schizofrenia: l`approccio cognitivo post-razionalista

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SCHIZOFRENIA: L'APPROCCIO COGNITIVO POST-RAZIONALISTA
di Gabriella Gatto
e-mail: [email protected]
Uno studio pilota di comparazione tra focalizzazione cognitivo-comportamentale
e focalizzazione con percezione somatica per il controllo delle allucinazioni uditive
INDICE GENERALE
Parte I
Schizofrenia : l’approccio cognitivo post-razionalista.
1.
2.
3.
4.
Introduzione
Cenni storici sul concetto di schizofrenia
Diagnosi nosografica e comprensione psicopatologica
Cenni generali sul modello cognitivo sistemico- processuale di Vittorio
Guidano
4.a Le caratteristiche della conoscenza umana e le organizzazioni di significato
4.b Esperienza e coerenza narrativa
5. L’approccio cognitivo post-razionalista alle psicosi e alla schizofrenia
Parte II
Uno studio pilota di comparazione fra focalizzazione cognitivo- comportamentale
e focalizzazione con percezione somatica per il controllo delle allucinazioni uditive
Ricerche sulle allucinazioni
Ipotesi
Soggetti
Procedura
Trattamento
Risultati preliminari
Discussione
Schizofrenia : l’approccio cognitivo post-razionalista.
di Gabriella Gatto
1.Introduzione.
Fra le psicosi funzionali la schizofrenia è considerata la forma più severa di disturbo
mentale. Questa psicosi è caratterizzata da una più precoce perdita di contatto
con la realtà rispetto alle altre forme di psicosi, da un’amplissima gamma di
evoluzioni possibili del decorso clinico e da esiti che solitamente escludono la
guarigione piena. Frith riporta esiti di deterioramento intellettivo cronico dai 2 ai 5
anni di distanza dal primo ricovero, sulla base del criterio diagnostico
utilizzato.(Frith, 1995).
Per tradizione in ambito medico la diagnosi è determinata individuando una
costellazione di sintomi posta in relazione con uno stesso antecedente organico.
Questo approccio è problematico nella schizofrenia dato che gli antecedenti
sono tuttora sconosciuti (idem).
Nell’ ambito della psichiatria accademica sono state formulate negli ultimi
decenni diverse concettualizzazioni mirate ad integrare la vasta mole di teorie e
dati derivati dalla ricerca empirica Una di esse è il modello etiopatogenetico della
schizofrenia attualmente più accreditato dalla comunità scientifica : il modello
multifattoriale "Vulnerabilità-stress-coping", la cui prima formulazione di Zubin e
Spring risale al 1977. Esso è formato da tre raggruppamenti corrispondenti ai tre
fattori principali di rischio. Il fattore "vulnerabilità", che comprende i dati sulle
anomalie di natura neurotrasmettitoriale e strutturale del cervello, il parametro
della ridotta capacità di elaborazione delle informazioni, i parametri
psicofisiologici e tratti di personalità schizotipica ; i fattori psicosociali, che
raccolgono fra gli altri gli studi sull’ emotività espressa e sugli eventi di vita
stressanti ; infine i fattori di protezione, che si riferiscono al livello di capacità di
coping e l’uso di farmaci antipsicotici da parte del paziente, alla capacità di
problem solving familiare e agli interventi psicosociali di supporto. L’assunto è che
uno scompenso avvenuto in presenza di un basso livello di fattori di rischio
psicosociali indica una forte vulnerabilità genetica alla schizofrenia e, all’opposto,
un alto livello di fattori psicosociali implica una debole vulnerabilità. I fattori
protettivi hanno la funzione di alzare la soglia di scompenso. Sebbene tale
modello sia ritenuto una buona integrazione delle conoscenze in materia, risulta
carente nella spiegazione di tutti gli aspetti interattivi fra i fattori. Inoltre trascura
l’ambito della continuità tratto-stato, ovvero una esplicazione che comprenda i
soggetti con vulnerabilità alla schizofrenia ma permanenti in un’ambito di
normalità o che sviluppano sindromi più blande. (Klosterkotter, 1999).
Il modello vulnerabilità-stress-coping evita gli approcci riduzionistici propri delle
neuroscienze. Esso attribuisce un’ampia variabilità di incidenza al peso dei fattori
psicosociali nell’eziopatogenesi del disturbo e non sostiene l’ipotesi della causalità
lineare cervello-mente propria dell’ approccio cosiddetto "top-down", il quale
considera i disturbi mentali effetti di eventi cerebrali antecedenti. Tuttavia, posto
che molte anormalità neurofisiologiche e deficit cognitivi non risultano specifici
della schizofrenia, riscontrandosi in altre forme di disturbo mentale e nelle psicosi
organiche, è plausibile formulare spiegazioni basate su forme più complesse di
interazione circolare fra fattori. Su tali basi empiriche sembra attedibile anche
l’ipotesi, sostenuta dall’approccio "bottom-up", che anomalie e deficit possano
essere reazioni secondarie caratteristiche delle psicosi di tipo schizofrenico,
comprensibili analizzando l’interazione fra personalità psicotica e contesto socioculturale di riferimento.(Sass, 1992 ; Boyle, 1994 ; Thomas, 1997 ). Alla luce dei
risultati attuali della ricerca, appare comunque chiaro che le spiegazioni
neurobiologiche e le interpretazioni fenomenologiche non sono incompatibili e le
anormalità cerebrali non sono associate ad un reale declino del livello di
funzionamento mentale. (Sass, 1992).
D’altra parte esponenti autorevoli della psichiatria accademica denunciano la
tendenza, oramai consolidata, a sostituire l’analisi psicopatologica con
osservazioni codificate di carattere nosografico, (Roberts, 1992; Maselli-Cheli,
s.d.)o comunque con aspetti descrittivi osservabili, descrizioni semplificate dei
disturbi mentali allo scopo di perseguire una maggiore condivisibilità. La ricerca
dell’oggettività e della condivisibilità però esclude la comprensione delle qualità
esperenziali soggettive del fenomeno psicopatologico osservato, e quindi una
comprensione più approfondita dell’eziopatogenesi dei disturbi ( Maselli-Cheli,
s.d. ).
Di conseguenza tale psicologia, tralasciando le investigazioni sull’ordine
esperenziale interno all’individuo risulta carente di "fenomenologia esplicativa"
(Mahoney,1991, cit. in Lacannelier, s.d.), giungendo invariabilmente a spiegazioni
che si appellano al concetto di deficit da un lato, o all’effetto dell’ambiente
esterno dall’altro.(idem).
Basandomi su tali considerazioni e riflessioni critiche, nei quattro paragrafi
successivi che compongono la prima parte del mio lavoro farò un rapido excursus
teorico e metodologico. A partire dall’analisi delle origini storiche del concetto di
schizofrenia e della descrizione degli aspetti nosografici, affronterò tematiche di
psicopatologia descrittiva con particolare attenzione ad alcuni apporti della
scuola fenomenologica europea nella seconda metà del Novecento, per
giungere alla descrizione del modello cognitivo sistemico-processuale di Vittorio
Guidano, con le specifiche modalità di conoscenza di sé e del mondo proprie
delle psicosi di tipo schizofrenico.
La sua psicopatologia esplicativa delle nevrosi e delle psicosi rielabora,
inserendole organicamente all’interno delle loro specifiche modalità di
perseguimento della coerenza interna, le tematiche di psicopatologia descrittiva
e le riflessioni sugli aspetti qualitativi dell’ esperienza soggettiva elaborate in
ambito fenomenologico.(Maselli-Cheli, s.d.)
Attraverso questo percorso mi propongo in primo luogo di delineare la profondità
e complessità del mutamento di prospettiva compiuto dal pensiero post
razionalista in relazione alla comprensione psicopatologica e alle implicazioni
terapiche delle psicosi di tipo schizofrenico.
Nella seconda parte presenterò una ricerca pilota svolta su 5 casi clinici con
diagnosi di schizofrenia. Questa ricerca confronta la tecnica di focalizzazione
semplice cognitivo comportamentale con la focalizzazione con percezione
somatica di matrice post-razionalista, allo scopo di verificare l’efficacia di
quest’ultima rispetto alla prima nel controllo delle allucinazioni uditive.
Gli aspetti teorici e metodologici del modello cognitivo sistemico-processuale
affrontati nella prima parte e all’interno del paragrafo "Ricerche sulle allucinazioni
uditive" nella seconda parte, specificheranno la cornice teorica a cui farò
riferimento per l’impostazione, la conduzione e la discussione dei risultati della
ricerca.
2. Cenni storici sul concetto di schizofrenia.
Con il termine dementia precox mutuato da Morel nel 1852, Kraepelin intese
designare una malattia mentale di insorgenza precoce e con esito di demenza,
che inferì sulla base di una costellazione significativa di comportamenti. L’autore
sostenne d’aver individuato un gruppo di pazienti i cui comportamenti
manifestavano una serie di regolarità: mutavano in modo simile nell’insorgenza,
nel decorso e giungevano a un analogo esito finale. Queste regolarità
implicavano per Kraepelin la presenza di un processo comune sebbene
inosservato,che le spiegava e autorizzava la costruzione di un nuovo costrutto
ipotetico.(Boyle,1994) Nella sua formulazione iniziale del 1886 descrisse anche una
seconda e una terza costellazione dalle quali inferì la catatonia e la dementia
paranoides. Pur descrivendole come entità distinte l’autore ritenne che le tre
forme non fossero irrelate, finché nel 1889 giunse a un ribaltamento delle
formulazioni precedenti con la descrizione di tre sottotipi di dementia precox:
ebefrenica, catatonica e paranoide. Le diverse costellazioni di comportamenti
osservate confluirono quindi in un unico raggruppamento generale.
