisce: fuori dei casi preveduti dall’art.precedente,se
per errore nell’uso dei mezzi di esecuzione del reato o per un’altra causa si cagiona un evento diverso da
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quello voluto,il colpevole risponde a titolo di colpa dall’evento non voluto,quando il fatto è preveduto dalla
legge come delitto colposo. Se il colpevole ha cagionato l’evento voluto si applicano le regole del concorso
dei reati. Quindi da un lato esse possono essere inquadrate nella dottrina dell’errore,ove corrispondono
all’ipotesi del c.d. errore-inabilità,contrassegnato dalla divergenza fra voluto e realizzato per effetto di una
inappropriata esecuzione del fatto.La divaricazione fra voluto e realizzato non è dovuta a cause che
incidono sul momento formativo delle volontà,ma a fattori che incidono sulla fase esecutiva di una
risoluzione criminosa. Dall’altro lato la figura del reato aberrante che si presenta come una deroga al
regime sanzionatorio del concorso formale di reati e si distingue: un aberratio ictus che corrisponde nella
sua forma-base al fatto di chi volendo cagionare offesa a un soggetto passivo,concreta il proprio intento in
un’azione od omissione che si traduce nell’offesa di un altro soggetto: come nel caso di chi spara contro
Tizio per ucciderlo,ma per imprecisione nella mira uccide Caio che gli si trovava accanto. L’abberatio delicti
sempre nella sua forma-base concerne invece il fatto di chi agisce per realizzare l’evento lesivo che
corrisponde a una determinata fattispecie di reato ma nei fatti cagiona un evento corrispondente a un
reato diverso come nel caso di chi lancia un sasso allo scopo di infrangere la vetrina di un negozio,ma
ferisce alla testa il commesso che si appressava ad aprirla. In entrambi le ipotesi ricorre una condotta di
tentativo relativamente all’offesa voluta ma non realizzata dall’agente e costituito da un evento di lesione
che l’agente non intendeva cagionare. Sul piano oggettivo sono presenti gli estremi di una rilevanza del
fatto per un ipotesi di concorso formale di reati con una solo condotta il soggetto ha dato luogo a una
duplice violazione di legge: l’una relativa a un fatto rimasto nello stadio del tentativo,l’altra relativa a un
fatto consumato. Vi è una differenza rispetto alle ipotesi normali del concorso formale di reati, ove l’agente
si rappresenta e vuole tutte le violazioni di legge oggettivamente realizzate. Nel reato aberrante l’evento
non corrisponde ai propositi dell’agente è un evento non voluto.
ABERRATIO ICTUS.
a) L’aberratio ictus monolesiva.
L’art.82, 1°comma c.p. concerne l’ipotesi di chi realizza il reato che aveva in animo di commettere,però in
danno di una persona diversa dalla vittima designata (aberratio monolesiva). La relativa disciplina esprime
una configurazione unitaria di questa ipotesi di reato aberrante,tanto da sottrarla alle regole proprie del
concorso di reati.Nel sistema originario del codice il trattamento sanzionatorio dell’aberratio ictus
monolesiva risultava più rigorosa rispetto a quello riservato al concorso formale la pena applicabile ad un
reato doloso consumato è più elevata di quella che conseguirebbe al cumulo materiale delle pene da
infliggere per un delitto tentato e per il corrispondente reato colposo consumato.Nell’attuale regime la
differenza a sfavore dell’aberratio è ancora più marcata tenuto conto del trattamento sanzionatorio
attualmente applicabile ai casi di concorso formale a norma dell’art. 81, 1 e 3 comma c.p. Dal punto di vista
della fattispecie oggettiva l’ipotesi dell’art.82 1 comma richiede che si sia verificato un evento lesivo (in
danno di persona diversa da quella a cui l’offesa era diretta) e che tale offesa si possa dire cagionata dalla
condotta diretta ad offendere la vittima designata, è necessario che si tratti di una condotta unitaria perché
diversamente saremo di fronte ad un ipotesi di concorso materiale o di reato continuato. L’evento voluto e
quello realmente cagionato devono essere omogenei se si tratta di eventi eterogenei ricorre l’ipotesi
dell’aberratio delicti prevista dall’art.83. All’ipotesi dell’art. 82 si applica la disciplina dettata per le
circostanze dell’art.60 c.p. per i casi di error in persona, pertanto non si fa carico all’autore delle aggravanti
oggettivamente ricorrenti che concernano la persona dell’offeso o i suoi rapporti con il colpevole,mentre si
applicano a favore del reo le attenuanti dello stesso tipo erroneamente supposte.(risponderà quindi di
omicidio semplice chi volendo uccidere il proprio padre,uccide invece un passante), ma ove sussistono i
requisiti di una esimente reale o putativa essa dovrà trovare applicazione anche nei casi di aberratio ictus
salva l’applicabilità delle disposizioni di eccesso colposo. Ma il problema è quello del criterio di imputazione
dell’evento non voluto. Ci si pone la domande se l’abberatio ictus punendo il fatto come se fosse colposo si
sia mantenuto all’interno dei principi generali della responsabilità dolosa, o se invece non ne abbia dilatato
implicitamente l’area configurandola con la responsabilità oggettiva. Secondo una parte della dottrina
l’identità della persona offesa poiché non appartiene all’oggetto del dolo sarebbe comunque irrilevante ai
fini del dolo di omicidio ad esempio è sufficiente la volontà di cagionare la morte di un uomo mentre non
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ha nessuna rilevanza se in concreto sia rimasto ucciso Tizio o Sempronio. Secondo altri poiché si versa per
definizione fuori dall’ipotesi del dolo eventuale,si deve partire dalla premessa che l’agente non si è in alcun
modo rappresentata l’offesa a una vittima diversa, né consegue che la responsabilità dell’agente per
l’offesa cagionata in concreto maschera un’ipotesi di responsabilità oggettiva. L’evento materiale e
l’atteggiamento psicologico del soggetto solo se considerati separatamente appaiano conformi al tipo
legale,ma poiché manca la congruenza fra l’atteggiamento psicologico e l’evento che si è verificato,l’evento
stesso non può essere considerato come una concretizzazione della volontà dell’agente rilevante per la
responsabilità dolosa. Basti considerare che l’art.82 non richiede che l’offesa a persona diversa sia
cagionata per colpa,dimodochè potrebbe accadere che si risponda secondo le regole della responsabilità
per dolo, sia per il contrasto con il principio di colpevolezza che per l’incongruità della scelta di sfavore
implicita nella disciplina dell’art.82, 1 comma diffusa è l’istanza di una sua abrogazione o
modificazione.L’attuale disciplina del concorso formale di reati sembra adeguata alle esigenze sostanziali a
cui l’art.82 era diretto in un contesto normativo,però la regola generale era costituita dal cumulo materiale
delle pene. Nel quadro dell’attuale normativa invece non pare residuino motivi validi per una
configurazione a sé stante dell’aberratio tanto più se essa come avviene attualmente deve passare per la
fictio costituita dall’attribuzione di una responsabilità a titolo di dolo per un fatto che al più è cagionato per
colpa.
b) L’aberratio ictus plurilesiva
Può accadere che a causa della deviazione del decorso esecutivo indotta dall’errore sia cagionato offesa
tanto alla vittima designata quanto ad un terzo.Questo tipo di aberratio ictus detta plurilesiva o
plurioffensiva è disciplinato dall’art.82,2 comma c.p. questa norma prevede in tal caso che il colpevole
soggiace alla pena stabilita per il reato più grave aumentato fino alla metà.Premesso che per offesa deve
intendersi lesione e non semplice messa in pericolo si pongono tuttavia non lievi problemi interpretativi
irriducibilmente connessi con la determinazione del titolo di responsabilità per l’evento ulteriore.Secondo
l’opinione tradizionale tale evento sarebbe addebitato all’autore a titolo di responsabilità oggettiva. Contro
tale opinione si è osservato che l’art.82,2 comma sembra ipotizzare la sussistenza di due reati l’uno più
grave,l’altro meno grave. Si dovrebbe ritenere che accanto al reato doloso la cui sussistenza è scontata per
quanto attiene all’offesa cagionata alla vittima designata,la legge richiede almeno un fatto riconducibile a
una condotta colposa,non potendo ammettersi l’esistenza di un reato punibile in forza di un titolo di
responsabilità esclusivamente obiettiva. Ci sarebbe la necessità di stabilire innanzi tutto se l’ulteriore offesa
sia addebitabile all’agente a titolo di colpa, e solo in esito a tale accertamento si potrà eventualmente
comparare la gravità dei due reati.Ma questa proposta d’interpretazione dell’art.82 non appare compatibile
con l’attuale formulazione dell’art.82 ed invero, posto che il sistema originario del codice da un lato
ammetteva la configurabilità da parte del legislatore ordinario di ipotesi di responsabilità oggettiva e
dall’altro non conosceva limiti di ordine costituzionale alla concreta configurazione di tali ipotesi non vi è
dubbio che il legislatore fosse anche abilitato a determinare condizioni a equiparare nelle conseguenze
l’imputabilità oggettiva dell’evento alla responsabilità dolosa che è appunto ciò che avviene nell’art.82,1
comma c.p. Non si è mai dubitato del resto che dell’offesa alla persona diversa di cui all’art 82 si risponda a
titolo di dolo. Orbene il 2 comma dell’art. 82 non può essere letto prescindendo dal primo poiché da quello
logicamente e semanticamente dipende. Appare evidente che la comparazione imposta dall’art.82,2
comma al fine della individuazione del reato più grave avviene in realtà tra due reati entrambi puniti a
titolo di dolo: l’uno (quello in danno della vittima designata) perché effettivamente volontario, l’altro
(quello in danno della persona diversa) perché addebitatogli al medesimo titolo a norma dell’art.82 1
comma.
L’ABERRATIO DELICTI
Si prevede quando per errore nell’uso dei mezzi di esecuzione del reato,o per un’altra causa cagiona un
evento diverso da quello voluto.In tal caso dispone l’art.83 che il colpevole risponda a titolo di colpa
dell’evento cagionato sempre che il fatto sia preveduto dalla legge come delitto colposo e che quando ha
cagionato anche l’evento voluto si applichino le norme sul concorso dei reati.. L’abberatio delicti è
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configurato esplicitamente dalla legge come sussidiaria rispetto all’aberratio ictus i suoi confini sono
segnati dalla non riconducibilità a quest’ultima fattispecie. Per l’aberratio delicti si controverte in dottrina il
fondamento della responsabilità per l’evento non voluto. Si discute in particolare se con l’inciso a titolo di
colpa il legislatore abbia inteso circoscrivere la responsabilità ai casi in cui sussiste effettivamente una colpa
dell’agente in relazione all’evento cagionato ovvero se con quella espressione abbia solo inteso dire che per
l’evento cagionato anche senza colpa l’agente debba comunque rispondere in ogni caso come se fosse
attribuibile a colpa. Col prevedere la responsabilità a titolo di colpa il legislatore ha voluto stabilire che
anche quando l’evento non voluto non sia imputabile a colpa, l’autore ne risponda nei limiti e secondo le
regole proprie della responsabilità colposa. A favore di quest’ultima lettura l’art.83 milita l’assenza di
motivazioni atte a spiegare una cosi marcata differenza di trattamento dell’aberratio delicti rispetto
all’aberratio ictus pur essendo entrambe le ipotesi radicate su uno stesso tipo di errore-inabilità e
diversificate fra loro solo per l’eterogeneità tra offesa voluta e offesa realizzata che contrassegna la
fattispecie dell’art.83, Nessun problema suscita la disciplina dettata dall’art.83 per l’aberratio delicti
plurioffensiva in tal caso per espressa disposizione di legge l’ipotesi influisce nella disciplina generale del
concorso di reati.
CAPITOLO TERZO: CONCORSO APPARENTE DI NORME
Il Concorso Delle Norme Nell’art. 15 C.P.
Ricorre quando una situazione sembra essere regolata da due disposizioni penali in tal caso necessita
valutare se vi sia effettivamente un concorso formale di reati, oppure vi sia un apparente concorso di
norme che regolano il fatto e se ne debba fare applicazione di uno soltanto. La regola in tali casi è costituita
dall’art. 15 c.p. che dispone: quando più leggi penali o più disposizioni della medesima legge penale
regolano la stessa materia,la legge o la disposizione di legge speciale deroga alla legge o disposizione di
legge generale. I casi che si possono verificare sono di specialità unilaterale quando una sola delle norme in
conflitti presenti elementi specializzanti sicchè è semplice identificare la disposizione sola da applicare es. la
rapina rispetto al furto presenta l’elemento specializzante della minaccia o violenza e quindi si applicherà
solo il 628 c.p. Più complesso è il caso della specialità specifica in cui entrambe le norme hanno un
elemento specializzante che le distingue es. aggiotaggio comune in cui c’è l’elemento specializzante del
disturbo al mercato interno, e l’aggiotaggio societario ove il soggetto attivo può essere solo
l’amministratore. In tali casi si farà applicazione unica della norma che presenta più elementi specializzanti.
Non sussiste la stessa materia quando le norme sono tra loro assolutamente eterogenee ovvero quando
pur apparendo simili in un nucleo essenziale differiscono in altri elementi (es. violenza sessuale ed incesto
ove l’unico elemento comune è l’unione sessuale ma non gli altri elementi) Pertanto tutte le volte che non
sussiste eterogeneità od interferenza tra le norme,può ricorrere il concorso apparente. A questo punto
necessita individuare quale norma applicare tra quelle in conflitto, in alcuni casi è la stessa legge a risolvere
il problema,escludendo espressamente l’applicazione di una delle norme concorrenti mediante la c.d.
clausola di riserva. Qualora però tali clausole non sussistono,ovvero siano indeterminate (cioè non sia
espressamente indicata la norma la cui applicazione è esclusa) si pone il problema di individuare la norma
applicabile al fatto concreto. La dottrina tradizionale ritiene di poter risolvere il problema applicando il
principio di specialità previsto dall’art. 15 “ quando più leggi penali o più disposizioni della medesima legge
penale regolano la stessa materia, la legge o la disposizione di legge speciale deroga alla legge o alla
disposizione di legge generale salvo che sia altrimenti stabilito. La dottrina attualmente prevalente ritiene
che il principio di specialità non sia di per sé sufficiente a risolvere i casi di concorso apparente di norme e
lo integra con due ulteriori criteri: - Il criterio di sussidiarietà secondo il quale la norma principale esclude
l’applicazione della norma sussidiaria (è norma sussidiaria quella che tutela un grado inferiore del
medesimo interesse tutelato dalla norma principale la quale pertanto assorbe in sé l’oggetto giuridico della
norma sussidiaria). Inoltre vi sono anche le clausole di sussidiarietà espressa di definiscono:
1) Determinate: quando si riferiscono ad una o più norme specificamente indicate
2) Relativamente determinate: come nelle ipotesi di rinvio a disposizioni in base ad una caratteristica
di tipo categoriale
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3) Indeterminate: quando la clausola di riserva è del tipo “se il fatto non è preveduto come reato da
altra disposizione di legge”.
Parte della dottrina ritiene che in base ad un argomentazione analogica alle ipotesi di sussidiarietà espressa
si debbano affiancare ipotesi di sussidiarietà tacita ricorrenti quando due o più norme prevedono stadi o
gradi di offesa ad un medesimo bene.Ma generalmente le ipotesi di sussidiarietà tacita sono riconducibili
ad altri tipi di relazioni fra norme che danno luogo a un fenomeno di assorbimento. Il criterio di
consumazione secondo il quale la norma consumante esclude l’applicazione della norma consumata, è
norma consumante quella che prevede in sé l’intero fatto previsto da un’altra norma esaurendone il
disvalore della fattispecie concreta.
