SCHIZOFRENIA: L'APPROCCIO COGNITIVO POST-RAZIONALISTA di Gabriella Gatto e-mail: [email protected] Uno studio pilota di comparazione tra focalizzazione cognitivo-comportamentale e focalizzazione con percezione somatica per il controllo delle allucinazioni uditive INDICE GENERALE Parte I Schizofrenia : l’approccio cognitivo post-razionalista. 1. 2. 3. 4. Introduzione Cenni storici sul concetto di schizofrenia Diagnosi nosografica e comprensione psicopatologica Cenni generali sul modello cognitivo sistemico- processuale di Vittorio Guidano 4.a Le caratteristiche della conoscenza umana e le organizzazioni di significato 4.b Esperienza e coerenza narrativa 5. L’approccio cognitivo post-razionalista alle psicosi e alla schizofrenia Parte II Uno studio pilota di comparazione fra focalizzazione cognitivo- comportamentale e focalizzazione con percezione somatica per il controllo delle allucinazioni uditive Ricerche sulle allucinazioni Ipotesi Soggetti Procedura Trattamento Risultati preliminari Discussione Schizofrenia : l’approccio cognitivo post-razionalista. di Gabriella Gatto 1.Introduzione. Fra le psicosi funzionali la schizofrenia è considerata la forma più severa di disturbo mentale. Questa psicosi è caratterizzata da una più precoce perdita di contatto con la realtà rispetto alle altre forme di psicosi, da un’amplissima gamma di evoluzioni possibili del decorso clinico e da esiti che solitamente escludono la guarigione piena. Frith riporta esiti di deterioramento intellettivo cronico dai 2 ai 5 anni di distanza dal primo ricovero, sulla base del criterio diagnostico utilizzato.(Frith, 1995). Per tradizione in ambito medico la diagnosi è determinata individuando una costellazione di sintomi posta in relazione con uno stesso antecedente organico. Questo approccio è problematico nella schizofrenia dato che gli antecedenti sono tuttora sconosciuti (idem). Nell’ ambito della psichiatria accademica sono state formulate negli ultimi decenni diverse concettualizzazioni mirate ad integrare la vasta mole di teorie e dati derivati dalla ricerca empirica Una di esse è il modello etiopatogenetico della schizofrenia attualmente più accreditato dalla comunità scientifica : il modello multifattoriale "Vulnerabilità-stress-coping", la cui prima formulazione di Zubin e Spring risale al 1977. Esso è formato da tre raggruppamenti corrispondenti ai tre fattori principali di rischio. Il fattore "vulnerabilità", che comprende i dati sulle anomalie di natura neurotrasmettitoriale e strutturale del cervello, il parametro della ridotta capacità di elaborazione delle informazioni, i parametri psicofisiologici e tratti di personalità schizotipica ; i fattori psicosociali, che raccolgono fra gli altri gli studi sull’ emotività espressa e sugli eventi di vita stressanti ; infine i fattori di protezione, che si riferiscono al livello di capacità di coping e l’uso di farmaci antipsicotici da parte del paziente, alla capacità di problem solving familiare e agli interventi psicosociali di supporto. L’assunto è che uno scompenso avvenuto in presenza di un basso livello di fattori di rischio psicosociali indica una forte vulnerabilità genetica alla schizofrenia e, all’opposto, un alto livello di fattori psicosociali implica una debole vulnerabilità. I fattori protettivi hanno la funzione di alzare la soglia di scompenso. Sebbene tale modello sia ritenuto una buona integrazione delle conoscenze in materia, risulta carente nella spiegazione di tutti gli aspetti interattivi fra i fattori. Inoltre trascura l’ambito della continuità tratto-stato, ovvero una esplicazione che comprenda i soggetti con vulnerabilità alla schizofrenia ma permanenti in un’ambito di normalità o che sviluppano sindromi più blande. (Klosterkotter, 1999). Il modello vulnerabilità-stress-coping evita gli approcci riduzionistici propri delle neuroscienze. Esso attribuisce un’ampia variabilità di incidenza al peso dei fattori psicosociali nell’eziopatogenesi del disturbo e non sostiene l’ipotesi della causalità lineare cervello-mente propria dell’ approccio cosiddetto "top-down", il quale considera i disturbi mentali effetti di eventi cerebrali antecedenti. Tuttavia, posto che molte anormalità neurofisiologiche e deficit cognitivi non risultano specifici della schizofrenia, riscontrandosi in altre forme di disturbo mentale e nelle psicosi organiche, è plausibile formulare spiegazioni basate su forme più complesse di interazione circolare fra fattori. Su tali basi empiriche sembra attedibile anche l’ipotesi, sostenuta dall’approccio "bottom-up", che anomalie e deficit possano essere reazioni secondarie caratteristiche delle psicosi di tipo schizofrenico, comprensibili analizzando l’interazione fra personalità psicotica e contesto socioculturale di riferimento.(Sass, 1992 ; Boyle, 1994 ; Thomas, 1997 ). Alla luce dei risultati attuali della ricerca, appare comunque chiaro che le spiegazioni neurobiologiche e le interpretazioni fenomenologiche non sono incompatibili e le anormalità cerebrali non sono associate ad un reale declino del livello di funzionamento mentale. (Sass, 1992). D’altra parte esponenti autorevoli della psichiatria accademica denunciano la tendenza, oramai consolidata, a sostituire l’analisi psicopatologica con osservazioni codificate di carattere nosografico, (Roberts, 1992; Maselli-Cheli, s.d.)o comunque con aspetti descrittivi osservabili, descrizioni semplificate dei disturbi mentali allo scopo di perseguire una maggiore condivisibilità. La ricerca dell’oggettività e della condivisibilità però esclude la comprensione delle qualità esperenziali soggettive del fenomeno psicopatologico osservato, e quindi una comprensione più approfondita dell’eziopatogenesi dei disturbi ( Maselli-Cheli, s.d. ). Di conseguenza tale psicologia, tralasciando le investigazioni sull’ordine esperenziale interno all’individuo risulta carente di "fenomenologia esplicativa" (Mahoney,1991, cit. in Lacannelier, s.d.), giungendo invariabilmente a spiegazioni che si appellano al concetto di deficit da un lato, o all’effetto dell’ambiente esterno dall’altro.(idem). Basandomi su tali considerazioni e riflessioni critiche, nei quattro paragrafi successivi che compongono la prima parte del mio lavoro farò un rapido excursus teorico e metodologico. A partire dall’analisi delle origini storiche del concetto di schizofrenia e della descrizione degli aspetti nosografici, affronterò tematiche di psicopatologia descrittiva con particolare attenzione ad alcuni apporti della scuola fenomenologica europea nella seconda metà del Novecento, per giungere alla descrizione del modello cognitivo sistemico-processuale di Vittorio Guidano, con le specifiche modalità di conoscenza di sé e del mondo proprie delle psicosi di tipo schizofrenico. La sua psicopatologia esplicativa delle nevrosi e delle psicosi rielabora, inserendole organicamente all’interno delle loro specifiche modalità di perseguimento della coerenza interna, le tematiche di psicopatologia descrittiva e le riflessioni sugli aspetti qualitativi dell’ esperienza soggettiva elaborate in ambito fenomenologico.(Maselli-Cheli, s.d.) Attraverso questo percorso mi propongo in primo luogo di delineare la profondità e complessità del mutamento di prospettiva compiuto dal pensiero post razionalista in relazione alla comprensione psicopatologica e alle implicazioni terapiche delle psicosi di tipo schizofrenico. Nella seconda parte presenterò una ricerca pilota svolta su 5 casi clinici con diagnosi di schizofrenia. Questa ricerca confronta la tecnica di focalizzazione semplice cognitivo comportamentale con la focalizzazione con percezione somatica di matrice post-razionalista, allo scopo di verificare l’efficacia di quest’ultima rispetto alla prima nel controllo delle allucinazioni uditive. Gli aspetti teorici e metodologici del modello cognitivo sistemico-processuale affrontati nella prima parte e all’interno del paragrafo "Ricerche sulle allucinazioni uditive" nella seconda parte, specificheranno la cornice teorica a cui farò riferimento per l’impostazione, la conduzione e la discussione dei risultati della ricerca. 2. Cenni storici sul concetto di schizofrenia. Con il termine dementia precox mutuato da Morel nel 1852, Kraepelin intese designare una malattia mentale di insorgenza precoce e con esito di demenza, che inferì sulla base di una costellazione significativa di comportamenti. L’autore sostenne d’aver individuato un gruppo di pazienti i cui comportamenti manifestavano una serie di regolarità: mutavano in modo simile nell’insorgenza, nel decorso e giungevano a un analogo esito finale. Queste regolarità implicavano per Kraepelin la presenza di un processo comune sebbene inosservato,che le spiegava e autorizzava la costruzione di un nuovo costrutto ipotetico.