Sucessivamente, non potendo più spiegare coerentemente con il suo modello i
risultati contradditori che via via emergevano dall’osservazione dei pazienti,
Kraepelin perse interesse per quell’area di ricerca e 1913 definì un nuovo tema di
osservazione : i "disturbi che caratterizzano la malattia", di cui la "distruzione delle
connessioni interne alla personalità psichica" era la caratteristica comune sottesa
alle diverse manifestazioni psicopatologiche. Malgrado le perplessità manifestate
in seguito anche sul concetto di demenza precox intesa come un’entità singola,
l’esistenza di tale malattia era ormai accettata dalla comunità scientifica dei suoi
contemporanei. (idem).
Il concetto fu consolidato da Bleuler nel suo testo del 1911 "Dementia precox o il
Gruppo delle Schizofrenie". Egli non si discostò dalla concezione di Kraepelin, ma
aggiunse i suoi criteri diagnostici e suggerì il termine attuale di schizofrenia, a
indicare la "scissione delle funzioni psichiche"quale caratteristica fondamentale
della malattia. Come il suo predecessore, Bleuler sostenne la presenza nel gruppo
delle schizofrenie di una fondamentale anormalità sottesa alla sintomatologia:
un’alterazione strutturale o funzionale del cervello. Il processo morboso consisteva
nel verificarsi di tali anormalità. (Boyle, 1994; Crow, 1998).
L’autore elencò inoltre una serie di comportamenti caratteristici della malattia dai
quali evincere la diagnosi, che suddivise in due categorie principali : "sintomi che
derivano direttamente dal processo morboso" in quanto emergono come effetto
del verificarsi di eventi anatomici o funzionali , definiti anche "sintomi primari", e
sintomi "che cominciano a operare solo quando la psiche malata reagisce a certi
processi interni o esterni", modificabili sotto l’influenza dell’ambiente e definiti
"sintomi secondari". (Bleuler, 1911 cit. in Boyle, 1994; Crow, 1998)
Nei suoi ultimi scritti i sintomi primari si ridussero al concetto di "disturbo dell’attività
associativa", peraltro rimasto vago e indefinito. Sintomi secondari erano fra gli altri i
disturbi dell’affettività e il negativismo.(Boyle, 1994; Crow, 1998)
Schneider riprese il lavoro di Bleuler proponendo i concetti alternativi di "sintomi di
primo rango", che comprendevano la diffusione del pensiero, le influenze esterne
sul corpo e le percezioni deliranti, e "sintomi di secondo rango", categoria che
raccoglieva tutti gli altri sintomi associati alla schizofrenia. L’autore incorporò le
due categorie nei criteri diagnostici.
Schneider ritenne i sintomi di primo rango estremamente importanti per la diagnosi
in quanto specifici solo di questa patologia ma, a differenza degli autori
precedenti, sebbene supponesse un antecedente organico quale fondamento
del concetto di malattia mentale e all’origine di tale gruppo di sintomi, sostenne
che l’alterazione organica potesse non essere dimostrata, e non intese quindi
costruire una teoria bensì formulare criteri operazionali, pragmatici, scevri da
intenti eziologici: i sintomi erano elementi caratteristici e costanti di natura
esclusivamente psicopatologica. (idem).
3.Diagnosi nosografica e comprensione psicopatologica
Il Manuale Diagnostico Statistico dei Disturbi Mentali alla quarta edizione, Asse
primo, parla di "schizofrenia e altri disturbi psicotici" e propone cinque criteri
necessari a soddisfare la diagnosi di schizofrenia, di cui il criterio A, presenza di
segni e sintomi "positivi" (in eccesso rispetto alla norma) e "negativi" (per la loro
assenza rispetto alla norma) per la durata di almeno un mese in forma acuta, e il
criterio C, presenza di segni e sintomi positivi e negativi per la durata di almeno sei
mesi in forma attenuata, solitamente come prodromi o residui, sono considerati
essenziali. Il criterio A richiede almeno due sintomi di un elenco comprendente
deliri, allucinazioni, eloquio o comportamento disorganizzato(sintomi positivi),
appiattimento dell’affettività, alogia, abulia (sintomi negativi). La presenza dei soli
sintomi negativi non è considerata patognomonica della schizofrenia, mentre il
"delirio bizzarro" è sintomo sufficiente a soddisfare da solo il criterio A (DSM IV,
APA,1996).
Dal punto di vista psicopatologico particolarmente significative ai fini della
diagnosi sono le allucinazioni uditive in terza persona, "voci" che commentano
pensieri e azioni del paziente o dialogano tra loro riferendosi a lui; i disturbi del
pensiero come il furto o la diffusione (il paziente sente che il pensiero gli viene
sottratto o al contrario promana da lui, diffondendosi nell’ambiente circostante) e
i deliri di controllo (emozioni, impulsi all’azione, volontà, attività del corpo sono
agiti da forze esterne). Questi sintomi sono considerati di primo rango secondo la
classificazione di Schneider, sulla base del substrato psicopatologico comune:
l’alterazione dei confini che separano il sé dal mondo. (Sims,1997). Come
Brentano e poi Jaspers hanno mostrato, il disturbo della funzione di "demarcazione
dell’io" (la capacità cognitiva che permette di effettuare la distinzione fra se e
altro da se) evidenzia la connessione imprescindibile fra coscienza e rapporto
soggetto/oggetto (Cotugno, Intreccialagli, 1995). Nel commento o dialogo di voci
e nei deliri di controllo l’io appare sommerso da persone del mondo circostante,
mentre la diffusione del pensiero implica la sua espansione e l’inondamento del
mondo.(Sims,1997).
Ambedue i casi testimoniano l’avvenuta perdita della relazione di reciprocità che
discende dal senso di appartenenza a sé e all’altro da sé, "categoria primaria"
antropologica dell’essere umano, fondante l’identità del noi e l’eterogenità dell’
Ego e dell’Alter-Ego. (Callieri, 1999).
Un recente filone di ricerca sviluppatosi nell’ambito della scuola fenomenologica
britannica individua nella presenza del delirio bizzarro lo spartiacque fra
schizofrenia e altre forme di psicosi. L’aggettivo "bizzarro" è anche comunemente
inteso come sinonimo di delirio primario, e sottolinea le caratteristiche di
inderivabilità e incomprensibilità del contenuto del delirio in relazione alle
circostanze di vita e alla cultura d’appartenenza dell’individuo.(Ballerini
1999;Stanghellini e Rossi Monti,1999).
Nel delirio primario il prevalere di un "oggettiva passività" nell’esperienza del
mondo (ad esempio nei deliri di controllo esterno ) è inversamente proporzionale
allo sfumare del "senso soggettivo di attività dell’Io", ossia della consapevolezza
che l’individuo normale possiede di essere la fonte delle proprie azioni e
pensieri.(idem)
Secondo la fenomenologia anglossassone alla base del delirio può sempre essere
rintracciata una percezione delirante, a distinguere il delirio primario dalle "reazioni
deliroidi", scompensi deliranti comprensibili sulla base di eventi di vita affettivi e
sociali stressanti, non caratteristici della schizofrenia. (idem).
Con il concetto di percezione delirante si intende una percezione normale alla
quale è attribuito un significato speciale e di particolare rilevanza per il soggetto
percepente e il cui contenuto non è derivato in maniera ovvia dal percetto. Una
chiara e articolata illustrazione della percezione delirante è stata sviluppata da
Sass sulla base di descrizioni e memorie di pazienti schizofrenici. Questo autore
impiega il termine "Stimmung" mutuato da Nietzsche, per contrassegnare un
particolare umore o stato della mente che si accompagna a una peculiare
modalità di percezione, già descritta dalla psichiatria tedesca quale segno
indicatore degli stadi iniziali della schizofrenia, il "signe du miroir": il fissare con lo
sguardo intensamente il mondo, sguardo affascinato da una realtà che appare
svelarsi come mai prima palesando nascosti e misteriosi significati.(Sass, 1992)
Sass distingue quattro aspetti nell’esperienza di Stimmung solitamente collocabili in
sequenza, sebbene ognuno di essi si manifesti comunque intrecciato agli altri. I
primi tre termini sono mutuati dai resoconti dei pazienti . Con il termine "Irrealtà"
l’autore indica la sensazione iniziale di stranezza e alienità che pervade la
percezione del mondo, ove cose e persone appaiono distanti al soggetto come
se si trovassero dietro una lastra di vetro. Il "Mero Essere" si riferisce alla sensazione
del prender vita degli oggetti del mondo, vita autonoma e soverchiante nei
confronti del soggetto percepente a causa della loro stessa esistenza, ed è
accompagnata da emozioni di terrore o di estrema esaltazione. La
"Frammentazione" indica la percezione di dettagli del corpo delle persone o delle
parti di oggetti quali elementi isolati gli uni dagli altri e dal contesto nel quale sono
inseriti, esperienza accompagnata da paura e perdita del significato condiviso
attribuito alle cose percepite. Questi tre aspetti presi insieme costituiscono il
"Trema", la enigmatica ed elusiva atmosfera di paura che precede la costruzione
del delirio. Il quarto aspetto, che emerge in un momento ulteriore del break
psicotico, è definito col termine di "Apofania" ("divenire manifesto"). L’autore
intende la sensazione che ogni cosa ed evento del mondo appare manifestare un
importante significato che sfugge di continuo alla comprensione del soggetto
percepente, dandogli però la certezza che niente accada per caso. (idem).
L’analisi antropo-fenomenologica di tale modalità percettiva del mondo
evidenzia d’altro canto l’emergere di una "novità" rispetto ai significati condivisi
dalla cultura d’appartenenza. Il significato idiosincrasico attribuito all’esperienza
percettiva assume infatti rapidamente i contorni di una rivelazione da una realtà
superiore, una realtà misteriosa ma più "vera" della realtà condivisa, determinando
una frattura incolmabile nei confronti del senso di continuità con l’esperienza
passata. La comprensione psicopatologica del processo schizofrenico prende
origine quindi dall’interruzione del rapporto di intersoggettività e dalla
disorganizzazione del sé e del mondo per giungere alla costruzione di una
esistenza autistica, di un cosmo idiosincrasico nelle elaborazioni successive del
delirio, caratterizzato dal linguaggio sempre più astratto, ermetico, dalle
incoerenze formali, dal pensiero magico. In questa prospettiva la schizofrenia è
considerata quindi l’esito finale di una psicosi delirante cronica.( Ballerini,1999;
Stanghellini e Rossi Monti, 1999).