Il Reato Complesso
Il reato complesso ricorre quando la legge considera due elementi costitutivi o come circostanze aggravanti
di un solo reato,fatti che costituirebbero per se soli reato.In tal caso a norma dell’art.84,1 comma non si
applicano le disposizioni sul concorso di reati e sul reato continuato ma si applica solo la disposizione che
prevede il reato complesso. ES. del reato complesso è la rapina la cui fattispecie legale ricomprende in sé
interamente la fattispecie del furto poiché contempla il fatto di chi per procurare a sé o ad altri un ingiusto
profitto si impossessa della cosa mobile altrui,sottraendola a chi la detiene e nello stesso tempo l’ipotesi
della violenza privata perché contempla l’uso della violenza o della minaccia dirette a costringere taluno a
fare,tollerare od omettere alcunché.La fattispecie della violenza privata e del furto perdono in questo caso
la loro autonoma rilevanza confluendo con l’intero disvalore che le contrassegna nella fattispecie
complessa che le ricomprende entrambe consumandone la rilevanza. L’art.84 configura un meccanismo di
assorbimento e conferma la scarsa autonomia di questo criterio rispetto alla regola della specialità che
domina l’intera materia del concorso di norme e di cui sussidiarietà e assorbimento sembrano esprimere
determinati momenti di rilevanza. Sembra infatti innegabile che la rapina possa configurarsi come ipotesi
speciale da un lato rispetto al furto,dall’altro rispetto alla violenza privata. Il reato complesso è dalla legge
configurato come deroga a tale regime e suscitano perplessità sull’estensione dell’ipotesi da un lato al c.d.
reato complesso in senso lato,dall’atro ai reati eventualmente complessi.Alla nozione del reato complesso
in senso lato corrisponderebbero quelle fattispecie criminose costituite da un nucleo normativo comune ad
altre figure criminose,a cui si aggiunge un elemento ulteriore di per sé penalmente irrilevante si adduce
come sempio la violenza carnale in cui il fatto in sé penalmente neutro,del congiungimento carnale si
innesta sulla fattispecie criminosa della violenza privata. Questa ipotesi non si deve inquadrare nello
schema dell’art. 84 c.p. che sembra presupporre la rilevanza penale di tutti gli elementi confluenti nella
figura del reato complesso. Quanto al reato eventualmente complesso esso corrisponderebbe alle ipotesi in
cui la complessità non sussiste a livello della fattispecie astratta ma si riscontrerebbe allorchè la concreta
realizzazione di una fattispecie storicamente si manifesti attraverso la realizzazione di un reato diverso che
viene di fatto a rappresentare un elemento costitutivo del primo reato. L’idea di un reato complesso che sia
tale solo in concreto non sembra conciliabile con la figura del reato complesso cosi come delineata
dall’art.84 1 comma che contempla il fenomeno c.d. di contenenza di una fattispecie legale in
un’altra,come suo elemento costitutivo la disciplina in esso stabilita non può estendersi ad ipotesi in cui il
reato che si vorrebbe assorbito non è indicato dalla legge come elemento costitutivo del reato assorbente
ma rappresenta solo una modalità particolare della sua concreta realizzazione. Quanto alla disciplina del
reato complesso c’è da osservare a norma dell’art.84 2 comma: qualora la legge nella determinazione della
pena per il reato complesso si riferisca alle pene stabilite per i singoli reati che lo costituiscono non possono
comunque essere superati i limiti massimi indicati dagli artt. 78 e 79 c.p. A norma dell’art.131 c.p. per il
reato complesso si procede sempre d’ufficio,quando per taluno dei reati che ne sono elementi costitutivi o
circostanze aggravanti si debba procedere di ufficio. L’art. 170 c.p. infine stabilisce che la causa estintiva di
un reato che è l’elemento costitutivo o circostanza aggravante di un reato complesso non si estende al
reato complesso. Infine il 3 comma dell’art. 301 c.p. prevede la non applicabilità della disciplina del reato
complesso con conseguente ingresso delle norme sul concorso di reati,quando l’offesa alla
vita,all’incolumità,alla libertà,all’onere del Presidente della Repubblica e degli altri soggetti menzionati dagli
artt. 276,277,278,295.296.297 e 298 c.p. è considerata dalla legge come elemento costitutivo o circostanza
aggravante di altro reato.
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Il Reato Progressivo. Antefatto E Postfatto Non Punibili.
Una caratteristica espressione dell’idea dell’assorbimento è costituita dal reato progressivo. Questa ipotesi
ricorrerebbe ogni qualvolta la realizzazione di una determinata fattispecie delittuosa comporta
necessariamente la realizzazione di una fattispecie delittuosa minore,nel senso che ad essa corrisponde
offesa di grado minore allo stesso bene giuridico,insomma nel concetto di reato progressivo è insita l’idea
del passaggio attraverso momenti progressivamente crescenti di offesa dell’interesse protetto. Il disvalore
dell’atto finale contrassegnato da un trattamento sanzionatorio più severo,assorbe in sé il disvalore penale
dei fatti che segnano il passaggio attraverso gli stadi precedenti di offesa. Cosi nel ferimento seguito da
morte,il disvalore inerente al delitto di lesioni personali è incluso nel disvalore finale inerente all’omicidio.Al
concetto del reato progressivo sono correlate le discusse figure dell’antefatto e del postfatto non punibili
rispettivamente rappresentati da condotte costituenti reato,che si presentano come la naturale premessa o
la normale conseguenza di altro reato. La qualificazione di irrilevanza dell’antefatto o del postfatto risulta
spesso consolidata dal contesto normativo,cosi è ad esempio per la spendita di monete falsificate si
atteggia in modo evidente quale postfatto non punibile allorchè sia realizzata dallo stesso soggetto che ha
contraffatto le monete.Le ipotesi di antefatto e postfatto non punibili non vanno però confuse con altre
situazioni solo apparentemente simili i cui diversi fatti sono semmai legati da un vincolo di continuazione
nel reato: come potrebbe essere nel caso di possesso ingiustificato di chiavi alterate o di grimaldelli (punito
con contravvenzioni dell’art.70)La dottrina prevalente pur riconoscendo la validità concettuale delle
categorie dell’antefatto e postfatto nega tuttavia l’esistenza di speciali principi normativi nella materia e la
stessa possibilità di una vera e propria teoria dell’antefatto e del postfatto non punibili nel nostro diritto.
PARTE SESTA
LE SANZIONI
CAPITOLO PRIMO: LA FISIONOMIA DELLA PENA NELL’ORDINAMENTO VIGENTE
Prevenzione Generale,Retribuzione E Prevenzione Speciale Nell’evoluzione Del Sistema Dal Codice Rocco
Alla Costituzione
Il codice del 1930 aveva esplicitamente scaricato sul sistema delle misure di sicurezza le forti istanze
special-preventive,presenti negli atteggiamenti culturali del tempo accentuando i fini di prevenzione
generale assegnati alla pena,fino ad inglobare in questi la stessa funzione retributiva.Il codice non solo
evitava di prendere posizione a favore dell’una o dell’altra teoria penale ma lasciava comunque affiorare
taluni elementi di prevenzione speciale in particolare nell’oggi abrogato art.142 che indicava la
rieducazione morale come obiettivo concorrente della esecuzione della pena. Per quanto rigurda il
principio retributivo non solo è sottointeso nell’impianto generale del codice,ma la sua valenza è resa
manifesta nella formulazione del 1 comma dell’art.133 che impone al giudice di ricercare gli indici di
graduazione della pena innanzitutto nella gravità del reato,desunta dall’entità dell’offesa arrecata e dal
disvalore della condotta in termini sia oggettivi che soggettivi. Questo tipi di equilibrio tra le diverse finalità
della pena contrassegnato dalla preminenza della funzione general-preventiva e dal ruolo del tutto
marginale della prevenzione speciale,appare completamente ribaltato nel 3 comma dell’art.27 Cost. dove
esso stabilisce che le pene devono tendere alla rieducazione del condannato.
A partire dagli anni 70 le indicazioni del costituente hanno trovato parziale attuazione nella legge ordinaria
attraverso una serie di modifiche ed integrazioni del sistema sanzionatorio.
Portata E Limiti Dell’art.27, 3 Comma Costituzionale.
Alle modalità esecutive della sanzione penale è ormai subentrato il prevalente riconoscimento che al
dettato costituzionale sui fini della pena debba assegnarsi la portata di un principio innovativo suscettibile
di spiegare i suoi effetti in tutte le fasi che caratterizzano la dinamica del sistema sanzionatorio:dalla
comminatoria all’applicazione e all’esecuzione della pena. Il punto nodale nella ricostruzione di una
fisionomia aggiornata della pena è costituito dall’elaborazione dei contenuti della rieducazione prospettata
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dal legislatore costituente come finalità primaria delle pene. La fisionomia della pena non può non essere
omogenea alla fisionomia generale dell’ordinamento giuridico cosi come delineato dalla Costituzione. La
dottrina sostiene che l’insieme dei principi costituzionali che consentono di conferire al nostro ordinamento
la qualificazione di stato sociale di diritto che nel loro insieme garantiscono l’autonomia e la dignità
dell’individuo e lo sviluppo della sua personalità all’interno di una prospettiva solidaristica,legittimato
l’accezione del concetto di rieducazione nel significato di recupero sociale o detto anche di risocializzazione. Attraverso la sanzione penale lo Stato deve offrire al delinquente gli strumenti per la sua
reintegrazione nel tessuto sociale in primo luogo mediante la riappropriazione dei valori elementari della
convivenza. Ciò implica forme di trattamento basate sull’emancipazione individuale perseguita mediante la
realizzazione di adeguati sostegni socio-culturali,di opportunità di reinserimento nel tessuto produttivo e
sociale,di possibilità di riqualificazione culturale e professionale. La dottrina riconosce che nello Stato
sociale moderno non esistono reali alternative all’ipotesi di un trattamento del reo, che si ispiri all’idea del
suo recupero mediante interventi di sostegno alla sua autodeterminazione nel senso dei valori di cui
l’ordinamento giuridico-costituzionale è portatore e perciò nel senso del rispetto dei beni da esso tutelati.
Se la rieducazione cosi intesa è l’obiettivo del trattamento ciò significa che non possono essere diversi gli
strumenti applicativi mediante i quali tale obiettivo può essere perseguito. E’ evidente che il trattamento
non può essere lo stesso quando si tratti di intervenire su casi di estrema marginalizzazione sociale e
quando invece si tratti di soggetti ben integrati socialmente. In nessuno caso quando non sussistono
interventi risocializzanti si giustifica solo il recupero di risposte sanzionatorie di tipo meramente
afflittivo,restando essenziale che l’applicazione delle sanzioni non favorisca ulteriori processi di
disadattamento e stimoli in qualche modo l’emancipazione del soggetto dagli schemi di comportamento
antisociali che ne hanno caratterizzato la vita ante fatta.
Le Funzioni Della Pena Secondo Le Fasi Della Sua Dinamica.
Abbiamo 3 fasi di attuazione del diritto penale: minaccia legale,inflazione e esecuzione della pena. Nella
fase della minaccia o comminatoria della pena (detta anche fase edittale) largo spazio vada riconosciuto
agli scopi cc.dd. di prevenzione generale irriducibilmente connessi con la posizione stessa della norma
penale. La funzione general-preventiva non deve essere configurata solo nel suo aspetto negativo cioè in
quanto deterrente idoneo a scoraggiare i consociati dal commettere reati bensì nei momenti positivi che si
connettono alla funzione di orientamento culturale che il diritto penale esercita nella misura in cui induce
attraverso la sua presenza e la generale consuetudine di osservanza dei suoi comandi,processi di
interiorizzazione dei valori che questi sottendono in via di perpetuazione,rafforzamento di norme eticosociali preesistenti.La dottrina riconosce che il prodursi degli effetti propri della prevenzione generale
positiva non costituisce un effetto automatico della posizione della norma ma dipende da vari fattori: in
primo luogo è decisiva non tanto la severità della minaccia quanto la sua effettività,in quanto contribuisce a
rendere credibile il sistema.In secondo luogo l’efficacia general-preventiva delle norme penali è
direttamente proporzionale al grado di convergenza fra disapprovazione sociale e disapprovazione legale:
ciò implica che il sistema penale sia circoscritto alla tutela di beni essenziali che sia rispettato l’equilibrio fra
illecito e sanzione,che i comportamenti vietati siano tipicizzati. Fondamentale è la proporzione tra entità
della pena minacciata e gravità del reato che se da un lato evoca immediatamente l’idea della giusta
retribuzione,dall’altro condiziona la stessa prospettiva del recupero sociale essendo l’equilibrio fra illecito e
sanzione il requisito minimo indispensabile perché il reo possa percepire la norma come giusta e assumerla
per il futuro come regola di condotta. Per questa via la funzione di prevenzione speciale si insinua nella fase
edittale della minaccia penale. Nella fase della inflizione della pena restano esclusi gli effetti di pura
intimidazione connessi con la prevenzione generale del suo aspetto negativo. Ogni condanna esemplare
destinata a scoraggiare i consociati dal commettere reati della stessa specie comporterebbe la
strumentalizzazione del reo per fini di politica criminale e violerebbe l’insieme di precetti costituzionali che
assegnando alla persona umana una posizione centrale nel sistema dei valori normativi di riferimento ne
impongono la considerazione come fine dall’azione dell’ordinamento e mai come mezzo per l’altrui
intimidazione. La prevenzione generale positiva è presente anche in questa fase in relazione all’esigenza
dell’effettività della minaccia quale fattore coessenziale della funzione di orientamento culturale per la
credibilità dell’ordinamento esige che la pena minacciata venga inflitta quando la norma sia stata
violata.Nella fase della esecuzione della pena sono prevalenti le esigenze della previsione speciale,poiché
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l’istanza special-preventiva viene in considerazione nell’ottica rieducativa in cui è configurata dalla Cost. da
esso esultano sia la prospettiva di una mera neutralizzazione del reo,sia l’obiettivo della sua rigenerazione
morale che non appartiene ai fini del diritto penale. Di prevenzione speciale si parla della ri-socializzazione
o della non de-socializzazione del condannato.
L’odierna Fisionomia Della Pena:Dalla Riforma Del 1974 Ai Giorni Nostri.
Nelle diverse modifiche intervenute sul sistema sanzionatorio sembrano orientate a dare attuazione in
maniera più marcata all’idea della sanzione detentiva come extrema ratio della risposta panale,ma a causa
della scarsa efficienza del sistema penale nel suo complesso gli opportuni e condivisibili interventi di
mitigazione e diversificazione degli strumenti punitivi finiscono per determinare pericolosi fenomeni di fuga
dalla sanzione che si manifesta nella diffusa ineffettività del sistema di esecuzione penale. Un quadro
riassuntivo delle principali innovazioni legislative nella materia potrebbe essere il seguente:
1) l’ammissione dei condannati alla pena perpetua dell’ergastolo anche ai benefici della semilibertà e della
liberazione anticipata,
2) gli interventi modificativi della sospensione condizionale della pena,orientati a ridurre gli effetti de
socializzanti connessi con l’esecuzione delle pene detentive di breve durata,
3) L’introduzione di misure alternative alla detenzione
4) l’introduzione con la L. 24 novembre 1981 n 689 delle sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi
5)l’ampliamento delle pene accessorie
6) l’introduzione di un sistema sanzionatorio autonomo e di meccanismi di definizione differenziati del
procedimento per i reati assegnati alla competenza del giudice di pace.
7) la previsione di un trattamento sanzionatorio differenziato per il recidivo, vero e proprio tipo di autore
pericoloso normativamente selezionato al quale il legislatore riserva regimi commisurativi ed esecutivi
paralleli e quelli ordinari e caratterizzati da un elevatissimo tasso di rigore repressivo.
Un siffatto andamento della legislazione penale ha avuto come effetto da un lato la rieducazione dell’area
coperta dalla pena carceraria per la criminalità medio-lieve, dall’altro l’irrigidimento delle modalità di
detenzione dei colpevoli dei più gravi delitti in forme da risultare ostative a qualsiasi programma di
trattamento rieducativo.
CAPITOLO SECONDO: LE TIPOLOGIE DELLA PENA EDITTALE E I CRITERI DELLA SUA DETERMINAZIONE GIUDIZIALE
Pene Principali E Pene Accessorie
Il codice vigente distingue le pene in principali e accessorie,a norma dell’art.20 le pene principali sono
inflitte dal giudice con la sentenza di condanna,quelle accessorie conseguono di diritto alla condanna come
effetti penali di essa.
Le pene principali comminate per i delitti sono: l’ergastolo, la reclusione e la multa;
quelle per le contravvenzioni sono: l’arresto e l’ammenda.
Ancora l’art.81 classifica le pene principali denominate “pene detentive” o restrittive della libertà personale
l’ergastolo, la reclusione e l’arresto; le pene pecuniarie la multa e l’ammenda.
Il catalogo delle pene principali contenuto nell’art.17c.p. si apriva con la menzione della pena di morte che
abolita dal codice Zanardelli era stata reintrodotta dal codice del 1930 in coerenza con scelte
politico.criminali; con l’art.1 del d.lgs.1t. 10 agosto 1944 n.224 la pena di morte venne nuovamente
soppressa per i delitti preveduti dal codice stabilendo che per i casi in cui essa era prevista si applicasse in
suo luogo la pena dell’ergastolo.