(Boyle,1994) Nella sua formulazione iniziale del 1886 descrisse anche una seconda e una terza costellazione dalle quali inferì la catatonia e la dementia paranoides. Pur descrivendole come entità distinte l’autore ritenne che le tre forme non fossero irrelate, finché nel 1889 giunse a un ribaltamento delle formulazioni precedenti con la descrizione di tre sottotipi di dementia precox: ebefrenica, catatonica e paranoide. Le diverse costellazioni di comportamenti osservate confluirono quindi in un unico raggruppamento generale. Sucessivamente, non potendo più spiegare coerentemente con il suo modello i risultati contradditori che via via emergevano dall’osservazione dei pazienti, Kraepelin perse interesse per quell’area di ricerca e 1913 definì un nuovo tema di osservazione : i "disturbi che caratterizzano la malattia", di cui la "distruzione delle connessioni interne alla personalità psichica" era la caratteristica comune sottesa alle diverse manifestazioni psicopatologiche. Malgrado le perplessità manifestate in seguito anche sul concetto di demenza precox intesa come un’entità singola, l’esistenza di tale malattia era ormai accettata dalla comunità scientifica dei suoi contemporanei. (idem). Il concetto fu consolidato da Bleuler nel suo testo del 1911 "Dementia precox o il Gruppo delle Schizofrenie". Egli non si discostò dalla concezione di Kraepelin, ma aggiunse i suoi criteri diagnostici e suggerì il termine attuale di schizofrenia, a indicare la "scissione delle funzioni psichiche"quale caratteristica fondamentale della malattia. Come il suo predecessore, Bleuler sostenne la presenza nel gruppo delle schizofrenie di una fondamentale anormalità sottesa alla sintomatologia: un’alterazione strutturale o funzionale del cervello. Il processo morboso consisteva nel verificarsi di tali anormalità. (Boyle, 1994; Crow, 1998). L’autore elencò inoltre una serie di comportamenti caratteristici della malattia dai quali evincere la diagnosi, che suddivise in due categorie principali : "sintomi che derivano direttamente dal processo morboso" in quanto emergono come effetto del verificarsi di eventi anatomici o funzionali , definiti anche "sintomi primari", e sintomi "che cominciano a operare solo quando la psiche malata reagisce a certi processi interni o esterni", modificabili sotto l’influenza dell’ambiente e definiti "sintomi secondari". (Bleuler, 1911 cit. in Boyle, 1994; Crow, 1998) Nei suoi ultimi scritti i sintomi primari si ridussero al concetto di "disturbo dell’attività associativa", peraltro rimasto vago e indefinito. Sintomi secondari erano fra gli altri i disturbi dell’affettività e il negativismo.(Boyle, 1994; Crow, 1998) Schneider riprese il lavoro di Bleuler proponendo i concetti alternativi di "sintomi di primo rango", che comprendevano la diffusione del pensiero, le influenze esterne sul corpo e le percezioni deliranti, e "sintomi di secondo rango", categoria che raccoglieva tutti gli altri sintomi associati alla schizofrenia. L’autore incorporò le due categorie nei criteri diagnostici. Schneider ritenne i sintomi di primo rango estremamente importanti per la diagnosi in quanto specifici solo di questa patologia ma, a differenza degli autori precedenti, sebbene supponesse un antecedente organico quale fondamento del concetto di malattia mentale e all’origine di tale gruppo di sintomi, sostenne che l’alterazione organica potesse non essere dimostrata, e non intese quindi costruire una teoria bensì formulare criteri operazionali, pragmatici, scevri da intenti eziologici: i sintomi erano elementi caratteristici e costanti di natura esclusivamente psicopatologica. (idem). 3.Diagnosi nosografica e comprensione psicopatologica Il Manuale Diagnostico Statistico dei Disturbi Mentali alla quarta edizione, Asse primo, parla di "schizofrenia e altri disturbi psicotici" e propone cinque criteri necessari a soddisfare la diagnosi di schizofrenia, di cui il criterio A, presenza di segni e sintomi "positivi" (in eccesso rispetto alla norma) e "negativi" (per la loro assenza rispetto alla norma) per la durata di almeno un mese in forma acuta, e il criterio C, presenza di segni e sintomi positivi e negativi per la durata di almeno sei mesi in forma attenuata, solitamente come prodromi o residui, sono considerati essenziali. Il criterio A richiede almeno due sintomi di un elenco comprendente deliri, allucinazioni, eloquio o comportamento disorganizzato(sintomi positivi), appiattimento dell’affettività, alogia, abulia (sintomi negativi). La presenza dei soli sintomi negativi non è considerata patognomonica della schizofrenia, mentre il "delirio bizzarro" è sintomo sufficiente a soddisfare da solo il criterio A (DSM IV, APA,1996). Dal punto di vista psicopatologico particolarmente significative ai fini della diagnosi sono le allucinazioni uditive in terza persona, "voci" che commentano pensieri e azioni del paziente o dialogano tra loro riferendosi a lui; i disturbi del pensiero come il furto o la diffusione (il paziente sente che il pensiero gli viene sottratto o al contrario promana da lui, diffondendosi nell’ambiente circostante) e i deliri di controllo (emozioni, impulsi all’azione, volontà, attività del corpo sono agiti da forze esterne). Questi sintomi sono considerati di primo rango secondo la classificazione di Schneider, sulla base del substrato psicopatologico comune: l’alterazione dei confini che separano il sé dal mondo. (Sims,1997). Come Brentano e poi Jaspers hanno mostrato, il disturbo della funzione di "demarcazione dell’io" (la capacità cognitiva che permette di effettuare la distinzione fra se e altro da se) evidenzia la connessione imprescindibile fra coscienza e rapporto soggetto/oggetto (Cotugno, Intreccialagli, 1995). Nel commento o dialogo di voci e nei deliri di controllo l’io appare sommerso da persone del mondo circostante, mentre la diffusione del pensiero implica la sua espansione e l’inondamento del mondo.(Sims,1997). Ambedue i casi testimoniano l’avvenuta perdita della relazione di reciprocità che discende dal senso di appartenenza a sé e all’altro da sé, "categoria primaria" antropologica dell’essere umano, fondante l’identità del noi e l’eterogenità dell’ Ego e dell’Alter-Ego. (Callieri, 1999). Un recente filone di ricerca sviluppatosi nell’ambito della scuola fenomenologica britannica individua nella presenza del delirio bizzarro lo spartiacque fra schizofrenia e altre forme di psicosi. L’aggettivo "bizzarro" è anche comunemente inteso come sinonimo di delirio primario, e sottolinea le caratteristiche di inderivabilità e incomprensibilità del contenuto del delirio in relazione alle circostanze di vita e alla cultura d’appartenenza dell’individuo.(Ballerini 1999;Stanghellini e Rossi Monti,1999). Nel delirio primario il prevalere di un "oggettiva passività" nell’esperienza del mondo (ad esempio nei deliri di controllo esterno ) è inversamente proporzionale allo sfumare del "senso soggettivo di attività dell’Io", ossia della consapevolezza che l’individuo normale possiede di essere la fonte delle proprie azioni e pensieri.(idem) Secondo la fenomenologia anglossassone alla base del delirio può sempre essere rintracciata una percezione delirante, a distinguere il delirio primario dalle "reazioni deliroidi", scompensi deliranti comprensibili sulla base di eventi di vita affettivi e sociali stressanti, non caratteristici della schizofrenia. (idem). Con il concetto di percezione delirante si intende una percezione normale alla quale è attribuito un significato speciale e di particolare rilevanza per il soggetto percepente e il cui contenuto non è derivato in maniera ovvia dal percetto. Una chiara e articolata illustrazione della percezione delirante è stata sviluppata da Sass sulla base di descrizioni e memorie di pazienti schizofrenici. Questo autore impiega il termine "Stimmung" mutuato da Nietzsche, per contrassegnare un particolare umore o stato della mente che si accompagna a una peculiare modalità di percezione, già descritta dalla psichiatria tedesca quale segno indicatore degli stadi iniziali della schizofrenia, il "signe du miroir": il fissare con lo sguardo intensamente il mondo, sguardo affascinato da una realtà che appare svelarsi come mai prima palesando nascosti e misteriosi significati.(Sass, 1992) Sass distingue quattro aspetti nell’esperienza di Stimmung solitamente collocabili in sequenza, sebbene ognuno di essi si manifesti comunque intrecciato agli altri. I primi tre termini sono mutuati dai resoconti dei pazienti . Con il termine "Irrealtà" l’autore indica la sensazione iniziale di stranezza e alienità che pervade la percezione del mondo, ove cose e persone appaiono distanti al soggetto come se si trovassero dietro una lastra di vetro. Il "Mero Essere" si riferisce alla sensazione del prender vita degli oggetti del mondo, vita autonoma e soverchiante nei confronti del soggetto percepente a causa della loro stessa esistenza, ed è accompagnata da emozioni di terrore o di estrema esaltazione. La "Frammentazione" indica la percezione di dettagli del corpo delle persone o delle parti di oggetti quali elementi isolati gli uni dagli altri e dal contesto nel quale sono inseriti, esperienza accompagnata da paura e perdita del significato condiviso attribuito alle cose percepite. Questi tre aspetti presi insieme costituiscono il "Trema", la enigmatica ed elusiva atmosfera di paura che precede la costruzione del delirio. Il quarto aspetto, che emerge in un momento ulteriore del break psicotico, è definito col termine di "Apofania" ("divenire manifesto"). L’autore intende la sensazione che ogni cosa ed evento del mondo appare manifestare un importante significato che sfugge di continuo alla comprensione del soggetto percepente, dandogli però la certezza che niente accada per caso. (idem). L’analisi antropo-fenomenologica di tale modalità percettiva del mondo evidenzia d’altro canto l’emergere di una "novità" rispetto ai significati condivisi dalla cultura d’appartenenza. Il significato idiosincrasico attribuito all’esperienza percettiva assume infatti rapidamente i contorni di una rivelazione da una realtà superiore, una realtà misteriosa ma più "vera" della realtà condivisa, determinando una frattura incolmabile nei confronti del senso di continuità con l’esperienza passata. La comprensione psicopatologica del processo schizofrenico prende origine quindi dall’interruzione del rapporto di intersoggettività e dalla disorganizzazione del sé e del mondo per giungere alla costruzione di una esistenza autistica, di un cosmo idiosincrasico nelle elaborazioni successive del delirio, caratterizzato dal linguaggio sempre più astratto, ermetico, dalle incoerenze formali, dal pensiero magico. In questa prospettiva la schizofrenia è considerata quindi l’esito finale di una psicosi delirante cronica.( Ballerini,1999; Stanghellini e Rossi Monti, 1999). 