4. Cenni generali sul modello cognitivo sistemico-processuale di Vittorio Guidano
L’attenzione all’esperienza soggettiva quale costante in psicopatologia non è
certo una novità. Pare assodato da parte di esponenti autorevoli della psichiatria
accademica che non si possa prescindere da una buona descrizione del
fenomeno per poter comprendere nella sua interezza e complessità - al di là delle
semplificazioni insite nelle categorizzazioni nosografiche - la manifestazione
psicopatologica osservata, sia ai fini di una diagnosi differenziale che di un
eventuale intervento terapico. Nell’ottica costruttivista è però vero che sia l’
osservatore che l’osservato costruiscono spiegazioni che consentono loro di dare
un significato agli aspetti di realtà sperimentati, realtà che lungi dall’essere
conosciuta "per sé",oggettivamente, è inestricabilmente connessa alla visione
relativa di chi osserva. L’osservato è quindi anche osservatore. Una descrizione
dell’azione umana non può pertanto prescindere dal punto di vista soggettivo di
chi la compie.(Maselli-Cheli, s.d.)
Partendo dall’interesse per il soggettivo in psicopatologia descrittiva, interesse che
ha caratterizzato il suo percorso di ricerca e di prassi professionale, Guidano si è
allontanato gradualmente dalla iniziale impostazione teorica e metodologica di
matrice razionalista e empirista evidenziando la questione della scarsa predittività
mostrata da tali orientamenti, ed è giunto nel 1991 alla definizione di una
psicopatologia esplicativa ove la tematica del soggettivo risulta organicamente
inserita all’interno di un’ottica della complessità e in un’epistemologia sistemicoevolutiva compiuta. (idem.).
Negli ultimi decenni del Novecento la convergenza di discipline quali la seconda
cibernetica, l’epistemologia evolutiva, la termodinamica irreversibile, le scienze
cognitive, il Darwinismo Neurale, ha determinato il sorgere di una nuova
prospettiva, le " scienze della complessità", il cui oggetto di studio sono i sistemi
complessi, e fra questi gli esseri umani. La comprensione del funzionamento dei
sistemi umani richiede conoscenze interdisciplinari. Le scienze della complessità
hanno evidenziato come qualità preminenti gli aspetti di autodeterminazione e
autorganizzazione di tutti gli esseri viventi compreso l’uomo (Ruiz, s.d., a)
Il modello formulato da Guidano è definito post-razionalista perché pone in
evidenza la trama emozionale sottesa al pensiero logico razionale ; sistemico
perché considera la psiche umana un sistema chiuso autoorganizzato ; esplicativo
in quanto si interessa agli aspetti esplicativi dei fenomeni psicologici piuttosto che
a quelli descrittivi ; processuale perché pone l’attenzione sulle modalità di
processamento dell’esperienza piuttosto che sui contenuti; infine evolutivo,
perché basandosi sugli apporti della biologia di Maturana e sulla teoria del
Darwinismo Neurale considera la conoscenza una caratteristica insita in ogni
essere vivente. (Spinelli,Ocampo,Minacore,Castillo e De Rosa, s.d.)
Le caratteristiche della conoscenza umana e le organizzazioni di significato.
L’epistemologia evolutiva che informa la psicologia post-razionalista concepisce
la conoscenza come una capacità posseduta da ogni essere vivente, in quanto
sistema autorganizzato, di far fronte alle perturbazioni esterne, con l’obiettivo di
perpetuare la propria struttura, ed accedere a nuovi livelli di realtà .(Coda, s.d.)
La conoscenza umana può essere distinta in emozionale, ovvero la dinamica del
corpo che segnala il dominio di azione nel quale l’organismo si muove; nella
conoscenza intersoggettiva, che consente di costruire una teoria dell’altro al di là
del comportamento osservabile; nel linguaggio, che consente una
rappresentazione astratta della realtà e l’aumento della coordinazione
intersoggettiva. (idem.).
Essendo sistemi autorganizzati gli esseri umani sono anche sistemi storici.
L’esperienza umana infatti è sempre coerente con la dinamica interna al sistema,
essendo un flusso continuo nel quale si possono individuare delle invarianti che
evidenziano le caratteristiche di unicità di ogni organismo rispetto agli altri. Il flusso
esperenziale si consolida in un senso di sé, che è il fluire dell’esperienza divenuto
sensazione di una propria continuità e unicità al di là dei mutamenti.
L’organizzazione di un dominio di emozioni ricorrenti e oscillanti in un dato
individuo, definito "esperienza immediata", rende possibile riconoscere il senso
della propria continuità e unicità, il sé stesso.(Lecannelier, s. d.)
Il livello dell’esperienza immediata (l’Io) è analogico ed emozionale, corrisponde
alla conoscenza emozionale, e le immagini e le tonalità emotive di base di tale
dominio sono scatenate dalla modulazione dei processi di attaccamento alle
figure significative. (Guidano, 1991). Il livello della "spiegazione" (Me) è la rete di
distinzioni compiute all’interno del linguaggio che costruiscono le credenze,
argomentazioni, le storie ecc. Esso è un livello esplicito. Tali distinzioni compiute
attraverso il linguaggio non sono ricavate del mondo esterno oggettivo, ma
dall’esperienza immediata. Ciò spiega il motivo per il quale la conoscenza è
sempre personale, relativa, e riflette la storia dell’individuo.(Lecannelier, s.d.). Il
livello della spiegazione opera sull’esperienza immediata riordinandola in una
sequenza narrativa cronologica, causale e tematica . Dal flusso costante
dell’esperienza immediata sottoposta alle distinzioni del linguaggio nasce e si
sviluppa il sé. (Guidano,1991).
Il modello esplicativo della conoscenza basato sul Darwinismo Neurale formulato
da Edelman nell’ambito delle neuroscienze, consente di identificare l’ esperienza
immediata con la coscienza primaria e il riordinamento (spiegazione) in modelli
espliciti di sé e del mondo, con la coscienza di ordine superiore. Da una
prospettiva fenomenologica coscienza primaria significa possedere una scena,
ossia lo sperimentare momento per momento una sucessione continua di
esperienze sensoriali in correlazione e nella loro globalità. Essa è anche definibile
come coscienza del presente.(Jaime e Silva, s.d.)
La coscienza di ordine superiore è possibile solo se è acquisita la coscienza
primaria e risulta interconnessa con quest’ultima. Appartiene ad essa
l’autocoscienza. Permette di generare le categorie relazionali del me e non me le
quali complessificandosi costruiscono modelli di sé e del mondo. Con essa è
possibile la distinzione tra passato, presente e futuro. (idem).
L’autocoscienza (il processo ricorsivo della coscienza) possiede aspetti sia cognitivi
che emotivi, si sviluppa gradualmente a partire dall’autoriconoscimento e va
complessificandosi parallelamente allo sviluppo del linguaggio. La coscienza di
ordine superiore permette di riconoscere il proprio mondo emozionale quale
dimensione psicologica soggettiva e di possedere una teoria della mente
dell’altro. Gli stati emotivi della coscienza primaria, interagendo con i processi di
ordinamento della coscienza di ordine superiore, si trasformano in esperienze
emozionali, valutazioni che l’individuo compie sui propri stati emotivi nella cornice
del contesto sociale in cui sono sorti. Dall’attività di costruzione di specifiche
esperienze emozionali deriva l’elaborazione dell’identità personale. (idem).
Dato che la sopravvivenza umana dipende dalla capacità di interagire con gli
altri conspecifici, il sistema conoscitivo funziona al contempo per mantenere un
sentimento di continuità del legame di
attaccamento in età infantile, e dell’autoimmagine (coscienza di sé) e
dell’autostima in età adulta, fattori quest’ultimi dai quali dipende l’accessibilità a
nuove interazioni nella comunità di appartenenza. Sulla base delle tonalità
emozionali scatenate dalle interazioni con i genitori e quindi del tipo di immagini di
"sé con l’altro", il bambino si costruisce un’organizzazione cognitiva-emotiva
specifica. Vivendo in una realtà intersoggettiva che sola permette di riconoscersi,
è da questa matrice che l’individuo ricava le tonalità emotive che costruiscono il
significato personale. Essa è la modalità con la quale egli decodifica la sua
esperienza immediata esplicitando il senso di sé all’interno di una concezione del
mondo complessa .E’ il significato personale che organizzando il rapporto
dialettico fra Io e Me determina in senso progettuale la direzionalità del sistema-
individuo. Al contempo, organizzando la percezione del mondo esso da una
spiegazione e una giustificazione alla consapevolezza della mortalità . (Guidano,
1991)
I risultati delle ricerche di Bowlby hanno reso possibile specificare quattro modelli di
attaccamento presenti in diverse combinazioni all’origine delle quattro modalità
di organizzazione cognitiva- affettiva : DAP, Fobica, Depressiva e Ossessiva. Il livello
di funzionamento adattativo dipenderà sia dal tipo di organizzazione che dagli
aspetti qualitativi dell’autocoscienza, nonché dalla dinamica del vincolo affettivo,
che determina lo stato di compenso o scompenso, e infine dal sentimento
soggettivo del tempo nel ciclo di vita considerato. (idem). Le dimensioni
analizzate nell’organizzazione di significato ai fini della diagnosi clinica sono la
flessibilità nel contesto sociale, la generatività (capacità di soluzione dei problemi),
astrazione/concretezza, autointegrazione, la qualità della coscienza e delle
spiegazioni (coerenza esperenziale), viabilità, stile del vincolo affettivo, struttura,
contenuto e qualità del’autonarrazione.(Quinones Bergeret,1997)
Il significato personale fa quindi riferimento all’autorganizzazione dell’ esperienza
di realtà nel sistema individuo. Se autorganizzarsi vuol dire mantenere da parte del
sistema la propria unicità nel tempo, ciò coincide con il mantenimento della
propria identità. Con il concetto di identità si intende allora un processo, una
costruzione che si svolge lungo tutto il ciclo di vita, piuttosto che un’entità statica.