Le Singole Pene Principali
A)LE PENE DETENTIVE.
a) L’ergastolo. L’ergastolo è una pena detentiva perpetua si estende almeno potenzialmente tanto quanto
è destinata a durare la vita residua del condannato. A norma dell’art. 22 la pena dell’ergastolo è scontata in
uno degli stabilimenti a ciò destinati con l’obbligo del lavoro e con l’isolamento notturno,e il secondo
comma dello stesso articolo prevede che il condannato possa essere ammesso al lavoro all’aperto. Per la
sua compatibilità con il principio rieducativo la costituzionalità della pena dell’ergastolo è stata
contestata,anche se una risalente sentenza della Corte Costituzionale ebbe a dichiarare non fondata la
relativa eccezione di legittimità sulla base di una concezione polifunzionale della pena che valorizzava fra gli
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scopi della pena accanto all’obiettivo della rieducazione del condannato la prevenzione generale ,la difesa
sociale e la neutralizzazione a tempo indeterminato di determinati delinquenti.; quest’orientamento è stato
confermato anche dalla sentenza Cost. del 94 ma ci sono stata diverse modifiche legislative intervenute in
materia e risultano ridimensionate le riserve di ordine costituzionale sull’ergastolo. Il condannato
all’ergastolo attualmente è ammesso a godere della liberazione condizionale dopo che abbia scontato 26
anni di pena,può inoltre godere della liberazione anticipata e del regime di semilibertà dopo aver scontato
20 anni di pena.
(Nell’81 è stato indetto un referendum popolare che si è concluso col diniego della proposta di abrogazione
dell’ergastolo).
b) La reclusione. E’ la pena detentiva temporanea stabilita per i delitti, la sua durata può estendersi da 15
giorni a 24 anni la sua durata massima può giungere fino a 30 anni per effetto di circostanze aggravanti o di
concorso di reati. A norma dell’art.23 la reclusione viene scontata in uno degli stabilimenti a ciò destinati
con l’obbligo del lavoro e l’isolamento notturno. Colui che ha scontato almeno 1 anno della pena può
essere ammesso al lavoro all’aperto. La l.26 luglio 1975 n354 sull’ordinamento penitenziario precisa i
principi sulla cui base dovrebbe aver luogo l’esecuzione della pena della reclusione prescrivendo che il
trattamento penitenziario risponda alle particolari esigenze della personalità del condannato che siano
agevolati i rapporti del recluso con il mondo esterno e con la famiglia,che il lavoro non abbia carattere
afflittivo e che sia remunerato in misura non inferiore ai due terzi delle tariffe sindacali.
c) L’arresto. E’ la pena detentiva temporanea stabilita per le contravvenzioni, si estende da 5 giorni a 3 anni
e può essere elevato fino a 5 anni per il concorso di circostanze aggravanti e fino a 6 per effetto del cumulo
conseguente a ipotesi di concorso di reati. Questa pena può essere scontata in regime di semilibertà.
Le pene non detentive limitative della libertà personale.
Esistono misure sanzionatorie di tipo non detentivo ma in vario modo limitative della libertà
personale,secondo un indirizzo teso a realizzare obiettivi di decarcerizzazione pur mantenendosi all’interno
di una opzione di tipo penale. La pena della permanenza domiciliare o quella del lavoro di pubblica utilità.
La pena della permanenza domiciliare comporta l’obbligo di rimanere presso la propria abitazione o in un
altro luogo di privata dimora ovvero il luogo di cura assistenza o accoglienza nei giorni di sabato e
domenica.La sanzione la cui durata non può essere inferiore a 6 giorni ne superiore a 45 presenta una certa
flessibilità non solo in considerazione di esigenze familiari,di lavoro,di studio o di salute del condannato,può
essere eseguita in giorni diversi dal sabato e dalla domenica ma su richiesta del condannato anche
continuamente.Inoltre il giudice può aggiungere all’obbligo di non allontanarsi dal domicilio il divieto per il
condannato ad accedere a specifici luoghi nei giorni in cui non è obbligato alla permanenza domiciliare. La
pena del lavoro di pubblica utilità non può essere inferiore a 10 giorni ne superiore a 6 mesi e consiste nella
prestazione di attività non retributiva in favore della collettività da svolgere presso lo Stato,le regioni,le
provincie i comuni o presso enti o organizzazioni di assistenza sociale e di volontariato. Essa
conformemente al divieto di lavoro forzato o obbligatorio contenuto nelle convenzioni internazionali può
essere irrogata soltanto se l’imputato ne fa richiesta. Il giudice nell’irrogare la sanzione è chiamato a
definire le concrete modalità esecutive nell’ambito delle indicazioni fornite con il decreto dal Ministero di
Giustizia 26 marzo 2001.
Le Pene Pecuniarie.
Le pene pecuniarie consistono nel pagamento allo Stato di una somma di denaro e possono avere carattere
fisso o proporzionale,si dicono fisse quando sono determinate a livello edittale in limiti prestabiliti fra un
minimo e un massimo. Si dicono proporzionali quando la loro entità è commisurata a un dato variabile e
risulta dalla sua moltiplicazione per un coefficiente stabilito ( a norma dell’art. 27 le pene proporzionali non
hanno un limite massimo).
PENE PECUNIARIE SONO LA MULTA E L’AMMENDA.
La multa è la pena pecuniaria prevista per i delitti essa consiste nel pagamento allo Stato di una somma non
inferiore a 5 euro ne superiore a 5164 euro. La pena della multa oltre ad essere comminata dalla singola
norma incriminatrice può essere aggiunta dal giudice se la legge stabilisce per il delitto la sola pena della
reclusione quando si tratti di fatti determinati da motivi di lucro.
La disciplina concernente l’applicazione e l’esecuzione della pena della multa è stata innovata dalla l.689/81
oltre ad aggiornare i limiti minimo e massimo della multa questa legge ha stabilito il principio che
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nell’irrogazione delle pene pecuniarie il giudice debba in ogni caso tener conto delle condizioni economiche
del reo e in particolare che possa aumentarle sino al triplo del massimo previsto per la legge,ovvero
diminuirle fino a un terzo quando per le condizioni economiche del reo ritenga che la misura massima sia
inefficace ovvero che la misura minima sia gravosa.Con il successivo art. 133 ter, si è prevista la possibilità
che in ragione delle condizioni economiche del condannato il pagamento avvenga in rate mensili.(La pena
della multa non eseguita per insolvibilità del condannato è soggetta a conversione).
L’ammenda consiste nel pagamento allo Stato di una somma non inferiore a 2 euro e non superiore a 1032
euro è la pena pecuniaria prevista per le contravvenzioni.
Le Pene Accessorie.
L’art.19 c.p. elenca separatamente le pene accessorie previste per i delitti e quelle per le contravvenzioni.
Pene accessorie per i delitti sono:
-l’interdizione dai pubblici uffici, - l’interdizione da una professione o da arte, - l’interdizione legale –
l’interdizione dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese
-l’incapacità di contrattare con la P.A., - l’estinzione del rapporto di impiego o di lavoro,
-la decadenza o la sospensione dall’esercizio della potestà dei genitori.
Pene Accessorie Per Le Contravvenzioni Sono:
-LA sospensione dall’esercizio di una professione o di un’arte
-la sospensione dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese.
Pena accessoria comune ai delitti e alle contravvenzioni è la pubblicazione della sentenza di condanna.
Nel testo originario dell’art.19 c.p. era prevista un’altra pena accessoria costituita dalla perdita della
capacità di testare e dalla comminatoria di nullità del testamento fatto prima della condanna,tale pena è
stata soppressa con la l.689/81 di modifiche al sistema penale che oltre ad armonizzare la previsione
relativa alla decadenza della potestà dei genitori con il nuovo diritto di famiglia, ha introdotto 2 pene
accessorie nuove per i delitti: l’interdizione dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese e
l’incapacità di contrattare con la P.A..Nella forma della sospensione analoga pena accessoria è stata
introdotta per le contravvenzioni. La funzione delle pene accessorie sull’opinione tradizionale assegnava
scopi di prevenzione generale,oggi prevale quella che le contrassegna come strumenti di prevenzione
speciale almeno nella limitata prospettiva della neutralizzazione del reo,in particolare quando i fatti per i
quali la condanna è intervenuta siano connessi all’esercizio degli uffici diritti e potestà che vengono
interdetti.Nella maggior parte dei casi le pene accessorie sono caratterizzate dall’automaticità della loro
applicazione come conseguenza della condanna principale il che sembra contraddire in modo determinante
la funzione special-preventiva della misura poiché la sottrae ad ogni valutazione di carattere finalistico e
individualizzante; ma la sola caratteristica comune a tutte le pene accessorie è la loro complementarietà
rispetto alla pena principale, le pene accessorie possono essere pepetue o temporanee in questo secondo
caso la loro durata non è stabilita espressamente dalla legge corrisponde alla durata della pena principale.
Disciplina E Contenuto Delle Singole Pene Accessorie.
Le pene accessorie previste per i delitti sono:
a)l’interdizione dai pubblici uffici.A norma dell’art.28 c.p. essa priva il condannato del diritto di
elettorato,attivo e passivo e di ogni altro diritto politico,di ogni pubblico ufficio e di ogni incaricato non
obbligatorio di pubblico servizio,di gradi,di titoli e dignità accademiche,decorazione e in genere diritti
onorifici e della capacità di assumerli. Sono venute meno le previsioni in cui al n.5 dell’art.28 prevedeva la
perdita degli stipendi,delle pensioni e degli assegni che siano a carico dello Stato o di un altro ente pubblico
e al 3 comma dello stesso art. che stabiliva la perdita in casi di interdizione temporanea della capacità di
acquistare o di esercitare o di godere durante l’interdizione i predetti diritti uffici,servizi,qualità e gradi. Con
una prima decisione la C.Cost. ha dichiarato illegittime le disposizioni menzionate alla parte in cui i diritti
traggono titolo da n rapporto di lavoro e con una seconda decisone ha dichiarato illegittimo l’art.28 n.5
anche per quanto attiene alle pensioni di guerra. L’abrogazioni delle disposizioni che prevedono a seguito di
condanna penale la perdita, la riduzione o la sospensione del diritto del dipendente dello Stato o di altro
ente pubblico al conseguimento e al godimento della pensione o dalle pensioni di guerra è stata comunque
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sancito anche per legge.
-L’interdizione dai pubblici uffici può essere perpetua o temporanea,
quella perpetua consegue di diritto alla condanna all’ergastolo o alla reclusione per un tempo non inferiore
ai 5 anni e alla dichiarazione di abitualità o professionalità nel delitto e di tendenza a delinquere. L’
interdizione temporanea ha una durata non inferiore a 1 anno e non superiore a 5 essa consegue alla
condanna alla reclusione per un tempo non inferiore a 3 anni; l’interdizione non si applica nel caso di
condanna per delitto colposo.
-L’interdizione da una professione o da un’arte priva il condannato della capacità di esercitare durante
l’interdizione,una professione,arte,industria o commercio per cui è richiesto uno speciale permesso o una
speciale abilitazione,autorizzazione o licenza dell’autorità e ne comporta la decadenza. Non può avere
durata inferiore a 1 mese ne superiore a 5 anni salvi i casi espressamente stabiliti dalla legge.Consegue alle
condanne per delitti commessi con abuso di una professione,arte, o con violazione dei relativi doveri.
-L’interdizione legale consegue alle condanne di maggior gravità. Priva il soggetto della capacità di agire si
applicano le norme della legge civile sull’interdizione giudiziale.L’interdizione legale produce anche la
sospensione per la durata della pena,dell’esercizio della potestà dei genitori salvo che il giudice disponga
altrimenti.
-L’interdizione dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese, è stata introdotta come pena
accessoria nel codice della l.689/81 e mira a rafforzare la risposta sanzionatoria ai reati commessi con
l’esercizio di un’attività imprenditoriale.L’art.32 bis prevede che l’interdizione consegua ad ogni condanna
alla reclusione non inferiore a 6 mesi per i delitti commessi con abuso dei poteri o violazione dei doveri
inerenti all’ufficio, essa priva il condannato della capacità di esercitare durante l’interdizione,l’ufficio di
amministratore,sindaco,liquidatore e direttore generale nonché ogni altro ufficio con potere di
rappresentanza della persona giuridica o dell’imprenditore; la durata dell’interdizione è pari a quella della
pena principale. L’interdizione dagli uffici direttivi non si applica nel caso di condanna per delitto colposo
alla reclusione inferiore a 3 anni e nel caso di inflizione della sola pena pecuniaria.
-L’incapacità di contrattare con la Pubblica Amministrazione, introdotta con la legge 689/81 consegue alla
commissione dei delitti indicati nell’art.32 quater non può avere durata inferiore a 1 anno ne superiore a 3
anni comporta il divieto di concludere contratti con la P.A. salvo che per ottenere le prestazioni di un
pubblico servizio. Per la sua applicazione si richiede che i reati ai quali essa consegue siano stati commessi
in danno o in vantaggio di un’attività imprenditoriale o comunque in relazione ad esse.
La estinzione del rapporto di lavoro o di impiego.
Si tratta di una nuova pena accessoria introdotta nel 2001 che nel caso di condanna alla reclusione non
inferiore a 3 anni per i delitti di cui agli artt. 314, 1 comma, 317,318,319 ter e 320 comporta l’estinzione del
rapporto di lavoro o di impiego per il dipendente di amministrazioni o enti pubblici ovvero di enti a
prevalente partecipazione pubblica.
-La decadenza o la sospensione dell’esercizio della potestà dei genitori.
Sono regolati dall’art.34 c.p. che nel 1 comma stabilisce: la legge determina i casi nei quali la condanna
importa la decadenza della potestà dei genitori. Le ipotesi sono quelle della condanna all’ergastolo e della
condanna per incesto e per i delitti contro la libertà sessuale.La condanna per delitti commessi con abuso
della potestà dei genitori importa la sospensione dell’esercizio di tale potestà per un periodo di tempo pari
al doppio della pena inflitta.Sia la decadenza che la sospensione dell’esercizio della potestà dei genitori
comportano l’incapacità di esercitare qualsiasi diritto che il genitore spetti sui beni del figlio.
Le Pene Accessorie Applicabili Alle Contravvenzioni Sono:
-La sospensione dell’esercizio di una professione o di un’arte.
Consegue ad ogni condanna per contravvenzione commessa con abuso della professione,arte ecc… ovvero
con violazione dei relativi doveri quando la pena principale inflitta non è inferiore a 1 anno di arresto, la
sospensione non può essere di durata inferiore a 15 giorni ne superiore a 2 anni. Il contenuto sanzionatorio
della sospensione non comporta la decadenza del permesso,dell’abilitazione ecc… cosi che decorso il
periodo di sospensione l’esercizio della professione dell’arte ecc può essere ripreso senza necessità di una
nuova autorizzazione.
-La sospensione dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese.
Consegue ad ogni condanna dell’arresto per contravvenzioni commesse con abuso dei poteri o violazione
dei doveri inerenti all’ufficio non può avere durata inferiore a 15 giorni o superiore a 2 anni. La
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pubblicazione della sentenza di condanna è pena accessoria comune ai delitti e alle contravvenzioni,questa
pena è disposta in sentenza e consiste nella pubblicazione della sentenza si condanna per una sola volta su
uno o più giornali la pubblicazione è eseguita di ufficio ma a spese del condannato.Inoltre l’art.36 dispone
che la sentenza di condanna all’ergastolo sia anche pubblicata mediante affissione nel Comune ove è stata
pronunciata,in quello ove il delitto fu commesso o in quello ove il condannato aveva l’ultima residenza.
Le Pene Sostitutive
Le sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi rappresentano senza dubbio una delle innovazioni più
significative introdotte dalla l.689/81 di modifiche al sistema penale.
L’introduzione delle c.d. pene sostitutive ha ampliato il ventaglio delle sanzioni a disposizione del giudice
penale che da un lato viene dotato di un ulteriore strumento per una più puntuale individualizzazione della
pena, dall’altro è posto comunque in condizione di scongiurare per i reati meno gravi gli effetti de
socializzanti della carcerazione,senza per questo rinunciare alla funzione dissuasiva che la concreta
inflazione della pena esercita sul condannato rispetto alla commissione di ulteriori reati. Sotto questo
duplice profilo le sanzioni sostitutive si inseriscono nel solco della prevenzione speciale integratrice e quindi
lato sensu rieducativa.
Le sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi sono: la semidetenzione,la libertà controllata e la pena
pecuniaria. L’applicabilità delle sanzioni sostitutive è circoscritta dalla misura della pena determinata in
concreto dal giudice; nella originaria previsione della L.689/81 per essere sostituibile la pena irrogata non
doveva superare i 6 mesi di reclusione. Questo limite è stato ampliato con la l. 12 giugno 2003 n.134.