4. Cenni generali sul modello cognitivo sistemico-processuale di Vittorio Guidano L’attenzione all’esperienza soggettiva quale costante in psicopatologia non è certo una novità. Pare assodato da parte di esponenti autorevoli della psichiatria accademica che non si possa prescindere da una buona descrizione del fenomeno per poter comprendere nella sua interezza e complessità - al di là delle semplificazioni insite nelle categorizzazioni nosografiche - la manifestazione psicopatologica osservata, sia ai fini di una diagnosi differenziale che di un eventuale intervento terapico. Nell’ottica costruttivista è però vero che sia l’ osservatore che l’osservato costruiscono spiegazioni che consentono loro di dare un significato agli aspetti di realtà sperimentati, realtà che lungi dall’essere conosciuta "per sé",oggettivamente, è inestricabilmente connessa alla visione relativa di chi osserva. L’osservato è quindi anche osservatore. Una descrizione dell’azione umana non può pertanto prescindere dal punto di vista soggettivo di chi la compie.(Maselli-Cheli, s.d.) Partendo dall’interesse per il soggettivo in psicopatologia descrittiva, interesse che ha caratterizzato il suo percorso di ricerca e di prassi professionale, Guidano si è allontanato gradualmente dalla iniziale impostazione teorica e metodologica di matrice razionalista e empirista evidenziando la questione della scarsa predittività mostrata da tali orientamenti, ed è giunto nel 1991 alla definizione di una psicopatologia esplicativa ove la tematica del soggettivo risulta organicamente inserita all’interno di un’ottica della complessità e in un’epistemologia sistemicoevolutiva compiuta. (idem.). Negli ultimi decenni del Novecento la convergenza di discipline quali la seconda cibernetica, l’epistemologia evolutiva, la termodinamica irreversibile, le scienze cognitive, il Darwinismo Neurale, ha determinato il sorgere di una nuova prospettiva, le " scienze della complessità", il cui oggetto di studio sono i sistemi complessi, e fra questi gli esseri umani. La comprensione del funzionamento dei sistemi umani richiede conoscenze interdisciplinari. Le scienze della complessità hanno evidenziato come qualità preminenti gli aspetti di autodeterminazione e autorganizzazione di tutti gli esseri viventi compreso l’uomo (Ruiz, s.d., a) Il modello formulato da Guidano è definito post-razionalista perché pone in evidenza la trama emozionale sottesa al pensiero logico razionale ; sistemico perché considera la psiche umana un sistema chiuso autoorganizzato ; esplicativo in quanto si interessa agli aspetti esplicativi dei fenomeni psicologici piuttosto che a quelli descrittivi ; processuale perché pone l’attenzione sulle modalità di processamento dell’esperienza piuttosto che sui contenuti; infine evolutivo, perché basandosi sugli apporti della biologia di Maturana e sulla teoria del Darwinismo Neurale considera la conoscenza una caratteristica insita in ogni essere vivente. (Spinelli,Ocampo,Minacore,Castillo e De Rosa, s.d.) Le caratteristiche della conoscenza umana e le organizzazioni di significato. L’epistemologia evolutiva che informa la psicologia post-razionalista concepisce la conoscenza come una capacità posseduta da ogni essere vivente, in quanto sistema autorganizzato, di far fronte alle perturbazioni esterne, con l’obiettivo di perpetuare la propria struttura, ed accedere a nuovi livelli di realtà .(Coda, s.d.) La conoscenza umana può essere distinta in emozionale, ovvero la dinamica del corpo che segnala il dominio di azione nel quale l’organismo si muove; nella conoscenza intersoggettiva, che consente di costruire una teoria dell’altro al di là del comportamento osservabile; nel linguaggio, che consente una rappresentazione astratta della realtà e l’aumento della coordinazione intersoggettiva. (idem.). Essendo sistemi autorganizzati gli esseri umani sono anche sistemi storici. L’esperienza umana infatti è sempre coerente con la dinamica interna al sistema, essendo un flusso continuo nel quale si possono individuare delle invarianti che evidenziano le caratteristiche di unicità di ogni organismo rispetto agli altri. Il flusso esperenziale si consolida in un senso di sé, che è il fluire dell’esperienza divenuto sensazione di una propria continuità e unicità al di là dei mutamenti. L’organizzazione di un dominio di emozioni ricorrenti e oscillanti in un dato individuo, definito "esperienza immediata", rende possibile riconoscere il senso della propria continuità e unicità, il sé stesso.(Lecannelier, s. d.) Il livello dell’esperienza immediata (l’Io) è analogico ed emozionale, corrisponde alla conoscenza emozionale, e le immagini e le tonalità emotive di base di tale dominio sono scatenate dalla modulazione dei processi di attaccamento alle figure significative. (Guidano, 1991). Il livello della "spiegazione" (Me) è la rete di distinzioni compiute all’interno del linguaggio che costruiscono le credenze, argomentazioni, le storie ecc. Esso è un livello esplicito. Tali distinzioni compiute attraverso il linguaggio non sono ricavate del mondo esterno oggettivo, ma dall’esperienza immediata. Ciò spiega il motivo per il quale la conoscenza è sempre personale, relativa, e riflette la storia dell’individuo.(Lecannelier, s.d.). Il livello della spiegazione opera sull’esperienza immediata riordinandola in una sequenza narrativa cronologica, causale e tematica . Dal flusso costante dell’esperienza immediata sottoposta alle distinzioni del linguaggio nasce e si sviluppa il sé. (Guidano,1991). Il modello esplicativo della conoscenza basato sul Darwinismo Neurale formulato da Edelman nell’ambito delle neuroscienze, consente di identificare l’ esperienza immediata con la coscienza primaria e il riordinamento (spiegazione) in modelli espliciti di sé e del mondo, con la coscienza di ordine superiore. Da una prospettiva fenomenologica coscienza primaria significa possedere una scena, ossia lo sperimentare momento per momento una sucessione continua di esperienze sensoriali in correlazione e nella loro globalità. Essa è anche definibile come coscienza del presente.(Jaime e Silva, s.d.) La coscienza di ordine superiore è possibile solo se è acquisita la coscienza primaria e risulta interconnessa con quest’ultima. Appartiene ad essa l’autocoscienza. Permette di generare le categorie relazionali del me e non me le quali complessificandosi costruiscono modelli di sé e del mondo. Con essa è possibile la distinzione tra passato, presente e futuro. (idem). L’autocoscienza (il processo ricorsivo della coscienza) possiede aspetti sia cognitivi che emotivi, si sviluppa gradualmente a partire dall’autoriconoscimento e va complessificandosi parallelamente allo sviluppo del linguaggio. La coscienza di ordine superiore permette di riconoscere il proprio mondo emozionale quale dimensione psicologica soggettiva e di possedere una teoria della mente dell’altro. Gli stati emotivi della coscienza primaria, interagendo con i processi di ordinamento della coscienza di ordine superiore, si trasformano in esperienze emozionali, valutazioni che l’individuo compie sui propri stati emotivi nella cornice del contesto sociale in cui sono sorti. Dall’attività di costruzione di specifiche esperienze emozionali deriva l’elaborazione dell’identità personale. (idem). Dato che la sopravvivenza umana dipende dalla capacità di interagire con gli altri conspecifici, il sistema conoscitivo funziona al contempo per mantenere un sentimento di continuità del legame di attaccamento in età infantile, e dell’autoimmagine (coscienza di sé) e dell’autostima in età adulta, fattori quest’ultimi dai quali dipende l’accessibilità a nuove interazioni nella comunità di appartenenza. Sulla base delle tonalità emozionali scatenate dalle interazioni con i genitori e quindi del tipo di immagini di "sé con l’altro", il bambino si costruisce un’organizzazione cognitiva-emotiva specifica. Vivendo in una realtà intersoggettiva che sola permette di riconoscersi, è da questa matrice che l’individuo ricava le tonalità emotive che costruiscono il significato personale. Essa è la modalità con la quale egli decodifica la sua esperienza immediata esplicitando il senso di sé all’interno di una concezione del mondo complessa .E’ il significato personale che organizzando il rapporto dialettico fra Io e Me determina in senso progettuale la direzionalità del sistema- individuo. Al contempo, organizzando la percezione del mondo esso da una spiegazione e una giustificazione alla consapevolezza della mortalità . (Guidano, 1991) I risultati delle ricerche di Bowlby hanno reso possibile specificare quattro modelli di attaccamento presenti in diverse combinazioni all’origine delle quattro modalità di organizzazione cognitiva- affettiva : DAP, Fobica, Depressiva e Ossessiva. Il livello di funzionamento adattativo dipenderà sia dal tipo di organizzazione che dagli aspetti qualitativi dell’autocoscienza, nonché dalla dinamica del vincolo affettivo, che determina lo stato di compenso o scompenso, e infine dal sentimento soggettivo del tempo nel ciclo di vita considerato. (idem). Le dimensioni analizzate nell’organizzazione di significato ai fini della diagnosi clinica sono la flessibilità nel contesto sociale, la generatività (capacità di soluzione dei problemi), astrazione/concretezza, autointegrazione, la qualità della coscienza e delle spiegazioni (coerenza esperenziale), viabilità, stile del vincolo affettivo, struttura, contenuto e qualità del’autonarrazione.