ASCANIO CELESTINI E IL SUO TEATRO DI NARRAZIONE Tesi di Laurea di Emanuela Marzoli Università degli Studi di Bergamo A.A. 2004-05 Relatore: Annamaria Testaverde IL TEATRO DI NARRAZIONE “Teatro di narrazione” è una definizione recente nell’ambito degli studi teatrali (tanto che, con un azzardo linguistico, si potrebbe considerare una “neodefinizione”) tuttavia questa terminologia appare già abusata. Purtroppo si rischia di incorrere in un termine inflazionato ancor prima di essere stato argomentato a sufficienza, o forse proprio perché si è lontani dall’esaurire le argomentazioni; il concetto definito “teatro di narrazione” potrebbe diventare un serbatoio in cui riversare senza criterio ogni creazione teatrale contemporanea inconsueta rispetto al teatro tradizionale, rendendolo il vessillo del modernismo e dello sperimentalismo “a tutti i costi” e non il risultato di progetti ragionati e curati. Per non incorrere quindi nel fraintendimento grossolano, cadendo nella tentazione dello smaltimento, nella realtà drammaturgica narrativa, anche di prodotti scadenti e facilmente smerciabili è necessario stabilire quali coordinate risultino funzionali ad individuare con precisione l’oggetto da analizzare, escludendo immediatamente l’equazione “moderno” uguale “teatro di narrazione”. Si tratta di un genere artistico recente, non tanto sotto l’aspetto “narrazione”, poiché l’uomo narra dal momento in cui ha acquisito l’uso della parola; quanto per la giunzione tra narrazione e teatro. Questa tipologia scenica che raccoglie dalle tradizioni popolari più antiche di cantastorie, letture infantili, racconti del folklore il materiale poi proposto sulla scena, ha già dato modo di creare una categoria; si accrescono quindi il pericolo del semplicismo e della generalizzazione. La capacità d’indagine riguardo un evento (oppure un luogo), infatti, sembra essere inversamente proporzionale alla sua vicinanza spazio–temporale, è lampante: l’allontanamento diatopico e diacronico favorisce una visione unitaria, razionale e oggettiva, funzionale alla ricerca. In parole povere, analizzare un evento concluso e circoscritto è meno aleatorio che prendere in considerazione un processo, qui il “teatro di narrazione”, che ancora è in fieri e lungi dall’esaurirsi e che può prestarsi ad evoluzioni impreviste e catastrofiche (prendo questo termine in prestito dalla teoria di Renè Thom 1 ). TP PT È però possibile ed indispensabile considerare il fenomeno teatrale detto “di narrazione” sulla base di caratteristiche condivise nel mondo dell’analisi e critica di teatro. Quindi, in primo luogo, di fronte ad una casistica che evidenzia empiricamente la frequenza con cui l’attore narratore si presenta solo in scena e propone opere drammaturgiche di cui è anche autore, è comprensibile risalire da questo primo elemento discriminante alla differenza tra narratori, attori interpreti di un 1 Renè Thom espone la teoria delle catastrofi nelle sue opere Stabilità strutturale e morfogenesi, Torino, Einaudi, 1980 e Parabole e catastrofi, Milano, Il saggiatore, 1980. Con il termine “catastrofe” si indica, nella teoria sistemica, il passaggio di un sistema da uno stato stabile ad un altro altrettanto stabile, ma fino ad allora solo potenziale, ed attuato dalla comparsa di un fenomeno critico che interrompe il cammino del sistema, lineare fino a quel determinato momento. La transizione catastrofica identifica, pertanto, un mutamento repentino, non necessariamente disastroso, caratterizzato tuttavia dalla discontinuità di un processo che può darsi anche in seguito ad una variazione infinitesima. TP PT monologo, ed esecutori di letture teatralizzate, trattandosi, negli ultimi due casi, di un lavoro svolto su un testo predisposto, fissato a priori e generalmente invariato. Che si tratti del testo di un copione, oppure letterario poi riadattato, esso è certamente pre-esistente all’atto scenico e condivisibile in modo univoco, la fruizione oggettiva è infatti caratteristica ontologica della