Paradigmi del giocatore d’azzardo patologico. Paradigmi della cura del giocatore
d’azzardo patologico
Giuseppe Iraci Sareri1
Pubblicato in “Gambling: dati, ricerche, intervento”. Rivista Itaca anno XIV n° 33. Alpes Edizioni 2011
Abstrat. Questo articolo mira a fornire una sintesi dei paradigmi attuali relativamente al gioco
d’azzardo patologico ed a quelli maggiormente riconosciuti ed utilizzati nella cura della patologia
del gioco d’azzardo. L’attenzione è posta prevalentemente sulla patologia da gioco, da intendersi
anche come sinonimo di addiction, punto questo che seppure stia trovando sempre più consenso
non è ancora del tutto condiviso. Come l’inquadramento diagnostico non trova ancora un
generale consenso, anche i trattamenti esistenti sono molto variegati. I paradigmi presentati
sono basati facendo riferimento al panorama delle conoscenze attuali in materia . Ogni
paradigma ha probabilmente sue carenze o margini d’errore sui quali la ricerca scientifica sta
producendo nuove informazioni e miglioramenti.
1. Fenomenologia del gioco d’azzardo patologico.
Il gioco, già nelle forme più semplici e nella vita animale, è qualcosa di più che un fenomeno
puramente fisiologico e una reazione psichica fisiologicamente determinata. Il gioco come tale
oltrepassa i limiti dell’attività puramente biologica: è una funzione che contiene un senso. Al gioco
partecipa qualcosa che oltrepassa l’immediato istinto a mantenere la vita, e che mette un senso
nell’azione del giocare “La civiltà umana sorge e si sviluppa nel gioco, come gioco” e dunque
l’uomo, non meno che faber e sapiens è uomo ludens (Huizinga, 1982).
Il semplice incontro con il gioco non porta necessariamente all'evoluzione di un quadro patologico
poiché sono necessari diversi elementi per trasformare un’innocua attività in una condotta di
dipendenza. La dipendenza è infatti sempre la risultante di un processo che vede il concorso e
l'interazione di fattori diversi legati alla persona ( biologici, psicologici, fasi evolutive), al contesto
micro sociale (famiglia, ambiente di vita), macrosociale ( momento storico, culturale, economico)
ed all'incontro con una sostanza o la sperimentazione di un comportamento: in questo caso il
gioco. Tuttavia nei percorsi delle persone che hanno sviluppato problemi con il gioco è possibile
riscontrare una insidiosa e spesso silenziosa evoluzione del quadro dall'incontro con il gioco alla
vera e propria compulsività. Secondo Custer (1984) la prima fase del percorso (denominata fase
vincente) vede un gioco occasionale caratterizzato dal desiderio di divertirsi, di distrarsi, di vincere,
di trascorrere il tempo. In questa fase le vincite appaiono frequenti e facili e le perdite irrilevanti.
Si manifesta l'eccitazione legata al gioco e la sensazione di "potere smettere quando si vuole". A
questa fase subentra una fase perdente caratterizzata da un gioco sempre più solitario e con
episodi di perdite sempre più rilevanti. In tale fase il gioco appare sempre più monopolizzare il
pensiero e le preoccupazioni del soggetto. Le assenze e la mancanza di denaro risultano sempre
più difficili da sostenere e la rabbia, la depressione, l'irritabilità sono crescenti. Il denaro chiesto in
prestito finisce presto e le vincite vengono reinvestite nel gioco dove diventa necessario rischiare
maggiormente e scommettere su combinazioni e tipi di giochi che promettono maggiori guadagni,
anche se con minori probabilità. E' in questa fase che si rischia di ricorrere a prestiti a tasso di
usura per fare fronte alla necessità di giocare. Il giocatore chiede sempre più denaro ma risulta
1
Direttore Gruppo Incontro di Pistoia. Responsabile Progetto Altro Azzardo.
Vicepresidente ITACA ITALIA
incapace di risarcire i debiti contratti e s’innesca a questo punto la fase della rincorsa della perdita
dove il ricorso al gioco è giustificato dalla necessità di potersi rifare del denaro perso. Il rischio di
escalation può essere pericolosamente aumentato da tanti fattori tra i quali, ad esempio, la
sensazione di "avvicinarsi" alla vincita. Magari ci si era promessi di giocare pochi soldi e per poco
tempo, i soldi sono stati persi ed il tempo prefissato è finito ma si continua a giocare. E quando
subentra anche la più piccola vincita questa viene colta come una conferma del fatto che , “le cose
cominciano a girare" e sia necessario continuare a giocare sempre più per recuperare il denaro
perso. Tale rincorsa diventa sempre più intensa ed assillante ed anche quando finisce la sessione
di gioco, più spesso per mancanza di denaro che per decisione, il pensiero ritorna al gioco. I
numeri, le combinazioni, le ricorrenze, si trasformano da entità astratte a elementi che si pensa di
potere controllare e prevedere ed il mondo del gioco con le sue complicità e giustificazioni diventa
gradualmente un'isola, una fuga dalla vita reale e dalla quotidianità. La vita "normale", sempre più
caratterizzata da debiti, dalle incomprensioni della famiglia, dal lavoro che si trascura, dai problemi
che si rimandano e che si amplificano, dalla perdita di fiducia e di stima, diventa sempre più
svalutante e problematica. Il mondo del gioco con le sue complicità e le sue giustificazioni, anche
grazie agli alterni anche se ininfluenti momenti di fortuna, diviene sempre più il mondo "vero",
quello per il quale vale la pena di vivere, di rischiare, di insistere e soffrire. Il senso di colpa e di
fallimento vengono negati, razionalizzati o giustificati dal pensiero di potersi rifare e poterne uscire
"da vincitore" come se fosse una sorta di riscatto. Ma il continuare in questa strada non può che
portare alla fase della disperazione. Tale fase può presentare acuti momenti di angoscia e di
rischio di suicidio legati alla presa di coscienza dei problemi economici e relazionali, ma
nonostante il giocatore comprenda la gravità della situazione raramente riesce ad abbandonare il
gioco. E' in questa fase che il giocatore rischia di assumere comportamenti incompatibili con i
precedenti valori morali arrivando anche a compiere "piccoli reati" o distrazioni di denaro che
tuttavia possono essere considerati come un prestito che poi sarà restituito. A questo punto si
aprono quattro diverse possibilità: la carcerazione, la fuga, il suicidio o la richiesta di aiuto. Spesso
tali diverse eventualità si presentano alternativamente e la costante rischia di rimanere il
continuare a giocare o il ricadere nel gioco.
Un efficace descrizione del gioco d’azzardo e della psicologia del giocatore ci è offerta da
Tommaso Landolfi che nel suo famoso libro “Rien va” (1960) scrive: “ Gioco. Premessa: non parlo del
gioco che è soddisfazione di qualche inclinazione decorativa, del gioco ghirigoro o di quello che risponde a
qualche velleità compositiva, simula o sostituisce una composizione appunto o creazione; ma del vero e
puro, quello d’azzardo. Aggiungo giacchè ci sono che, ove fossero ammissibili le scuole, vi introdurrei questo
obbligatoriamente nel suo valore formativo o almeno rivelativo del carattere. Rilevo infine preliminarmente
che molti spiriti attenti ignorano, pure, il gioco o assurdamente pensano di poterne fare a meno, come
esperienza, come oggetto di riflessione e indagine: quasi non fosse uno dei grandi motori dell’umanità, sotto
varie forme e al medesimo titolo del resto.