(Quinones Bergeret,1997) Il significato personale fa quindi riferimento all’autorganizzazione dell’ esperienza di realtà nel sistema individuo. Se autorganizzarsi vuol dire mantenere da parte del sistema la propria unicità nel tempo, ciò coincide con il mantenimento della propria identità. Con il concetto di identità si intende allora un processo, una costruzione che si svolge lungo tutto il ciclo di vita, piuttosto che un’entità statica. Essa ha sia aspetti intellettivi che emotivi, sia un modo di vedersi che di sentirsi nel mondo, mentre elabora la differenziazione da esso. Ogni atto di individualizzazione rispetto al mondo comporta la costruzione di un significato personale, a partire dalla sequenzalizzazione degli eventi significativi, in quanto sequenzializzare le immagini significa interpretarle , darle una trama narrativa e di conseguenza mantenere la coerenza della propria storia di vita Il sentimento di sé stesso è l’identità interna alla storia di vita di cui l’individuo è il personaggio principale. (Ruiz, s.d.,b) . . Esperienza e coerenza narrativa. Il costante incremento di informazioni che caratterizza il sistema conoscitivo umano porta all’emergenza di livelli sempre più integrati di conoscenza di sé e del mondo. Grazie al linguaggio tali informazioni sono concettualizzate in una trama narrativa, in un racconto autoriferito che risponde ai criteri di verosimiglianza, ossia di coerenza interna al sistema, piuttosto che di verità oggettiva, generale, caratteristica quest’ultima della logica lineare, del pensiero proposizionale. L’autonarrazione si può figurare come un’intelaiatura costituita da elementi di memoria semantica (frutto del linguaggio, essa contiene informazioni generali e decontestualizzate come credenze e categorizzazioni, orientate culturalmente) sulla quale si collocano, in un’ambito di normalità, i corrispondenti elementi di memoria episodica (memoria di episodi di vita vissuta, includenti immagini visive, percezioni e altri aspetti analogici). La relazione fra memoria semantica e memoria episodica è la base sul quale il soggetto costruisce il significato personale.(Quinones, Bergeret, 1997) Nella trama narrativa possono essere distinti gli aspetti di struttura (l’inizio, la parte centrale e la fine del racconto), contenuto (le tematiche svolte dal racconto) e qualità (stili organizzativi depressivo, fobico ecc., sulla base delle tonalità emotive implicate). (idem) Dato che l’esperienza immediata, il sentirsi vivere, giunge sempre prima del riordinamento esplicito, possono verificarsi delle discrepanze più o meno grandi tra esperienza e l’immagine cosciente (in forma narrativa) di sé. Entra in gioco a questo punto il processo di autoinganno che evolutivamente ha lo scopo di appianare le discrepanze escludendo dalla consapevolezza certi ingredienti dell’esperienza, o assimilandoli alla narrazione cosciente in modo da mantenerla coerente e generativa. Il mantenimento della salute mentale dipende da un equilibrato livello di autoinganno, che permette all’individuo di riconoscere il proprio flusso emozionale evitando l’esclusione di una quantità eccessiva di elementi dell’esperienza immediata, con la conseguente dissociazione tra Io e Me, ma anche un’ eccessiva inclusione di dettagli che causerebbero continui mutamenti di punto di vista su di sé. Una buona esplicazione ha quindi la funzione di renderci consapevoli di una possibilità di azione socialmente viabile distanziandoci dall’immediatezza dell’emozione. Inoltre una narrazione di sé coerente e articolata serve al mantenimento dell’autostima. (idem) La narrativa personale è in continua attualizzazione. Ciò si deduce sia dall’auto narrazione che dalla visione consensuale tra individuo e comunità di appartenenza, ambiente nel quale si sviluppano storie che contestualizzano nel presente i comportamenti del "personaggio" a partire dal racconto delle interazioni passate. Sentirsi personaggio non corrisponde all’essere l’autore della propria storia. Nel migliore dei casi, quando l’individuo sperimenta un senso di controllabilità perché le sue aspettative non vengono disconfermate, l’individuo si sente "coautore", costruttore di una storia in cui è comunque vincolato ad essere solo quel dato personaggio: la percezione di avere un destino corrisponde proprio al senso di essere protagonisti ma non autori della propria storia. L’incontrollabilità, ossia l’aumento della novità senza assimilazione dell’esperienza, determina la perdita del senso di essere protagonista e l’emergenza di uno scompenso clinico. (idem). L’autonarrazione non risponde agli stessi criteri di una storia letteraria. Mentre in una novella la coerenza del racconto è data dalla trama è questo è il focus al quale si attiene lo scrittore, nell’autonarrazione la coerenza è data dal personaggio, cioè dal mantenimento della coerenza con sé stesso al punto che l’individuo può anche giungere a distruggere la trama della narrazione e la sua potenzialità generativa pur di mantenere tale coerenza. Nel narrarsi la propria storia l’individuo non cerca la verità di ciò che gli è accaduto ma mira a mantenere un senso di continuità e di coerenza : qui sta la verità narrativa di una storia di vita. Vi sono due variabili determinanti per il mantenimento di un senso di sé stabile e coerente e della continuità della propria storia: l’ autointegrazione, ossia la capacità di configurazione degli eventi in un racconto ordinato per sequenze causali, cronologiche e tematiche, e la capacità di articolazione astratta, ossia il livello di concretezza/astrazione che connota la trama ordinata sequenzialmente. Le categorie della normalità, nevrosi e psicosi possono essere considerate in questa prospettiva diverse modalità di coerenza mediante le quali si attua la ricerca della verità narrativa. (Guidano, 1998 b) 5. l’approccio cognitivo post razionalista alle psicosi e alla schizofrenia Le categorizzazioni nosografiche e l’approccio clinico che ne deriva in ambito psichiatrico evidenziano l’assenza della storia di vita del paziente: l’intervento sui sintomi mira infatti alla loro eliminazione in quanto anormalità, escludendo il tentativo di correlarli con la personalità del paziente e quindi la possibilità di dare loro un senso all’interno della sua narrativa.(Guidano, 1999). In una prospettiva costruttivista che vede l’individuo operare all’interno di una logica autoriferita di attribuzione di significato, si possono invece comprendere i sintomi e i segni come informazioni discrepanti distinte in determinate dimensioni esperenziali, che il sistema non ha potuto decodificare e integrare nell’identità narrativa. I sintomi sono allora il prodotto di una modalità di processamento del significato personale funzionante a "margini ristretti" . (Quinones Bergeret,1997). Nella nosografia tradizionale e nei modelli teorico clinici di matrice razionalista le categorie normale nevrotico e psicotico sono concepite come entità statiche riferite a specifici contenuti di conoscenza. Nell’ottica sistemico-processuale tali categorie sono considerate modalità specifiche di mantenimento della coerenza interna del sistema individuo, la quale si sviluppa lungo tutto il ciclo di vita. (Ruiz, 1998) La normalità è caratterizzata da un buon livello di flessibilità e di astrazione, di conseguenza da una buona generatività del sistema, ovvero dalla possibilità di produrre nuove teorie su di sé e sul mondo, e da un buon livello di autointegrazione, cioè dalla capacità di percepirsi in ogni momento della propria vita come un sé unitario e coerente. Dalla percezione dell’ unitarietà del sé momento dopo momento deriva il senso della propria continuità nel tempo.(idem) La modalità psicotica di elaborazione della conoscenza evidenzia flessibilità e generatività molto ridotte, un aumentato livello di concretezza, e un’interferenza grave nella capacità di autointegrazione. (Guidano, 1992). Tale interferenza è l’elemento distintivo del funzionamento psicotico: si manifesta con l’interruzione del sentimento di unitarietà del sé nell’attualità e, in una prospettiva longitudinale, con la frammentazione dell’identità personale, in quanto è perso il sentimento di continuità e coerenza con la vita passata. (Ruiz, 1998) Quando il danneggiamento della capacità di integrazione è per difetto, le percezioni discrepanti rispetto all’immagine cosciente di sé paiono giungere all’individuo dall’esterno manifestandosi come allucinazioni. Se il danno della capacità di autointegrazione è per eccesso, sono integrati nell’immagine cosciente di sé aspetti dell’esperienza che normalmente non vengono inclusi (overinclusion). Essi entrano a far parte di una costruzione delirante la cui struttura narrativa è di tipo mitico, slegata dal contesto di riferimento sia logico- temporale che culturale al quale il soggetto appartiene. Dato che avere un’identità è equivalente alla vita del sistema, il delirio risolve l’intollerabilità dell’esistere nella consapevolezza dello stato di separazione tra esperienza e senso di sé. (idem). Le implicazioni della perdita del sentimento di continuità del sé, il "sameness", sono evidenziate analizzando gli ingredienti che danno forma all’autonarrazione. Il sentimento di continuità è essenzialmente emotivo, ed è il filo conduttore sotteso all’evoluzione di ogni organizzazione di significato. Il sé narratore, che fa parte del sameness, su questa base emotiva compatta e riordina le esperienze di vita, producendo spiegazioni e teorie, mentre il sé protagonista, il "selfhood", sperimenta nell’attualtà il succedersi momento dopo momento delle differenti esperienze. Il selfhood dà il senso di diversità, discrepanza , di novità. Nel sistema del sé ( "self system"), attraverso la dialettica tra sé protagonista e sé narratore, l’individuo costruisce un ordine e una coerenza interna alla propria storia di vita. La dialettica tra continuità e discontinuità permette di comprendere che il cambiamento e il mantenimento sono aspetti complementari. Nel cambiamento personale, novità e familiarità coesistono : esso è un rendersi conto in maniera più ampia di ciò che già si conosce. Tuttavia soltanto se è integro il sentimento di continuità del sé è possibile percepire la novità. Il processo di discontinuità di livello psicotico non solo impedisce la consapevolezza del cambiamento perché la novità non è riconosciuta, ma rende impossibile anche autoriferirsela. L’individuo psicotico con la perdita della capacità di sequenzializzazione cronologica, causale e tematica, non riesce più a distanziarsi dall’immediatezza dell’esperienza e a vederla come propria. Diviene allora impossibile trovare la propria collocazione nello spazio e nel tempo, individuare i confini fra l’interno e l’esterno, e riconoscere le emozioni. (Guidano, 1998a). Tutti i tipi di psicosi, compresa la schizofrenia, possono essere ricondotte a tali modalità di funzionamento.