scrittura. Questi testi drammaturgici potranno nascere o meno dall’inventiva dell’interprete: essere autori e recitare un proprio testo non equivale a costruire un evento teatrale di narrazione; ma certo imporranno un legame rigido con la parola da cui l’attore (o il lettore) potrà svincolare la propria identità solo seguendo la via della creatività emotiva e della perfezione esecutiva, trovando un numero ampio di soluzioni interpretative soddisfacenti sulla base di quel testo, che comunque c’era ed è lì tuttora e ci sarà poi in maniera irreversibile. Ci si muove in definitiva all’interno della scrittura. Diventa necessario, quindi, il concorso di un rigore tecnico ineccepibile nel costruire uno spettacolo il più possibile “pulito” per dare vita al quale l’attore parte dall’impersonalità (l’attore “nudo”) per poi rivestirsi di una nuova personalità (il personaggio) oppure di una grande competenza esecutiva (il lettore). Il percorso compositivo e interpretativo sopra descritto risulta estraneo al “teatro di narrazione”: tale nuova modalità si caratterizza per un rapporto più libero, quando non totalmente assente, tra il narratore ed il testo. Grazie ai frequenti inserti di improvvisazione non si pone il problema dell’apprendimento mnemonico della scrittura, poiché la fase letteraria, presupposto della messa in scena tradizionale che nel teatro si concretizza con il copione e nella cinematografia con la sceneggiatura, è irrilevante in una realtà nella quale semplicemente non esiste il testo drammaturgico a priori come base fondante dell’azione. Una prima distinzione tra il teatro tradizionale ed TP PT il “teatro di narrazione” è individuabile quindi a partire dalla definizione che Guido Di Palma propone per identificare il nucleo generativo di quest’ultima tipologia scenica: non opera scritta antecedentemente e rigorosamente ripresa, ma materia narrativa 2 . Il narratore espone il materiale trattato secondo le modalità della tradizione TP PT favolistica tramandata oralmente. Il meccanismo non consiste nella ripetizione di parole predisposte e invariate, ma nel susseguirsi di eventi narrabili il cui legame va ricercato in un ordine strutturato, generato spesso da formule rituali e ripetizioni cantilenanti non dalla rigidezza testuale. In questo ordine il raccontatore ha il dovere di muoversi con libertà tale da poter sempre rendere visibili le storie narrate senza snaturare, o meglio garantendo in funzione di questa abilità icastica, il reiterarsi del significato del racconto. 2 G. DI PALMA, Un testimone dell’apocalisse. Tradizione e invenzione nella fabulazione di Ascanio Celestini, in A PORCHEDDU (a cura di), L’invenzione della memoria. Il teatro di Ascanio Celestini, cit., 2005, p. 87. TP PT Il regista di un teatro amatoriale di provincia con cui collaborai per qualche tempo era solito ripetere: «Il testo è un pretesto...». Per che cosa, mi chiedevo io? Ora è più chiaro, ma, anziché in veste di pretesto, penso al testo come ad uno schermo posto tra l’attore ed il pubblico su cui trova la propria proiezione l’immagine di un personaggio definitivo, frutto di prove e ricerche finalizzate alla riproponibilità. Il rapporto con il pubblico è studiato nel tentativo di indurre l’emozione tramite l’illusione mimetica del personaggio “altro da sé”. Il narratore orale, non solo quello teatrale, rifiuta invece le forme di travestimento, né si tratta di ricercare le origini della rinuncia tra i grandi assunti ideologici esistenziali, il raccontatore, anche il più modesto dei cantastorie, più semplicemente non ricorre ad alcun mascheramento perché non gli serve a nulla: il suo obiettivo è quello di raccontare, non di rappresentare, quindi il personaggio della finzione viene bandito, in prima istanza, in nome della praticità. Del resto nessuna persona che desideri riferire di essere stata multata indosserà una divisa da vigile urbano per interloquire con chicchessia, ognuno vorrebbe però che, attraverso il proprio discorso il vigile, precisamente quello