Essa ha sia aspetti intellettivi che emotivi, sia un modo di vedersi che di sentirsi nel
mondo, mentre elabora la differenziazione da esso. Ogni atto di
individualizzazione rispetto al mondo comporta la costruzione di un significato
personale, a partire dalla sequenzalizzazione degli eventi significativi, in quanto
sequenzializzare le immagini significa interpretarle , darle una trama narrativa e di
conseguenza mantenere la coerenza della propria storia di vita Il sentimento di sé
stesso è l’identità interna alla storia di vita di cui l’individuo è il personaggio
principale. (Ruiz, s.d.,b) .
.
Esperienza e coerenza narrativa.
Il costante incremento di informazioni che caratterizza il sistema conoscitivo
umano porta all’emergenza di livelli sempre più integrati di conoscenza di sé e del
mondo. Grazie al linguaggio tali informazioni sono concettualizzate in una trama
narrativa, in un racconto autoriferito che risponde ai criteri di verosimiglianza, ossia
di coerenza interna al sistema, piuttosto che di verità oggettiva, generale,
caratteristica quest’ultima della logica lineare, del pensiero proposizionale.
L’autonarrazione si può figurare come un’intelaiatura costituita da elementi di
memoria semantica (frutto del linguaggio, essa contiene informazioni generali e
decontestualizzate come credenze e categorizzazioni, orientate culturalmente)
sulla quale si collocano, in un’ambito di normalità, i corrispondenti elementi di
memoria episodica (memoria di episodi di vita vissuta, includenti immagini visive,
percezioni e altri aspetti analogici). La relazione fra memoria semantica e
memoria episodica è la base sul quale il soggetto costruisce il significato
personale.(Quinones, Bergeret, 1997)
Nella trama narrativa possono essere distinti gli aspetti di struttura (l’inizio, la parte
centrale e la fine del racconto), contenuto (le tematiche svolte dal racconto) e
qualità (stili organizzativi depressivo, fobico ecc., sulla base delle tonalità emotive
implicate). (idem)
Dato che l’esperienza immediata, il sentirsi vivere, giunge sempre prima del
riordinamento esplicito, possono verificarsi delle discrepanze più o meno grandi tra
esperienza e l’immagine cosciente (in forma narrativa) di sé. Entra in gioco a
questo punto il processo di autoinganno che evolutivamente ha lo scopo di
appianare le discrepanze escludendo dalla consapevolezza certi ingredienti
dell’esperienza, o assimilandoli alla narrazione cosciente in modo da mantenerla
coerente e generativa. Il mantenimento della salute mentale dipende da un
equilibrato livello di autoinganno, che permette all’individuo di riconoscere il
proprio flusso emozionale evitando l’esclusione di una quantità eccessiva di
elementi dell’esperienza immediata, con la conseguente dissociazione tra Io e
Me, ma anche un’ eccessiva inclusione di dettagli che causerebbero continui
mutamenti di punto di vista su di sé. Una buona esplicazione ha quindi la funzione
di renderci consapevoli di una possibilità di azione socialmente viabile
distanziandoci dall’immediatezza dell’emozione. Inoltre una narrazione di sé
coerente e articolata serve al mantenimento dell’autostima. (idem)
La narrativa personale è in continua attualizzazione. Ciò si deduce sia dall’auto
narrazione che dalla visione consensuale tra individuo e comunità di
appartenenza, ambiente nel quale si sviluppano storie che contestualizzano nel
presente i comportamenti del "personaggio" a partire dal racconto delle
interazioni passate. Sentirsi personaggio non corrisponde all’essere l’autore della
propria storia. Nel migliore dei casi, quando l’individuo sperimenta un senso di
controllabilità perché le sue aspettative non vengono disconfermate, l’individuo si
sente "coautore", costruttore di una storia in cui è comunque vincolato ad essere
solo quel dato personaggio: la percezione di avere un destino corrisponde proprio
al senso di essere protagonisti ma non autori della propria storia. L’incontrollabilità,
ossia l’aumento della novità senza assimilazione dell’esperienza, determina la
perdita del senso di essere protagonista e l’emergenza di uno scompenso clinico.
(idem).
L’autonarrazione non risponde agli stessi criteri di una storia letteraria. Mentre in
una novella la coerenza del racconto è data dalla trama è questo è il focus al
quale si attiene lo scrittore, nell’autonarrazione la coerenza è data dal
personaggio, cioè dal mantenimento della coerenza con sé stesso al punto che
l’individuo può anche giungere a distruggere la trama della narrazione e la sua
potenzialità generativa pur di mantenere tale coerenza. Nel narrarsi la propria
storia l’individuo non cerca la verità di ciò che gli è accaduto ma mira a
mantenere un senso di continuità e di coerenza : qui sta la verità narrativa di una
storia di vita. Vi sono due variabili determinanti per il mantenimento di un senso di
sé stabile e coerente e della continuità della propria storia: l’ autointegrazione,
ossia la capacità di configurazione degli eventi in un racconto ordinato per
sequenze causali, cronologiche e tematiche, e la capacità di articolazione
astratta, ossia il livello di concretezza/astrazione che connota la trama ordinata
sequenzialmente. Le categorie della normalità, nevrosi e psicosi possono essere
considerate in questa prospettiva diverse modalità di coerenza mediante le quali
si attua la ricerca della verità narrativa. (Guidano, 1998 b)
5. l’approccio cognitivo post razionalista alle psicosi e alla schizofrenia
Le categorizzazioni nosografiche e l’approccio clinico che ne deriva in ambito
psichiatrico evidenziano l’assenza della storia di vita del paziente: l’intervento sui
sintomi mira infatti alla loro eliminazione in quanto anormalità, escludendo il
tentativo di correlarli con la personalità del paziente e quindi la possibilità di dare
loro un senso all’interno della sua narrativa.(Guidano, 1999).
In una prospettiva costruttivista che vede l’individuo operare all’interno di una
logica autoriferita di attribuzione di significato, si possono invece comprendere i
sintomi e i segni come informazioni discrepanti distinte in determinate dimensioni
esperenziali, che il sistema non ha potuto decodificare e integrare nell’identità
narrativa. I sintomi sono allora il prodotto di una modalità di processamento del
significato personale funzionante a "margini ristretti" . (Quinones Bergeret,1997).
Nella nosografia tradizionale e nei modelli teorico clinici di matrice razionalista le
categorie normale nevrotico e psicotico sono concepite come entità statiche
riferite a specifici contenuti di conoscenza. Nell’ottica sistemico-processuale tali
categorie sono considerate modalità specifiche di mantenimento della coerenza
interna del sistema individuo, la quale si sviluppa lungo tutto il ciclo di vita. (Ruiz,
1998)
La normalità è caratterizzata da un buon livello di flessibilità e di astrazione, di
conseguenza da una buona generatività del sistema, ovvero dalla possibilità di
produrre nuove teorie su di sé e sul mondo, e da un buon livello di
autointegrazione, cioè dalla capacità di percepirsi in ogni momento della propria
vita come un sé unitario e coerente. Dalla percezione dell’ unitarietà del sé
momento dopo momento deriva il senso della propria continuità nel
tempo.(idem)
La modalità psicotica di elaborazione della conoscenza evidenzia flessibilità e
generatività molto ridotte, un aumentato livello di concretezza, e un’interferenza
grave nella capacità di autointegrazione. (Guidano, 1992). Tale interferenza è
l’elemento distintivo del funzionamento psicotico: si manifesta con l’interruzione
del sentimento di unitarietà del sé nell’attualità e, in una prospettiva longitudinale,
con la frammentazione dell’identità personale, in quanto è perso il sentimento di
continuità e coerenza con la vita passata. (Ruiz, 1998)
Quando il danneggiamento della capacità di integrazione è per difetto, le
percezioni discrepanti rispetto all’immagine cosciente di sé paiono giungere
all’individuo dall’esterno manifestandosi come allucinazioni. Se il danno della
capacità di autointegrazione è per eccesso, sono integrati nell’immagine
cosciente di sé aspetti dell’esperienza che normalmente non vengono inclusi
(overinclusion). Essi entrano a far parte di una costruzione delirante la cui struttura
narrativa è di tipo mitico, slegata dal contesto di riferimento sia logico- temporale
che culturale al quale il soggetto appartiene. Dato che avere un’identità è
equivalente alla vita del sistema, il delirio risolve l’intollerabilità dell’esistere nella
consapevolezza dello stato di separazione tra esperienza e senso di sé. (idem).
Le implicazioni della perdita del sentimento di continuità del sé, il "sameness", sono
evidenziate analizzando gli ingredienti che danno forma all’autonarrazione.
Il sentimento di continuità è essenzialmente emotivo, ed è il filo conduttore sotteso
all’evoluzione di ogni organizzazione di significato. Il sé narratore, che fa parte del
sameness, su questa base emotiva compatta e riordina le esperienze di vita,
producendo spiegazioni e teorie, mentre il sé protagonista, il "selfhood",
sperimenta nell’attualtà il succedersi momento dopo momento delle differenti
esperienze. Il selfhood dà il senso di diversità, discrepanza , di novità. Nel sistema
del sé ( "self system"), attraverso la dialettica tra sé protagonista e sé narratore,
l’individuo costruisce un ordine e una coerenza interna alla propria storia di vita.
La dialettica tra continuità e discontinuità permette di comprendere che il
cambiamento e il mantenimento sono aspetti complementari. Nel cambiamento
personale, novità e familiarità coesistono : esso è un rendersi conto in maniera più
ampia di ciò che già si conosce. Tuttavia soltanto se è integro il sentimento di
continuità del sé è possibile percepire la novità. Il processo di discontinuità di livello
psicotico non solo impedisce la consapevolezza del cambiamento perché la
novità non è riconosciuta, ma rende impossibile anche autoriferirsela. L’individuo
psicotico con la perdita della capacità di sequenzializzazione cronologica,
causale e tematica, non riesce più a distanziarsi dall’immediatezza dell’esperienza
e a vederla come propria. Diviene allora impossibile trovare la propria
collocazione nello spazio e nel tempo, individuare i confini fra l’interno e l’esterno,
e riconoscere le emozioni. (Guidano, 1998a).