(Ruiz,1998). Più in specifico, si può distinguere il delirio schizofrenico dal delirio affettivo considerando le caratteristiche fenomenologiche nei due tipi di costruzioni deliranti. Il delirio schizofrenico evidenzia prevalentemente aspetti percettivi, connessi all’esperienza immediata momento dopo momento, ed è quindi riconducibile ad una preminente attività del selfhood , mentre nel delirio affettivo sono prevalenti gli aspetti esplicativi, narrativi, che denotano l’attività del sameness. (Maxia, 1999). L’eterogeneità delle caratteristiche cliniche descrittive utilizzate per la definizione della sindrome schizofrenica ha generato le difficoltà tuttora presenti nella formulazione di un’ipotesi eziopatogenetica unitaria, al punto tale che ancora si discute se tale forma di psicosi possa essere considerata una categoria sindromica o una categoria nosografica eterogenea. (Guidano, 1992; Ruiz, 1998). Il modello cognitivo sistemico processuale riferisce il concetto di schizofrenia a caratteristiche descrittive che corrispondono a "…episodi acuti di elaborazione non integrata tra i contorni di sé". A tale punto critico possono giungere tutte le organizzazioni di significato. (Guidano, 1992). Studi recenti mostrano che la maggioranza degli episodi acuti di delirio insorgono nel periodo del debutto, nell’adolescenza e nella prima giovinezza tra i 16 e i 26 anni, e che dopo la conclusione dell’episodio vi è il ritorno alla medesima struttura di personalità che ha lo preceduto.(Guidano, 1992; Ruiz,.1998) In questo arco di tempo, lo sviluppo del pensiero autoriflessivo pone al ragazzo il difficile compito di riordinare le discrepanze delle esperienze vissute nell’infanzia rispetto al senso di sé, integrando le contraddizioni in una coerenza unitaria e generativa nei confronti del futuro. Fattore basilare per il raggiungimento di una personalità unitaria e coerente è il possesso di una buona capacità di integrazione. Il tipo di relazioni familiari e specifiche modalità di sviluppo del legame di attaccamento possono interferire con l’acquisizione di tale capacità causando, in una fase così critica del ciclo di vita, episodi acuti di completa separazione tra esperienza e immagine cosciente di sé. (Ruiz, 1998) La forma cronica identificata come psicosi schizofrenica sembra dipendere, secondo numerosi dati desunti da ricerche empiriche, da tre fattori non intrinseci alla psicosi stessa: l’uso di psicofarmaci, che possiedono un effetto destrutturante sul pensiero, l’ospedalizzazione (Guidano, 1992; Ruiz, 1998) e le relazioni familiari. Quest’ultimo fattore è considerato nell’ottica sistemico processuale il più importante. Le famiglie degli schizofrenici sono caratterizzate da un’intolleranza verso tutte le forme di separazione. Il veto nei confronti dello svincolamento emotivo impedisce l’individuazione del giovane e la costruzione di una personalità separata rispetto al sistema familiare. In questo contesto un episodio delirante viene ridefinito dalla famiglia come " malattia" ed essa riorganizza le interazioni fra i membri sulla base di tale definizione, rendendo il veto definitivo. (Ruiz,1998). Uno studio pilota di comparazione tra focalizzazione cognitivo-comportamentale e focalizzazione con percezione somatica per il controllo delle allucinazioni uditive Ricerche sulle allucinazioni uditive Il perdurante problema dell’inefficacia delle medicazioni neurolettiche nel ridurre allucinazioni e deliri in una quota rilevante di pazienti e il rischio, a tutt’oggi presente, di incorrere in seri effetti collaterali con la somministrazione di farmaci a lungo termine, ha stimolato numerosi ricercatori dell’area cognitivocomportamentale a sperimentare tecniche terapeutiche mirate alla riduzione della frequenza delle "voci" o strategie di coping volte ad incrementare le capacità di gestione delle "voci" da parte dei pazienti, e a ridurre lo stress e l’inabilità che ne conseguono. (Tarrier, Beckett, Harwood, Baker, Yusupoff, Ugarteburu, 1993; Garety, Kuipers, Fowler, Chamberlain, Dunn, 1994). La letteratura di matrice anglosassone raccoglie una notevole messe di ricerche sperimentali mirate all’intervento sulle allucinazioni uditive. Slade e Bentall distinguono due categorie principali: a) interventi che incoraggiano la distrazione dalle "voci" quale strategia di coping; b) interventi basati sul monitoraggio delle "voci". (Slade e Bentall,1988, cit. in Haddock et all., 1998) La ricerca sperimentale basata su tecniche distrattive ha inteso verificare se può essere stabilita una correlazione significativa con la frequenza delle allucinazioni o con la capacità di gestione del sintomo. I risultati sperimentali hanno evidenziato l’inefficacia di tali tecniche nella riduzione di frequenza delle allucinazioni uditive, dello stress e inabilità del paziente, sulla riattribuzione a sé delle "voci" e sull’incremento del livello di autostima. Le ricerche basate sulle tecniche di focalizzazione hanno dato invece risultati controversi, di non sempre facile interpretazione, sebbene l’efficacia sia stata comprovata in casi specifici. (Haddock et all.,1998). Nel lavoro del 1994 Bentall et all. sostengono che la focalizzazione quale strategia di coping può portare più facilmente a un cambiamento positivo nel senso di una riduzione nella frequenza delle voci rispetto alle tecniche di distrazione, in quanto la prima è effettivamente indirizzata alle cause delle esperienze anormali. Riguardo la natura delle allucinazioni è ampiamente condivisa l’idea che tale esperienza si manifesti quando eventi mentali non sono attribuiti al sé ma bensì a fonti esterne, causa la rottura del processo di monitoraggio (reality testing) che distingue percetti non generati dal sé, "reali", da immaginazioni e pensieri generati dal sé. (Bentall, 1990; Frith, 1995; Heilbrun, 1980; Hoffman 1986, cit. in Bentall et all. 1994). Un lavoro successivo mirato a comparare gli effetti a lungo termine del trattamento di distrazione con il trattamento di focalizzazione, con follow up a 2 anni, evidenzia la difficoltà del trattamento delle allucinazioni con la terapia cognitivo-comportamentale in entrambe le tecniche: la tecnica di distrazione risulta ininfluente sulla frequenza delle allucinazioni e sullo stress associato, mentre i risultati positivi raggiunti con la tecnica di focalizzazione relativamente alla riattribuzione a sé in una parte dei pazienti, sono limitati al periodo di trattamento. (Haddock, Slade, Bentall, Reid, Faragher, 1998) Fowler, Garety e Kuipers sostengono che "In definitiva nella terapia cognitivocomportamentale il terapeuta incoraggia il paziente a non credere alle voci e tenta di diminuire il suo senso di responsabilità per il loro contenuto." (Fowler, Garety, Kuipers, 1998). L’orientamento della ricerca verso interventi indirizzati alla conoscenza e modificazione delle convinzioni deliranti conseguenti alle voci, piuttosto che alle allucinazioni uditive in se, è ben illustrato dai due studi sperimentali di Chadwick e Birchwood.(1994). Dalle loro ricerche emerge che i soggetti collocano le voci in due categorie, "malevolenti" (voci ai cui comandi i pazienti cercano di resistere) e "benevolenti" (voci attivamente ricercate in quanto ritenute protettive), mentre tutti credono nella loro onnipotenza. Queste ricerche hanno inoltre mostrato che attraverso interventi mirati al tipo di credenze implicate e comunque indirizzati all’attenuazione della convinzione di onnipotenza, si è verificata la riduzione dello stress e dei problemi comportamentali conseguenti alle voci. La riduzione della frequenza delle allucinazioni peraltro inaspettata dagli autori, , non è stata significativa. Similarmente, Chadwick, Birchwood e Trower (1997) sostengono che"…l’interesse centrale della terapia cognitiva delle voci non è (..) quello di eliminare l’attività delle voci stesse, ma di indebolire le credenze che sostengono il disagio." Sull’onda di analoghe constatazioni, lo studio pilota di Persaud e Marks ( 1995), compiuto su 5 casi di schizofrenia con allucinazioni uditive pervasive, intendeva verificare l’incremento del senso di controllo personale sull’esperienza allucinatoria tramite monitoraggio delle "voci" (nel tentativo di portare i pazienti alla riattribuzione a sé), e successiva esposizione graduata con le stesse modalità della tecnica di esposizione impiegata nel disturbo ossessivo, per aumentare la padronanza sulle voci. Gli autori affermano che i pazienti paiono soffrire meno per le allucinazioni per sé piuttosto che per il senso di mancanza di controllo che le accompagna. I risultati di questo studio, che ha impiegato un ammontare di 31 ore per paziente lungo un arco di tempo totale di più di tre mesi, ha evidenziato l’incremento della capacità del senso di controllo delle allucinazioni limitatamente al periodo di trattamento. Le tecniche impiegate non hanno portato a una riduzione significativa della frequenza delle allucinazioni.