della multa, risultasse visibile agli ascoltatori. Questo esempio aderisce all’ordinario e al quotidiano, ma che cos’è il “raccontare” se non un’azione fortemente reiterata nella umana quotidianità? Ecco un’altra caratteristica del narratore di teatro: oltre al portare in scena se stesso, presentandosi come persona vera e non come personaggio, collocandosi internamente alla storia (narrando in prima persona), oppure esternamente (come testimone che riferisce in terza persona), egli rende la sua proposta drammaturgica accessibile ad un vasto numero di fruitori, che la accolgono come momento di semplicità quotidiana, come un evento che non è banalità pur senza essere straordinario. Questo rapporto con il pubblico, non più di osservatori, ma di destinatari del racconto, evidenzia un ulteriore distacco dal teatro canonico: si narra non per mostrare, ma per il bisogno di comunicare. Decade, nell’idea dell’andare a teatro, ogni pregiudizio selettivo e snobistico, sostituito da un’esperienza ampiamente accessibile nel momento stesso in cui l’atto scenico si traduce in volontà comunicativa che è già di per sé “evento” e, soprattutto, evento reale, non in forza di un contenuto “realmente avvenuto”, ma perché la comunicazione “realmente” avviene in quel momento e prende i suoi strumenti dal linguaggio popolare. Che lingua usa, infatti, il narratore se non il lessico convenzionale per gli ascoltatori? Ne consegue l’operazione contraria rispetto alla “pulitura” della rappresentazione drammaturgica tradizionale in cui ogni accenno dialettale, ogni cadenza, accento o parlata vernacolare devono essere funzionali alla diegesi oppure banditi, ora le parole non servono per recitare, servono per conversare. Accettando quindi la comunicazione come elemento fondante del “teatro di narrazione” è possibile individuarne le coordinate cronologiche considerando questo genere in funzione della sua capacità di risposta ad un’esigenza sociale di interscambio attivo e propositivo, emersa nell’epoca della moltiplicazione di parole e messaggi privi (spesso privati) di contenuti, scaturita dalla cultura di una insostituibile immediatezza di percezione dell’immagine, avara poi di significati. Comunicare è una necessità umana e non è casuale che la riscoperta di un’azione narrativa (riscoperta rispetto alla tradizione dei giullari e dei cantastorie per i quali non si parla però di teatro) che ritrova la centralità dell’individuo e della parola in contrasto al momento prettamente rappresentativo, avvenga nell’era di maggiore decadenza e nel contempo di maggiore potenziale relazionale tra gli uomini. Le radici storiche della performance narrativa teatrale, vengono collocate negli anni ’60 e ’70 del Novecento. Precursore riconosciuto è Dario Fo, che senza disporre ancora di definizioni categoriche, con intenti forse più provocatori e sperimentali che per adesione consapevole ad un genere, si affranca dalle avanguardie coeve votate alla sottrazione di significati e alla proposta di significanti, cose e persone, puri e rinuncia a frapporre lo schermo del personaggio tra sé ed il pubblico. Fo si muove ancora, nei tardi anni Sessanta, nell’ambito della realtà teatrale di gruppo fondando, nel 1970, la compagnia La Comune, evoluzione dell’esperienza del collettivo Nuova Scena nata nel 1968 e non rinuncia neppure ad esporre la sua adesione ai movimenti politici di sinistra. Ma il con suo spettacolo del 1969, Mistero Buffo, tramite la costruzione dell’opera ispirata ai testi dei giullari medievali ed alle tecniche dei cantastorie popolari delle valli varesine, traccia una linea di demarcazione, permettendo di rilevare i prodromi di parte della successiva ricerca contenutistica del “teatro di narrazione”. La critica è concorde nel riconoscere la prima generazione di attori narratori in quella successiva a Fo, negli anni ’80 e ’90, registrandovi i nomi di Marco Paolini, Marco Baliani, Laura Curino, del regista Gabriele Vacis e, personalmente, concordo con coloro i quali ritengono