Invitato a definire il gioco, direi forse che è una volontà di potenza; la quale, si è tentati di soggiungere,
porta in sé stessa il proprio castigo (daccapo questo giro di parole!). In realtà la questione non sembra si
possa risolvere in termini morali. E qui si darebbe in un saggio con tutte le regole; difficile anche solo
ordinare le idee in proposito, procedo a caso. Ho spesso insistito su ciò che la soluzione naturale (non dico
necessaria, benché lo sia per altro verso) del gioco è la perdita, così come la soluzione naturale dell’alta
febbre napoleonica è Waterloo. Né arriverò a dire che la volontà di potenza sia di per sé volontà di
annullamento; ma certo essa è malanno sentito abbastanza chiaramente come tale, come malanno, dagli
interessati, sicchè deve, e per legge naturale di equilibrio e in certo modo per volere stesso di chi ne è
affetto, tendere al ripristinamento di uno stato primo; che è stato di quiete, di riposo, di pace originaria
(questa di fatto, al di là delle apparenze, sembra essere la suprema aspirazione dell’uomo. Donde la sua
volontà di morte, senza la quale morte non vi sarebbe. Quasi la vita fosse in profondo percepita come
fastidio, come qualcosa che “sgomenta gli eterni riposi”); quella pace che, ogni giocatore lo sa, nel gioco
non è conseguibile se non con la perdita. Ma questo modo di argomentare non deve essere ineccepibile, e
può darsi vi si annidi qualche vizio logico. In poche parole, la volontà di potenza e il gioco sono di segno
negativo ed ambedue tendono ad una volontà di morte, se pure non si identificano con essa.
Sorgerebbe a questo punto la questione se il gioco sia o no attività compensatoria, secondo altra volta ho
affermato. Non mi sentirei ora di riaffermarlo, atteso che il suo oggetto indispensabile è concreto, è cioè il
denaro. Si può per altro opporre che questo ha qui funzione perennemente potenziale, quale di mezzo e
carica indefinita, sto per dire indefinitivamente romantica (se l’intrusione di tale aggettivo non fosse
sorprendente): non il denaro in sé è lo scopo od oggetto del gioco, ma il denaro per le illusoriamente infinite
possibilità che comporta, delle quali taluna si fissa volta a volta nella mente del giocatore. Inoltre, o forse
seguitando, nessun vero giocatore accetterebbe una vincita quanto si voglia vistosa a patto di non giocare.
E che vuol dir ciò? Tutto tranne che,come si pensa dai più, al giocatore interessa il gioco in quanto tale. Né è
che egli, nella sua avidità (di ciò che si chiama facile guadagno. Oh insipienza e ignoranza:avido il
giocatore? Facili i guadagni del gioco?) non voglia come quel tale papa porre limiti alla generosità divina.
Gli è se mai che ne andrebbe della sua dignità, non mica di uomo ma di giocatore; gli è soprattutto, forse,
che verrebbe a mancargli la chance sovrana e più imperiosa, la perdita.
Sono stanco, e cosa concludo? Nulla .”
2. Paradigmi della patologia del giocatore d’azzardo
Il giocatore d’azzardo patologico può essere definito in diversi modi a secondo del vertice di
osservazione con cui si guarda ad esso. Dobbiamo riconoscere che seppur venuto alla ribalta nei
sistemi e servizi di cura solo nell’ultimo ventennio, la figura del giocatore è stata più volte al centro
di narrazioni e rappresentazioni che hanno affascinato la maggioranza delle persone. Il paradigma
prevalente in passato è stato quello del “vizioso, peccatore, delinquente, ecc..” ed ancora tutt’oggi
l’uomo di strada lo considera tale. Da non sottovalutare comunque che in parte anche in chi si
propone come un attore della cura di questa patologia può prevalere una visione moralistica.
Secondo la connotazione che diamo a questo problema dunque, scegliamo una chiave di lettura
che va a determinare la cura.
Nella figura 1 di seguito riportata, si sintetizzano i paradigmi della patologia del gioco individuando
gli obbiettivi generali della cura ed il tipo di relazioni professionali che si instaurano a seconda dei
modelli.
Fig. 1
Paradigma
medico
Le cause della Priorità della
biologia
dipendenza
Malato
Il dipendente
La cura
Rimozione
sintomo
del
Il rapporto
Professionista
sanitario/malato
Paradigma
psicologico
Paradigma
sociosanitario
Paradigma
Pastorale
Psicologiche
biografiche
Portatore
di
problemi psicologico
evolutivi
Azione
sulla
consapevolezza
Contesto familiare
e sociale
Soggetto
sociale
disfunzionale
Morali/spirituali
Tendenzialmente
paritario
Stabilizzazione
(riduzione
del
danno)
Da agenzia sociale
Un
fragile
(peccatore)
da
aiutare
Cambiamento
esistenziale
L’abbraccio
comunitario
Gli scenari ed il tipo di risposte che i diversi paradigmi possono generare sono sicuramente a
rischio di “elevata variabilità dei trattamenti” con conseguente impossibilità a verificare in modo
comparato i risultati raggiunti . Tale impossibilità è legata ad una confusione dei linguaggi utilizzati
e dei significati attribuiti a determinati fenomeni. Inoltre, per ragioni di narcisismo dei modelli, è
nota la svalutazione reciproca dei diversi approcci nonché, a volte, il boicottaggio reciproco dei
modelli di intervento.
Come nelle altre forme di addiction queste differenze, se ben integrate, possono rappresentare
una ricchezza nelle offerte dei trattamenti che riusciremo ad impostare.
La consapevolezza della complessità unitamente ad un integrazione dinamica tra gli approcci
rappresenta l’unica strada percorribile. Un trattamento che voglia essere efficace dovrà integrare
i principi generali del cambiamento comportamentale a elementi specifici legati al gioco d’azzardo.
Ad esempio c’è un generale consenso sul fatto che i pensieri irrazionali ( quali la credenza nella
fortuna e l’illusione del controllo), le questioni economiche della grande vincita siano
caratteristiche sia specifiche che fondamentali del gioco d’azzardo. Questi aspetti devono essere
tenuti in considerazione quando si sceglie di adattare un trattamento generale per le dipendenze
al caso specifico del gioco d’azzardo. (Whelan, Steenbergh & Meyers, 2010)
3. Inquadramento diagnostico. Paradigmi attuali
3.1 Un Disturbo Psichiatrico Multiforme
Il DSM-IV colloca ufficialmente il Gioco d’Azzardo Patologico (GAP) all’interno dei “Disturbi del
Controllo degli Impulsi Non Classificati Altrove”, definendolo come una modalità maladattiva di
gioco d’azzardo, caratterizzata da perdita di controllo sul comportamento e gravi problemi
conseguenti in diverse aree vitali. In questa eccezione il GAP tende a perdere connotazioni morali
per essere inserito in quei Disturbi Mentali caratterizzati dal venir meno del controllo volontario e
dall’instaurarsi di stili di vita e di pensiero talmente pervasivi da divenire, nelle fasi avanzate,
l’unica modalità di funzionamento psichico e fisico.