Tutti i tipi di psicosi, compresa la schizofrenia, possono essere ricondotte a tali
modalità di funzionamento.(Ruiz,1998). Più in specifico, si può distinguere il delirio
schizofrenico dal delirio affettivo considerando le caratteristiche fenomenologiche
nei due tipi di costruzioni deliranti. Il delirio schizofrenico evidenzia
prevalentemente aspetti percettivi, connessi all’esperienza immediata momento
dopo momento, ed è quindi riconducibile ad una preminente attività del selfhood
, mentre nel delirio affettivo sono prevalenti gli aspetti esplicativi, narrativi, che
denotano l’attività del sameness. (Maxia, 1999).
L’eterogeneità delle caratteristiche cliniche descrittive utilizzate per la definizione
della sindrome schizofrenica ha generato le difficoltà tuttora presenti nella
formulazione di un’ipotesi eziopatogenetica unitaria, al punto tale che ancora si
discute se tale forma di psicosi possa essere considerata una categoria sindromica
o una categoria nosografica eterogenea. (Guidano, 1992; Ruiz, 1998).
Il modello cognitivo sistemico processuale riferisce il concetto di schizofrenia a
caratteristiche descrittive che corrispondono a "…episodi acuti di elaborazione
non integrata tra i contorni di sé". A tale punto critico possono giungere tutte le
organizzazioni di significato. (Guidano, 1992).
Studi recenti mostrano che la maggioranza degli episodi acuti di delirio insorgono
nel periodo del debutto, nell’adolescenza e nella prima giovinezza tra i 16 e i 26
anni, e che dopo la conclusione dell’episodio vi è il ritorno alla medesima struttura
di personalità che ha lo preceduto.(Guidano, 1992; Ruiz,.1998) In questo arco di
tempo, lo sviluppo del pensiero autoriflessivo pone al ragazzo il difficile compito di
riordinare le discrepanze delle esperienze vissute nell’infanzia rispetto al senso di
sé, integrando le contraddizioni in una coerenza unitaria e generativa nei
confronti del futuro. Fattore basilare per il raggiungimento di una personalità
unitaria e coerente è il possesso di una buona capacità di integrazione. Il tipo di
relazioni familiari e specifiche modalità di sviluppo del legame di attaccamento
possono interferire con l’acquisizione di tale capacità causando, in una fase così
critica del ciclo di vita, episodi acuti di completa separazione tra esperienza e
immagine cosciente di sé. (Ruiz, 1998)
La forma cronica identificata come psicosi schizofrenica sembra dipendere,
secondo numerosi dati desunti da ricerche empiriche, da tre fattori non intrinseci
alla psicosi stessa: l’uso di psicofarmaci, che possiedono un effetto destrutturante
sul pensiero, l’ospedalizzazione (Guidano, 1992; Ruiz, 1998) e le relazioni familiari.
Quest’ultimo fattore è considerato nell’ottica sistemico processuale il più
importante. Le famiglie degli schizofrenici sono caratterizzate da un’intolleranza
verso tutte le forme di separazione. Il veto nei confronti dello svincolamento
emotivo impedisce l’individuazione del giovane e la costruzione di una personalità
separata rispetto al sistema familiare. In questo contesto un episodio delirante
viene ridefinito dalla famiglia come " malattia" ed essa riorganizza le interazioni fra i
membri sulla base di tale definizione, rendendo il veto definitivo. (Ruiz,1998).
Uno studio pilota di comparazione tra focalizzazione cognitivo-comportamentale
e focalizzazione con percezione somatica per il controllo delle allucinazioni uditive
Ricerche sulle allucinazioni uditive
Il perdurante problema dell’inefficacia delle medicazioni neurolettiche nel ridurre
allucinazioni e deliri in una quota rilevante di pazienti e il rischio, a tutt’oggi
presente, di incorrere in seri effetti collaterali con la somministrazione di farmaci a
lungo termine, ha stimolato numerosi ricercatori dell’area cognitivocomportamentale a sperimentare tecniche terapeutiche mirate alla riduzione
della frequenza delle "voci" o strategie di coping volte ad incrementare le
capacità di gestione delle "voci" da parte dei pazienti, e a ridurre lo stress e
l’inabilità che ne conseguono. (Tarrier, Beckett, Harwood, Baker, Yusupoff,
Ugarteburu, 1993; Garety, Kuipers, Fowler, Chamberlain, Dunn, 1994).
La letteratura di matrice anglosassone raccoglie una notevole messe di ricerche
sperimentali mirate all’intervento sulle allucinazioni uditive.
Slade e Bentall distinguono due categorie principali: a) interventi che
incoraggiano la distrazione dalle "voci" quale strategia di coping; b) interventi
basati sul monitoraggio delle "voci". (Slade e Bentall,1988, cit. in Haddock et all.,
1998)
La ricerca sperimentale basata su tecniche distrattive ha inteso verificare se può
essere stabilita una correlazione significativa con la frequenza delle allucinazioni o
con la capacità di gestione del sintomo. I risultati sperimentali hanno evidenziato
l’inefficacia di tali tecniche nella riduzione di frequenza delle allucinazioni uditive,
dello stress e inabilità del paziente, sulla riattribuzione a sé delle "voci" e
sull’incremento del livello di autostima. Le ricerche basate sulle tecniche di
focalizzazione hanno dato invece risultati controversi, di non sempre facile
interpretazione, sebbene l’efficacia sia stata comprovata in casi specifici.
(Haddock et all.,1998).
Nel lavoro del 1994 Bentall et all. sostengono che la focalizzazione quale strategia
di coping può portare più facilmente a un cambiamento positivo nel senso di una
riduzione nella frequenza delle voci rispetto alle tecniche di distrazione, in quanto
la prima è effettivamente indirizzata alle cause delle esperienze anormali.
Riguardo la natura delle allucinazioni è ampiamente condivisa l’idea che tale
esperienza si manifesti quando eventi mentali non sono attribuiti al sé ma bensì a
fonti esterne, causa la rottura del processo di monitoraggio (reality testing) che
distingue percetti non generati dal sé, "reali", da immaginazioni e pensieri generati
dal sé. (Bentall, 1990; Frith, 1995; Heilbrun, 1980; Hoffman 1986, cit. in Bentall et all.
1994).
Un lavoro successivo mirato a comparare gli effetti a lungo termine del
trattamento di distrazione con il trattamento di focalizzazione, con follow up a 2
anni, evidenzia la difficoltà del trattamento delle allucinazioni con la terapia
cognitivo-comportamentale in entrambe le tecniche: la tecnica di distrazione
risulta ininfluente sulla frequenza delle allucinazioni e sullo stress associato, mentre i
risultati positivi raggiunti con la tecnica di focalizzazione relativamente alla
riattribuzione a sé in una parte dei pazienti, sono limitati al periodo di trattamento.
(Haddock, Slade, Bentall, Reid, Faragher, 1998)
Fowler, Garety e Kuipers sostengono che "In definitiva nella terapia cognitivocomportamentale il terapeuta incoraggia il paziente a non credere alle voci e
tenta di diminuire il suo senso di responsabilità per il loro contenuto." (Fowler,
Garety, Kuipers, 1998).
L’orientamento della ricerca verso interventi indirizzati alla conoscenza e
modificazione delle convinzioni deliranti conseguenti alle voci, piuttosto che alle
allucinazioni uditive in se, è ben illustrato dai due studi sperimentali di Chadwick e
Birchwood.(1994). Dalle loro ricerche emerge che i soggetti collocano le voci in
due categorie, "malevolenti" (voci ai cui comandi i pazienti cercano di resistere) e
"benevolenti" (voci attivamente ricercate in quanto ritenute protettive), mentre
tutti credono nella loro onnipotenza. Queste ricerche hanno inoltre mostrato che
attraverso interventi mirati al tipo di credenze implicate e comunque indirizzati
all’attenuazione della convinzione di onnipotenza, si è verificata la riduzione dello
stress e dei problemi comportamentali conseguenti alle voci. La riduzione della
frequenza delle allucinazioni peraltro inaspettata dagli autori, , non è stata
significativa.
Similarmente, Chadwick, Birchwood e Trower (1997) sostengono che"…l’interesse
centrale della terapia cognitiva delle voci non è (..) quello di eliminare l’attività
delle voci stesse, ma di indebolire le credenze che sostengono il disagio."
Sull’onda di analoghe constatazioni, lo studio pilota di Persaud e Marks ( 1995),
compiuto su 5 casi di schizofrenia con allucinazioni uditive pervasive, intendeva
verificare l’incremento del senso di controllo personale sull’esperienza allucinatoria
tramite monitoraggio delle "voci" (nel tentativo di portare i pazienti alla
riattribuzione a sé), e successiva esposizione graduata con le stesse modalità della
tecnica di esposizione impiegata nel disturbo ossessivo, per aumentare la
padronanza sulle voci. Gli autori affermano che i pazienti paiono soffrire meno per
le allucinazioni per sé piuttosto che per il senso di mancanza di controllo che le
accompagna.
I risultati di questo studio, che ha impiegato un ammontare di 31 ore per paziente
lungo un arco di tempo totale di più di tre mesi, ha evidenziato l’incremento della
capacità del senso di controllo delle allucinazioni limitatamente al periodo di
trattamento. Le tecniche impiegate non hanno portato a una riduzione
significativa della frequenza delle allucinazioni.(idem)
Il modello cognitivo-comportamentale poggia le basi sull’epistemologia
razionalista. Questa corrente di pensiero, tuttora predominante nelle scienze
cognitive, concepisce l’esistenza di una realtà oggettiva esterna al soggetto
conoscente, intesa come una serie di informazioni ordinate in maniera
indipendente dalla mente dell’osservatore. L’individuo riceve gli input ambientali
e li elabora progressivamente riproducendo una copia più o meno esatta della
realtà. La conoscenza coincide con le corrispondenti rappresentazioni dell’ordine
esterno e l’adattamento è concepito come un modellamento progressivo
dell’individuo sotto la spinta delle pressioni dell’ambiente. (Guidano,1988- 1992).