opportuno aggiungere anche Moni Ovadia quale promotore dell’identità culturale yiddish tramite la fusione di musica e frammenti narrativi tratti dal repertorio orale popolare della tradizione ebraica. Similitudini e divergenze coesistono nelle opere dei narratori di prima generazione, tuttora attivissimi, tanto da diventare una coppia antinomica e complementare di termini ugualmente necessaria per definire questo parziale orientamento teatrale sviluppatosi tra gli anni ’80 e ’90. Da esperienze di teatro di formazione a contatto con il mondo infantile e dei ragazzi, si approda a forme di teatro narrativo civile, il giornalista Pier Giorgio Nosari lo definisce “dramma narrativo” se l’intreccio prevede la compresenza di diversi personaggi (ma di un solo attore). I tratti comuni alla maggioranza degli spettacoli di questi artisti sono individuabili nella frequente, ma non obbligatoria, proposta di temi di denuncia civile condotta in modo satirico e arricchita da spunti autobiografici; ricerche approfondite riguardo fatti di cronaca; frammenti letterari o narrativi sottoposti ad una originale personalizzazione narrativa prima di essere offerti al pubblico. Dovendo ricorrere a degli esempi, sarebbe opportuno citare, forse con poca originalità, ma con sicurezza esemplificativa, alcune opere di Marco Paolini, nell’ordine: Gli album, curati dal 1990 al 1995; Vajont 9 ottobre 1963 per la regia di Gabriele Vacis; il Bestiario Veneto ed il Bestiario Italiano e I TIGI canto per Ustica. Dal Vajont ad Ustica, sulle parole di Paolini si ripercorrono episodi della storia nazionale, l’esposizione di documenti ufficiali ed il racconto di fatti di vita così piccoli, così normali, tracciati come ricami sulla trama del racconto sostengono il paragone con le fonti epiche della letteratura. Gli Album ed il Bestiario propongono ironicamente elementi più personali, senza scinderli dallo sfondo degli eventi di cronaca e di storia ed in questo quadro emergono le molteplici sfaccettature che il “teatro di narrazione” è in grado di assumere pure in riferimento alla poetica di un medesimo autore. La materia trattata è vasta, gli spunti arrivano dalla vita; dalla storia; dalla letteratura sacra e profana: come non pensare, ad esempio, alla recente Leggenda Aurea. Le storie di Santa Barbara, dal sapore agiografico, presentata da Laura Curino, oppure ai riferimenti dissacranti all’informalità relazionale tra i mortali ed il mondo divino su cui Moni Ovadia imposta, senza scadere nel blasfemo, gran parte delle sue proposte? Qualunque traccia si segua, si arriva sempre e comunque a “stanare” il tentativo, neppure troppo occultato, di una riappropriazione del momento scenico da parte dell’identità dell’attore e di una rinnovata collocazione del reale nell’evento. Con precisione argomenti molteplici si stagliano su un panorama vario e variabile, rendendo le divergenze quantitativamente equivalenti alle somiglianze. Ed è altrettanto frequente, nel “teatro di narrazione”, un altro tipo di varietà che affianca quella contenutistica: il medesimo narratore, che si trova ad ideare storie diverse, in cui la sua identità funziona da elemento correlante, riunisce spesso in sé anche una molteplicità di competenze che rimanda all’impostazione più antica del teatro sia di ambito professionale, la Commedia dell’Arte in cui ognuno dei comici inseriti in una compagnia era responsabile del proprio repertorio, dei propri costumi, dei fondali comuni per le rappresentazioni; sia di ambito amatoriale cortigiano in cui coesistevano, nella medesima personalità artistica, il ruolo del drammaturgo, dello scenografo e spesso dell’attore dilettante. Nel primo caso si trattava di necessità economiche, nel secondo di mettere in gioco la formazione intellettuale aderente al modello umanistico a partire dal Rinascimento in poi, anche il narratore attuale è investito, oltre che dell’onere performativo, di quello compositivo rispetto alla strutturazione degli argomenti dello spettacolo, dell’impostazione