L’impostazione del DSM essendo come noto una classificazione categoriale, fa emergere effetti
paradossali per l’ambiguità che deriva dalla proposta di specifiche caselle nosografiche, mentre lo
stesso DSM IV afferma che “non si assume con certezza che ciascuna categoria di disturbo
mentale sia completamente un’entità discreta con confini assoluti”. Ciò genera ambiguità e
interpretazioni differenziate.
Il GAP ha ad esempio grande affinità con il gruppo dei Disturbi Ossessivo-Compulsivi (DOC) e
soprattutto con i Comportamenti d’Abuso e le Dipendenze patologiche cosa che, in termini
generali, lo può fare considerare un disturbo psichiatrico multiforme che nella pratica clinica
permette di osservare una estrema variabilità di segni e sintomi. Forse però, sottolinea Croce
(2003), al di là della felice o meno collocazione dei giocatori d’azzardo patologici nel DSM–IV, il
rischio più grosso consiste nell’essere indotti a pensare ai giocatori come ad una categoria
omogenea. Le persone che incontrano i criteri per essere definiti giocatori patologici, in realtà a
loro volta costituiscono un gruppo molto ampio che va diviso in sottocategorie molto diverse tra
loro per l’evoluzione del sintomo, struttura di personalità, indicazione di trattamento e prognosi.
Studi recenti relativi agli outcomes (Blaszczynsky, 1996, 2000; Blaszczynsky & Steel 1998;
Blaszczynsky & Nower, 2000; Gonzales-Ibanez, 2001) hanno provato a considerare e sostanziare
l’ipotesi che il giocatore patologico, così come è definito dal DSM-IV (1994), non appartenga ad
una categoria omogenea. Blaszczynsky (2000) ipotizza la presenza di tre sottogruppi:
1. Giocatori patologici-non patologici. Soggetti caratterizzati dall’assenza di ogni specifica diagnosi
di premorbidità ma che sulla base ad esempio di credenze erronee o di distorsioni di tipo cognitivo
possono incontrare criteri del DSM IV (1994) quali ad esempio la preoccupazione per il gioco e la
rincorsa delle perdite. Generalmente non è concomitante l’abuso di sostanze ed inoltre l’ansia e la
depressione possono essere interpretabili come risultato, e non causa, del gioco. Presentano
un’alta compliance al trattamento ed a conclusione dello stesso possono raggiungere un rapporto
con il gioco moderato.
2. Giocatori emotivamente disturbati. Sottogruppo che presenta le stesse determinanti del
gruppo precedente ma, in aggiunta, questi soggetti presentano precondizioni di morbilità all’ansia
e/o alla depressione, una storia di povertà nel fare fronte alle difficoltà, un background familiare
negativo. Il ricorso al gioco sembra motivato dal desiderio di modulare gli stati affettivi.
3. Giocatori con correlati biologici. I soggetti di questo sottogruppo presentano maggiori indici di
severità patologica, una vulnerabilità biologica, tratti di impulsività nel comportamento e deficit
nell’attenzione che spesso precederebbe il gioco. Sarebbero inoltre caratterizzati dalla presenza di
preesistenti fattori di vulnerabilità: familiarità al gioco d’azzardo, tratti di personalità nevrotica,
premorbilità a depressione, ansia, dipendenza da sostanze, tendenza alla fuga o all’ aggressività
passiva ed esperienze negative nello sviluppo. Il ricorso al gioco risponderebbe al bisogno di
raggiungere uno stato di fuga attraverso l’effetto della dissociazione, un’alterazione dell’umore ed
un restringimento dell’attenzione. Evidenziano inoltre una marcata propensione a trovare attività
gratificanti ed una incapacità di posticipare la gratificazione.
Hollander e altri (2000) sostengono l’ipotesi che il gioco patologico possa essere equiparato ai
Disturbi Ossessivo-Compulsivi e tale ipotesi sembra essere supportata da alcune analogie
psicopatologiche riferibili soprattutto alla ripetitività dei comportamenti ed ai ricorrenti pensieri
centrati sul tema del gioco. La riscontrata efficacia dei trattamenti farmacologici con clomipramina
ed i risultati di alcune ricerche (Blaszczynsky, 1996), condotte però su piccoli campioni, sembrano
comprovare la possibilità che il GAP possieda una “dimensione ossessiva”. Tale prospettiva teorica
è stata però anche contestata, in particolare da Pancheri (1998) il quale afferma che l’impulso a
giocare, benché continuativo, non manifesta l’intrusività e l’afinalismo delle ossessioni, appare
egosintonico e le possibili remore del giocatore si riferiscono più all’anticipazione delle eventuali
conseguenze negative che all’atto in sé; inoltre, l’autore precisa, la condotta di gioco non ha
carattere difensivo, non viene giudicata irragionevole o eccessiva e si esprime in un contesto di
“intenzionalità e premeditazione” che la distanzia sensibilmente dalla compulsione.
3.2 Una Dipendenza
Il primo studioso ad elaborare l’ipotesi che il gioco d’azzardo potesse essere una “dipendenza
psicologica di tipo morboso” fu Moran nel 1970 ed anche Lesieur nel 1986 aveva sostenuto che,
sia per l’uso di sostanze, sia per il ricorso al gioco d’azzardo, non si potesse parlare di pura e
semplice ricerca di piacere, ma della ricerca di un’esperienza dissociativa transitoria con la
funzione di permettere al soggetto di uscire temporaneamente dalla realtà per risolvere una
condizione di disagio persistente e percepirsi in modo più positivo. Custer (1984) aveva
evidenziato somiglianze, all’interno dei programmi di trattamento e degli incontri dei Gamblers
Anonymous, tra i giocatori ed i soggetti dediti alle droghe.
Gli stessi criteri diagnostici del DSM–IV (1994) avvicinano il disturbo GAP alle patologie di
Dipendenza tanto che, sostituendo il termine gioco d’azzardo a quello di sostanza psicoattiva, si
trova la sostanziale equivalenza di otto criteri su dieci. Farebbero eccezione il criterio 6 che
descrive la tipica rincorsa alla perdita del giocatore (chasing) ed il criterio 10 relativo al fare
affidamento ad altri per affrontare una situazione finanziaria causata dal gioco anche se
comportamenti simili si troverebbero nei tossicomani.
Una crescente mole di evidenze empiriche dunque, ha indotto numerosi ricercatori a considerare
il GAP come una forma di “dipendenza” (Addiction) che, sebbene non comporti l’assunzione di
sostanze psicoattive, implica l’insorgenza di un quadro sindromico equivalente (Jacobs, 1986).
Cancrini (1996) ha rinforzato tale posizione osservando come per il giocatore d’azzardo ciò che
conta realmente è l’azione, lo stato di eccitazione e di euforia paragonabile a quello indotto dalla
cocaina o altre droghe.
Molti elementi depongono a favore del considerare il gioco d’azzardo patologico una condotta di
addiction e questo anche in considerazione del fatto che lo stesso concetto di addiction sembra
ampliare il proprio dominio comprendendo anche fenomeni quali i disturbi del comportamento
alimentare, lo shopping compulsivo, l’Internet addiction, ecc. (Croce, 2001).