(idem) Il modello cognitivo-comportamentale poggia le basi sull’epistemologia razionalista. Questa corrente di pensiero, tuttora predominante nelle scienze cognitive, concepisce l’esistenza di una realtà oggettiva esterna al soggetto conoscente, intesa come una serie di informazioni ordinate in maniera indipendente dalla mente dell’osservatore. L’individuo riceve gli input ambientali e li elabora progressivamente riproducendo una copia più o meno esatta della realtà. La conoscenza coincide con le corrispondenti rappresentazioni dell’ordine esterno e l’adattamento è concepito come un modellamento progressivo dell’individuo sotto la spinta delle pressioni dell’ambiente. (Guidano,1988- 1992). Il modello cognitivo post-razionalista poggia le basi sulla più recente epistemologia costruttivista la quale concepisce la realtà piuttosto che come un universo indipendente dall’osservatore, come invece una pluralità imprescindibile di mondi possibili ognuno ugualmente valido e irriducibile allo stesso tempo. L’assurgere a "realtà" di un mondo possibile dipende dalle distinzioni effettuate dall’osservatore all’interno del proprio dominio di interazioni. Ogni osservazione è quindi auto-referenziale, ossia riflette l’ordine e le regolarità costruite dall’individuo conoscente nel suo continuo interagire con il mondo, essendo la realtà in quanto tale di per sé inconoscibile. ( idem ). Nell’ambito della visione razionalista della realtà le allucinazioni sono considerate false percezioni "percept-like experience", ove il criterio di "falsità" indica l’assenza di corrispondenza fra esperienza individuale e appropriato stimolo esterno. (Slade & Bentall, 1988, cit. in Bentall et all.,1994). Esplorando il contesto immediato di riferimento si possono invece evidenziare le relazioni fra il contenuto delle allucinazioni e il tipo di situazione soggettivamente sgradevole, nonché i meccanismi mediante i quali esse possono ridurre l’ansia dei soggetti e determinare una modificazione della situazione stressante. (Boyle,1994). In ambito post-razionalista la percezione degli eventi del mondo esterno evidenzia la costruzione personale della realtà operata dall’individuo nel corso della sua interazione con l’ambiente, pertanto non sono ad essa applicabili criteri di verità o falsità assoluti. Tale costruzione individuale, definita esperienza immediata, comprende le emozioni, le sensazioni, immagini, il dialogo interno e il senso di sé sperimentati nel percepire l’evento, e può essere analizzata durante la rievocazione mnemonica dell’evento significativo, tramite la tecnica della moviola. (Guidano, 1992). Nelle ricerche tradizionali è chiesto al soggetto di focalizzare l’attenzione sulla "voce" sentita e di riprodurla mentalmente quale punto di partenza del lavoro di individuazione delle differenze con la percezione uditiva . Il metodo post-razionalista evidenzia invece come, una volta contestualizzata e ricollocata all’interno dell’evento ordinato sequenzialmente in senso cronologico, causale e tematico, l’allucinazione uditiva risulta un ingrediente della propria esperienza soggettiva, l’immaginazione uditiva sperimentata come proveniente dall’esterno. La sequenzializzazione ripetuta dell’evento critico determina nel paziente psicotico un progressivo aumento della capacità di articolazione e integrazione dell’esperienza, e di conseguenza l’abbandono delle spiegazioni deliranti (Mascia, 2000). L’ intervento clinico in ambito post razionalista ha chiarito che la tendenza a non distinguere fra immaginazione uditiva e percezione uditiva predispone a sperimentare l’immaginazione non dissimile dal prodursi di una nuova allucinazione, avvertendola quindi sempre in termini di esternalità. Per far sì quindi che il soggetto riesca a distinguere le due diverse componenti del mondo soggettivo è necessario allora istruirlo a mantenere l’attenzione su un punto di vista interno (percezione somatica) mentre riproduce mentalmente il contenuto e le caratteristiche della "voce" ( Idem ). Lo studio pilota che qui presento intende confrontare la tecnica di focalizzazione di matrice cognitivo comportamentale (che per comodità chiamo focalizzazione semplice) con la focalizzazione con percezione somatica di matrice cognitivo post-razionalista, allo scopo di verificare l’efficacia di quest’ultima rispetto alla prima nel riattribuire a sé l’esperienza allucinatoria. Ipotesi Una " ...scarsa familiarità con il proprio mondo immaginativo interno può favorire l’insorgenza di esperienze immaginative involontarie, inaspettate e di difficile decifrazione.". ( Al-Issa, 1995). Quanto più è ridotta la familiarità con le caratteristiche della propria immaginazione uditiva, tanto maggiore sarà la tendenza a scambiare i propri pensieri con una voce avvertita proveniente dal mondo esterno. I soggetti con allucinazioni uditive pervasive possono riuscire più facilmente a riconoscere le allucinazioni uditive come propria immaginazione nel momento in cui focalizzano l’attenzione all’interno del proprio corpo. La caratteristica di pervasività delle allucinazioni favorisce la focalizzazione dell’attenzione del soggetto sulla propria immaginazione. L’ancoraggio a un punto di riferimento interno al corpo permette di compiere la distinzione fra immaginazione uditiva e percezione uditiva. Soggetti I soggetti contattati provengono dall’Istituto di Psichiatria Clinica dell’Università di Cagliari presso la quale sono attualmente in cura in regime ambulatoriale e/o day hospital. Caso 1: A., 34 anni, diagnosi di schizofrenia paranoide (DSM IV-Asse I-F20.0X) e storia di allucinazioni uditive a carattere denigratorio e persecutorio, perduranti da 11 anni e presenti con frequenza giornaliera. Compresente dall’esordio il delirio di controllo in tutte le quattro modalità di furto, influenzamento, trasmissione e controllo del pensiero, e il delirio paranoide di riferimento. Le allucinazioni uditive si manifestano in seconda persona e ed è presente diffusione del pensiero (il paziente asserisce che le voci possono essere percepite da altre persone nell’ambiente circostante).Il paziente ha effettuato tre sedute di trattamento della durata de 30 minuti ciascuna. Caso 2 :G., 32 anni, diagnosi di schizofrenia disorganizzata (DSM IV-Asse I-F20.1X) con storia di allucinazioni uditive in seconda e terza persona (dialogo di voci) imperative e a carattere persecutorio perduranti da 13 anni e presenti con frequenza giornaliera. Il paziente ha manifestato dall’esordio delirio di controllo nelle modalità di influenzamento e controllo del pensiero, delirio paranoide di riferimento e di persecuzione, disturbi generali e specifici della forma del pensiero, di questi ultimi incoerenze, risposte incongrue, deragliamenti. Anche questo paziente ha effettuato due sedute di trattamento della durata de 30 minuti ciascuna. Caso 3: F., 34 anni, diagnosi di schizofrenia paranoide (D.S.M. IV-Asse I-F20.0X) con storia di allucinazioni uditive in seconda persona imperative e a carattere persecutorio perduranti da 18 anni stabilmente lungo tutto il decorso del disturbo, e attualmente presenti con frequenza giornaliera. Ha manifestato dall’esordio delirio paranoide di riferimento e di persecuzione in seguito al quale ha effettuato un tentativo di suicidio. Il paziente ha svolto quattro sedute di 30 minuti ciascuna. Caso 4: L., 30 anni, diagnosi di schizofrenia disorganizzata (D.S.M. IV- Asse I-F 20.IX) con storia di allucinazioni uditive in seconda e terza persona (dialogo di voci) a carattere denigratorio, perduranti da 18 anni stabilmente lungo il decorso del disturbo, attualmente avvertite con frequenza giornaliera.. Ha manifestato disturbi formali del pensiero quali deragliamenti e blocchi del pensiero, eloquio disrganizzato, delirio non strutturato di controllo nella modalità di influenzamento, delirio paranoide di riferimento ea carattere mistico. Il paziente ha effettuato due sedute di circa 30 minuti ciascuna. Caso 5 : R., 25 anni, diagnosi di disturbo schizoaffettivo (D.S.M. IV- Asse I-F 25.X ) con storia di allucinazioni uditive in seconda persona, perduranti da 7anni in fasi successive di riacutizzazione del disturbo. Le allucinazioni si manifestano attualmente a più riprese nell’arco di un mese, e durante situazioni ansiogene per il paziente (colloqui, esami) , con toni benevoli e di sostegno. Ha manifestato disturbi della forma del pensiero quali incoerenze intoppi e tangenzialità, stereotipie, idee deliranti di influenzamento e trasmissione del pensiero, delirio di riferimento e persecutorio. Il paziente ha svolto due sedute di 30 minuti ciascuna. Procedura. In una prima fase lo sperimentatore spiega preliminarmente al soggetto che lo scopo dell’intervento sarà di aiutarlo a conoscere meglio le "voci". Viene spiegato in termini semplici che il soffermarsi per riconoscere e capire meglio le componenti del nostro mondo interno ed esterno, aiutano a ridurre l’ansia e la sofferenza connessa. Lo sperimentatore procede con la raccolta di informazioni sulle caratteristiche delle "voci" mediante un’intervista semi- strutturata. Al paziente è chiesto con quale frequenza sente le voci nell’ambito di uno stesso giorno e nell’arco di una settimana; se si tratta di voci maschili o femminili; se si tratta di una voce singola o di un dialogo di più voci e se si rivolgono al paziente in seconda persona o parlano di lui in terza persona; se la provenienza è localizzata dentro la testa o fuori nell’ambiente esterno; se possono essere udite solo dal paziente o anche da un’altra /e persone; le caratteristiche paraverbali quali intensità (alto/basso), velocità (lento/veloce), timbro. Raccolte le informazioni sulle caratteristiche generali delle "voci", il ricercatore chiede di riferire il contenuto dell’ultima allucinazione uditiva. Unitamente viene chiesto di riportare le seguenti caratteristiche: tonalità, timbro, velocità, genere, provenienza, attribuzione (a sé o a una fonte esterna). Una volta che il soggetto ha esplicitato il contenuto e le caratteristiche dell’ultima allucinazione, lo si invita a ripetere mentalmente la "voce" sentita sforzandosi di riprodurla il più fedelmente possibile. Dopo che il soggetto ha ripetuto