Secondo la normativa vigente il giudice quando ritiene di dovere determinare la pena detentiva entro il
limite di 6 mesi,può sostituirla con una qualsiasi delle sanzioni sostitutive quando si tratti di una pena
superiore a 6 mesi ma non superiore a 1 anno può sostituirla con la semidetenzione o con la libertà
controllata,mentre quando ritenga di irrogare una pena superiore ad 1 anno e non superiore a 2 anni ha a
disposizione la sola misura della semidetenzione.Questi limiti si dilatano fino al triplo nelle ipotesi di reato
continuato e di concorso di reati.L’pplicabilità delle sanzioni sostitutive è esclusa per taluni reati il cui
elenco è contenuto nell’art.60 della l.689/81, per quanto riguarda le esclusioni soggettive le sanzioni
sostitutive non possono essere applicare a coloro che siano stati già condannati,con una o più sentenze
complessivamente ad una pena superiore ai 2 anni di reclusione ed abbiano commesso il reato nei 5 anni
dalla condanna precedente,inoltre se la pena detentiva è stata irrogata per un fatto commesso nell’ultimo
decennio essa non può essere sostituita:
a)a coloro che siano stati condannati 2 volte per reati della stessa indole
b)a coloro nei cui confronti una pena sostitutiva precedentemente inflitta sia stata convertita in pena
detentiva ovvero sia stato revocato il regime di semilibertà
c)infine a chi abbia commesso il reato durante il tempo in cui era sottoposto alla misura di sicurezza della
libertà vigilata o alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale.
Contenuto E Regime Delle Singole Sanzioni Sostitutive
La semidetenzione,sanzione con cui il giudice può sostituire le pene detentive superiori a 1 anno e non
superiore a 2 anni comporta l’obbligo di trascorrere almeno 10 ore al giorno negli istituti di pena e una
serie di limitazioni.
-La libertà controllata in alternativa alla semidetenzione per sostituire le pene detentive superiori a 6 mesi
ma non superiori ad 1 anno comporta il divieto di allontanarsi dal comune di residenza se non previa
autorizzazione per i soli motivi di studio,lavoro,famiglia o salute; l’obbligo di presentarsi almeno una volta
al giorno negli uffici di pubblica sicurezza o presso il comando dell’arma dei Carabinieri territorialmente
competente;nonché ulteriori limitazioni previste per la semidetenzione con riguardo alle armi di
esplosivi,all’espatrio ecc.
Le prescrizioni imposte possono essere modificate dal magistrato di sorveglianza cha ha la facoltà di
adattarle alla concreta situazione del condannato.
La pena pecuniaria può sostituire le pene detentive non superiori a 6 mesi ed inoltre è stata introdotta il
modello dei tassi giornalieri assai diffuso negli ordinamenti europei: nell’operare la sostituzione, il giudice
tenendo conto della condizione economica complessiva dell’imputato e del suo nucleo familiare, determina
l’entità della quota giornaliera compresa tra un minimo di 38 ed un massimo di 380 euro che viene poi
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moltiplicata per il numero dei giorni di pena detentiva da sostituire.
Un giorno di detenzione equivale rispettivamente a un giorno di semidetenzione e a 2 giorni di libertà
controllata, il giudice cioè nel sostituire la pena detentiva irrogherà la semidetenzione per un durata uguale
a quella della reclusione o dell’arresto,preventivamente determinata,la libertà controllata per un tempo
doppio rispetto alla durata della corrispondente pena detentiva sostitutiva.
L’inosservanza delle prescrizioni imposte al condannato ha come conseguenza la conversione della restante
parte di pena sostitutiva nella pena detentiva sostituita.Lo stesso effetto produce la revoca della pena
sostitutiva che ha luogo in due casi:
-quando sopraggiunge una delle condanne per fatti commessi anteriormente alla sostituzione della pena
che avrebbero impedito l’applicazione della pena sostitutiva
-la condanna a una pena detentiva per un fatto commesso successivamente all’irrogazione della pena
sostitutiva.Le sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi si applicano sia di ufficio che su richiesta
dell’imputato.
L’originaria disciplina di questa seconda ipotesi comunemente definita “patteggiamento” era contenuta
negli artt.77ss.l.689/81 e limitava l’operatività dell’istituto ai casi in cui il giudice riteneva di poter irrogare
le sanzioni sostitutive della libertà controllata o della pena pecuniaria in questi casi al patteggiamento
conseguiva l’estinzione del reato. Gli artt. 77,78,79 e 80 della l.689/81 sono stati abrogati dall’art.234 delle
disposizioni di attuazione e coordinamento del nuovo codice di procedura penale,restando in tal modo
l’originaria disciplina del patteggiamento assorbita nell’istituto della applicazione della pena su richiesta
delle parti corrispondente a uno dei riti speciali previsti dal codice di procedura penale.L’art. 444 del
vigente codice di procedura penale prevede che l’imputato e il pubblico ministero possono chiedere al
giudice l’applicazione nella specie e nella misura indicate di una sanzione sostitutiva o di una pena
pecuniaria diminuita fino a un terzo, ovvero di una pena detentiva quando tenuto conto delle circostanze e
diminuita fino a un terzo non supera 5 anni soli o congiunti a pena pecuniaria.
I Criteri Per La Determinazione E Commisurazione Giudiziale Della Pena. L’art.133 C.P.
Nell’ambito dei limiti edittalmente stabiliti il giudice perviene alla determinazione finale della pena da
infliggere in concreto attraverso l’esercizio di un potere che per definizione legislativa è discrezionale.Egli si
orienta cioè sia nella specie di pena quando la legge consente questa alternativa sia nella fissazione della
quantità della pena,tra i limiti minimo e massimo sanza altro vincolo che quello di tener conto di taluni
elementi di giudizio indicati dalla legge. La delega al giudice è necessaria se il trattamento penale fin dal
momento della determinazione concreta della pena vuol essere individualizzato. L’art.133 c.p. nei due
commi di cui si compone accorpa gli indici di determinazione della pena riferendoli al dato della gravità del
reato e a quello della capacità a delinquere del colpevole.La gravità del reato è desunta a norma
dell’art.133 dalla natura,dalla specie,dai mezi,dal tempo,dal luogo e da ogni altra modalità dell’azione
-dalla gravità del danno o del pericolo cagionata alla persona offesa dal reato
-dala intensità del dolo o dal grado della colpa.
La capacità a delinquere è desunta:
-dai motivi a delinquere e dal carattere del reo,
-dai precedenti penali e giudiziari, e in genere dalla condotta della vita del reo antecedente al reato
-dalla condotta contemporanea o susseguente al reato
-dalle condizioni di vita individuale,familiare e sociale del reo.
L’orientamento di raggruppare le esigenze retribuzionistiche intorno al parametro della gravità del reato e
quelle special-preventive intorno ai coefficienti della capacità a delinquere pur trovando un fondamento
nella interpretazione logico-sistematica dell’art.133 non risolve il problema.Ciò che è decisivo è stabilirla
gerarchia dei fini ai quali indirizzare il momento della commisurazione,gerarchia che non è dato ricavare
dall’art.133 le cui indicazioni sono per lo più tradotte in” formulette pigre” che tradiscono il vuoto di fini
che ne contrassegna il contenuto e rischiano di sfociare nell’arbitrio giudiziale. La dottrina recente cerca di
sviluppare dei criteri di commisurazione della pena e ancorandola alle relative indicazioni costituzionali,
viene cosi a stabilirsi una gerarchia tra i criteri di commisurazione della pena che pone in via preliminare
l’esigenza di determinare le finalità che si intendono perseguire mediante l’irrogazione della pena,solo
successivamente e subordinatamente a quelle il giudice potrà determinare il peso che assumono i diversi
indici fattuali a cui commisurare l’entità della pena. La lettura costituzionalmente orientata dei criteri di
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commisurazione della pena impone di fare riferimento all’enunciazioni dell’art.27 Cost. che da un lato
esigono di attribuire alla misura della colpevolezza del soggetto il ruolo di un criterio-guida ai fini della
commisurazione della pena, dall’altro affermano le finalità rieducative della pena. (Gli indici di
commisurazione costituiti dall’intensità del dolo e dal grado della colpa siano da considerare prevalenti
rispetto alla gravità del danno o del pericolo cagionato alla persona offesa e non potranno dar luogo a una
pena che ecceda il grado della colpevolezza)
i singoli indici della commisurazione della pena
Nella prima parte dell’art.133 riflettono gli indici di gravità del reato che attengono alla fattispecie esecutiva
di esso sia sotto il profilo della condotta del reo,che sotto il profilo dell’evento nonché quelli attinenti
all’elemento psicologico del fatto. La natura,la specie,i mezzi,l’oggetto,il tempo,il luogo,le modalità
dell’azione esprimono l’insieme dei dati a cui si commisura il disvalore di azione del fatto,considerato nel
suo versante oggettivo questa valutazione appare da un riferimento al disvalore di evento del fatto riflesso
nel dato costitutivo della gravità del danno o del pericolo cagionato alla persona offesa. Sul versante
soggettivo vengono in considerazione l’intensità del dolo e il grado della colpa,l’una si definisce in funzione
della forma che il dolo assume e si può di regola considerare progressivamente decrescente,dal dolo
intenzionale alle diverse specie del dolo indiretto.Il grado della colpa risulterà in termini oggettivi dalla
misura di divergenza fra la condotta effettivamente tenuta e quella corrispondente all’obbligo di diligenza
dal punto di vista della sua misura soggettiva dal livello di eseguibilità della condotta rispettosa dell’obbligo
di diligenza. Art. 133,2 comma secondo l’opinione comune questa disposizione estende l’apprezzamento
giudiziale dal fatto alla personalità del colpevole ancorandone i diversi momenti al parametro della c.d.
capacità a delinquere.Ad una interpretazione che assimila sostanzialmente la capacità a delinquere alla
pericolosità sociale e la intende come possibilità di future condotte criminose,si contrappone un’accezione
che tende a connotare i diversi indici in cui la capacità a delinquere si riflette come altrettanti fattori del
giudizio di colpevolezza.
Gli elementi di cui il giudice dovrà tenere conto nella valutazione della capacità a delinquere sono:
-i motivi a delinquere vale a dire gli impulsi,le motivazioni,i sentimenti ecc che hanno spinto il reo ad agire
-il carattere del reo cioè gli aspetti strutturali della sua personalità che possono variamente collegarsi ai
fattori endogeni ed esogeni che hanno contribuito a costruirla rilevante nel giudizio isia diagnostico che
prognostico della capacità criminale del soggetto
-i precedenti penali e giudiziari e in genere la condotta e la vita anteatta del reo: sono le condanne
anteriormente riportate dal soggetto,i procedimenti giudiziali sono dati dai procedimenti attualmente
pendenti dall’eventuale sottoposizione a misure di prevenzione.
La vita anteatta viene in considerazione in tutti gli aspetti che possono risultare significativi in termini di
capacità a delinquere uso di droghe,rifiuto di attività lavorative ecc.
-la condotta antecedente contemporanea e susseguente al reato, la cui significatività è data dalla
coincidenza o prossimità temporale con il fatto commesso o da più specifiche connessioni con esso
(es.valore del pentimento)
-le condizioni di vita individuale,familiare e sociale del re: si tratta di valutare l’incidenza dei fattori socioambientali nel processo criminogenetico,sul grado della colpevolezza e delle esigenze del trattamento dal
punto di vista special-preventivo.
La Commisurazione Della Pena Pecuniaria
A norma dell’art.133 bis c.p. nella quantificazione della pena pecuniaria il giudice deve tener conto delle
condizioni economiche del reo. Questa integrazione introdotta dall’art.100 della l. 689/81 tende a
perseguire l’eguaglianza di fatto fra i condannati,tenuto conto che un uguale ammontare di pena
pecuniaria colpisce in modo diseguale soggetti che abbiano differenti disponibilità economiche.
L’art.133 bis faculta il giudice ad aumentare o diminuire la pena fino al triplo di quella stabilita dalla legge
quando per le condizioni economiche del reo ritenga che la misura massima sia inefficace ovvero che la
misura minima sia eccessivamente gravosa quindi in virtù di questa disposizione il giudice può oltrepassare
verso l’alto o verso il basso gli stessi limiti edittali in considerazione delle condizioni economiche del
condannato.Ma la dottrina si lamenta che il legislatore non abbia compiuto l’ulteriore passo che lo divideva
dal sistema del c.d. tassi giornalieri introdotto nel nostro ordinamento limitatamente alla esecuzione della
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pena pecuniaria sostitutiva della pena detentiva breve.
il potere discrezionale del giudice nell’applicazione delle pene sostitutive
Il giudice nei limiti fissati dalla legge e tenuto conto dei criteri indicati nell’art.133 dopo aver determinato la
misura della pena detentiva da applicare dovrà compiere un ulteriore valutazione dovrà cioè stabilire se
sussistono i presupposti per applicare in luogo di quella una sanzione sostitutiva.
Nell’ipotesi affermata i suoi poteri discrezionali saranno inesistenti quando si tratta di pene detentive
superiori ad 1 anno,per le pene di durata inferiore la sua discrezionalità sarà maggiore in particolare per
quanto attiene alle pene detentive fino a 6 mesi per la cui eventuale sostituzione avrà a disposizione tutti e
3 i tipi di sanzioni sostitutive. In ogni caso si tratterà di una decisione sull’an e sul quomodo della
sostituzione ma non sul quantum di essa che è la risultante di criteri di ragguaglio normativamente
predeterminati.
Nell’ipotesi in cui ha la facoltà di determinare il tipo di sanzione sostitutiva da applicare il giudice a norma
dell’art.58 1 comma della l. 689/81 dovrà scegliere quella più idonea al reinserimento sociale del
condannato. Tuttavia il potere di disporre una sostituzione incontra un limite nel 2 comma dell’art. 58 il
quale stabilisce che il giudice non può disporre la sostituzione quando presume che le prescrizioni non
saranno adempiute dal condannato e il 3 comma dell’art.58 richiede che il giudice indichi i motivi che
giustificano la scelta del tipo di pena irrogata.
la commisurazione della pena nei procedimenti speciali.
Gli artt. 438 ss. 444 ss. 459 ss. c.p.p. prevedono particolari riduzioni di pena come conseguenza di
instaurazione dei riti differenziati: giudizio abbreviato,applicazione della pena su richiesta delle parti (c.d.
patteggiamento) giudizio per decreto. Queste diminuzioni di pena di un terzo per il giudizio abbreviato, fino
a un terzo nel patteggiamento, sino alla metà nel giudizio per decreto,non conseguono a determinare
circostanze nel reato e neppure a una condotta del reo ma soltanto alla scelta in sede processuale del
ricorso a un procedimento semplificato e più celere. L’effetto che essi determinano sulla misura della pena
applicabile si risolve esclusivamente a favore del reo.
CAPITOLO TERZO: L’ESECUZIONE DELLE PENE
l’esecuzione delle pene detentive
L’ordinamento penitenziario del 75 innovò la disciplina dell’esecuzione della pena detentiva inserendola
nella prospettiva rieducativo-risocializzante imposta dalla Costituzione. Il trattamento dev’essere
individualizzato deve rispondere cioè: ai particolari bisogni della personalità di ciascun soggetto determinati
attraverso la classificazione dei detenuti e l’osservazione della loro personalità. Il vigente ordinamento
penitenziario configura diversi istituti che incidono sul carattere segregante dell’istituzione penitenziaria dal
lavoro all’esterno fino ai permessi premio. I permessi premio ciascuno di durata non superiore a 15 giorni
possono essere concessi ai condannati che abbiano tenuto regolare condotta per non più di 45 giorni
all’anno complessivamente per consentire ai detenuti di coltivare interessi affettivi,culturali o di lavoro. Lo
stesso regime di detenzione carceraria può essere sostituito dall’affidamento in prova al servizio
sociale,ovvero modificarsi in detenzione domiciliare o nel regime di semilibertà o cessare prima della
scadenza della pena inflitta dal giudice. Ma l’art. 4 bis prevede un divieto di concessione dei suddetti
benefici penitenziari comprese le misure alternative diverse dalla liberazione condizionale,ai detenuti e
internati per reati di criminalità organizzata o terrorismo nonché per altri gravi delitti salvo che non si tratti
di soggetti che hanno assunto lo status di collaboratori di giustizia (c.d. pentiti). L’art. 14 bis prevede invece
la sottoposizione al regime di sorveglianza speciale per un periodo non superiore a 6 mesi prorogabile
anche più volte per non più di 3 mesi a carico di quei detenuti che compromettono la sicurezza o turbino
l’ordine degli istituti ecc. Il secondo comma dell’art.41 bis infine prevede la facoltà del Ministro della
giustizia anche a richiesta del Ministro dell’interno quando ricorrono gravi motivi di ordine e di sicurezza
pubblica di sospendere in tutto o in parte l’applicazione delle regole di trattamento e degli istituti previsti
dall’ordinamento penitenziario che possono porsi in concreto con le esigenze di ordine e sicurezza nei
confronti dei detenuti o internati per reati di mafia,terrorismo e di altri delitti di grave pericolosità.
L’esecuzione della pena detentiva di svolge sotto la vigilanza e il controllo del Magistrato di sorveglianza del
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Tribunale di sorveglianza. (L’art.47 la detenzione domiciliare e la semilibertà non possono essere concessi
per più di una volta al condannato al quale sia stata applicata la recidiva).