Il modello cognitivo post-razionalista poggia le basi sulla più recente
epistemologia costruttivista la quale concepisce la realtà piuttosto che come un
universo indipendente dall’osservatore, come invece una pluralità imprescindibile
di mondi possibili ognuno ugualmente valido e irriducibile allo stesso tempo.
L’assurgere a "realtà" di un mondo possibile dipende dalle distinzioni effettuate
dall’osservatore all’interno del proprio dominio di interazioni. Ogni osservazione è
quindi auto-referenziale, ossia riflette l’ordine e le regolarità costruite dall’individuo
conoscente nel suo continuo interagire con il mondo, essendo la realtà in quanto
tale di per sé inconoscibile. ( idem ).
Nell’ambito della visione razionalista della realtà le allucinazioni sono considerate
false percezioni "percept-like experience", ove il criterio di "falsità" indica l’assenza
di corrispondenza fra esperienza individuale e appropriato stimolo esterno. (Slade
& Bentall, 1988, cit. in Bentall et all.,1994).
Esplorando il contesto immediato di riferimento si possono invece evidenziare le
relazioni fra il contenuto delle allucinazioni e il tipo di situazione soggettivamente
sgradevole, nonché i meccanismi mediante i quali esse possono ridurre l’ansia dei
soggetti e determinare una modificazione della situazione stressante. (Boyle,1994).
In ambito post-razionalista la percezione degli eventi del mondo esterno evidenzia
la costruzione personale della realtà operata dall’individuo nel corso della sua
interazione con l’ambiente, pertanto non sono ad essa applicabili criteri di verità o
falsità assoluti. Tale costruzione individuale, definita esperienza immediata,
comprende le emozioni, le sensazioni, immagini, il dialogo interno e il senso di sé
sperimentati nel percepire l’evento, e può essere analizzata durante la
rievocazione mnemonica dell’evento significativo, tramite la tecnica della
moviola. (Guidano, 1992).
Nelle ricerche tradizionali è chiesto al soggetto di focalizzare l’attenzione sulla
"voce" sentita e di riprodurla mentalmente quale punto di partenza del lavoro di
individuazione delle differenze con la percezione uditiva .
Il metodo post-razionalista evidenzia invece come, una volta contestualizzata e
ricollocata all’interno dell’evento ordinato sequenzialmente in senso cronologico,
causale e tematico, l’allucinazione uditiva risulta un ingrediente della propria
esperienza soggettiva, l’immaginazione uditiva sperimentata come proveniente
dall’esterno. La sequenzializzazione ripetuta dell’evento critico determina nel
paziente psicotico un progressivo aumento della capacità di articolazione e
integrazione dell’esperienza, e di conseguenza l’abbandono delle spiegazioni
deliranti (Mascia, 2000).
L’ intervento clinico in ambito post razionalista ha chiarito che la tendenza a non
distinguere fra immaginazione uditiva e percezione uditiva predispone a
sperimentare l’immaginazione non dissimile dal prodursi di una nuova
allucinazione, avvertendola quindi sempre in termini di esternalità. Per far sì quindi
che il soggetto riesca a distinguere le due diverse componenti del mondo
soggettivo è necessario allora istruirlo a mantenere l’attenzione su un punto di
vista interno (percezione somatica) mentre riproduce mentalmente il contenuto e
le caratteristiche della "voce" ( Idem ).
Lo studio pilota che qui presento intende confrontare la tecnica di focalizzazione
di matrice cognitivo comportamentale (che per comodità chiamo focalizzazione
semplice) con la focalizzazione con percezione somatica di matrice cognitivo
post-razionalista, allo scopo di verificare l’efficacia di quest’ultima rispetto alla
prima nel riattribuire a sé l’esperienza allucinatoria.
Ipotesi
Una " ...scarsa familiarità con il proprio mondo immaginativo interno può favorire
l’insorgenza di esperienze immaginative involontarie, inaspettate e di difficile
decifrazione.". ( Al-Issa, 1995). Quanto più è ridotta la familiarità con le
caratteristiche della propria immaginazione uditiva, tanto maggiore sarà la
tendenza a scambiare i propri pensieri con una voce avvertita proveniente dal
mondo esterno.
I soggetti con allucinazioni uditive pervasive possono riuscire più facilmente a
riconoscere le allucinazioni uditive come propria immaginazione nel momento in
cui focalizzano l’attenzione all’interno del proprio corpo. La caratteristica di
pervasività delle allucinazioni favorisce la focalizzazione dell’attenzione del
soggetto sulla propria immaginazione. L’ancoraggio a un punto di riferimento
interno al corpo permette di compiere la distinzione fra immaginazione uditiva e
percezione uditiva.
Soggetti
I soggetti contattati provengono dall’Istituto di Psichiatria Clinica dell’Università di
Cagliari presso la quale sono attualmente in cura in regime ambulatoriale e/o day
hospital.
Caso 1: A., 34 anni, diagnosi di schizofrenia paranoide (DSM IV-Asse I-F20.0X) e
storia di allucinazioni uditive a carattere denigratorio e persecutorio, perduranti da
11 anni e presenti con frequenza giornaliera. Compresente dall’esordio il delirio di
controllo in tutte le quattro modalità di furto, influenzamento, trasmissione e
controllo del pensiero, e il delirio paranoide di riferimento. Le allucinazioni uditive si
manifestano in seconda persona e ed è presente diffusione del pensiero (il
paziente asserisce che le voci possono essere percepite da altre persone
nell’ambiente circostante).Il paziente ha effettuato tre sedute di trattamento della
durata de 30 minuti ciascuna.
Caso 2 :G., 32 anni, diagnosi di schizofrenia disorganizzata (DSM IV-Asse I-F20.1X)
con storia di allucinazioni uditive in seconda e terza persona (dialogo di voci)
imperative e a carattere persecutorio perduranti da 13 anni e presenti con
frequenza giornaliera. Il paziente ha manifestato dall’esordio delirio di controllo
nelle modalità di influenzamento e controllo del pensiero, delirio paranoide di
riferimento e di persecuzione, disturbi generali e specifici della forma del pensiero,
di questi ultimi incoerenze, risposte incongrue, deragliamenti. Anche questo
paziente ha effettuato due sedute di trattamento della durata de 30 minuti
ciascuna.
Caso 3: F., 34 anni, diagnosi di schizofrenia paranoide (D.S.M. IV-Asse I-F20.0X) con
storia di allucinazioni uditive in seconda persona imperative e a carattere
persecutorio perduranti da 18 anni stabilmente lungo tutto il decorso del disturbo,
e attualmente presenti con frequenza giornaliera. Ha manifestato dall’esordio
delirio paranoide di riferimento e di persecuzione in seguito al quale ha effettuato
un tentativo di suicidio. Il paziente ha svolto quattro sedute di 30 minuti ciascuna.
Caso 4: L., 30 anni, diagnosi di schizofrenia disorganizzata (D.S.M. IV- Asse I-F 20.IX)
con storia di allucinazioni uditive in seconda e terza persona (dialogo di voci) a
carattere denigratorio, perduranti da 18 anni stabilmente lungo il decorso del
disturbo, attualmente avvertite con frequenza giornaliera.. Ha manifestato disturbi
formali del pensiero quali deragliamenti e blocchi del pensiero, eloquio
disrganizzato, delirio non strutturato di controllo nella modalità di influenzamento,
delirio paranoide di riferimento ea carattere mistico. Il paziente ha effettuato due
sedute di circa 30 minuti ciascuna.
Caso 5 : R., 25 anni, diagnosi di disturbo schizoaffettivo (D.S.M. IV- Asse I-F 25.X )
con storia di allucinazioni uditive in seconda persona, perduranti da 7anni in fasi
successive di riacutizzazione del disturbo. Le allucinazioni si manifestano
attualmente a più riprese nell’arco di un mese, e durante situazioni ansiogene per
il paziente (colloqui, esami) , con toni benevoli e di sostegno. Ha manifestato
disturbi della forma del pensiero quali incoerenze intoppi e tangenzialità,
stereotipie, idee deliranti di influenzamento e trasmissione del pensiero, delirio di
riferimento e persecutorio. Il paziente ha svolto due sedute di 30 minuti ciascuna.
Procedura.
In una prima fase lo sperimentatore spiega preliminarmente al soggetto che lo
scopo dell’intervento sarà di aiutarlo a conoscere meglio le "voci". Viene spiegato
in termini semplici che il soffermarsi per riconoscere e capire meglio le componenti
del nostro mondo interno ed esterno, aiutano a ridurre l’ansia e la sofferenza
connessa. Lo sperimentatore procede con la raccolta di informazioni sulle
caratteristiche delle "voci" mediante un’intervista semi- strutturata.
Al paziente è chiesto con quale frequenza sente le voci nell’ambito di uno stesso
giorno e nell’arco di una settimana; se si tratta di voci maschili o femminili; se si
tratta di una voce singola o di un dialogo di più voci e se si rivolgono al paziente in
seconda persona o parlano di lui in terza persona; se la provenienza è localizzata
dentro la testa o fuori nell’ambiente esterno; se possono essere udite solo dal
paziente o anche da un’altra /e persone; le caratteristiche paraverbali quali
intensità (alto/basso), velocità (lento/veloce), timbro.
Raccolte le informazioni sulle caratteristiche generali delle "voci", il ricercatore
chiede di riferire il contenuto dell’ultima allucinazione uditiva. Unitamente viene
chiesto di riportare le seguenti caratteristiche: tonalità, timbro, velocità, genere,
provenienza, attribuzione (a sé o a una fonte esterna).