mentalmente, lo sperimentatore chiede di confrontare la "voce" immaginata con la "voce" percepita. Eseguita l’operazione richiesta gli si chiede di specificare la provenienza e l’attribuzione (interna o esterna) della "voce" immaginata. Nella seconda fase, immediatamente successiva alla prima, lo sperimentatore chiede di prestare attenzione alle variazioni di caldo/freddo provenienti dal proprio corpo. Si consiglia al soggetto che può eseguire facilmente l’esercizio concentrando l’attenzione sulle mani : i punti più caldi saranno quelli a contatto con l’altra mano o con una superficie (es. tavolo, bracciolo della sedia). Lo sperimentatore presta particolare attenzione a che il soggetto percepisca le variazioni termiche. A questo punto il soggetto è invitato a soffermarsi sulle proprie sensazioni termiche mentre prova a riprodurre mentalmente la "voce" precedentemente monitorata. Quindi gli è chiesto di confrontare la "voce" immaginata durante la focalizzazione con percezione somatica con la "voce" precedentemente attribuita a una fonte esterna. Trattamento. Il caso 1 ha effettuato tre sedute di 30 minuti ciascuna; i casi 2,3 e 5 hanno effettuato due sedute di 30 minuti, mentre il caso 4 ha effettuato quattro sedute di 30 minuti per raggiungere il padroneggiamento dello strumento. In prima fase I soggetti hanno risposto alle domande dell’intervista semi-strutturata. Lo sperimentatore ha chiesto quindi di riferire il contenuto dell’ultima allucinazione con le stesse caratteristiche paraverbali. Caso 1. A. ha ripetuto verbalmente una "voce" sentita durante la seduta dopo che il terapeuta ha spiegato lo scopo dell’esercizio. Lo sperimentatore ha chiesto di ripetere mentalmente la "voce" cercando di riprodurla il più fedelmente possibile. Il paziente ha ripetuto mentalmente un frammento della "voce". Di seguito è stato invitato a confrontarlo con la "voce" sentita. Circa la provenienza della riproduzione il paziente ha risposto di avvertirla localizzata dentro la testa nel lato sinistro, punto dove solitamente sente le "voci", come da una sorta di radio trasmettitore interno. La riproduzione è attribuita a una fonte esterna: il paziente ha spiegato che "erano loro che me lo hanno fatto pensare…è un pensiero artificiale", perché "mentre cercavo di pensarlo ho visto il loro apparato di telecomando con i fili che arrivavano alla testa". Caso 2. G. ha riprodotto verbalmente una "voce" sentita poco prima della seduta mentre attendeva l’inizio del colloquio. Lo sperimentatore ha chiesto la soggetto di ripetere mentalmente la "voce" sentita cercando di riprodurla il più fedelmente possibile. Il paziente non è riuscito a ripetere mentalmente asserendo che "non ci riesco, non ce la faccio". Caso 3. F. ha ripetuto verbalmente una "voce" presentatasi in seduta subito dopo aver risposto a una domanda dello sperimentatore. Gli viene poi chiesto di ripeterla mentalmente con le stesse caratteristiche. Il paziente ripete l’intera "voce". A questo punto gli viene suggerito di confrontare la riproduzione con la "voce" sentita. F. afferma che la riproduzione proviene da dentro la sua testa. L’attribuzione è esterna: il paziente sostiene di non poter pensare perché nella sua testa "il cervello non c’è, la testa è vuota" e "ci sono delle persone nella mia testa che parlano". Caso 4. L. ha riprodotto verbalmente una "voce" sentita nella sua camera da letto alcune ora prima della seduta. Di seguito gli viene chiesto di ripeterla mentalmente. Dopo aver ripetuto la voce gli viene proposto di confrontare ciò che ha ripetuto con la voce sentita. F. afferma che "ho iniziato a pensare, l’ho cercata e si è presentata di nuovo" e quindi si tratta della stessa voce sentita precedentemente, perché " non posso pensarla". La localizza "nell’aria, al mio fianco". Caso 5. R. ha riprodotto verbalmente una voce sentita in seduta dopo aver chiesto chiarimenti sull’esecuzione dell’esercizio. Riesce a ripetere mentalmente la voce con parte delle sue caratteristiche paraverbali. Confrontando la riproduzione con la voce sentita afferma che la voce sentita è diversa dalla prima " perché io sono maschio e non riesco a fare la voce di una femmina" La voce riprodotta è percepita proveniente dall’ambiente circostante, sopra la sua testa Seconda fase. Caso 1. Lo sperimentatore ha chiesto ad A. di prestare attenzione alle variazioni di caldo/freddo provenienti dalle sue mani, che in quel momento teneva strette l’una nell’altra. Una volta localizzati correttamente i punti più caldi fra le mani (palmi e parte delle dita), lo sperimentatore gli ha chiesto di ripetere mentalmente la "voce" monitorata mentre il paziente soffermava l’attenzione sulle sensazioni di calore. Dopo aver ripetuto mentalmente, il soggetto è stato invitato a confrontare la riproduzione con la "voce" monitorata precedentemente. Il paziente ha avvertito la riproduzione uguale alla "voce" sentita, ma ha potuto distinguerla da quest’ultima in quanto la "voce ha un suono, il pensiero no". La riproduzione è localizzata dentro la testa, dietro la fronte. L’attribuzione è interna: il soggetto ha spiegato che "mi sono concentrato sul calore della mano e ho potuto pensare…è un pensiero mio". Caso 2. Lo sperimentatore ha chiesto a G. di prestare attenzione alle variazioni di caldo/freddo provenienti dalla sua mano, che al momento della richiesta era poggiata sul braccio. Una volta che il paziente ha localizzato correttamente i punti più caldi (palmo della mano e parti delle dita a contatto con il braccio), lo sperimentatore ha chiesto di ripetere mentalmente la "voce" monitorata mentre si soffermava sulle sensazioni di calore. Il paziente ha ripetuto mentalmente l’intero contenuto della "voce". Di seguito è stato invitato a confrontare la riproduzione con la "voce" precedentemente monitorata. Il soggetto ha affermato che la riproduzione è uguale alla "voce" sentita, ma l’ha poi distinta da quest’ultima in quanto il pensiero è "silenzioso". La provenienza è localizzata dentro la testa. L’attribuzione è interna: il soggetto ha spiegato che si tratta di "un mio pensiero… la voce è telepatia, il pensiero non è telepatia", intendendo con telepatia un pensiero formulato da un’altra persona e introdotto nella sua testa. Caso 3. Alla richiesta di prestare attenzione alla variazioni di temperatura provenienti dalle mani, tenute l’una nell’altra, F. riesce a localizzare correttamente i punti più caldi (fra le dita di una mano e il dorso dell’altra mano). Poi lo sperimentatore chiede ad F. di provare a riprodurre mentalmente una voce sentita in seduta mentre è concentrato sulla sensazione di calore. Dopo averla ripetuta il paziente commenta spontaneamente: "non sarà la mia immaginazione? non credo proprio!". Al suggerimento di effettuare un confronto con la voce sentita precedentemente, F. afferma che ciò che ha ripetuto è "uguale" alla voce ed è localizzata dentro la testa. L’attribuzione è esterna: F. spiega che "è come se l’avesse ripetuto un’altra persona", ma al tentativo di fargli chiarire meglio la sua spiegazione, aggiunge subito "è un’altra persona che l’ha ripetuto nella mia testa, non è un mio pensiero, io non penso".Il paziente ha aggiunto che le voci gli ripetono di appiccare il fuoco e di uccidere, ma "io non sono cattivo", lo vogliono fare le voci. Caso 4. Lo sperimentatore ha chiesto a L. di far attenzione alle variazioni di temperatura provenienti dalle sue mani. Il paziente focalizza correttamente il caldo fra il dorso di una mano e il palmo dell’altra mano poggiata sopra. Di seguito lo sperimentatore chiede di riprodurre mentalmente la voce monitorata mentre il paziente è concentrato sulla sensazione di calore. Gli viene quindi chiesto di confrontare ciò che ha riprodotto con la voce monitorata. L. risponde che si tratta della stessa voce e la localizza la provenienza nell’aria al suo fianco sinistro. L’attribuzione è esterna in quanto L. spiega che "non ho pensato, ho sentito la voce". Caso 5. A richiesta dello sperimentatore R. focalizza l’attenzione sulle variazioni di temperatura caldo/freddo e localizza correttamente il caldo fra il palmo di una mano e il dorso dell’altra che lo racchiude. Dopo la riproduzione mentale della voce monitorata mentre il paziente è concentrato sulla sensazione di calore, lo sperimentatore suggerisce di confrontare tale riproduzione con la voce sentita. R. afferma che la riproduzione è uguale alla voce sentita in quanto è riuscito a ripeterla con un "suono femminile", ma si distingue dalla voce sentita perché" ho voluto ripeterla io, la voce è un mio pensiero." La riproduzione è localizzata all’interno della testa. L’attribuzione interna è evidenziata ulteriormente dalla spiegazione di R. che "le voci sono io che le penso. Quando entro in trance mi rilasso e sento le voci. Le evoco perché mi fanno compagnia e mi consigliano se al lavoro sono preoccupato " Risultati preliminari I dati qui presentati si riferiscono a 5 soggetti che hanno effettuato la focalizzazione semplice e la comparazione con la focalizzazione con percezione somatica sino a raggiungere il padroneggiamento degli esercizi. Tutti i soggetti sono stati selezionati in rispondenza a tre criteri di inclusione : 1)diagnosi di schizofrenia o disturbo schizoaffettivo ;2) allucinazioni uditive resistenti alla terapia neurolettica, 3) stabilità della medicazione neurolettica lungo tutto il corso delle sedute di ricerca. L’esiguità dei dati raccolti consente di compiere una valutazione iniziale puramente indicativa. Il trattamento dei 5 casi evidenzia chiare differenze riguardo all’esito delle due fasi. Nella prima fase la focalizzazione semplice delle voci non ha prodotto in alcun soggetto la distinzione tra immaginazione uditiva e percezione uditiva. I casi 1 e 3 che localizzano le voci all’interno della testa mostrano comunque un’attribuzione esterna : nel primo, la voce è