Le Misure Alternative Alla Detenzione
Le misure alternative alla detenzione sono state introdotte dalla l. 689/81, la differenza tra misure
alternative e sanzioni sostitutive sta nel fatto che le prime costituiscono una possibile modalità di
esecuzione della pena detentiva e sono applicate non dal giudice della cognizione con la sanzione che
definisce il processo,ma dalla magistratura di sorveglianza.
Talune misure alternative possono applicarsi soltanto nel corso della esecuzione della pena altre anche
prima. In quest’ultimo caso l’applicazione della misura si ricollega all’idea che la detenzione carceraria
costituisca l’extrema ratio dell’esecuzione penale e che ad essa perciò debba farsi ricorso solo quando le
esigenze della prevenzione speciale non possono essere raggiunte. Quando la misura alternativa è applicata
dopo che si è iniziata l’esecuzione della pena in regime penitenziario la sua adozione costituisce un riflesso
del trattamento nel senso che i risultati già conseguiti consentono una modificazione delle modalità di
esecuzione anche al di fuori del regime penitenziario. Le misure alternative della detenzione previste dal
vigente ordinamento penitenziario sono : l’affidamento in prova al servizio sociale,la detenzione
domiciliare,la semilibertà,la liberazione anticipata.
1)L’affidamento in prova al servizio sociale, può essere disposto nei confronti dei condannati a pena
detentiva non superiore a 3 anni. Consiste nell’affidamento al servizio sociale fuori dall’istituto per un
periodo uguale a quello della pena da scontare nei casi in cui si può ritenere che il provvedimento
contribuisca alla rieducazione del reo e assicuri la prevenzione del pericolo che egli commette altri reati.
Nelle previsioni originarie dell’ordinamento del 75 l’ambito di applicabilità della misura era più ristretto
esso era infatti esclusa per taluni reati, limitata per i soggetti di età superiore a 21 e inferiore a 70,alle pene
non eccedenti i 2 anni e sei mesi e prevedeva un periodo minimo di osservazione in istituto per almeno 3
mesi poi ridotto a 1 mese. L’attuale formulazione della norma prevede che l’affidamento possa essere
disposto senza procedere alla osservazione in istituto ma basandosi sulla valutazione del comportamento
serbato dal condannato dopo la commissione del reato. Il Tribunale di sorveglianza determina la
prescrizione a cui l’affidamento deve sottostare. Il servizio sociale controlla la condotta del soggetto e lo
aiuta a superare le difficoltà di adattamento alla vita sociale anche mettendosi in relazione con la sua
famiglia. A norma dell’art. 47, 12 comma l’esito positivo del periodo di prova estingue la pena e ogni altro
effetto penale della condanna. L’affidamento per contro è revocato qualora il comportamento del soggetto
contrario alla legge o alla prescrizione dettate appaia incompatibile con la prosecuzione della prova.La
revoca si configura come revoca ex tunc con la conseguenza che l’affidato doveva scontare per intero la
pena detentiva residua. Con la sentenza n.343/87 la Corte Cost. ha dichiarato la norma illegittima nella
parte in cui in caso di revoca non consente al Tribunale di sorveglianza di determinare sulla base delle
limitazione patite del condannato e del suo comportamento durante il periodo dell’affidamento,la residua
pena detentiva da esperire. Quindi si è aggiunto una efficacia estintiva della pena detentiva anche nei casi
di revoca.L’esito positivo della prova non estingue ne le pene accessorie,ne le obbligazioni civili nascenti dal
reato.
2)Detenzione domiciliare: la pena della reclusione non superiore a 4 anni e quella dell’arresto possono
essere espiate nella propria abitazione o in altro luogo di privata dimora ovvero in un luogo pubblico di curo
o assistenza quando ricorrano le seguenti situazioni personali:
a)donna incinta o madre di prole di età inferiore ad anni 10
b)padre esercente la potestà di prole di età inferiore ad anni 10 con lui convivente quando la madre sia
decaduta o altrimenti assolutamente impossibilitata a dare assistenza alla prole
c)persona in condizioni di salute gravi, che richiedano costanti contatti con i presidi sanitari territoriali
d)persona di età superiore a 60 anni,se inabile anche parzialmente
e)persona minore di 21 anni per comprovare esigenze di salute di studio,di lavoro e di famiglia
A norma del 8 comma dell’art.47 ter l’allontanamento non autorizzato dai luoghi in cui la pena deve essere
espiata è considerata evasione,la denuncia per tale reato comporta la sospensione del beneficio e la
condanna ne determina la revoca. Con le c.d. legge Simeone è stata introdotta un ulteriore figura generale
della detenzione domiciliare che è applicabile indipendentemente dalle condizioni previste nel 1 comma
dell’art.47 ter a qualsiasi condannato debba scontare una pena detentiva non superiore a 2 anni anche se
costituente parte residua di maggior pena quando non ricorrono i presupposti per l’affidamento in prova al
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servizio sociale e sempre che tale misura sia idonea ad evitare il pericolo che il condannato commetta altri
reati. E’ stato modificato anche il comma 1 bis stesso art.47 ter per escludere la possibilità in generale
prevista di applicare ai recidivi reiterati la detenzione domiciliare nei casi in cui non ricorrono i presupposti
per l’affidamento in prova al servizio sociale e sempre che tale misura sia idonea ad evitare che il
condannato commetta altri reati,quando la pena detentiva da scontare non sia superiore a 2 anni. In
seguito è stata introdotta una nuova forma di detenzione domiciliare che consente di scontare in forma
domiciliare la pena della reclusione per qualsiasi durata ad esclusione solo dell’ergastolo
a)il condannato abbia un’età superiore ai 60 anni
b)che non sia stato condannato per uno dei delitti contro la personalità individuale
c)che non si tratti di persona dichiarata delinquente abituale,professionale o per tendenza,ne sia mai stato
condannato con l’aggravante della recidiva.
La SEMILIBERTA’ consiste nella possibilità di trascorrere parte del giorno fuori dall’istituto della di pena per
partecipare ad attività lavorative,o istruttive.Il condannato alla pena dell’arresto o a quella della reclusione
non superiore a 6 mesi è ammesso a godere del regime di semilibertà anche prima dell’inzio dell’espiazione
della pena se ha dimostrato la propria volontà di reinserimento nella società. Negli altri casi la semilibertà
può essere concessa dopo l’espiazione di almeno metà della pena e in particolari casi dopo l’espiazione di
almeno due terzi della pena per i soggetti ai quali sia stata applicata la recidiva prevista dall’art.99, 4
comma, l’art.50 bis eleva la soglia di pena da espiare prima di poter beneficiare della semilibertà a due terzi
e se si tratta di un condannato per taluno dei delitti indicati nel 1 comma dell’art. 4 bis a tre quarti. A norma
dell’art. 50 l’ammissione al regime di semilibertà è disposta in relazione ai progressi compiuti nel corso del
trattamento quando vi sono le condizioni per un graduale reinserimento del soggetto nella società. Il
condannato all’ergastolo può essere ammesso alla semilibertà dopo aver scontato 20 anni di pena. L’art.51
della legge 354/75 disciplina le ipotesi di sospensione e revoca del beneficio in relazione alle assenze del
condannato dall’istituto in violazione dei limiti di tempo stabiliti quindi il beneficio può essere revocato
quando il soggetto non si appalesi idoneo al trattamento.
La Liberazione Anticipata, l’art.54,1 comma l.354/75 stabilisce che al condannato a pena detentiva che ha
dato prova di partecipazione all’opera rieducativa è concessa quale riconoscimento di tale partecipazione e
ai fini del suo più efficace reinserimento nella società la detrazione di 45 giorni per ogni semestre di pena
scontata. Alla detenzione penitenziaria sono equiparate la custodia cautelare sofferta e la detenzione
domiciliare. Ai fini della semilibertà dei permessi premio e della liberazione condizionale il periodo detratto
è considerato come una pena scontata agli effetti del computo della misura di pena che occorre aver
espiato. La condanna per un delitto non colposo commesso nel corso dell’esecuzione successivamente alla
concessione del beneficio ne comporta la revoca.
Esecuzione E Conversione Delle Pene Pecuniarie
La pena pecuniaria si esegue di regola mediante il versamento dell’importo corrispondente alla multa o
all’ammenda inflitta dal giudice con la sentenza di condanna,il pagamento può avvenire anche ratealmente.
La disciplina del 79 comportava che in caso di insolvibilità del condannato la conversione della pena
pecuniaria nella corrispondente pena detentiva introducendo una diseguaglianza di trattamento a sfavore
dei condannati nullafacenti, e ciò fu dichiarato costituzionalmente illegittimo. Con la legge 689/81
stabilisce che le pene della multa o dell’ammenda non eseguite per insolvibilità del condannato si
convertono nella libertà controllata ragguagliando 38 euro di pena pecuniaria a un giorno di libertà
controllata fino a un massimo di 6 mesi per l’ammenda, di un anno per la multa.La pena pecuniaria a
richiesta del condannato può essere convertita in lavoro sostitutivo in questo caso il criterio di ragguaglio è
di 25 euro per ciascun giorno di lavoro sostitutivo, tale lavoro consiste nella prestazione di un’attività non
retributiva a favore della collettività, da svolgere presso lo Stato,le regioni, le provincie,i comuni o enti ecc..
ma solo se richiesto dal condannato in mancanza saremo di fronte a un’ipotesi di lavoro coattivo vietato
dall’art.4, 2 comma della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. La conversione delle pene pecuniarie
inflitte dal giudice di pace e non eseguite per insolvibilità del condannato è oggetto di espressa e specifica
previsione da parte del 4 comma dell’art.55 d.lgs.274/2000 se il condannato ne fa richiesta la pena
pecuniaria è convertita in lavoro sostitutivo in caso contrario la conversione avviene applicando la pena
della permanenza domiciliare ragguagliata nella misura di 25 euro per ogni giorno di permanenza. Il 4
comma dell’art.55 prevede poi che nel caso in cui il condannato abbia violato l’obbligo del lavoro
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sostitutivo conseguente alla conversione della pena pecuniaria la parte di lavoro non ancora eseguito si
converte nell’obbligo si permanenza domiciliare.
CAPITOLO QUARTO: LE IPOTESI DI NON APPLICAZIONE, SOSPENSIONE, MODIFICAZIONE ED ESTINZIONE DELLA PENA
Le vicende della punibilità.
La punibilità può definirsi come la possibilità in concreto di irrogare la sanzione prevista per la violazione
del precetto penale.
Per il sorgere della punibilità occorrono tre elementi:
1) la commissione di un reato;
2) l’assenza di cause personali di esclusione della pena (immunità, non imputabilità);
3)la presenza di eventuali condizioni obiettive di punibilità.
Condizioni obiettive e cause di non punibilità in senso stretto.
L’art. 44 c.p. prevede che «quando, per la punibilità del reato, la legge richiede il verificarsi di una
condizione, il colpevole risponde del reato, anche se l’evento, da cui dipende il verificarsi della condizione,
non è da lui voluto».
Il codice, quindi, non definisce le condizioni obiettive di punibilità, ma si limita a fissarne due caratteri:
• devono consistere in un avvenimento del mondo esterno, che non deve necessariamente esser voluto
dall’agente;
• devono essere estranee alla condotta illecita.
Sono esempi condizioni obiettive di punibilità:
• l’annullamento di matrimonio nell’induzione al matrimonio mediante inganno (art. 558 c.p.);
• la sorpresa in flagranza prevista negli artt. 260, 707, 708, 720, c.p.;
• la presenza del reo nel territorio dello stato nei casi previsti dagli artt. 9 e 10 c.p.
Secondo la migliore dottrina, le condizioni obiettive di punibilità costituiscono avvenimenti futuri ed incerti,
estranei all’azione illecita, il cui verificarsi è necessario per la punibilità del reato, ma non per la sua
esistenza.
La dottrina distingue tra condizioni intrinseche ed estrinseche:
— le prime approfondiscono una lesione già implicita nella commissione del fatto (ad esempio, il
«pubblico scandalo» nell’incesto, art. 564 c.p.) e si pongono a metà strada tra gli elementi costitutivi e le
condizioni estrinseche.
---Le seconde nulla aggiungono alla lesione dell’interesse protetto dalla norma incriminatrice, ma si limitano
a riflettere mere valutazioni di opportunità punitiva estranee alla sfera dell’offesa al bene protetto.
Dunque le condizioni intrinseche finiscono per confluire nella dimensione del fatto tipico; mentre le
estrinseche sono esterne alla struttura del reato ed estranee al piano dell’offesa.
La mancanza di una condizione estrinseca di punibilità va assimilata, nel tipo di efficacia, a quelle definite
cause di non punibilità in senso stretto, che sono contrassegnate appunto dalla estraneità rispetto alla
struttura del reato e consistono in fatti, situazioni e comportamenti successivi alla consumazione di un
reato, completo di tutti i suoi elementi costitutivi.
L’interesse pratico alla individuazione delle condizioni obiettive di punibilità è duplice:
• in
primo luogo, mentre gli eventi che fanno parte del fatto in senso stretto devono essere
oggetto del dolo o della colpa, gli eventi-condizioni obiettive vengono imputati a titolo di responsabilità
oggettiva (art. 44 c.p.);
• in secondo
luogo, l’art.
158, comma 2, c.p. fa
decorrere il
termine di prescrizione del
reato dal momento in cui si verifica la condizione obiettiva di punibilità.
Le cause generali di estinzione del reato.
Le cause di estinzione del reato: estinguono la punibilità in astratto, cioè l’applicabilità di una certa pena
all’autore di una trasgressione, antecedentemente alla sentenza definitiva di condanna.
L’applicabilità delle cause di estinzione del reato, pur essendo assistita dalla regola della immediata
declaratoria, è tuttavia subordinata alla evidenza delle condizioni per un proscioglimento nel merito. Le
cause di estinzione del reato, viceversa, prevalgono sulle cause di estinzione della pena.
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Negli art. 150-170 c.p., la nostra legge prevede, quali cause di estinzione del reato: la morte del reo prima
della condanna; la remissione della querela; l’amnistia; la prescrizione del reato; l’oblazione; la sospensione
condizionale della pena; il perdono giudiziale.
Le singole cause di estinzione del reato.
a) Morte del reo: per il principio della assoluta personalità della responsabilità penale e della pena, con
la morte del reo si determina l’estinzione del reato (se prima della condanna) o della pena principale
e accessoria nonché degli altri effetti penali della condanna (se dopo la condanna) (artt. 150 e 171
c.p.);
b) Amnistia (art. 151 c.p.): atto di clemenza generale con cui lo Stato rinuncia all’applicazione della
pena. È concessa con legge deliberata a maggioranza dei due terzi dei componenti di ciascuna
camera. È rinunziabile dall’imputato.
Essa può essere:
 propria: opera per i reati per cui non sia ancora intervenuta la condanna, estingue il reato;
 impropria: interviene dopo la sentenza irrevocabile di condanna, estingue le pene principali
e quelle accessorie, ma non gli altri effetti penali della condanna.
L’amnistia non si applica ai recidivi, nei casi preveduti dai capoversi dell’art. 99 c.p., né ai delinquenti
abituali, professionali o per tendenze ma è fatta salva l’ipotesi che lo stesso provvedimento di
amnistia disponga diversamente( art. 11, IV comma). L’amnistia, sia propria che impropria, non
estingue le obbligazioni civili nascenti dal reato, salvo che si tratti della obbligazione civile per la
multa o per l’ammenda. A seguito della sentenza costituzionale 14 luglio 1971, n. 175, l’amnistia è
sempre rinunciabile da parte del soggetto che dovrebbe beneficiarne, ma che abbia, viceversa,
interesse a una pronuncia che escluda la sua colpevolezza e renda, eventualmente, improponibili
azioni civili nei suoi confronti.
c) Prescrizione (art. 157-162): consiste nella rinuncia dello stato a far valere la propria pretesa punitiva
dopo il trascorrere di un certo periodo di tempo dal verificarsi del reato o dalla condanna. Per la
prescrizione del reato trascorso il tempo previsto dall’art. 157 dalla consumazione del reato senza
che sia intervenuta sentenza irrevocabile di condanna, il reato è definitivamente estinto. Il decorso
del termine di prescrizione può essere sospeso ( art. 159) o interrotto ( art. 160). La sospensione
implica una sorta di pausa nel corso della prescrizione, dimodochè questa riprende a decorrere,
una volta cessata la causa della sospensione, ferma restando la validità del periodo già trascorso, ai
fini del computo finale, nel senso che i due periodi si sommano fra loro. La sospensione della
prescrizione ha luogo, a norma dell’art. 159,I comma c.p.: in ogni caso in cui la sospensione del
procedimento o del processo penale o dei termini di custodia cautelare è imposta da una
particolare disposizione di legge, oltre che nei casi di:
 Autorizzazione a procedere;
 Deferimento della questione ad altro giudizio;
 Sospensione del procedimento o del processo penale per ragioni di impedimento delle parti
o dei difensori su richiesta dell’imputato o del suo difensore.