La dipendenza patologica, sia da una sostanza sia da un comportamento, sembra essere
caratterizzata da un elemento unificatore definibile come “Craving”, una attrazione cosi forte
verso alcune sostanze o esperienze, da comportare la perdita del controllo e una serie di azioni
tese alla soddisfazione del desiderio, anche in presenza di forti ostacoli o pericoli. Ciò non significa
che tutte le forme di dipendenza comportino il fenomeno del craving. Le ricerche attuali ritengono
infatti che i fenomeni della dipendenza debbano essere situati lungo un continuum che va dal
normale al patologico. Ad un estremo si collocano gli stati di dipendenza morbosa caratterizzata
da craving-tolleranza-astinenza a cui seguono gli stati di dipendenza da sostanze, oggetti o
comportamenti che non influenzano la cognizione, l’affettività o la volontà. L’altro estremo del
continuum comprende stati motivazionali e sensoriali che non hanno nulla a che fare con
l’attivazione dell’aurousal o con il bisogno di alleviare una qualche forma di dolore come ad
esempio il desiderio di fumare una sigaretta dopo un pasto (Caretti & Di Cesare 2005).
In entrambe le patologie (dipendenza da sostanze e GAP) risulta esserci una correlazione con
un’alterazione del sistema della gratificazione, caratterizzata da craving e da una coartazione delle
modalità e dei mezzi con cui il soggetto si procura il piacere (Bignamini et al., 2006).
Il concetto di piacere e di gratificazione sono importanti perché è noto da tempo che i meccanismi
di gratificazione sono fondamentali per la sopravvivenza della specie (sesso, cibo, aggressività,
ecc …) e procurano soddisfazioni forti che incitano ad una reiterazione del comportamento.
Il bisogno di riprovare la sensazione piacevole prevale sugli altri bisogni, anche se primari. Ne
consegue un’alterazione del pensiero, dell’affettività e del comportamento.
La ripetizione della stimolazione induce una alterazione della condizione neuropsicofisiologica nel
soggetto (tolleranza ed astinenza) e cambiamenti comportamentali e psicologici.
In questa accezione il gioco d’azzardo patologico si potrebbe allora così definire: “una condizione
patologica correlata ad un’alterazione del sistema della gratificazione e ad una coartazione della
modalità e dei mezzi con cui il soggetto si procura piacere, caratterizzata da craving e da una
relazione con un oggetto (comportamento di gioco) connotata da reiterazione e marcata difficoltà
alla rinuncia” (Bignamini et al. 2006).
Da ciò deriva il fatto che l’interruzione del comportamento di gioco, in molti casi, comporta nel
paziente sia disturbi fisici che psicologici simili alla sindrome d’astinenza.
3.3 GAP e comorbilità psichiatrica
Il GAP appare di grande interesse per i numerosi aspetti di collegamento con altre patologie
psichiatriche. In particolare la clinica ed i test psicologici suggeriscono una forte comorbilità con i
disturbi affettivi (soprattutto la depressione), i disturbi di personalità e gli stati di dipendenza.
Noto è infatti come la probabilità di trovare persone con problemi di gioco d’azzardo patologico
tra i dipendenti da sostanza sia più alta che nel resto della popolazione, così come è maggiore la
probabilità di trovare tra i giocatori persone che usano, abusano, hanno abusato di sostanze.
Inoltre non sono rari i casi di coloro che sostituiscono, integrano oppure alternano “l’essere
tossicodipendenti o alcolisti” con il gioco d’azzardo (Croce et al, 2005).
Molti studi riportano una possibile associazione tra GAP e Disturbi Affettivi, in particolare è stata
segnalata un’elevata incidenza di sintomi depressivi. In uno studio condotto negli Stati Uniti
(McCormick et al., 1984) su un campione di pazienti ospedalizzati per gioco d’azzardo patologico
sono stati rilevati tassi di comorbilità per alcuni disturbi dell’umore (76% depressione maggiore,
38% episodio ipomaniacale, 8% episodio maniacale) e nelle forme più gravi è accertata la
presenza di ideazione e/o comportamenti suicidari.
Spesso il giocatore si accosta al “tavolo verde” per contrastare, almeno temporaneamente, vissuti
disforici ed allontanare il peso insostenibile di stress, preoccupazioni, ansie.
Secondo Rosenthal (1992) e Cancrini (1996) il GAP possiede le caratteristiche più evidenti delle
strutture di personalità borderline come l’oscillazione violenta del tono dell’umore, il forte
coinvolgimento, le difficoltà di controllo ed altre manifestazioni di labilità dell’Io, drammaticità e
precarietà delle relazioni interpersonali.
Altre ricerche suggeriscono inoltre che tra i giocatori patologici possano essere comuni il disturbo
narcisistico (Rosenthal, 1997), il disturbo borderline (Perinelli, 2003; Montalvo e Echeburùn, 2004)
e quello antisociale (Blaszczynsky et al., 1997; Perinelli, 2003) così come avviene tra i dipendenti
da sostanze (Gerra & Frati, 2000).
4. Paradigmi di cura
Per ragioni di spazio e di parziali conoscenze dei paradigmi fisiologici e neurobiologici preferisco
non trattare questo aspetto, rimandando a letture di autori più autorevoli su queste scienze.
4.1 Paradigma Comportamentista
L’analisi behaviorista del GAP rappresenta senza dubbio un tentativo di spiegazione eziologica
parsimonioso ed elegante; in effetti, tutti i giochi d’azzardo, ridotti all’essenziale, sembrano essere
costituiti da specifici processi di condizionamento Skinneriano, le cui caratteristiche principali
sono:
- rinforzi positivi “Stimolo-risposta” potenti (e.g., il denaro), predisposti in quantità ottimali
(le vincite sono particolarmente allettanti);
- un costo di risposta accettabile (gioco senza regole complicate, lieve sforzo fisico);
- programmi di rafforzamento efficaci;
- relazioni temporali adeguate (il tempo intercorrente tra una combinazione vincente e il
relativo conseguimento del premio o guadagno è minimo).
L’ipotesi più semplice è che l’emissione dell’operante (O) scommettere venga aumentata e
mantenuta mediante una schema a rapporto variabile (RV), la cui peculiarità consiste nel produrre
un’elevata e regolare frequenza di risposta, nonché una pronunciata resistenza all’estinzione,
come rilevato da Pessotti (1970).
Tuttavia, McCown et al. (2000) rilevano che in setting naturalistici i condizionamenti a rapporto RV
alto vengono appresi con difficoltà e che, molto spesso, i comportamenti da condizionare cessano
prematuramente di essere emessi, poiché - nelle fasi iniziali del potenziale rafforzamento – le
ricompense “non giungono abbastanza velocemente”.
Al di là della constatazione che proprio i giocatori problematici sperimenterebbero una “grossa
vincita” -Big win- all’inizio della loro carriera, una possibile soluzione al problema è stata proposta
da Reid (1986) con l’introduzione del concetto di “Vincita mancata” -Near Miss-. Più precisamente,
nel caso dei giochi di azzardo, l’autore sostiene che una particolare classe di esiti “non paganti”
agisca comunque da S+r, perché percepita dai soggetti come relativamente “affine” all’esperienza
di vincita e dunque partecipe della sua natura rinforzante; ad esempio, nei biglietti delle lotterie
istantanee una combinazione di due simboli vincenti su tre genera la sensazione che il colpo
fortunato sia “sfuggito” per poco e che ciò rappresenti un buon indice dell’approssimarsi
dell’effettivo successo. In questo senso, la nozione di Near Miss - sebbene possieda un valore di
rinforzo limitato - abbassa efficacemente il rapporto O-S+r.