inserita all’interno tramite un apparecchio telecomandato da un’agenzia esterna; nell’altro caso, più concretamente, persone controllanti e intente a spiare il paziente parlano dall’interno della testa vuota. Le spiegazioni deliranti hanno ostacolato l’effettuazione del monitoraggio iniziale delle voci ed hanno sostenuto in alcuni pazienti la convinzione di non poter pensare. Inoltre il contesto clinico e l’estraneità dello sperimentatore hanno causato ansia rendendo difficile l’esposizione. Allo scopo di affrontare l’ansia e il rifiuto dell’esposizione , lo sperimentatore ha concordato con gli psichiatri curanti dei casi 2, 3, 4 lo svolgimento del colloquio per una o due sedute in presenza degli stessi psichiatri, in veste di osservatori e di figure di sostegno.. L’evitamento del monitoraggio della voce è stato affrontato in seduta dallo sperimentatore chiedendo ai pazienti di dire una frase qualsiasi e poi di pensarla prima di riproporre l’esercizio. Riguardo l’impostazione e la conduzione dei colloqui sono stati adottati criteri di comunicazione verbale e non verbale adattati alla modalità di funzionamento psicotico: formulazione delle domande mediante frasi brevi, semplici, ripetute, concrete (sono state evitate alternative di scelta fra categorie) ; modalità di comunicazione non verbale improntata alla riduzione dello stato d’allarme nei pazienti. La durata massima di 30 minuti per seduta è stata stabilita allo scopo di limitare il disturbo dell’attenzione, nella maggioranza dei casi attenuato con l’aumentare della familiarità con lo sperimentatore. Nella seconda fase, il monitoraggio delle voci effettuato mentre i soggetti si concentravano sul calore delle loro mani ha prodotto la distinzione tra immaginazione uditiva e percezione uditiva in tre casi su cinque. Tali pazienti hanno dimostrato di avvertire in maniera netta lo spostamento della loro attenzione all’interno del corpo. In particolare il caso 1 ha attribuito all’attenzione sulla percezione di temperatura lo stato di rilassamento provato che gli ha permesso di rendersi conto della fonte interna del proprio pensiero mentre lo stava formulando. Mi pare interessante a questo proposito la spiegazione data dal caso 5, che ha affermato di sentire le voci quando "mi sposto da me stesso" ed "entro in trance", sottolineando la tendenza in situazioni di stress ad entrare in uno stato simile ad una derealizzazione, dall’effetto "rilassante", ove il punto di vista su di sé è esternalizzato. La spiegazione data dal caso 3 nella seconda fase ha evidenziato a mio parere il peso di fattori relazionali nel mantenimento del punto di vista esternalizzato su di sé : il soggetto afferma che non è lui ad appiccare il fuoco e a voler uccidere, in quanto "non sono cattivo", sono le "voci" a volerlo. Fra i dati desunti dalla cartella clinica emerge in episodio di piromania e relazioni familiari stabilmente orientate alla critica e al controllo del paziente. Per ultimo, la componente sonora dell’immaginazione uditiva sembra essere l’elemento sul quale poggia l’attribuzione esterna dell’immaginazione uditiva, secondo quanto emerge dalle affermazioni di diversi soggetti, e in particolare dal caso 2 nella seconda fase: la "telepatia" che G. attribuisce a una fonte esterna, possiede una qualità sonora che la differenzia dal proprio pensiero, percepito "silenzioso". Discussione I risultati della ricerca pilota descritta nelle pagine precedenti, che comparava la focalizzazione cognitivo-comportamentale con la focalizzazione con percezione somatica di temperatura nel controllo delle allucinazioni uditive, sembrano confermare l’ipotesi di partenza. Una scarsa familiarità con la propria immaginazione uditiva può determinare la produzione di allucinazioni.Allo scopo di acquisire una maggiore familiarità con l’ immaginazione uditiva e di conseguenza controllare il fenomeno allucinatorio, è necessario possedere un segnale interno all’organismo al quale ancorare l’internalizzazione del punto di vista su di sé. I pazienti caratterizzati da una massiva produzione di allucinazioni uditive verosimilmente possiedono una visione di sé stabilmente esternalizzata, quindi una scarsa o nulla familiarità con la propria immaginazione. Se l’attenzione è riorientata all’interno dell’organismo, tali soggetti possono più agevolmente divenire consapevoli degli ingredienti della propria immaginazione uditiva, al confronto di soggetti che allucinano sporadicamente, a causa di una più ricca produzione immaginativa. In quattro casi su cinque il monitoraggio con percezione somatica risulta aver prodotto l’internalizzazione del punto di vista su di sé quindi la presa di contatto con la propria immaginazione uditiva, a differenza della focalizzazione semplice che risulta non aver prodotto alcun mutamento in tal senso. Comunque è importante sottolineare che tali risultati possono dare soltanto alcune indicazioni preliminari riguardo all’effettuazione di ulteriori ricerche in questo campo. Diversi fattori hanno verosimilmente influenzato i risultati raggiunti. Fra tutti un fattore preponderante consiste nel numero molto ridotto di pazienti che si sono sottoposti alla sperimentazione. Fattore determinante per via dell’ influenza che ha esercitato sia sul trattamento che sugli esiti della ricerca, è stata la stessa estrapolazione dell’ esercizio di focalizzazione con percezione somatica dal metodo di intervento clinico postrazionalista, all’interno del quale è stato ideato ed è parte integrante. L’idea di isolare la focalizzazione con percezione somatica dal contesto della relazione terapeuta-paziente ha suscitato dubbi iniziali riguardo alla sua riproducibilità in sede sperimentale. Sebbene la focalizzazione con percezione somatica pare abbia mostrato di essere riproducibile ed efficace nella riattribuzione a sé dell’allucinazione uditiva, riscontri in sede sperimentale evidenziano che non può essere considerata una tecnica applicabile fuori dal contesto del metodo di intervento clinico postrazionalista. In primo luogo, la relazione sperimentatore- paziente è una "finestra" di osservazione ridotta al contesto sperimentale. Questa cornice di intervento limita la conoscenza che lo sperimentatore può acquisire delle modalità di funzionamento dei sistemi familiari e sociali in cui il paziente è inserito, impedendo il controllo dell’impatto della sperimentazione sulle famiglie dei pazienti, con le conseguenti ripercussioni sui pazienti stessi e sul lavoro di ricerca. La procedura di questo studio pilota ha causato un notevole livello di stress nei pazienti, e la consapevolezza dei risultati raggiunti in termini di internalizzazione delle allucinazioni uditive è stata sistematicamente contestata da tutti i soggetti della ricerca. Ciò ha reso evidente la precarietà di tali risultati. A questo proposito mi paiono esplicative le spiegazioni date dal caso 3 nella seconda fase di trattamento. Il mantenimento del punto di vista esternalizzato su di sé che sostiene le allucinazioni verosimilmente consente in questo caso l’evitamento della definizione personale nei confronti del sistema familiare. Tali riscontri evidenziano che le allucinazioni, lungi dall’essere anormalità e aberrazioni da estirpare, sono parte integrante della modalità di mantenimento della coerenza interna propria dei sistemi a funzionamento psicotico. La presa di consapevolezza della propria immaginazione uditiva può allora divenire un’acquisizione stabile solo in presenza di una relazione terapeutica che funga da base sicura, e che attraverso l’impostazione preliminare di cornici di intervento di natura esplicita e tacita, permetta al paziente psicotico di iniziare il percorso di riconoscimento della sua unicità e della continuità della sua vita. Allo scopo di evitare l’instaurarsi di una relazione paziente- sperimentatore che quest’ultimo non avrebbe potuto controllare, è stata decisa l’effettuazione del numero minimo di sedute sufficienti a far acquisire il padroneggiamento dello strumento. Nell’approccio cognitivo-comportamentale al monitoraggio dell’allucinazione uditiva segue la discussione in collaborazione con il paziente sulle credenze e i pensieri associati; in ultima analisi, un’opera di convincimento dall’esterno da parte del terapista. Questa modalità di intervento comporta l’accettazione da parte del paziente del fenomeno allucinatorio quale sintomo di malattia mentale, non influendo però tale convincimento sulla vividezza e il senso di realtà dell’esperienza. Inoltre alcuni pazienti possono rifiutare l’esame di realtà e la discussione sulle credenze deliranti perché le "voci" sentite possiedono connotazioni positive di protezione o di incoraggiamento. (Philip Thomas, 1997). Porre l’accento sulla spiegazione dell’allucinazione quale sintomo di malattia mentale può costringere i pazienti all’interno di una cornice patologica che li isola dalla propria esperienza e dalle circostanze connesse alla manifestazione del sintomo. Infine, l’approccio "obiettivo" del modello cognitivo comportamentale presuppone un dislivello di potere insito nella relazione terapeutica, assumendo il terapista il ruolo di detentore a priori dei criteri di normalità o patologia. In tale approccio, sebbene rassicurante per il terapista, vengono tuttavia perduti il punto di vista e l’autonomia del paziente. (idem). Bibliografia generale VAI ALL'INIZIO Al-Issa I.The illusion of reality or the reality of illusion :hallucinations and culture,British J of Psich.,1995,166,368-3 APA,Manuale Diagnostico edizione(1994),tr.it.Masson,1996 Statistico dei disturbi mentali IV Ballerini A., Esiste una specificità del delirio schizofrenico ? in Rossi Monti M.,Stanghellini G. (a cura di ) Psicopatologia della schizofrenia, Cortina , 1999. Boyle M.:Schizofrenia. Un delirio scientifico?,(1990) tr.it. 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