Il legislatore ha previsto che l’udienza non può essere differita oltre il sessantesimo giorno
successivo alla prevedibile cessazione dell’impedimento e nel caso in cui il differimento sia per un
tempo maggiore la sospensione opera solo il tempo dell’impedimento aumentato di sessanta
giorni.
La prescrizione riprende il suo corso dal giorno in cui è cessata la causa della sospensione;
nell’ipotesi di autorizzazione a procedere, dal giorno in cui l’autorità competente accoglie la
richiesta. L’interruzione della prescrizione toglie invece efficacia al tempo già trascorso prima
dell’effetto interruttivo; dimodochè il termine ricomincia a decorrere ex novo. Il corso della
prescrizione è interrotto dal compimento di alcuni atti qualificati di esercizio della pretesa punitiva
che dimostrano l’attualità e la persistenza dell’interesse pubblico alla repressione del fatto. Gli atti
interrottivi della prescrizione sono innanzi tutto la sentenza di condanna e il decreto di condanna;
inoltre una serie di atti dell’ a.g. , fra cui l’ordinanza che applica le misure cautelari, la richiesta di
rinvio a giudizio, il decreto di fissazione dell’udienza preliminare, il decreto che dispone il giudizio.
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Ogni atto interruttivo determina l’effetto di azzeramento della prescrizione e, perciò, se più sono gli
atti interrottivi che si sono succeduti nel tempo, la prescrizione decorre dall’ultimo di essi. Quanto
agli effetti della sospensione e della interruzione, l’art. 161, I comma, prevede che questi si
producono per tutti coloro che hanno commesso il reato. La recente legge 5-12-2005, n. 251 (c.d.
«ex Cirielli») ha introdotto rilevanti novità in tema i prescrizione, che possono essere così
sintetizzate:
— il tempo di prescrizione è pari al massimo editale della pena, ma mai inferiore a sei anni per
delitti e quattro anni per le contravvenzioni; per taluni reati più gravi i termini sono
raddoppiati;
— sul calcolo del tempo di prescrizione incidono le circostanze aggravanti ad effetto speciale e
non rileva il giudizio di comparazione delle circostanze;
— in caso di interruzione della prescrizione (casi previsti dagli artt. 160 e 161 c.p.), il termine
ordinario si prolunga di regola di 1/4, o di un periodo maggiore se si tratta di recidivi.
d) Oblazione: consiste nel pagamento, a domanda dell’interessato, di una somma di denaro (così
da degradare il reato in illecito amministrativo) prima dell’apertura del dibattimento o del
decreto di condanna. Al riguardo distinguiamo:
 oblazione nelle contravvenzioni punite con la sola ammenda (art. 162 c.p.).È un diritto
dell’imputato e consiste nel pagamento di una somma pari al terzo del massimo edittale;
 oblazione nelle contravvenzioni punite con pena alternativa (detentiva o pecuniaria
art.162bis c.p.). È facoltativa a discrezione del giudice e consiste nel pagamento di una
somma pari alla metà dell’ammenda.
e) Remissione della querela: estingue il reato e comporta l’onere del pagamento delle spese
processuali a carico dell’imputato, salvo diverso accordo tra le parti (art. 340 c.p.p).la remissione
della querela può essere .processuale ed extraprocessuale, a seconda che si estrinsechi in un atto
del processo, rivestito di determinate formalità, ovvero al di fuori di esso: in questo secondo caso,
la remissione della querela può essere sia espressa, sia tacita; è tacita, quando consiste in
comportamenti incompatibili con la volontà di persistere nell’istanza di punizione. Per assumere
efficacia estintiva del reato, la remissione dev’essere accettata dal querelato. Nell’ipotesi di
concorso di più persone nel reato, la remissione della querela a favore anche di uno solo fra i
concorrenti si estende a tutti, ma non produce effetti nei confronti di chi l’abbia eventualmente
ricusata. La remissione non può essere sottoposta a obblighi e condizioni salvo i casi i casi per i
quali la legge abbia disposto altrimenti. La remissione della querela non è ammessa nei delitti
contro la libertà sessuale, in rapporto ai quali la querela proposta è dichiarata dalla legge
irrevocabile. Gli artt. 153 e 155 c.p. disciplinano l’esercizio del diritto di remissione e della facoltà di
accettare la remissione quando si tratti di minori o incapaci.
La sospensione condizionale della pena.
La sospensione condizionale della pena consiste nel sospendere l’esecuzione della pena inflitta a condizione
che entro un certo periodo di tempo il colpevole non commetta altri reati. Se ciò non si verifica egli conterà
la vecchia e la nuova pena. Le condizioni cui è subordinata la concessione del beneficio e gli obblighi del
condannato sono disciplinati dagli artt. 164, 165, 168 c.p. Il beneficio sospende l’esecuzione delle pene
principali. Se la condizione si verifica si estingue il reato, ma restano fermi gli altri effetti penali della
condanna. La sospensione condizionale era entrata in vigore nel nostro ordinamento giuridico nel 1904, col
nome di condanna condizionale e venne poi recepita nel codice del ‘ 30; inizialmente con riferimento alle
condanne non superiori a sei mesi, limite presto elevato a un anno. Il beneficio era rigorosamente riservato
ai delinquenti primari, cioè a coloro che mai avevano riportato condanna per delitti. La riforma della
sospensione condizionale riguarda sia i limiti oggettivi che quelli soggettivi entro cui il beneficio può essere
concesso. Secondo il testo vigente dell’art. 163 c.p., possono essere sospese condizionalmente le condanne
alla pena della reclusione o dell’arresto in misura non superiore a due anni, ovvero a pena pecuniaria che,
sola o congiunta a pena detentiva, e ragguagliata a norma dell’art. 135, sia equivalente a una pena
detentiva non superiore, nel complesso, a due anni. Questo limite è elevato a due anni e sei mesi per i
minori degli anni ventuno e per chi ha superato gli anni settanta; a tre anni per i minori degli anni diciotto.
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I limiti oggettivi di concedibilità della sospensione sono stati ulteriormente ampliati, con la L. 11 giugno
2004, n. 145, che ha introdotto una modifica: la sospensione condizionale può essere concessa anche
quando la pena nel complesso, ragguagliata a norma dell’art. 135, sia superiore a due anni (ovvero due anni
e sei mesi e tre anni, nelle ipotesi del II e III comma), a condizione però che quel limite non sia superato
dalla pena detentiva inflitta. Anche il limite soggettivo di concedibilità della sospensione è sensibilmente
diverso, rispetto alla normativa originaria, che inibiva la concessione del beneficio a chi avesse riportato
una precedente condanna per delitto.
Dalla sentenza costituzionale n. 95/76, l’art. 164 concede in pratica, entro determinati limiti, la concessione
della condizionale per due volte. Il IV comma dell’art. 164, infatti, dopo aver stabilito che la sospensione
condizionale non può essere concessa più di una volta, precisa, che il giudice nell’infliggere una nuova
condanna, può disporre la sospensione condizionale, qualora la pena da infliggere, cumulata con quella
irrogata con la precedente condanna anche per delitto, non superi i limiti stabiliti dall’art. 163, e cioè i due
anni di reclusione.
La sospensione condizionale della pena non può essere conceduta al delinquente o contravventore abituale
o professionale. L’ulteriore ostacolo alla sospensione, costituito dall’applicabilità ope legis di una misura di
sicurezza personale, ha perduto, invece, ogni rilevanza a seguito della abolizione delle ipotesi di pericolosità
presunta.
La sospensione condizionale è ammessa soltanto se, avuto riguardo alle circostanze di cui all’art. 133, il
giudice presume che il colpevole si asterrà dal commettere ulteriori reati.
Le modifiche alla disciplina della sospensione condizionale hanno arricchimento in qualche misura anche il
suo contenuto che, nell’essenziale, è dato dalla sospensione dell’esecuzione della pena, per cinque anni, se
si tratta di condanna per delitto, per due anni, se si tratta di condanna per contravvenzione. Alla possibilità
che la sospensione fosse subordinata all’adempimento delle obbligazioni civili nascenti dal reato, l’art. 128
della L. 689/81 ha aggiunto la possibilità di subordinare la concessione del beneficio all’eliminazione delle
conseguenze dannose o pericolose del reato; con la citata L. 154/2004 tale ultima prescrizione viene posta
in alternativa alla prestazione di attività non retribuita a favore della collettività per un tempo determinato
comunque non superiore alla durata della pena sospesa.
Nella stessa direzione di una maggiore effettività si inscrive la previsione contenuta nel II comma dell’art.
165 c.p. secondo la quale, in caso di seconda concessione, la sospensione deve essere subordinata
all’adempimento di uno degli obblighi previsti nel comma precedente.
Altra innovazione legislativa in materia di sospensione condizionale ha riguardato la portata del suo effetto
sospensivo, che era prima limitato alle pene principali, restandone escluse le pene accessorie. La
sospensione condizionale rende anche inapplicabili le misure di sicurezza, esclusa la confisca; non incide,
viceversa, sugli altri effetti penali della condanna, né sulle obbligazioni civili, nascenti dal reato.
Se il periodo di sospensione decorre interamente, senza che il condannato commetta un delitto, ovvero
una contravvenzione della stessa indole, il reato per il quale fu concessa la sospensione condizionale della
pena è estinto: l’estinzione inibisce l’esecuzione delle pene principali e accessorie, mentre restano fermi gli
altri effetti penali della condanna.
Quando, invece, entro il termine stabilito, il condannato commetta un delitto ovvero una contravvenzione
della stessa indole, per cui gli venga inflitta una pena detentiva, ovvero non adempia agli obblighi
impostigli, a norma dell’art. 168, I comma c.p., la sospensione è revocata di diritto; lo stesso art. 168 fa
salvo quanto stabilito dall’art. 164, in relazione alla possibilità di una doppia concessione del beneficio. Se
poi la nuova condanna interviene per un delitto commesso anteriormente alla concessione della
sospensione, questa è revocata di diritto, allorché la pena inflitta, cumulata con quella precedente sospesa,
oltrepassi il limite stabilito dal’art. 163.
La revoca è, invece, facoltativa se il cumulo delle due pene rientri nei limiti stessi: la disposizione si giustifica
in relazione al fatto che, pur essendo in questo caso ammissibile la reiterazione del beneficio, si deve
tuttavia considerare che esso era stato concesso in base al presupposto che il reo non avesse in precedenza
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commesso altri reati. Conseguentemente, il giudice, tenuto conto dell’indole e della gravità del reato, può
revocare l’ordine di sospensione condizionale della pena.
Sempre con la L. 145/2004 è stata infine introdotta una nuova figura di sospensione condizionale
applicabile ai soli casi in cui la pena inflitta non sia superiore ad un anno. La concessione della sospensione
è in questo caso condizionata alla integrale riparazione del danno, che deve avvenire prima che sia stata
pronunciata la sentenza di primo grado, mediante il risarcimento di esso e, quando sia possibile, mediante
le restituzioni, nonché qualora il colpevole, entro lo steso termine e fuori del caso previsto nel quarto
comma dell’articolo 56, si sia adoperato spontaneamente ed efficacemente per elidere o attenuare le
conseguenze dannose o pericolose del reato da lui eliminabili. In questa ipotesi il periodo di sospensione è
ridotto ad un solo anno, trascorso il quale,se non interviene revoca,si produce l’effetto estensivo.
La sospensione del processo con messa alla prova e il perdono giudiziale per i minorenni.
Il nostro ordinamento contiene due particolari ipotesi di estinzione del reato, esclusive del diritto penale
minorile: riservate, cioè, ai minori degli anni 18.
Queste sono:

Il perdono giudiziale: (art. 169 c.p.): consiste nella rinuncia dello stato a condannare un minore
di anni diciotto, mai condannato per delitto, che abbia commesso un reato non grave (deve essere
applicabile in concreto una pena detentiva non maggiore di anni 2 di reclusione o una pecuniaria
non superiore a 1.549) per consentirne un più rapido recupero sociale. Il perdono può essere
concesso solo quando il giudice, avuto riguardo alle circostanze dell’art. 133, presume che il
colpevole si asterrà dal commettere ulteriori reati. Il perdono giudiziale non può essere concesso ai
minorenni che siano già stati condannati a pena detentiva per delitto o che siano delinquenti o
contravventori abituali o delinquenti professionali. Il perdono giudiziale può essere applicato una
sola volta. Tale limite va escluso quando si tratti di reati uniti dal vincolo della continuazione a quelli
per cui era stato concesso una prima volta il beneficio, o di reato commesso anteriormente al primo
perdono, se il cumulo della pena non superi i limiti di applicabilità del beneficio.

La sospensione del processo con messo della prova: il giudice dei minori può sospendere il
processo per un periodo non superiore a tre anni quando si tratti di reati per i quali è prevista la
pena dell’ergastolo o della reclusione non inferiore nel massimo a dodici anni; per non più di un
anno negli altri casi, affidando nel contempo l’imputato ai servizi minorili della giustizia, per lo
svolgimento delle opportune attività di osservazione, trattamento e sostegno ed eventualmente
dettando prescrizioni dirette a riparare le conseguenze del reato e a promuovere la conciliazione
del minore con la persona offesa del reato. All’esito positivo della prova consegue la dichiarazione
giudiziale di estinzione del reato.
L’estinzione del reato a seguito di applicazione della pena su richiesta delle parti.
La pena applicata dal giudice su richiesta delle parti, a norma dell’art. 444 c.p.p. (patteggiamento) non
solo esclude l’applicabilità di pene accessorie e di misure di sicurezza, ma produce, ove sia stata irrogata
una pena detentiva non superiore a due anni soli o congiunti a pena pecuniaria, l’estinzione del reato e di
ogni altro effetto della condanna, se nei cinque anni da essa (quando si tratta di delitto), nei due anni
(quando si tratti di contravvenzione) il condannato non commette altri delitti o contravvenzioni della
stessa indole.
Le forme di definizione alternativa del procedimento davanti al giudice di pace.
Gli artt. 34-35 contemplano due forme di definizione alternativa del procedimento penale, mediante
previsione della esclusione della procedibilità nei casi di particolare tenuità del fatto ( art. 34) e di estinzione
del reato conseguente a condotte riparatorie (art. 35). La prima è causa di improcedibilità: esso si fonda
sull’applicazione di un criterio di tipo sostanziale vale a dire la irrilevanza del fatto. La particolare tenuità del
fatto è sia di natura oggettiva (esiguità del danno o del pericolo rispetto all’interesse tutelato), che
soggettiva (occasionalità e grado della colpevolezza); nel formulare questo giudizio il giudice deve tener
conto del pregiudizio che l’ulteriore corso del procedimento può recare alle esigenze di lavoro di studio, di
famiglia o di salute della persona sottoposta ad indagini o dell’imputato.
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La seconda ipotesi introduce invece una nuova causa di estinzione del reato, che il giudice di pace dichiara
con sentenza quando l’imputato dimostra di aver proceduto, prima dell’udienza di comparizione, alla
riparazione del danno cagionato dal reato, mediante le restituzioni o il risarcimento e di aver eliminato le
conseguenze dannose o pericolose del reato. L’estinzione del reato è subordinata ad una valutazione
positiva del giudice circa l’idoneità di dette condotte a soddisfare le esigenze di riprovazione del reato e
quelle di prevenzione.
Le cause di estinzione della pena.
Le cause di estinzione della pena non hanno altro effetto se non quello di impedire o far cessare
l’esecuzione della pena concretamente inflitta al reo. Esse presuppongono necessariamente l’esistenza di
una sentenza di condanna definitiva, lasciando impregiudicata ogni altra conseguenza giuridica del reato
per il quale la condanna è stata pronunciata. Le cause di estinzione della pena previste dal codice sono: la
morte del reo dopo la condanna; l’amnestia impropria; la prescrizione della pena; l’indulto; la grazie; la
liberazione condizionale;la riabilitazione; la non menzione della condanna nei certificati del casellario
giudiziale.
La morte del reo.
L’estinzione della pena a seguito della morte del reo, intervenuta dopo la condanna è implicazione del tutto
ovvia del principio mors omnia solvit. Da rilevare che la morte del reo, pur estinguendo ogni effetto della
condanna, ivi comprese le obbligazioni civili per il pagamento delle multe o delle ammende, non estingue
però la confisca, né le obbligazioni civili derivanti dal reato.
L’amnestia impropria.
L’amnestia è detta impropria se intervenuta dopo una condanna definitiva. Essa è causa di estinzione della
pena perché presuppone che, pur essendo stato il reato commesso entro i termini di applicazione
dell’amnestia, su di esso si sia tuttavia formato un giudicato irrevocabile di condanna. Per tale motivo, pur
facendo cessare l’esecuzione delle pene principali e accessorie e delle misure di sicurezza diverse dalla
confisca, l’amnestia impropria lascia intatto ogni altro effetto della condanna.