Le ipotesi comportamentiste fin qui esposte sono state oggetto di critica da parte di alcuni
ricercatori ( Walker, 1992) che hanno rimarcato come, nell’ambito della ricerca sui giochi
d’azzardo, diversi riscontri empirici contrastino con gli assunti classici del condizionamento
Skinneriano; ad esempio, è stato notato che:
a. contrariamente alle aspettative teoriche, la quantità di rinforzo non correla positivamente con il
rateo delle risposte: dopo una vincita consistente, gli individui cessano temporaneamente di
scommettere, invece di aumentare la propria attività di gioco;
b. gli esiti “non vincenti” - configurandosi come stimoli avversivi (perdita del denaro associato alla
puntata) - dovrebbero diminuire la frequenza di emissione dell’operante scommettere; in realtà,
nel caso dei giocatori patologici, ciò non avviene.
L’approccio comportamentale considera il Gap come un comportamento disfunzionale appreso e
mantenuto da una serie di rinforzi positivi e/o negativi. Partendo da tali presupposti, gli interventi
a livello comportamentale verteranno necessariamente alla modificazione di tali comportamenti
nella direzione di un loro maggior adattamento. Le tecniche comportamentiste rivelatesi efficaci in
tal senso sono: la terapia avversiva (utilizzata specie negli anni ‘60-‘70), la sazietà degli stimoli, la
desensibilizzazione immaginativa/in vivo, la contingenza di rinforzo, i comportamenti alternativi, il
modellamento.
4.2 Paradigma Cognitivo
L’approccio cognitivo ha evidenziato come le false credenze e percezioni errate svolgano un ruolo
chiave nello sviluppo e mantenimento dei problemi legati al gioco. In particolare gli errori cognitivi
più ricorrenti nei giocatori incalliti riguardano: l’illusione di controllo (mancata percezione della
casualità dei risultati al gioco), l’intrappolamento (-chasing-; falsa credenza che la perseveranza al
gioco verrà, prima o poi, premiata con una vincita), la fallacia di Montecarlo (sovrastima della
probabilità di vincere in seguito a una serie di scommesse perse e sottostima della probabilità di
vincere in seguito a una serie di scommesse vinte), la “quasi vincita” (perdita al gioco considerata
dal giocatore come molto vicina alla vittoria; a livello comportamentale, ha lo stesso effetto
condizionante di una vincita), nonché numerose teorie pseudo matematiche (Ladouceur, 2000). Il
trattamento cognitivo pone come principali obiettivi da perseguire, oltre che la comprensione
della casualità dei risultati dell’azzardo, anche l’individuazione delle false credenze e percezioni
errate messe in atto durante il gioco e la correzione cognitiva delle stesse.
Una parte rilevante del ragionamento umano consiste nella formulazione di previsioni su eventi
incerti, nella costruzione di ipotesi attraverso cui conoscere il futuro.
Storicamente, l’interesse per questi aspetti del funzionamento mentale risale alla nascita della
teoria attributiva di Heider negli anni ’50 e alle sue successive elaborazioni (Jones & Davis, 1965;
Kelly, 1967); tali concettualizzazioni, oggi definite “classiche”, hanno contribuito a promuovere
l’erronea immagine di un essere umano totalmente razionale che elabora sofisticate operazioni
concettuali in armonia ai principi dell’epistemologia scientifica; le eventuali deviazioni da un
simile ragionare si configurano, quindi, come errori cognitivi che allontanano l’individuo da un
presunto (e conseguibile) criterio di validità oggettiva.
La precedente posizione teorica è stata tuttavia confutata dai risultati di diverse ricerche
empiriche (Tversky & Kahneman 1971; 1973, 1974): l’attività intellettiva dell’homme moyen
appare così fortemente pervasa da scorciatoie, euristiche e distorsioni cognitive che l’idea di un
ipotetico punto di riferimento normativo dal quale si dipartirebbero tutti i processi di verificazione
della conoscenza risulta quanto meno discutibile, sconfessato dalle ricorrenti violazioni del
pensiero umano.
Alcuni studiosi hanno proposto di risolvere tale contraddizione sostituendo il concetto di
“soggetto epistemico” - avulso dal contesto, la cui attività cognitiva è essa stessa isolata - con la
nozione di “soggetto in situazione”, portatore di intenzioni e aspirazioni, emotivamente coinvolto,
che se nel quotidiano predilige un’impostazione cognitiva improntata all’economicità del fare (più
che all’esaustività del conoscere), tuttavia sa essere flessibile quando le esigenze lo richiedano.
Dunque, l’anormalità cognitiva dei giocatori patologici non deriva dall’adozione tout court di
euristiche e quant’altro (le quali, come si è visto, riflettono una comune tendenza del ragionare
umano), bensì dall’uso distorto che essi ne fanno, dall’incapacità cioè di compiere la transizione da
processi di pensiero schema-driven a modalità ideative data-driven, non appena si presenti “la
necessità di essere precisi, di evitare i costi connessi con lo sbagliare: the costs of being wrong”
(Amerio, 1995).
Ciò considerato, non stupisce che il giocatore d’azzardo adotti strategie di scommessa
idiosincratiche, frutto di fallacie che sono in aperto contrasto con le leggi della probabilità. Se
ostinatamente perseguite, simili strategie possono facilmente condurre a pesanti perdite
pecuniarie che costituiscono il nucleo centrale del fenomeno della “rincorsa”. Nel caso in
questione, i bias cognitivi e motivazionali chiamati in causa riguardano i due fenomeni
indipendenti ma correlati della (a) sovrastima delle probabilità di vincere e della (b)
minimizzazione delle perdite subite; la combinazione dei citati fenomeni favorirebbe la
continuazione del gioco anche di fronte al rischio di aggravare i propri debiti.
4. Approccio sistemico-relazionale
L’attenzione si sposta dai fattori intrapsichici ai fenomeni interpersonali ed ai contesti in cui essi
hanno luogo. In questa logica viene sottolineato l’aspetto comunicazionale di ogni evento e
dunque anche di ogni sintomo espresso dal singolo, che viene “designato” dalla famiglia ad
esprimere un disagio che riguarda appunto l’intero sistema.
Per comprendere come funziona un sistema dobbiamo quindi abbandonare l’ottica lineare causaeffetto ed adottare un’ottica circolare considerando come il comportamento di ciascuno influenzi
e condizioni quello degli altri e ne sia a sua volta condizionato.
Non esistono ancora adeguate ricerche che consentono di identificare con certezza la relazione
esistente fra il sintomo gioco d’azzardo e l’organizzazione, la storia o la composizione del sistema
familiare di cui il gambler fa parte. Molti contributi si rifanno infatti a considerazioni che
riguardano altri tipi di dipendenza. I primi studiosi che in campo sistemico si sono occupati delle
famiglie dei giovani tossicomani sono stati Minuchin (1967) e Haley (1980) che hanno studiato
rispettivamente i giovani tossicodipendenti che presentavano anche problemi delinquenziali e il
fallimento del processo di individuazione del figlio giovane adulto dalla famiglia di origine. Stanton
e Todd (1982) hanno individuato la struttura tipica della famiglia del tossicodipendente, il quale
risulta essere strettamente coinvolto con il genitore di sesso opposto, mentre vive una frattura di
tipo conflittuale con il genitore dello stesso sesso, conflittualità presente anche fra i due genitori.