scenografica e di quella registica, pure se il termine appare improprio inserito in una realtà in cui non è previsto il lavoro collettivo di una compagnia da dirigere, né l’attore si interpone tra un testo drammatico e l’interpretazione dello stesso da parte di un regista esterno. Non è inusuale, tuttavia, che la narrazione teatrale si arricchisca della compresenza sul palco di altri soggetti oltre all’autore, non attori ma portatori di arti complementari che, attivi nella performance, accrescono la complessità dello spettacolo e quindi la necessità di coordinare i vari momenti ed elementi in funzione della fluidità narrativa. In scena, accanto a Paolini, si sono susseguiti nei suoi diversi spettacoli, la cantante Giovanna Marini ed il gruppo italiano dei Mercanti di Liquori; Moni Ovadia ha esordito come musicista e attore e spesso si è esibito con gruppi musicali; Celestini lavora da anni con due musicisti: Gianluca Zammarelli e Matteo D’Agostino e per lo spettacolo Sirena dei mantici aveva al suo fianco la Fisorchestra Fancelli diretta dal maestro Marco Gatti e la cantante Lucilla Galeazzi. Si tratta di presenze sulla scena tutt’altro che nascoste o “separate” dall’atto narrativo in corso, perché celare la loro presenza decurterebbe una porzione di realtà. Dunque come esplicita Guido Di Palma: «É assolutamente vero che il tratto comune degli attuali protagonisti del teatro di narrazione è la loro diversità...» 3 TP PT La varietà non si omologa rispetto ad un modello, neppure con quella che i critici definiscono la “seconda generazione” di attori narratori. Ascanio Celestini, Davide Enia e Michele Sinisi sono i tre nomi più citati in questo contesto e comunemente accreditati a raccogliere l’eredità teatrale narrativa dei predecessori, non solo in funzione del mero scarto anagrafico. Nella poetica di questi tre artisti è ravvisabile un distacco rispetto alla generazione precedente in merito al quale l’aspetto autobiografico si inserisce nell’opera in modo ancora più pregnante, dal “teatro civile” ora si passa a promuove la centralità della “narrazione pura”. Dal punto di vista narrativo la componente favolistica e soggettiva si innesta, oppure accompagna, la trattazione di fatti storici e politici che non obbediscono ad una catalogante esposizione didascalica, ma si arricchiscono dell’elemento fantasioso e di una visione personalizzata, senza abbandonare tuttavia il territorio della correttezza fattuale. Ancor più si evidenziano le radici dell’autore tramite la collocazione delle storie nei rispettivi contesti di origine, per Enia Italia-Brasile 3 a 2, del 2002, è la tela su cui tracciare il ritratto di una Palermo euforica per i mondiali di calcio ed il suo personale vissuto, Sinisi ambienta i suoi ultimi spettacoli nella terra di Puglia da cui proviene e per Celestini Radio Clandestina e Scemo di Guerra diventano il pretesto per raffigurare la topografia capitolina, seguendo i passi dei protagonisti del racconto. Il personale diventa passaggio obbligato per veicolare il generale, esplicative le parole di Enia: «...quali soluzioni avrei a disposizione? Solo quella di concentrarmi su un particolare che, per la mia sensibilità ed esperienza, racchiude il tutto.» 4 TP PT Scegliendo l’adesione alla più esplicita spontaneità può verificarsi che la resa di una visione personalizzata avvenga tramite il filtro dello sguardo infantile. Quindi senza travestimenti o 3 Ivi, p. 89. P. PERAZZOLO , “La storia vista da vicino”, in «Famiglia cristiana», anno LXXV (n. 26/2005), pp. 98-99. Il corsivo è dell’autore dell’articolo. TP PT 4 TP PT dissimulazioni, Enia racconta il bombardamento di Palermo in Maggio ’43 grazie a parole sue, ma attraverso la percezione visiva del bambino Gioacchino. Analogo procedimento è quello di Celestini in Scemo di guerra, dove la sovrapposizione della voce del narratore allo sguardo di suo padre bambino durante la seconda guerra mondiale introduce l’ascoltatore nella zona di confluenza di un’esperienza personale, inserita in