La prescrizione della pena.
Il decorso del tempo, dopo che la sentenza di condanna è divenuta irrevocabile, è causa estintiva delle
pene che, per qualsiasi motivo, non siano state, in tutto o in parte, eseguite.
A norma degli artt. 172 e 173 c.p., la pena della reclusione si estingue con il decorso di un periodo di tempo
pari al doppio della misura della pena stessa. Il termine di prescrizione decorre dalla data del passaggio in
giudicato della sentenza di condanna, ovvero dalla data in cui il condannato si è sottratto volontariamente
all’esecuzione della pena, già iniziata. La pena della multa si estingue dopo dieci anni. L’estinzione non
opera nel caso di recidivi aggravanti o reiterati, e dei delinquenti abituali, professionali o per tendenza, né
nei confronti di chi, durante il tempo necessario al prescriversi della pena, abbia riportato una condanna
alla reclusione per un delitto della stessa indole. Le pene dell’arresto e dell’ammenda si prescrivono in
cinque anni; il termine è raddoppiato nel caso dei recidivi aggravati e dei delinquenti abituali, professionali
e per tendenza.
Indulto e grazia.
Indulto (art. 174 c.p.): atto di clemenza generale che opera non sul reato ma
sulla pena principale che è condonata in tutto o in parte; non estingue le pene accessorie ed è concesso con
la stessa procedura dell’amnistia.
Grazia (art. 174 c.p.): atto di clemenza particolare (perché individuale) che presuppone una sentenza
irrevocabile di condanna ed è rimesso (art. 87 Cost.) al potere discrezionale del Presidente della
repubblica; opera solo sulla pena principale, condonandola in tutto o in parte.
La liberazione condizionale.
La liberazione condizionale (artt. 176-177 c.p.) consiste nella concessione di un premio ad un condannato
che durante il periodo della detenzione abbia dato prova di buona condotta. La concessione della
liberazione condizionale è subordinata all’adempimento delle obbligazioni civili derivanti dal reato, a meno
che il condannato non dimostri la sua impossibilità ad adempiere. La concessione della liberazione
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condizionale ha come effetti immediati la scarcerazione del condannato, la sospensione dell’eventuale
misura di sicurezza detentiva, l’applicazione della libertà vigilata assistita dal servizio sociale. Con il decorso
del tempo della pena residua, o di cinque anni, se si tratta di condannati all’ergastolo, la liberazione
condizionale determina la definitiva estinzione della pena e la revoca delle eventuali misure di sicurezza
personali. La liberazione condizionale è soggetta a revoca, se durante il periodo di libertà sotto condizione
la persona liberata commette un delitto o una contravvenzione della stessa indole, ovvero trasgredisce agli
obblighi impostigli con la libertà vigilata. A seguito della revoca, il condannato riprende a scontare la pena
detentiva.
La riabilitazione.
La riabilitazione (artt. 178 e ss. c.p.): estingue le pene accessorie e gli altri effetti penali della condanna dopo
che sia trascorso il periodo di almeno 3 anni (o almeno 8 anni) dal giorno in cui la pena principale sia stata
eseguita o si sia estinta, se il condannato ha dato prova effettiva di buona condotta e ha eseguito le
obbligazioni civili nascenti dal reato.
La non menzione della condanna nei certificati del casellario giudiziale.
La non menzione della condanna, disciplinata nell’art. 175 c.p., non è una causa di estinzione della pena,
ma solo una limitazione degli effetti della condanna penale. Essa consiste, infatti, in un provvedimento
giudiziale, dato in uni alla sentenza di condanna, con cui si stabilisce che della condanna stessa non si faccia
menzione nei certificati rilasciati dal casellario. Questa misura persegue dunque l’obiettivo di eliminare
taluni ostacoli al reinserimento sociale del condannato. Il beneficio è rimesso alla valutazione discrezionale
del giudice, avuto riguardo all’art. 133 c.p. Può essere concesso per condanne che non superino una certa
entità sempre che si tratti della prima condanna subita del soggetto; a meno che non si tratti di reati
anteriormente commessi, quando il cumulo delle pene non superi i limiti stabiliti dall’art. 175 I e II comma.
L’ordine di non menzione della condanna è revocato di diritto se il condannato commette successivamente
un altro delitto. La revoca può intervenire senza limiti di tempo.
CAPITOLO QUINTO: LE CONSEGUENZE GIURIDICHE DEL REATO. IL TRATTAMENTO DELL’ILLECITO DEPENALIZZATO.
Gli effetti penali della condanna.
Si definiscono “effetti penali della condanna” le conseguenze giuridiche che derivano di diritto dalla
condanna stessa, diverse dalle pene, principali e accessorie, e dalle misure di sicurezze. Gli effetti penali si
concretano in limitazioni al godimento di particolari benefici o in un aggravio di posizioni soggettive del
condannato. Esse sono previste oltre che nel codice, in molte leggi speciali. Esempi di effetti penali sono:
l’impossibilità di ottenere la sospensione condizionale in conseguenza di una o più condanne precedenti;
l’acquisizione della condizione di recidivo a seguito della condanna da cui essa scaturisce; l’iscrizione della
condanna nel casellario giudiziale; l’impossibilità a svolgere determinate attività, ottenere determinate
autorizzazioni o concessioni, o si partecipare a determinati concorsi per effetto della condanna penale. Gli
effetti penali vengono a cessare con la riabilitazione mentre, di regola, non vengono meno per il verificarsi
delle altre cause estintive del reato e della pena.
Le obbligazioni civili nascenti dal reato.
Le conseguenze giuridiche del fatto costituente reato in quanto illecito civile.
Oltre che illecito penale, un determinato fatto può anche costituire illecito di diversa natura (civile,
amministrativo, disciplinare etc.) e, quindi, da esso possono derivare conseguenze giuridiche diverse ed
ulteriori rispetto a quelle penali. La maggior parte dei reati (ma sarebbe meglio precisare: dei delitti)
costituisce, generalmente, anche una forma di illecito civile ai sensi dell’articolo 2043 c.c., per cui da essi
deriva anche una sanzione civile. In alcuni casi è la stessa norma civile che prevede la sanzione (civile) per un
illecito penale; così:
 gli eccessi, le sevizie, le minacce o le ingiurie gravi possono essere causa di separazione personale tra
coniugi (art. 151 c.c.);
 la condanna per determinati delitti può essere causa di divorzio (cfr. art. 3 L. 1-12-1970, n. 898);
 l’omicidio, il tentato omicidio o la falsa denuncia del de cuius importa indegnità a succedere (art. 463
c.c.) nonché la revocazione della donazione per ingratitudine (art. 801 c.c.).
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Le più importanti conseguenze di natura civile sono previste nel titolo VII del libro i del codice penale, e sono
le restituzioni, il risarcimento , l’obbligo del rimborso delle spese allo Stato per il mantenimento del
condannato e l’obbligazione civile per l’ammenda. Per il primo comma dell’art. 185 c.p. «ogni reato obbliga
alle restituzioni, a norma delle leggi civili». La restituzione di cui parla la legge si riferisce non soltanto al
maltolto, ma anche al ripristino della situazione di fatto preesistente al reato. L’obbligo della restituzione,
naturalmente, sorge solo nel caso in cui una restituzione, nel senso prima inteso, sia possibile
naturalisticamente e giuridicamente. Per il secondo comma dell’ art. 185 c.p. « ogni reato, che abbia
cagionato un danno patrimoniale o non patrimoniale, obbliga al risarcimento il colpevole e le persone che, a
norma delle leggi civili, debbono rispondere per il fatto di lui ». Il danno patrimoniale è l’offesa di un
interesse patrimoniale, nei suoi due aspetti di danno emergente e di lucro cessante. Il danno non
patrimoniale è il perturbamento morale derivato dalla commissione del reato, perturbamento morale
consistente non in un valutabile detrimento fisico o patrimoniale, bensì nell’offesa, nell’angoscia, nel dolore,
nel risentimento etc. Tanto il danno patrimoniale quanto quello non patrimoniale, per essere risarcibili,
devono porsi in rapporto di immediatezza col reato, essere cioè legati ad esso da uno stretto rapporto di
causa ad effetto (art. 1223 c.c.). L’art. 186 c.p. aggiunge alle ordinarie misure di riparazione del danno civile
una forma particolare di riparazione, consistente nella pubblicazione della sentenza di condanna, a spese del
colpevole, qualora la pubblicazione costituisca un mezzo per riparare il danno non patrimoniale cagionato
dal reato. La sanzione prevista dall’art. 186 non deve essere confusa con la pena accessoria di cui all’art. 36
c.p.
Soggetto tenuto al risarcimento del danno è il colpevole; in caso di concorso di persone nel reato, tutti gli
autori del fatto sono tenuti in solido al risarcimento (art. 187, comma 2 c.p.). Oltre al colpevole, inoltre, è
tenuto al risarcimento del danno, in solido con lui, il responsabile civile ove vi sia.
Soggetto attivo (creditore) del rapporto obbligatorio di risarcimento del danno è il c.d. danneggiato, che
può esser persona diversa dal soggetto passivo del reato.
Le obbligazioni civili del condannato verso lo Stato.
Per il disposto dell’ art. 188 c.p., il condannato è obbligato a rimborsare all’erario dello stato le spese per il
suo mantenimento negli stabilimenti di pena, e risponde di tale obbligazione con tutti i suoi beni mobili ed
immobili, presenti e futuri, a norma delle leggi civili. Tale obbligazione non si estende alla persona civilmente
obbligata per l’ammenda né agli eredi del condannato. Per il disposto dell’art. 2 della L. 26-7-1975, n. 354, in
materia di ordinamento penitenziario, il rimborso delle spese di mantenimento ha luogo per una quota non
superiore ai due terzi del costo reale del mantenimento stesso.
L’obbligazione civile per la multa e per l’ammenda.
L’art. 196 c.p., in caso di insolvibilità del condannato a pena pecuniaria, stabilisce l’obbligazione sussidiaria al
pagamento di una somma pari all’ammontare della pena pecuniaria a carico della persona rivestita
dell’autorità o incaricata della direzione o vigilanza del soggetto condannato. Affinché sorga questa
obbligazione, occorre che si tratti di violazione di una norma che la persona preposta doveva far osservare e,
nello stesso tempo, occorre che la persona preposta non ne debba rispondere penalmente. Del pari l’art.
197 c.p. stabilisce che «gli enti forniti di personalità giuridica, eccettuato lo Stato, le regioni, le province ed i
comuni, qualora sia pronunciata condanna per reato contro chi ne abbia la rappresentanza o
l’amministrazione, o sia con essi in rapporto di dipendenza, e si tratti di reato che costituisca violazione degli
obblighi inerenti alla qualità rivestita dal colpevole, ovvero sia commesso nell’interesse della persona
giuridica, sono obbligati al pagamento, in caso di insolvibilità del condannato, di una somma pari
all’ammontare della multa o dell’ammenda inflitta». Anche questa «obbligazione» nasce solo in caso di
insolvibilità del condannato (e perciò ha carattere sussidiario) ed è stata estesa ai delitti dalla L. 689/1981. Le
due norme di cui sopra non fanno eccezione al principio della personalità della pena in quanto non
sanciscono una responsabilità penale a carico di persone estranee al reato, ma contemplano ipotesi di
responsabilità puramente civile a garanzia dell’adempimento di un obbligo penale. L’individuo o l’ente
obbligati versano una somma pari all’ammontare della pena pecuniaria che il colpevole non è in condizioni di
pagare. In entrambi i casi, se l’obbligazione non può essere adempiuta si applica l’art. 136 (conversione della
pena pecuniaria).
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Le garanzie per le obbligazioni civili del condannato e del civilmente obbligato.
Gli artt. 189-195 c.p. contengono una serie di disposizioni tese a garantire l’adempimento delle obbligazioni
civili da parte dell’imputato.
Tali garanzie possono così sintetizzarsi:
a) sequestro conservativo di beni del condannato, per garantire il pagamento delle pene pecuniarie, delle
spese processuali e del risarcimento del danno;
b) prelievo, in misura non superiore ai 2/5, sulla remunerazione ai condannati per il lavoro prestato negli
istituti penitenziari, a garanzia delle obbligazioni civili, non altrimenti adempiute, relative nell’ordine: alle
somme dovute a titolo di risarcimento del danno;alle spese di mantenimento in carcere; al rimborso delle
spese del procedimento;
c) azione revocatoria penale, finalizzata a rendere inefficaci atti negoziali del condannato, che
possono depauperare il suo patrimonio e rendere difficile la riscossione dei crediti (sanzioni,
spese, risarcimento).
La responsabilità da reato delle persone giuridiche e degli enti collettivi.
La L. 29 settembre 2000, n. 300 ha introdotto la responsabilità amministrativa delle persone giuridiche e
degli enti collettivi per i reati commessi dai loro organi o da loro sottoposti, poi compiutamente disciplinata
con d.lgs. 8 maggio 2001, n. 231, e successive modifiche. L’ente sarà considerato responsabile quando il
reato commesso se non è espressione diretta della politica d’impresa, quantomeno dipende da una colpa di
organizzazione, nel senso della mancata adozione di protocolli di comportamenti ,strumenti di controllo,
sistemi disciplinari adeguati a prevenire lo specifico rischio – reato. Il legislatore attribuisce valore esimente
alla prova da parte dell’ente di avere adottato ed efficacemente applicato un modello di organizzazione,
gestione e controllo idoneo a prevenire reati della specie di quello verificatosi.
Questo tipo di responsabilità ha un ambito applicativo delimitato dalla elencazione tassativa di una serie di
specifici reati – presupposto; nel corso degli anni il legislatore ha ampliato l’elenco dei reati dalla cui
commissione può derivare il tipo di responsabilità previsto dal d.lgs. 231/2001. Per quel ce riguarda le
sanzioni, accanto a quella pecuniaria, sono previste sanzioni interdittive e la pubblicazione della sentenza di
condanna. Innovativo per il nostro ordinamento è il sistema commisurativi della pena pecuniaria, la cui
misura non viene determinata mediante la individuazione di limiti edittali fissi, bensì per quote: in base
all’art. 11 il numero delle quote viene determinato dal giudice tenendo conto della gravità del fatto, del
grado della responsabilità dell’ente nonché dell’attività svolta per eliminare o attenuare le conseguenze del
fatto e per prevenire la commissione di ulteriori illeciti; mentre l’importo della quota è fissato sulla base
delle condizioni economiche e patrimoniali dell’ente allo scopo di assicurare l’efficacia della sanzione.
Il sistema sanzionatorio degli illeciti depenalizzati.
Il diritto penale amministrativo può essere considerato parte del diritto penale perché esso concerne illeciti
a cui la legge ha conferito lo statuto di illecito amministrativo e non penale.
L’interesse della dottrina penalistica per la materia è giustificato da tre ordini di ragioni:



La disciplina dell’illecito amministrativo depenalizzato appartiene di diritto al quadro generale della
evoluzione e trasformazione del sistema penale;
Alcuni atti normativi hanno fornito significativi spunti per il delinearsi di una nozione sostanziale di
reato ancorata ai principi di proporzione e di sussidiarietà, o extrema ratio, del ricorso alla sanzione
penale;
Fra illecito penale e illecito amministrativo intercorrono rapporti che possono assumere rilevanza
per la disciplina del concorso di norme.
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SEZIONE SECONDA
Le misure di sicurezza.
La crisi del doppio binario e prassi delle misure di sicurezza.
Le misure di sicurezza sono speciali provvedimenti di carattere educativo o curativo ovvero anche
cautelativo, applicabili dall’autorità giudiziaria, in sostituzione, oppure in aggiunta alla pena, nei
confronti di un reo ritenuto socialmente pericoloso.
I destinatari delle misure di sicurezza si possono distinguere in tre categorie:
 I delinquenti imputabili, socialmente pericolosi;
 I delinquenti semi – imputabili, socialmente pericolosi;
 I soggetti non imputabili, socialmente pericolosi.
Alle prime due categorie di soggetti si applicano congiuntamente pena e misure di sicurezza; alla terza, la
sola misura di sicurezza. Presupposto generale dell’applicazione delle misure di sicurezza, per tutte e tre
che categorie indicate, è che il soggetto abbia commesso un fatto preveduto dalla legge come reato o un
altro fatto espressamente determinato dalla legge.
Le misure di sicurezza si applicano anche agli stranieri che si trovano nel territorio dello Stato; l’applicazione
delle misure di sicurezza allo straniero non ne impedisce l’espulsione dal territorio dello Stato, a norma
delle leggi di pubblica sicurezza. Le misure di sicurezza possono applicarsi anche per fatti commessi
all’estero, quando si proceda, o si rinnovi il giudizio, nello Stato.