La tossicomania del figlio rappresenterebbe allora una pseudo individuazione in quanto il soggetto
dipendente mostrerebbe in famiglia un comportamento ambivalente, indipendente, chiuso in sé
stesso ed aggressivo in certe manifestazioni e invece infantile e dipendente in altre.
Due psichiatri francesi, Sylvie e Pierre Angel (1997) hanno studiato le reazioni dei familiari di
tossicodipendenti nelle prime fasi di acquisizione dell’abitudine, coniando il termine “cecità
familiare” con il quale si vuol intendere quella particolare situazione, in cui si trova invischiata la
famiglia del soggetto dipendente, per cui essa non riesce a percepire i segnali, seppur
inconfondibili, della patologia di uno dei suoi membri, pur provando tuttavia, una forte angoscia. Il
motivo di questa cecità sta, nella maggior parte dei casi, in quello che viene definito “vantaggio
secondario della malattia”, ovvero la funzione omeostatica che il comportamento disfunzionale
svolge all’interno del sistema relazionale stesso. Ovviamente tale difesa non può durare in eterno,
così nel momento della scoperta del problema emerge come reazione immediata la rabbia, seguita
dal sentimento di disillusione e impotenza, dalla vergogna e dal tentativo di controllo del giocatore
(Coletti, 2001). Il sistema di riferimento insomma, di fronte al problema gioco d’azzardo, dovrà
mettere in atto dei meccanismi per trovare un nuovo funzionamento compatibile con le necessità
di ognuno e dopo una fase di disorganizzazione, si riorganizzerà in un nuovo equilibrio costruito
intorno al gioco. Può accadere che il partner sano prenda il controllo della situazione, oppure che
si rifiuti di assumere un ruolo di aiuto e sostegno proprio perché il sintomo ha una funzionalità nel
gioco delle relazioni. I figli stessi saranno coinvolti in questi cambiamenti, spesso costretti a
schierarsi : il coniuge non giocatore infatti può cercare di stabilire un’alleanza con un figlio che
diventerà il suo interlocutore preferenziale, modificando inevitabilmente ruoli, confini individuali
e intergenerazionali con ripercussioni su tutti i membri del sistema. Il sistema famiglia poi tende ad
isolarsi sempre più rispetto alla società, alle relazioni esterne e questo amplificherà la sofferenza
di ciascuno.
Un concetto che viene usato per descrivere la particolare dinamica che si crea fra i partner dove
uno dei due ha un comportamento di addiction è quello di co-dipendenza con la quale si intende
una problematica che riguarda una persona (tipicamente il partner) la cui esistenza è fortemente
condizionata da un rapporto stretto con una personalità dipendente e che provoca in essa squilibri
potenti tanto quanto quelli del dipendente stesso, primo fra tutti il bisogno ossessivo di controllo
sul comportamento dell’altro, senza però riuscire ad agire un contenimento concreto ed effettivo.
Lo scopo implicito è in molti casi quello di farsi carico della cura dell’altro per essere amato ed
accettato. Il primo ad ipotizzare questo concetto fu Johnson che nel 1973 occupandosi di coppie
con partner alcolista, si rese conto che il partner non alcolista presentava aspetti di morboso
accentramento intorno alle problematiche dell’altro, contribuendo al mantenimento del sintomo
del paziente designato. Nei soggetti codipendenti sono state evidenziate un’esposizione in età
infantile a un ambiente familiare oppressivo o coartante l’espressione emotiva (Subby, 1987) e
una tendenza a trascurare o negare i propri bisogni e desideri (Withfields, 1997).
Molte mogli di giocatori ad esempio, apparentemente dominanti, vengono messe “down” dal
gioco del marito, esse sembrano votarsi al sacrificio ed essere capaci di sopportare innumerevoli
rinunce e frustrazioni, la loro vita è dominata dal problema del partner mentre i conflitti più
profondi vengono coperti dal problema del gioco. “Nell’interpretare i comportamenti ed i
messaggi verbali e non verbali inviati dal coniuge come frutto della sua malattia, la moglie nega il
loro significato relazionale e disconferma il marito, ossia nega la sua esistenza quale emittente di
tali messaggi. Il marito stesso che invia dei messaggi, contemporaneamente li presenta quali frutto
della sua malattia. In pratica la relazione rimane non definita, i conflitti non emergono con
chiarezza; entrambi non si assumono le responsabilità dei propri atti.” (Guerreschi, 2008).
In un’ottica sistemica e circolare qualsiasi trattamento che non includa la famiglia o la coppia ed il
sistema nel quale il giocatore vive, ha scarse probabilità di successo: se cambia il sintomo infatti
devono cambiare anche le relazioni e se non cambiano le relazioni non può modificarsi o sparire il
sintomo.
Lavanco, (2001) sostiene che la scelta di una terapia familiare sistemica può essere considerata in
maniera appropriata in certi casi di gioco compulsivo, dove il sintomo appare come una soluzione
in un gruppo familiare fragile, rigido e restio al cambiamento Il disturbo viene interpretato come
mezzo per stabilizzare rapporti coniugali e/o familiari disfunzionali; assumendo specifici ruoli, i
partner (o i membri della famiglia) mettono in scena la “rappresentazione” del GAP con lo scopo di
raggiungere un equilibrio omeostatico minimo ed eludere, celandoli, aspetti conflittuali più gravi,
che l’intervento s’incarica di portare alla luce.
Un intervento di tipo familiare inoltre è particolarmente indicato nella gestione di patologie
giovanili ed ancora fortemente inserite nel sistema familiare di provenienza. In questi casi la
terapia familiare avrà l’obiettivo di favorire il superamento della condizione di invischiamento-
dipendenza del soggetto dalla famiglia stessa e promuovere una reale autonomizzazione . In altre
situazioni dove il paziente designato è un adulto che ha già costituito un suo nucleo familiare può
essere più indicata una terapia di coppia.
Bolen e Boyd (1968) ad esempio, hanno ottenuto buoni risultati utilizzando la terapia di coppia in
associazione con quella individuale e di gruppo.
In Europa mancano contributi sul tema delle relazioni giocatore/famiglia mentre diversi autori
americani hanno affrontato l’argomento come McCown e Chamberlain (2000) che propongono
forme di consulenza per le famiglie, Abbott, Cramer e Sherrets (1995) che descrivono le gravi
conseguenze del gioco patologico non solo sul giocatore ma anche sul partner, sui figli e, in
generale, sulla famiglia o anche Haustein e Schuergers (1992) che propongono un trattamento
integrato composto da incontri individuali, terapia di gruppo e presa in carico della famiglia.