un quadro storico ufficiale e più vasto. Infine anche negli Album di Marco Paolini, autore situato in un’area artistica intermedia tra la “prima” e la “seconda” generazione, lo spettatore scopre che lo sguardo interposto tra storia e racconto è quello di Nicola, alter ego di Paolini stesso. In quest’ultima analisi non vedo altro che la conferma della vacuità di ogni schematizzazione rigida per quanto riguarda il “teatro di narrazione” che, data la frequenza di ricerca sperimentale delle diverse tecniche narrative, lo allontana da ogni sclerotizzazione. L’aspetto linguistico concorre, una volta ancora, all’espressione dell’identità narrante, affrancandosi dalla ricerca dei predecessori per i quali i termini del lessico popolare, l’inflessione veneta per Paolini, varesina per Fo, il mai mascherato accento straniero conseguenza della parlata yiddish per Ovadia, aderivano in ogni caso a dei modelli di correttezza grammaticale. La loro ricerca si commuta in un’esposizione con richiami normativi alla lingua italiana, con il “taglio letterario, un po’ estetizzante” che Italo Calvino, nella sua introduzione alle Fiabe Italiane del 1956 (Torino, Einaudi), attribuisce ai curatori di raccolte fiabesche in dialetto del secolo scorso. Celestini, Enia e Sinisi scelgono invece di proporre l’oralità nella sua forma più pura tramite l’inserimento di formule tipiche e reiterate delle favole, dei costrutti dialettali sgrammaticati, fino alla bizzarria del non senso delle filastrocche. L’innovazione narrativa e linguistica degli ultimi autori segna pertanto l’evoluzione ulteriore di un processo teatrale ben lontano dal concludersi e recettivo nei confronti di innumerevoli nuove soluzioni performative. Per concludere questa breve presentazione del “teatro di narrazione” è opportuna una riflessione sui luoghi in cui l’evento scenico vede attuarsi la sua proposta al pubblico: non solo edifici teatrali convenzionali, ma spazi connotati da una riconosciuta, condivisa funzione comunitaria, luoghi in cui attuare quel potenziale relazionale, di interazione, comunicazione e confronto che è fondante dell’atto del raccontare. La festa popolare, la diga del Vajont, la ferrovia, la fabbrica, il circolo, la scuola, il Museo della Liberazione, risultano contesti ugualmente evocativi e rispondenti alla necessità di rinnovare l’atto magico, per chiunque accetti di prendervi parte, del riconoscimento di sé all’interno di una cultura e di una memoria condivise. INTERVISTA CON ASCANIO CELESTINI 5 TP PT Emanuela Marzoli- Il “teatro di narrazione” da qualche tempo genera seguito e consensi, penso, oltre al tuo lavoro, a quello di altri autori, per esempio Marco Paolini, Laura Curino, Moni Ovadia. Secondo te si può parlare di “genere nuovo” oppure è più corretto pensarlo come “recupero” di un genere più antico? Ascanio Celestini- Credo sia nuova la percezione del fatto che anche questo è teatro. È nuovo il bisogno di staccarsi dalla fabbrica teatrale dove per un secolo abbiamo visto la catena di montaggio drammaturgo-regista-attore-costumista-scenografo... e forse è nuovo il bisogno di staccarsi dalla parola scritta, dalla letteratura per avvicinarsi e pescare dalla parola orale. E. M.- Se lo definissimo “genere”, per comodità linguistica, il “genere narrativo” e spesso i contenuti delle tue opere appartengono ad una tradizione più o meno remota e radicata. Come spieghi venga percepito come innovativo e contemporaneo e secondo te perché i nostri coetanei, o ragazzi ancora più giovani, amano tanto il teatro di narrazione? A. C.- Per quello che dicevo prima. Perché quando lavoro sulla parola non penso a Shakespeare o a Pirandello o a Pinter. Penso alle parole che ascolto nelle interviste che faccio. Cerco di parlare in teatro con parole dette e non con parole scritte. E. M.- Spesso non hai vissuto in prima persona i fatti di cui parli, il momento autobiografico è ravvisabile nell’averli “uditi raccontare”. Questo punto di vista ti permette di essere “testimonemediatore” più razionale e fedele, meno recriminatorio o passionale di un protagonista? A. C.