Misure di sicurezza e principio di legalità.
L’art. 25, III comma Cost. afferma “ nessuno può essere sottoposto a misure di sicurezza se non nei casi
previsti dalla legge”. Secondo quanto affermato anche la C. Costituzionale (sent. n.157/72), il principio di
legalità delle misure di sicurezza include l’esigenza della tassatività della relativa previsione, nel senso di
una completa, tassativa e non equivoca previsione legislativa delle relative ipotesi.
L’art. 200 c.p. stabilisce che le misure di sicurezza sono regolate dalla legge in vigore al tempo della loro
applicazione. Da ciò non sembra potersi derivare la retroattività delle misure di sicurezza. L’applicabilità di
una misura di sicurezza, infatti, implica sempre e comunque la commissione di un fatto preveduto dalla
legge come reato. Di conseguenza, l’applicazione retroattiva di una misura di sicurezza, non potendo
queste certo applicarsi per un fatto che, al tempo della sua commissione, non costituiva reato; la stessa
regola si ritiene concordemente che debba valere anche per le ipotesi di quasi reato.
Presupposti generali, limiti e modalità di applicazione delle misure di sicurezza.
I presupposti per la loro applicazione sono:
— la commissione di un fatto previsto dalla legge come reato o di un « quasi- reato » riguarda un fatto
non punibile, né tipico, ma considerato come estrinsecazione di pericolosità. Le ipotesi presenti nel sistema
sono due: reato impossibile art. 49 c.p.; istigazione a commettere un reato non accolta o accordo criminoso
non eseguito: art. 115 c.p.;
— la pericolosità sociale: l’art. 203, I comma c.p., definisce come socialmente pericolosa la persona, anche se
non imputabile o non punibile, quando è probabile che commetta nuovi fatti preveduti dalla legge come
reato. A norma dell’art. 203, II comma, la qualità di persona socialmente pericolosa si desume dalle
circostanze indicate nell’art. 133 c.p.
Le categorie normative della pericolosità sociale.
Il codice penale individua 3 categorie di delinquenti socialmente pericolosi:
 Il delinquente abituale: si distingue tra abitualità presunta dalla legge (art. 102 c.p.) e abitualità
ritenuta dal giudice (art. 103 c.p.). Essendo superata per effetto dell’art. 31 L. 663/86, ogni ipotesi
di pericolosità presunta, deve ritenersi operante il solo art. 103 c.p., che implica in ogni caso
l’apprezzamento in concreto della pericolosità e indica i presupposti minimi per la dichiarazione di
abitualità nel reato.
 Il delinquente professionale: corrisponde alla situazione di chi, trovandosi nelle condizioni richieste
per la dichiarazione di abitualità nel reato, riporta condanna per un altro reato, quando si debba
ritenere, avuto riguardi alla natura dei reati, alla condotta e al genere di vita del colpevole, nonché
alle altre circostanze rilevanti per l’art. 133 c.p., che egli viva abitualmente dei proventi del reato.
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
Il delinquente per tendenza: prescinde del tutto dalla condizione di recidivo: può essere dichiarato
delinquente per tendenza, infatti, colui che commette un delitto non colposo contro la vita o
l’incolumità individuale, quando la commissione di tale delitto, per sé e unitamente alle circostanze
indicate nel capoverso dell’art. 133, riveli una speciale inclinazione al delitto, che trovi la sua causa
nell’indole particolarmente malvagia del colpevole.
La dichiarazione di abitualità o professionalità nel reato o di tendenza a delinquere comporta, ai sensi
dell’art. 109 c.p., l’applicazione di misure di sicurezza che l’art. 216 c.p. individua nella colonia agricola e
nella casa di lavoro.
Applicazione, esecuzione,revoca delle misure di sicurezza.
Le misure di sicurezza sono applicate, di regola, con la sentenza di condanna o di proscioglimento. Talune
misure di sicurezza possono essere applicate provvisoriamente, anche prima della sentenza definitiva,
naturalmente previo accertamento della pericolosità. A queste ipotesi, l’esecuzione delle misure di
sicurezza, quando la misura di sicurezza si aggiunge a una pena, è sempre successiva all’esecuzione della
pena.
A norma dell’art. 213, III comma c.p., l’esecuzione delle misure di sicurezza comporta l’adozione di un
particolare regime educativo o curativo e di lavoro, avuto riguardo alle tendenze e alle abitudini criminose
della persona e, in genere, al pericolo sociale che da essa deriva.
La durata delle misure di sicurezza è predeterminata, all’atto dell’applicazione, solo nella misura minima ,
ma è indeterminata nel massimo. Alla scadenza del termine minino di durata, il giudice procede al riesame
della pericolosità, che può condurre alla revoca della misura, ovvero alla sua proroga per un nuovo periodo
minimo di durata, al termine del quale si procederà a un nuovo riesame; e così via fino a che il giudizio sulla
pericolosità non risulti negativo.
Se la persona sottoposta a misura di sicurezza si sottrae all’esecuzione della stessa, il periodo minimo di
durata della misura ricomincia a decorrere dall’inizio, a meno che non si tratti di ricovero in ospedale
psichiatrico giudiziario o in una casa di cura e custodia.
Le singole misure di sicurezza.
Sono misure di sicurezza detentive:

L’assegnazione a una colonia agricola o a una casa di lavoro: è una misura di sicurezza destinata ai
delinquenti abituali, professionali o per tendenza e a coloro che essendo già sottoposti a misura di
sicurezza, commettono un nuovo delitto non colposo che costituisca ulteriore manifestazione
dell’abitualità, della professionalità o della tendenza a delinquere. Ha la durata minima di un anno
elevata a due per i delinquenti abituali, a tre per i delinquenti professionali, a quattro per i
delinquenti per tendenza.

Il ricovero in una casa di cura e custodia: è riservata ai condannati a una pena diminuita per
infermità psichica, per intossicazione cronica da alcool e da sostanze stupefacenti, ovvero per
sordomutismo e agli ubriachi abituali. Ha durata minima variabile dai sei mesi a cinque anni. Nei
casi meno gravi può essere sostituita con libertà vigilata.

Il ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario:è la misura di sicurezza riservata ai soggetti prosciolti
per infermità psichica, per intossicazione cronica da alcool o da sostanze stupefacenti o per
sordomutismo, salvo ipotesi di lieve entità. La durata minima del ricovero non può essere inferiore
a due anni; il minimo è però di cinque anni, se per il fatto commesso la legge stabilisce la pena alla
reclusione non inferiore nel minimo di dieci anni; di dieci anni se per il fatto commesso la pena
prevista è l’ergastolo. Se la persona ricoverata deve scontare una pena restrittiva della libertà
personale, l’esecuzione di questa è differita fino a che perdura il ricovero.

Il riformatorio giudiziario: è misura di sicurezza speciale per i minori imputabili e non imputabili,
ritenuti pericolosi. È sempre applicata ai minori degli anni 18 che siano stati dichiarati delinquenti
abituali, professionali o per tendenza.
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Sono misure di sicurezza personali non detentive:
 La libertà vigilata: consistente in una serie di limitazioni e di prescrizioni imposte per evitare nuove
occasioni di reato (ad esempio, l’obbligo di una stabile attività lavorativa,l’obbligo di non ritirarsi
la sera dopo una certa ora, l’obbligo di non accompagnarsi a pregiudicati, ecc.).
 Divieto di soggiorno: consistente nell’obbligo di non soggiornare in uno o più comuni ovvero in una o
più province.
 Divieto di frequentare osterie e pubblici spacci di bevande alcoliche: in caso di trasgressione del
divieto, può essere ordinata la libertà vigilata o la prestazione di una cauzione di buona condotta.
 Espulsione od allontanamento dello straniero dallo Stato: prevede che il giudice ordina l’espulsione
dello straniero ovvero l’allontanamento dal territorio dello Stato del cittadino appartenete ad uno
stato membro dell’Unione europea, oltre che nei casi espressamente preveduti dalla legge, quando
lo straniero sia condannato alla reclusione per un tempo superiore ai due anni.
Le misure di sicurezza patrimoniali sono:
 La cauzione di buona condotta: consistente nel deposito di una somma di danaro presso la Cassa
delle ammende, variabile da 103 a 2.065, per la durata massima di 5 anni. Se il soggetto commette
un nuovo reato punito con pena detentiva durante tale periodo, la somma viene incamerata;
altrimenti, decorso il termine, essa viene restituita.

La confisca: consistente nella espropriazione a favore dello stato di cose che servono a commettere
il reato (es.: gli arnesi da scasso) o che ne sono il prodotto o il profitto, ovvero di cose la cui
fabbricazione, uso, detenzione o alienazione costituisce reato (es.: armi, monete false). La confisca è
una misura facoltativa: sarà infatti il giudice a stabilire nel caso concreto se il provvedimento ablativo
è necessario al fine di impedire che la disponibilità della cosa da parte del reo possa rappresentare
un incentivo alla commissione di nuovi reati. Il II comma dell’art. 240 c.p. dichiara invece obbligatoria
la confisca delle cose che costituiscono il prezzo del reato e delle cose di cui la fabbricazione, l’uso, il
porto, la detenzione e l’alienazione costituiscono reato. Il VII comma dell’art. 416 bis c.p. ha reso
obbligatoria la confisca per tutte le cose che servirono o furono destinate a commettere il reato di
cui all’art. 416 bis ( associazione mafiosa), nonché delle cose che ne sono il prezzo, il prodotto o il
profitto o che ne costituiscono l’impiego. L’art. 446 c.p. estende il regime di obbligatorietà della
confisca indicate nel I comma dell’art. 240 c.p. alle ipotesi di condanna per i reati di cui agli artt.
439,440,441,442 c.p., se dal fatto è derivata la morte o la lesione grave o gravissima di una persona.
Di regola la confisca colpisce gli specifici beni che sono serviti a commettere il reato o ne costituiscono il
profitto (arma utilizzata nella rapina; banconote consegnate allo spacciatore). Per taluni reati, art. 322ter c.p.
(delitti dei P.U. contro la P.A.) ed artt. 640bis e ter (ipotesi aggravate di truffa), il codice consente la confisca
per equivalente. Si tratta di un provvedimento di ablazione che colpisce i beni della persona condannata per
detti reati, in misura proporzionale al prezzo od al profitto dei reati stessi, ed in assenza di qualsiasi prova
d’un «rapporto di pertinenzialità» tra i beni appresi ed il fatto illecito cui si riferisce la sentenza di condanna.
Il presupposto logico e giuridico della confisca per equivalente, anzi, è costituito proprio dalla mancata
individuazione od apprensione dei beni che, fisicamente, costituiscano il prezzo od il profitto del reato
preso in considerazione (pertanto, ad es., al P.u. corrotto può essere confiscata la retribuzione, nei limiti
consentiti, fini alla concorrenza dell’illecito profitto). all’istituto della confisca per equivalente il legislatore è,
da ultimo, ricorso in occasione della predisposizione di un complesso di misure anti-riciclaggio, ad opera
del d.Lgs. 21-11-2007, n. 231, introducendo l’art. 648quater c.p., il quale affianca, ad una ipotesi speciale di
confisca obbligatoria connessa a condanne per reati di riciclaggio o reimpiego, la confisca delle somme di
denaro, dei beni o delle altre utilità delle quali il reo ha la disponibilità, anche per interposta persona, per un
valore equivalente al prodotto, profitto o prezzo del reato, per il caso in cui la confisca ordinaria non sia
possibile.
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SEZIONE TERZA
Le misure di prevenzione.
La vicenda legislativa delle misure di prevenzione.
Le misure di prevenzione hanno lo scopo di giurisdizionalizzare il procedimento di applicazione di un
complesso di misure secondo le disposizioni contenute negli artt. 134-176 t.u. delle leggi di pubblica
sicurezza del 1931, in precedenza dichiarati costituzionalmente illegittimi.
Le misure di prevenzione di cui alla L. 27 dicembre 1956, n. 1423, possono applicarsi:



A coloro che debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto, che sono abitualmente dediti a traffici
illeciti.
A coloro che per la condotta ed il tenore di vita debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto, che
vivono abitualmente, anche in parte, con proventi di attività delittuose.
A coloro che per il loro comportamento, debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto, che sono
dediti sulla commissione di reati che offendono o mettono in pericolo l’integrità fisica o morale dei
minorenni, la serenità, la sicurezza o la tranquillità pubblica.
Le persone così individuate ricevono dal questore avviso orale dei sospetti a loro carico e l’invito a tenere
una condotta conforme alla legge; di ciò è redatto processo verbale al solo fine di dare all’avviso data certa.
Trascorsi 60 giorni e non più di tre anni, se la persona avvisata non ha cambiato condotta e risulta
pericolosa per la sicurezza pubblica il questore può avanzare al tribunale motivata proposta per
l’applicazione nei suoi confronti della sorveglianza speciale della pubblica sicurezza. La sorveglianza speciale
non può avere durata inferiore ad un anno, né superiore a cinque anni. Alla sorveglianza speciale possono
aggiungersi il divieto di soggiorno in uno o più comuni o in una o più province, quando le circostanze del
caso lo richiedono, e l’obbligo di soggiorno nel comune di residenza o di abituale dimora. L’inottemperanza
degli obblighi imposti con il decreto che dispone la misura costituisce contravvenzione punibile con
l’arresto, quando concerna la sola sorveglianza speciale; delitto punito con la reclusione da uno a cinque
anni, se concerne la sorveglianza con obbligo o divieto di soggiorno.
È invece di esclusiva competenza del questore il rimpatrio con foglio di via obbligatorio: provvedimento
adottato qualora le persone sospette si trovino fuori dei luoghi di residenza e siano dall’autorità di pubblica
sicurezza ritenute pericolose per la sicurezza pubblica. Il fogli di via obbliga il soggetto a rientrare nel luogo
di residenza, con divieto di ritornare nel comune da cui venga allontanato per un periodo non superiore a
tre anni. La relativa contravvenzione è punita con l’arresto.
Le misure di prevenzione contro la criminalità organizzata.
Con la L. 31 maggio 1965,n. 575 fu stabilita l’applicabilità delle misure della sorveglianza speciale,
dell’obbligo e del divieto di soggiorno, nei confronti dei soggetti indiziati di appartenere ad associazioni
mafiose. Con la L. 13 settembre 1982, n. 646 venne modificato l’art. 1 della L. 575/65 stabilendo
l’applicabilità agli indiziati di appartenere ad associazioni di tipo mafioso, alla camorra o ad altre
associazioni che perseguono finalità o agiscono con metodi corrispondenti a quelli delle associazioni di tipo
mafioso. A seguito delle ultime modifiche introdotte dal l. 24 luglio 2008,n. 125, il novero dei possibili
destinatari delle misure di prevenzione è stato esteso ai soggetti indiziati di uno dei reati previsti dall’art.
51, III bis comma, del codice di procedura penale e la competenza a richiedere l’applicazione della misura
risulta attribuita al procuratore nazionale antimafia, al procuratore della repubblica presso il tribunale del
capoluogo di distretto ove dimore la persona, al questore o al direttore della direzione investigativa
antimafia. La parte maggiormente innovativa della legge dell’82 è costituita dalla introduzione di misure di
carattere patrimoniale. Le misure patrimoniali previste sono il sequestro e la confisca. Il sequestro è
disposto dal tribunale investito della proposta, quale provvedimento di natura provvisoria e cautelare, in
base al sospetto che i beni ricadenti nella disponibilità, diretta o indiretta, dell’indiziato siano il frutto di
attività illecite o ne costituiscano il reimpiego. La confisca viene disposta all’esito di un procedimento
giurisdizionale ad hoc, quando la persona, nei cui confronti è instaurato il procedimento, non possa
giustificare la legittima provenienza e di cui, anche per interposta fisica o giuridica, risulti essere titolare o
avere la disponibilità a qualsiasi titolo in valore sproporzionato al proprio reddito, dichiarato ai fini delle
imposte sul reddito, o alla propria attività economica, nonché dei beni che risultino essere frutto di attività
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illecite o ne costituiscano il reimpiego. Se la proposta di applicazione della misura è respinta, il tribunale ne
dispone la restituzione; diversamente, con il provvedimenti che applica la misura, ne dispone la confisca.
La L. 22 maggio 1975, n. 152
Con l’art. 18 della L. 22 maggio, n. 152 venne prevista l’applicabilità delle misure previste dalla legge del 65
a diverse categorie di soggetti, tra i quali coloro che avessero compiuto atti preparatori, obiettivamente
rilevanti, di taluni delitti contro la personalità dello Stato, l’ordine pubblico e la persona, ovvero diretti alla
ricostituzione del partito fascista; o che, essendo stati condannati per determinati reati, fossero da
ritenersi, per il loro comportamento successivo, proclivi a commettere un reato della stessa specie col fine
di sovvertire l’ordinamento dello Stato.
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