Una volta che il soggetto ha esplicitato il contenuto e le caratteristiche dell’ultima
allucinazione, lo si invita a ripetere mentalmente la "voce" sentita sforzandosi di
riprodurla il più fedelmente possibile. Dopo che il soggetto ha ripetuto
mentalmente, lo sperimentatore chiede di confrontare la "voce" immaginata con
la "voce" percepita. Eseguita l’operazione richiesta gli si chiede di specificare la
provenienza e l’attribuzione (interna o esterna) della "voce" immaginata.
Nella seconda fase, immediatamente successiva alla prima, lo sperimentatore
chiede di prestare attenzione alle variazioni di caldo/freddo provenienti dal
proprio corpo. Si consiglia al soggetto che può eseguire facilmente l’esercizio
concentrando l’attenzione sulle mani : i punti più caldi saranno quelli a contatto
con l’altra mano o con una superficie (es. tavolo, bracciolo della sedia).
Lo sperimentatore presta particolare attenzione a che il soggetto percepisca le
variazioni termiche.
A questo punto il soggetto è invitato a soffermarsi sulle proprie sensazioni termiche
mentre prova a riprodurre mentalmente la "voce" precedentemente monitorata.
Quindi gli è chiesto di confrontare la "voce" immaginata durante la focalizzazione
con percezione somatica con la "voce" precedentemente attribuita a una fonte
esterna.
Trattamento.
Il caso 1 ha effettuato tre sedute di 30 minuti ciascuna; i casi 2,3 e 5 hanno
effettuato due sedute di 30 minuti, mentre il caso 4 ha effettuato quattro sedute di
30 minuti per raggiungere il padroneggiamento dello strumento.
In prima fase I soggetti hanno risposto alle domande dell’intervista semi-strutturata.
Lo sperimentatore ha chiesto quindi di riferire il contenuto dell’ultima allucinazione
con le stesse caratteristiche paraverbali.
Caso 1. A. ha ripetuto verbalmente una "voce" sentita durante la seduta dopo
che il terapeuta ha spiegato lo scopo dell’esercizio. Lo sperimentatore ha chiesto
di ripetere mentalmente la "voce" cercando di riprodurla il più fedelmente
possibile. Il paziente ha ripetuto mentalmente un frammento della "voce". Di
seguito è stato invitato a confrontarlo con la "voce" sentita. Circa la provenienza
della riproduzione il paziente ha risposto di avvertirla localizzata dentro la testa nel
lato sinistro, punto dove solitamente sente le "voci", come da una sorta di radio
trasmettitore interno. La riproduzione è attribuita a una fonte esterna: il paziente
ha spiegato che "erano loro che me lo hanno fatto pensare…è un pensiero
artificiale", perché "mentre cercavo di pensarlo ho visto il loro apparato di
telecomando con i fili che arrivavano alla testa".
Caso 2. G. ha riprodotto verbalmente una "voce" sentita poco prima della seduta
mentre attendeva l’inizio del colloquio. Lo sperimentatore ha chiesto la soggetto
di ripetere mentalmente la "voce" sentita cercando di riprodurla il più fedelmente
possibile. Il paziente non è riuscito a ripetere mentalmente asserendo che "non ci
riesco, non ce la faccio".
Caso 3. F. ha ripetuto verbalmente una "voce" presentatasi in seduta subito dopo
aver risposto a una domanda dello sperimentatore. Gli viene poi chiesto di
ripeterla mentalmente con le stesse caratteristiche. Il paziente ripete l’intera
"voce". A questo punto gli viene suggerito di confrontare la riproduzione con la
"voce" sentita. F. afferma che la riproduzione proviene da dentro la sua testa.
L’attribuzione è esterna: il paziente sostiene di non poter pensare perché nella sua
testa "il cervello non c’è, la testa è vuota" e "ci sono delle persone nella mia testa
che parlano".
Caso 4. L. ha riprodotto verbalmente una "voce" sentita nella sua camera da letto
alcune ora prima della seduta. Di seguito gli viene chiesto di ripeterla
mentalmente. Dopo aver ripetuto la voce gli viene proposto di confrontare ciò
che ha ripetuto con la voce sentita. F. afferma che "ho iniziato a pensare, l’ho
cercata e si è presentata di nuovo" e quindi si tratta della stessa voce sentita
precedentemente, perché " non posso pensarla". La localizza "nell’aria, al mio
fianco".
Caso 5. R. ha riprodotto verbalmente una voce sentita in seduta dopo aver
chiesto chiarimenti sull’esecuzione dell’esercizio. Riesce a ripetere mentalmente la
voce con parte delle sue caratteristiche paraverbali. Confrontando la
riproduzione con la voce sentita afferma che la voce sentita è diversa dalla prima
" perché io sono maschio e non riesco a fare la voce di una femmina" La voce
riprodotta è percepita proveniente dall’ambiente circostante, sopra la sua testa
Seconda fase.
Caso 1. Lo sperimentatore ha chiesto ad A. di prestare attenzione alle variazioni di
caldo/freddo provenienti dalle sue mani, che in quel momento teneva strette
l’una nell’altra. Una volta localizzati correttamente i punti più caldi fra le mani
(palmi e parte delle dita), lo sperimentatore gli ha chiesto di ripetere mentalmente
la "voce" monitorata mentre il paziente soffermava l’attenzione sulle sensazioni di
calore. Dopo aver ripetuto mentalmente, il soggetto è stato invitato a confrontare
la riproduzione con la "voce" monitorata precedentemente. Il paziente ha
avvertito la riproduzione uguale alla "voce" sentita, ma ha potuto distinguerla da
quest’ultima in quanto la "voce ha un suono, il pensiero no". La riproduzione è
localizzata dentro la testa, dietro la fronte. L’attribuzione è interna: il soggetto ha
spiegato che "mi sono concentrato sul calore della mano e ho potuto pensare…è
un pensiero mio".
Caso 2. Lo sperimentatore ha chiesto a G. di prestare attenzione alle variazioni di
caldo/freddo provenienti dalla sua mano, che al momento della richiesta era
poggiata sul braccio. Una volta che il paziente ha localizzato correttamente i
punti più caldi (palmo della mano e parti delle dita a contatto con il braccio), lo
sperimentatore ha chiesto di ripetere mentalmente la "voce" monitorata mentre si
soffermava sulle sensazioni di calore. Il paziente ha ripetuto mentalmente l’intero
contenuto della "voce". Di seguito è stato invitato a confrontare la riproduzione
con la "voce" precedentemente monitorata. Il soggetto ha affermato che la
riproduzione è uguale alla "voce" sentita, ma l’ha poi distinta da quest’ultima in
quanto il pensiero è "silenzioso". La provenienza è localizzata dentro la testa.
L’attribuzione è interna: il soggetto ha spiegato che si tratta di "un mio pensiero…
la voce è telepatia, il pensiero non è telepatia", intendendo con telepatia un
pensiero formulato da un’altra persona e introdotto nella sua testa.
Caso 3. Alla richiesta di prestare attenzione alla variazioni di temperatura
provenienti dalle mani, tenute l’una nell’altra, F. riesce a localizzare correttamente
i punti più caldi (fra le dita di una mano e il dorso dell’altra mano). Poi lo
sperimentatore chiede ad F. di provare a riprodurre mentalmente una voce
sentita in seduta mentre è concentrato sulla sensazione di calore. Dopo averla
ripetuta il paziente commenta spontaneamente: "non sarà la mia
immaginazione? non credo proprio!". Al suggerimento di effettuare un confronto
con la voce sentita precedentemente, F. afferma che ciò che ha ripetuto è
"uguale" alla voce ed è localizzata dentro la testa. L’attribuzione è esterna: F.
spiega che "è come se l’avesse ripetuto un’altra persona", ma al tentativo di fargli
chiarire meglio la sua spiegazione, aggiunge subito "è un’altra persona che l’ha
ripetuto nella mia testa, non è un mio pensiero, io non penso".Il paziente ha
aggiunto che le voci gli ripetono di appiccare il fuoco e di uccidere, ma "io non
sono cattivo", lo vogliono fare le voci.
Caso 4. Lo sperimentatore ha chiesto a L. di far attenzione alle variazioni di
temperatura provenienti dalle sue mani. Il paziente focalizza correttamente il
caldo fra il dorso di una mano e il palmo dell’altra mano poggiata sopra. Di
seguito lo sperimentatore chiede di riprodurre mentalmente la voce monitorata
mentre il paziente è concentrato sulla sensazione di calore. Gli viene quindi
chiesto di confrontare ciò che ha riprodotto con la voce monitorata. L. risponde
che si tratta della stessa voce e la localizza la provenienza nell’aria al suo fianco
sinistro. L’attribuzione è esterna in quanto L. spiega che "non ho pensato, ho
sentito la voce".
Caso 5. A richiesta dello sperimentatore R. focalizza l’attenzione sulle variazioni di
temperatura caldo/freddo e localizza correttamente il caldo fra il palmo di una
mano e il dorso dell’altra che lo racchiude. Dopo la riproduzione mentale della
voce monitorata mentre il paziente è concentrato sulla sensazione di calore, lo
sperimentatore suggerisce di confrontare tale riproduzione con la voce sentita. R.
afferma che la riproduzione è uguale alla voce sentita in quanto è riuscito a
ripeterla con un "suono femminile", ma si distingue dalla voce sentita perché" ho
voluto ripeterla io, la voce è un mio pensiero." La riproduzione è localizzata
all’interno della testa. L’attribuzione interna è evidenziata ulteriormente dalla
spiegazione di R. che "le voci sono io che le penso. Quando entro in trance mi
rilasso e sento le voci. Le evoco perché mi fanno compagnia e mi consigliano se
al lavoro sono preoccupato "
Risultati preliminari
I dati qui presentati si riferiscono a 5 soggetti che hanno effettuato la
focalizzazione semplice e la comparazione con la focalizzazione con percezione
somatica sino a raggiungere il padroneggiamento degli esercizi. Tutti i soggetti
sono stati selezionati in rispondenza a tre criteri di inclusione : 1)diagnosi di
schizofrenia o disturbo schizoaffettivo ;2) allucinazioni uditive resistenti alla terapia
neurolettica, 3) stabilità della medicazione neurolettica lungo tutto il corso delle
sedute di ricerca.