La psicoterapia di coppia (o familiare) in genere viene utilizzata quando l’emergenza legata al
problema gioco d’azzardo è sotto controllo o quando il sistema familiare è sufficientemente
contenitivo rispetto al gioco d’azzardo, perché solo in quel momento la coppia o la famiglia ha la
necessaria tranquillità per affrontare i nodi che si nascondevano sotto il comportamento
disfunzionale di uno dei membri del sistema. Quando si lavora con la coppia si potrà allora
indagare la storia della coppia, su quali aspettative reciproche essa si sia costituita, i ruoli assunti
da ognuno all’interno della stessa, se esistano confini chiari e permeabili fra i vari sottosistemi, chi
detiene il potere, come sono stati affrontati i passaggi legati al normale ciclo di vita della famiglia,
o eventi imprevisti, come vengono gestite le emozioni ed ovviamente il significato del sintomo
all’interno di questa storia. Spesso è utile indagare anche la famiglia di origine di ogni partner,
secondo un approccio trigenerazionale, per capire come ciascun partner vive i rapporti con la
propria famiglia d’origine, quanto sia o non sia individuato da essa, quali aspetti e problematiche
non risolte ognuno si porti dal contesto di origine e cosi via.
4.3 Paradigma Pisicodinamico
Freud (1928) e Bergler (1957) parlano del giocatore patologico come di un nevrotico compulsivo
regredito alla fase orale e vittima di un forte masochismo psichico (desiderio inconscio di perdere).
Secondo Bergler (1957) , l’atto di giocare costituisce in sé stesso un rinnegamento del Principio di
Realtà; questo fa esplodere una forte aggressività inconscia nel giocatore verso coloro che per
primi (figure genitoriali) gli hanno inculcato il rispetto di questo principio a scapito di quello del
Piacere. L’espiazione, squisitamente nevrotica, di questa forma di aggressività, trova riprova nel
forte desiderio inconscio di perdere al gioco. Più recentemente, Rosenthal (1987), sostiene che la
maggior parte dei giocatori patologici soffrirebbe di disturbi narcisistici di personalità: essi
avrebbero bisogno di verificare la propria autostima attraverso il gioco.
I principali obiettivi del trattamento psicanalitico verteranno necessariamente alla dissoluzione
delle difese e mobilitazione della colpa interiore del paziente, dopo di che si potrà procedere verso
una graduale ricostruzione della sua personalità.
A partire dalla metà degli anni ’60, le ipotesi psicoanalitiche sul GAP si sono diversificate in un
articolato quadro di conoscenze che, pur discostandosi dai modelli esplicativi classici, non li ha
rinnegati completamente.
Rispetto ai concetti fondamentali di erotizzazione e colpa dei primi teorici, vengono introdotti
nuovi elementi per spiegare le complesse dinamiche del gioco patologico.
Boyd & Bolen (1970), ad esempio, si sono interessati dei fattori di tipo sociale che predispongono
al gioco patologico: la crisi di un rapporto sentimentale, la morte di un congiunto, la nascita di un
figlio, il fallimento lavorativo o, paradossalmente, un successo nel campo professionale possono
contribuire all’insorgenza del disturbo. Nella maggior parte dei casi, si tratta di eventi cruciali che
prostrano il soggetto, turbandone gli equilibri interiori.
Gli autori ritengono che simili eventi possano scatenare intense angosce legate alla possibile/reale
perdita dell’oggetto (soprattutto nel caso di decesso di un congiunto) e che il gioco rappresenti
una manovra difensiva di tipo maniacale contro tale evenienza. Confinati in uno spazio e in un
tempo alternativi, i casinò, gli ippodromi, i “templi” dell’azzardo restituiscono al soggetto l’illusoria
speranza di sfuggire ad una realtà dolorosa, non voluta.
Weissmann (1963), invece, dirige il focus dell’attenzione sulle interazioni precoci padre-figlio (in
particolare sulle attività ludiche pre-edipiche), in seguito alle quali verrebbero acquisiti pattern
comportamentali stabili e di difficile modificazione, che il soggetto manifesta in diversi contesti.
L’autore sostiene che l’alternanza di onnipotenti vincite e sconfitte annichilenti (auto-inflitte)
tipiche del giocatore patologico riecheggerebbe l’atteggiamento genitoriale contraddittorio
(disponibile e violentemente rifiutante) durante le citate attività ludiche.
Più di recente, diversi psicoanalisti hanno studiato l’associazione tra i disordini narcisistici e il GAP.
La descrizione classica del giocatore patologico-tipo formulata da Custer (1985), infatti, richiama
alla mente le tipiche manifestazioni della personalità narcisistica: grandiose fantasie di potenza e
successo che compensano un’autostima marcatamente deficitaria; repentine e furiose reazioni di
chiusura qualora i bisogni di ammirazione ed attenzione non vengano gratificati; atteggiamenti
seduttivi che “coprono” un’evidente incapacità di entrare in confidenza ed intimità con il
prossimo.
In linea con i precedenti studiosi, Rosenthal (1986) ha coniato la locuzione “scommessa latente”
(Covert Gambling) per descrivere il comportamento di taluni soggetti narcisistici (non giocatori),
caratterizzato dalla reiterata assunzione di rischi e dalla necessità di saggiare costantemente i
propri limiti, nonostante i possibili esiti negativi.
Non diversamente dal giocatore che tenta la fortuna alla roulette, la temerarietà del Covert
Gambler - sottolinea - può essere considerata come una sorta di “onnipotente provocazione”
messa in atto per collaudare il proprio potere e la capacità di mantenere il controllo in situazioni di
incertezza.
4.4. Paradigma della disregolazione affettiva. Psicodinamica delle dipendenze
Un approccio psicodinamico propone l’ipotesi che esistano alcuni fattori comuni riscontrabili
nelle storie di persone con comportamenti di addiction tra i quali un disturbo dell’attaccamento,
esperienze traumatiche intese sia come trascuratezza psicologica, che come abuso psicologico o
sessuale, disregolazione affettiva-alessitimia e dissociazione psicologica (Caretti & La Barbera,
2010). Questo modello si rifà a Taylor, Bagby e Parker (1997) che in modo esplicito definirono i
disturbi da uso di sostanze come disturbi della regolazione affettiva, intendendo con questo
termine un processo attivo che coinvolge la dimensione neurofisiologica, motoriocomportamentale e cognitivo-esperienziale. I tre autori sostengono che il deficit nella regolazione
degli affetti o alessitimia, è il risultato di una mancata connessione fra questi sistemi ed in
particolar modo si tratterebbe dello sviluppo inadeguato della componente cognitivoesperienziale che si tradurrebbe nella compromissione della funzione simbolica e quindi nella
sostanziale incapacità del soggetto a contenere sia le tensioni interne generate dai propri bisogni,
sia dalle stimolazioni ambientali. Il soggetto alessitimico utilizza il meccanismo della dissociazione
per regolare gli affetti, e questo meccanismo di difesa priva il soggetto della possibilità di fare
esperienza del proprio mondo interno. Si avrà dunque una compromissione della funzione
riflessiva, ossia di quella funzione mentale considerata necessaria per la regolazione e il controllo
degli affetti. Tale funzione comprende sia componenti autoriflessive che componenti
interpersonali e fornisce la capacità di distinguere la realtà interna da quella esterna (Ammaniti,
Dazzi, 1999). E’ proprio un sistema intersoggettivo sicuro, garantito dalla capacità del caregiver di
contenere le emozioni proiettate dal bambino per mezzo dell’identificazione proiettiva, dotandole
di significato, che permette l’acquisizione della funzione riflessiva (Fonagy & Target, 1991).