- Non credo che per lo spettacolo che porto in scena ci sia una grande differenza. Semplicemente credo di non poter avere tanta esperienza per poter parlare di guerra, lavoro, manicomi ecc... e devo appoggiarmi alla memoria degli altri. Ma poi anche io lavoro sulla mia memoria. La mia memoria dell’ascolto delle memorie altrui. E. M.- La “storia ufficiale” a volte sembra una verità imposta dall’alto, si può dire che tu cerchi di divulgare la verità che parte dal basso, meno manipolata? Per esempio, la “radio clandestina” con le sue informazioni, può essere simbolo del tuo lavoro che diffonde dati certi, ma poco ufficiali? A. C.- No, credo che quella che tu chiami “verità imposta dall’alto” sia una storia senza persone. Una storia dove gli individui con la propria identità vengono frullati e resi indistinguibili in una massa (che in maniera più ipocrita si potrebbe dire “popolo”, ma sempre indistinguibili restano gli individui). Io cerco di raccontare le storie delle persone coi loro nomi e cognomi e forse in 5 La presente intervista è stata gentilmente concessa all’autrice da Ascanio Celestini, il quale ha fornito le risposte per iscritto, si è quindi ritenuto opportuno non alterare il testo e riportarlo in forma integrale. TP PT questo modo racconto una storia anche più parziale di quella “dall’alto”, ma più concreta. Il 24 marzo di ogni anno alle Ardeatine durante la cerimonia si leggono i nomi di tutti i morti nell’eccidio. Bisogna ricordare i nomi, nel senso delle identità. E. M.- La lingua che usi è un lessico popolare. Il linguista Gian Luigi Beccaria dice che le forme vernacolari sono proprie dell’immediatezza e dell’azione, mentre l’italiano è della riflessione e spiegazione, sei d’accordo? A. C.- Da una parte c’è il problema del teatro che soprattutto in questi ultimi anni è diventato l’ultimo baluardo di un italiano morto. Una lingua che non si parla da nessun’altra parte se non sul palcoscenico. Una lingua che non è manco letteraria, è solo “teatralesca”, una lingua con le sue pause ridicole e fintamente teatrali. Io cerco di parlare con la mia voce e con le mie pause, con la mia lingua. Scrivo i miei testi, ma non li imparo a memoria. Anche nel momento in cui sono in scena io scrivo. Pesco le parole da un vocabolario che mi appartiene. Non cerco di apparire immediato e spontaneo, cerco di esserlo. L’unica cosa che mi preparo è la storia, ma non le parole per dirla. E. M.- Come vedresti la ripresa dei tuoi testi da parte di altri attori? Usare la lingua popolare e raccontare vicende personali può costituire un limite a questo? Quanto può slegarsi, questo lavoro, dall’autore per essere riproposto da altri interpreti? A. C.- Ho visto il mio Fabbrica in Romania e in Belgio. In gennaio andrò a vederlo in Portogallo. In Romania era una messa in scena molto tradizionale, ma in Belgio è stato molto interessante. L’attore e il regista hanno pensato alla storia, pensavano che fosse interessante per loro e l’hanno semplicemente portata in scena. In Belgio mi conoscono pochissimo e non c’è stato nessun problema a portare in scena un mio testo, nessuno pensava come io lo porto in scena normalmente. Il racconto è personale nel senso che riguarda la persona che lo racconta. Tutto il teatro dovrebbe essere così. Non bisognerebbe scegliere un testo da portare in scena semplicemente perché è ben scritto, perché è un capolavoro... ma proprio perché è personale: riguarda la persona che lo porta in scena. E. M.- Ancora alla luce di questo, il “teatro di narrazione” italiano raccoglierebbe, o ha raccolto, consensi all’estero? A. C.- Forse un po’ ho già risposto. Quando vado all’estero sono sottotitolato. Tutti seguono benissimo (anche perché sono abituati ai film sottotitolati) e c’è una grande attenzione per questo genere. E. M.