L’esiguità dei dati raccolti consente di compiere una valutazione iniziale
puramente indicativa.
Il trattamento dei 5 casi evidenzia chiare differenze riguardo all’esito delle due fasi.
Nella prima fase la focalizzazione semplice delle voci non ha prodotto in alcun
soggetto la distinzione tra immaginazione uditiva e percezione uditiva. I casi 1 e 3
che localizzano le voci all’interno della testa mostrano comunque un’attribuzione
esterna : nel primo, la voce è inserita all’interno tramite un apparecchio
telecomandato da un’agenzia esterna; nell’altro caso, più concretamente,
persone controllanti e intente a spiare il paziente parlano dall’interno della testa
vuota. Le spiegazioni deliranti hanno ostacolato l’effettuazione del monitoraggio
iniziale delle voci ed hanno sostenuto in alcuni pazienti la convinzione di non
poter pensare. Inoltre il contesto clinico e l’estraneità dello sperimentatore hanno
causato ansia rendendo difficile l’esposizione.
Allo scopo di affrontare l’ansia e il rifiuto dell’esposizione , lo sperimentatore ha
concordato con gli psichiatri curanti dei casi 2, 3, 4 lo svolgimento del colloquio
per una o due sedute in presenza degli stessi psichiatri, in veste di osservatori e di
figure di sostegno.. L’evitamento del monitoraggio della voce è stato affrontato in
seduta dallo sperimentatore chiedendo ai pazienti di dire una frase qualsiasi e poi
di pensarla prima di riproporre l’esercizio.
Riguardo l’impostazione e la conduzione dei colloqui sono stati adottati criteri di
comunicazione verbale e non verbale adattati alla modalità di funzionamento
psicotico: formulazione delle domande mediante frasi brevi, semplici, ripetute,
concrete (sono state evitate alternative di scelta fra categorie) ; modalità di
comunicazione non verbale improntata alla riduzione dello stato d’allarme nei
pazienti. La durata massima di 30 minuti per seduta è stata stabilita allo scopo di
limitare il disturbo dell’attenzione, nella maggioranza dei casi attenuato con
l’aumentare della familiarità con lo sperimentatore.
Nella seconda fase, il monitoraggio delle voci effettuato mentre i soggetti si
concentravano sul calore delle loro mani ha prodotto la distinzione tra
immaginazione uditiva e percezione uditiva in tre casi su cinque. Tali pazienti
hanno dimostrato di avvertire in maniera netta lo spostamento della loro
attenzione all’interno del corpo. In particolare il caso 1 ha attribuito all’attenzione
sulla percezione di temperatura lo stato di rilassamento provato che gli ha
permesso di rendersi conto della fonte interna del proprio pensiero mentre lo stava
formulando.
Mi pare interessante a questo proposito la spiegazione data dal caso 5, che ha
affermato di sentire le voci quando "mi sposto da me stesso" ed "entro in trance",
sottolineando la tendenza in situazioni di stress ad entrare in uno stato simile ad
una derealizzazione, dall’effetto "rilassante", ove il punto di vista su di sé è
esternalizzato.
La spiegazione data dal caso 3 nella seconda fase ha evidenziato a mio parere il
peso di fattori relazionali nel mantenimento del punto di vista esternalizzato su di
sé : il soggetto afferma che non è lui ad appiccare il fuoco e a voler uccidere, in
quanto "non sono cattivo", sono le "voci" a volerlo. Fra i dati desunti dalla cartella
clinica emerge in episodio di piromania e relazioni familiari stabilmente orientate
alla critica e al controllo del paziente.
Per ultimo, la componente sonora dell’immaginazione uditiva sembra essere
l’elemento sul quale poggia l’attribuzione esterna dell’immaginazione uditiva,
secondo quanto emerge dalle affermazioni di diversi soggetti, e in particolare dal
caso 2 nella seconda fase: la "telepatia" che G. attribuisce a una fonte esterna,
possiede una qualità sonora che la differenzia dal proprio pensiero, percepito
"silenzioso".
Discussione
I risultati della ricerca pilota descritta nelle pagine precedenti, che comparava la
focalizzazione cognitivo-comportamentale con la focalizzazione con percezione
somatica di temperatura nel controllo delle allucinazioni uditive, sembrano
confermare l’ipotesi di partenza. Una scarsa familiarità con la propria
immaginazione uditiva può determinare la produzione di allucinazioni.Allo scopo
di acquisire una maggiore familiarità con l’ immaginazione uditiva e di
conseguenza controllare il fenomeno allucinatorio, è necessario possedere un
segnale interno all’organismo al quale ancorare l’internalizzazione del punto di
vista su di sé. I pazienti caratterizzati da una massiva produzione di allucinazioni
uditive verosimilmente possiedono una visione di sé stabilmente esternalizzata,
quindi una scarsa o nulla familiarità con la propria immaginazione. Se l’attenzione
è riorientata all’interno dell’organismo, tali soggetti possono più agevolmente
divenire consapevoli degli ingredienti della propria immaginazione uditiva, al
confronto di soggetti che allucinano sporadicamente, a causa di una più ricca
produzione immaginativa.
In quattro casi su cinque il monitoraggio con percezione somatica risulta aver
prodotto l’internalizzazione del punto di vista su di sé quindi la presa di contatto
con la propria immaginazione uditiva, a differenza della focalizzazione semplice
che risulta non aver prodotto alcun mutamento in tal senso.
Comunque è importante sottolineare che tali risultati possono dare soltanto
alcune indicazioni preliminari riguardo all’effettuazione di ulteriori ricerche in
questo campo.
Diversi fattori hanno verosimilmente influenzato i risultati raggiunti. Fra tutti un
fattore preponderante consiste nel numero molto ridotto di pazienti che si sono
sottoposti alla sperimentazione.
Fattore determinante per via dell’ influenza che ha esercitato sia sul trattamento
che sugli esiti della ricerca, è stata la stessa estrapolazione dell’ esercizio di
focalizzazione con percezione somatica dal metodo di intervento clinico postrazionalista, all’interno del quale è stato ideato ed è parte integrante.
L’idea di isolare la focalizzazione con percezione somatica dal contesto della
relazione terapeuta-paziente ha suscitato dubbi iniziali riguardo alla sua
riproducibilità in sede sperimentale.
Sebbene la focalizzazione con percezione somatica pare abbia mostrato di
essere riproducibile ed efficace nella riattribuzione a sé dell’allucinazione uditiva,
riscontri in sede sperimentale evidenziano che non può essere considerata una
tecnica applicabile fuori dal contesto del metodo di intervento clinico postrazionalista.
In primo luogo, la relazione sperimentatore- paziente è una "finestra" di
osservazione ridotta al contesto sperimentale. Questa cornice di intervento limita
la conoscenza che lo sperimentatore può acquisire delle modalità di
funzionamento dei sistemi familiari e sociali in cui il paziente è inserito, impedendo
il controllo dell’impatto della sperimentazione sulle famiglie dei pazienti, con le
conseguenti ripercussioni sui pazienti stessi e sul lavoro di ricerca.
La procedura di questo studio pilota ha causato un notevole livello di stress nei
pazienti, e la consapevolezza dei risultati raggiunti in termini di internalizzazione
delle allucinazioni uditive è stata sistematicamente contestata da tutti i soggetti
della ricerca. Ciò ha reso evidente la precarietà di tali risultati. A questo proposito
mi paiono esplicative le spiegazioni date dal caso 3 nella seconda fase di
trattamento. Il mantenimento del punto di vista esternalizzato su di sé che sostiene
le allucinazioni verosimilmente consente in questo caso l’evitamento della
definizione personale nei confronti del sistema familiare.
Tali riscontri evidenziano che le allucinazioni, lungi dall’essere anormalità e
aberrazioni da estirpare, sono parte integrante della modalità di mantenimento
della coerenza interna propria dei sistemi a funzionamento psicotico. La presa di
consapevolezza della propria immaginazione uditiva può allora divenire
un’acquisizione stabile solo in presenza di una relazione terapeutica che funga da
base sicura, e che attraverso l’impostazione preliminare di cornici di intervento di
natura esplicita e tacita, permetta al paziente psicotico di iniziare il percorso di
riconoscimento della sua unicità e della continuità della sua vita.
Allo scopo di evitare l’instaurarsi di una relazione paziente- sperimentatore che
quest’ultimo non avrebbe potuto controllare, è stata decisa l’effettuazione del
numero minimo di sedute sufficienti a far acquisire il padroneggiamento dello
strumento.
Nell’approccio cognitivo-comportamentale al monitoraggio dell’allucinazione
uditiva segue la discussione in collaborazione con il paziente sulle credenze e i
pensieri associati; in ultima analisi, un’opera di convincimento dall’esterno da
parte del terapista. Questa modalità di intervento comporta l’accettazione da
parte del paziente del fenomeno allucinatorio quale sintomo di malattia mentale,
non influendo però tale convincimento sulla vividezza e il senso di realtà
dell’esperienza. Inoltre alcuni pazienti possono rifiutare l’esame di realtà e la
discussione sulle credenze deliranti perché le "voci" sentite possiedono
connotazioni positive di protezione o di incoraggiamento. (Philip Thomas, 1997).
Porre l’accento sulla spiegazione dell’allucinazione quale sintomo di malattia
mentale può costringere i pazienti all’interno di una cornice patologica che li isola
dalla propria esperienza e dalle circostanze connesse alla manifestazione del
sintomo. Infine, l’approccio "obiettivo" del modello cognitivo comportamentale
presuppone un dislivello di potere insito nella relazione terapeutica, assumendo il
terapista il ruolo di detentore a priori dei criteri di normalità o patologia. In tale
approccio, sebbene rassicurante per il terapista, vengono tuttavia perduti il punto
di vista e l’autonomia del paziente. (idem).
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