- Presenti scenografie semplici e non descrittivo-narrative, si può parlare di ricostruzione sulla scena di uno spazio mentale, interiore, della memoria, un po’ com’era per il regista polacco T. Kantor che concretizzava sul palco la soglia liminale della sua memoria da cui irrompevano le immagini mentali? A. C.- Penso alla scena come ad una stanza sul palcoscenico. Una stanza che non racconta la storia, ma che la contiene. Così come la mia camera da pranzo contiene il pranzo che sto facendo. È la mia camera e non rappresenta la storia che racconto, ma presenta una parte della mia identità. E. M.- Quando proponi i tuoi lavori sei accompagnato dalla musica di Gianluca Zammarelli e Matteo D’Agostino, oltre ad ascoltare la parola, si ascolta anche la musica, essa assume quindi valore icastico, evocativo e descrittivo? A. C.- In realtà ci sono solo due lavori che faccio con Gianluca e Matteo: La Fine del Mondo e Cecafumo. Il primo è uno spettacolo vero e proprio e il secondo è la raccolta di un repertorio di racconti più o meno tratti dalla tradizione popolare. Con loro il lavoro di improvvisazione per me si moltiplica. Io improvviso seguendo la musica e loro improvvisano ascoltando me. La musica non accompagna il racconto, ma è presente in maniera autonoma. Questa autonomia gli consente di interagire col racconto senza dover essere subalterna a esso. È presente come in una festa tradizionale dove la musica ha una sua autonomia rispetto al ballo (può essere ascoltata senza dover per forza ballare), ma non suona contro chi sta ballando e chi vuole può ballarci sopra. E. M.- La “morte”, i “morti”, compaiono spesso come concetto e come personaggi, perché? Sono estremamente attivi e affaccendati, servono loro per tenere viva la memoria, quasi che i “vivi” siano troppo impegnati ad esistere per ricordare? A. C.- La morte è una grande possibilità per il racconto. Il trapasso è la soglia. Io parlo quasi sempre di morti appena morti, di vivi che stanno morendo, di morti che risorgono. A me interessa questa soglia (anche in Vita Morte e Miracoli dove c’è il marito di Mariona che è morto da molto tempo: ma ora si trova nel momento in cui deve scegliere se andare all’inferno o in paradiso). A me interessa la soglia. Il momento tra il-dentro-e-il-fuori. Mi interessa l’identità perciò lavoro sul tema della crisi d’identità. Mi interessa quella che Ernesto De Martino chiamava crisi della presenza. E. M.- In Bella Ciao, recentemente, distinguevi tra la “testimonianza” e la “memoria”, preferendo quest’ultimo termine in rapporto al tuo lavoro. Per Primo Levi la “testimonianza” era dovere e salvezza, per te cosa significa aiutare a ricordare e conoscere? A. C.- La memoria è come quando uno ha bisogno di ritrovare dove ha parcheggiato la macchina. L’ha parcheggiata ieri sera che era notte in qualche strada dietro casa sua e mo’ non si ricorda dove l’ha messa. Incomincia a riflettere sulla strada che ha fatto a piedi per tornarsene a casa, cerca di ricordarsi se gli è successo qualcosa di particolare, recupera l’immagine di una scritta sul muro o l’insegna di un locale. La macchina è stata parcheggiata diverse ore fa, un tempo che riguarda il passato. Ma è nel presente che ha bisogno di recuperare la memoria perché nel futuro dovrà raggiungere il posto di lavoro e non può farlo senza la propria macchina. Nel senso che la memoria riguarda noi come persone e il tempo che stiamo vivendo ora anche se ci ricollega al passato. Ma non è un passato nostalgico, non è la storia che ci insegnano a scuola, la retorica storia dei popoli che ha bisogno degli individui solo per trasformarli in santi ed eroi. Preferisco non usare la parola “testimonianza” perché porta con sé un senso di oggettività che non credo sia adatto al racconto personale. In tribunale una testimonianza può mandare in galera qualcuno. La riproduzione e/o la citazione di questo testo, anche se parziali, sono consentite solo citando la fonte: Emanuela Marzoli, Ascanio Celestini e il suo teatro di narrazione, www.klpteatro.it Per leggere l’intera tesi di laurea o avere ulteriori informazioni contattare l’autore al seguente indirizzo: [email protected]