Partendo dalla teoria dell’attaccamento di Bowlby (1988), vari studiosi descrivono infatti
l’influenza che le prime esperienze di attaccamento hanno sull’evoluzione delle rappresentazioni
interne di sé e degli altri, studiando il modo in cui il modello operativo interno dell’attaccamento
(IWM) influisce sulle relazioni future e sulle strategie di regolazione degli affetti. L’IWM (Internal
Working Model) costruito sulla base dei primi attaccamenti regola il modo in cui la ricerca della
vicinanza protettiva sarà realizzata nel corso della vita. Mentre gli IWM di attaccamento sicuro
permettono una ricerca efficace ed il probabile conseguimento di conforto e rassicurazione dopo
uno stress esogeno, quelli corrispondenti ad attaccamenti insicuri la intralciano in vario modo e
talvolta lo impediscono del tutto. Lo stile di attaccamento insicuro ha un effetto negativo sullo
sviluppo delle abilità interattive e cognitive, e di riflesso sulla capacità del bambino di saper
regolare gli stati emotivi interni attraverso la loro individuazione, descrizione ed elaborazione
psichica. Il legame di attaccamento con un genitore imprevedibile e ambivalente o peggio ancora
un genitore abusante, genera infatti nel bambino confusione fra dolore ed amore e lo costringe a
ricorrere a meccanismi di difesa estremi quali la scissione, la dissociazione, l’inversione dei ruoli,
l’identificazione con l’aggressore, per non sentire il proprio dolore. Ciò che avviene nei bambini
maltrattati è la non integrazione di stati del sé che rimangono così isolati senza possibilità di venir
sintetizzati all’interno di un racconto autobiografico. Con il meccanismo della dissociazione, il
bambino si crea stati alterati di coscienza attraverso esperienze sensoriali alternative alla
sensorialità percepita nello stato di coscienza ordinario. Quando la dissociazione, che ha
inizialmente una funzione protettiva, viene usata massicciamente a discapito del rapporto con la
realtà, essa darà luogo ad una patologia con manifestazioni varie che vanno dal comportamento
compulsivo e dell’addiction fino a veri e propri disturbi dissociativi. Relazioni infantili insicure,
deficit della simbolizzazione e disregolazione affettiva rappresentano così gli elementi costitutivi
delle dinamiche di base che portano all’insorgere dell’addiction (Caretti et al. 2005).
La dipendenza patologica va quindi ricondotta a una vulnerabilità narcisistica che richiama alla
mancanza di una rappresentazione mentale dell’oggetto interno d’amore (seno-madre) a cui poter
far ricorso ogni volta che il Sé si sente minacciato da intense sensazioni ed emozioni che non sa
mentalizzare, elaborare psichicamente se non attraverso comportamenti regolatori auto diretti
(Tronick, 1989) cioè a dire il rapporto esclusivo con l’oggetto droga.
Putnam (1997) ha messo in evidenza come il bambino per affrontare il dolore lo suddivida in
compartimenti separati, quasi in una forma di autoipnosi. Questo tipo di dissociazione è adattiva
in un bambino esposto ad un trauma perché consente una via di fuga da una situazione terribile.
Tuttavia se utilizzata eccessivamente fino al punto di costruire una forma di dipendenze a
discapito della realtà, questa stessa funzione avrà la conseguenza di produrre uno stato
dissociativo patologico, in cui la parte scissa della coscienza si comporterà come un’identità
mentale indipendente dalla personalità globale, che non potrà esercitare nessun controllo sulla
parte scissa. In questo senso le dipendenze sono state studiate da alcuni autori, come riparo per
sfuggire alle angosce schizoparanoidi o depressive che insorgono nel corso dell’evoluzione
psichica. In particolar modo Steiner (1993) parla di “rifugi della mente” intendendo con tale
definizione i luoghi mentali ma anche i comportamenti ripetitivi, i riti e le abitudini personali, in cui
ci si ritira quando si vuole sfuggire ad una realtà insostenibile perché angosciosa. I “rifugi della
mente” rappresentano una medicazione dell’Io che si sente danneggiato o in grave pericolo
quando deve affrontare il lutto e il dolore psichico collegato con la paura della perdita. Ogden
1994 ipotizza una forma di isolamento personale caratterizzata dalla sostituzione della madreambiente con la propria sensorialità; l’individuo si ritira in una matrice di sensazione autogenerata
che si sostituisce alla matrice interpersonale e alle sensazioni derivanti dalla realtà interpersonale.
Le relazioni con oggetti o con comportamenti autistici sono “perfette” perché a differenza dei
rapporti umani sono prevedibili e allo stesso tempo rappresentano una pausa necessaria, un
rifugio sicuro nel processo del divenire umano. Se ciò è temporaneo non è patologico e può essere
messo al servizio dell’Io e della creatività, ma quando il ritiro tende alla reiterazione eccessiva e
alla dipendenza morbosa esso comporta il rischio della coazione, dell’isolamento, della distorsione
del senso del sé e delle relazioni con gli altri.
Golberg 1999 spiega i fenomeni della dipendenze e della dissociazione utilizzando il concetto
Freudiano di “verleugnung” che corrisponde all’italiano “diniego” concetto che postula uno stato
mentale in cui un’idea o un insieme di idee viene completamente ignorata dall’individuo, il quale
agisce come se non ne sapesse nulla, ma a differenza dei contenuti inconsci l’idea rimane
accessibile alla sua coscienza. Secondo Golberg di fronte ad un’esperienza della realtà
insopportabile, si possono determinare due manovre psichiche che spiegano i fenomeni della
dipendenza. Una è il diniego e l’altra è la costruzione di una parte scissa, una separazione che
comporta la ricerca di piacere o di sollievo. Il ripetuto ricorrere al diniego come meccanismo
difensivo determina il crearsi di una personalità fragile ed incapace di tollerare una qualsiasi forma
di frustrazione. Ne deriva la tendenza compulsiva a ricercare continuamente sensazioni che diano
la possibilità di sentirsi e da qui la facilità ad adottare comportamenti di dipendenza patologica
(Caretti & Di Cesare 2005)
5.Trattamenti
Dalla psicoanalisi alle terapie cognitivo-comportamentali, dagli approcci multimodali all’impiego
mirato di farmaci ed alla terapia familiare e di gruppo (ciascun trattamento essendo il riflesso di un
orientamento teorico specifico, che offre “focus euristici” selettivi), l’universo degli interventi oggi
disponibili per affrontare la cura del GAP e le dipendenze in generale è senza dubbio vario ed
articolato; eppure, nonostante questa preziosa ricchezza, i clinici trovano non poche difficoltà nel
determinare le fondamentali dinamiche sottese al processo di “guarigione”, i criteri di successo e
le percentuali di efficacia delle singole terapie, nonché le regole di abbinamento paziente-cura
(National Research Council, 1999).
Hodgins, Wynne e Makarchuk (1999) sostengono che un terzo dei giocatori d’azzardo problematici
risolve con successo le proprie difficoltà. Di questi circa il 10% (National Research Council, 1999) ha
richiesto un aiuto professionale ma il 20% sembra che abbia risolto i propri problemi di gioco
autonomamente. La maggior parte di coloro che hanno cambiato il proprio comportamento di
gioco d’azzardo, con o senza un aiuto professionale, riferisce di aver preso questa decisione in
maniera autonoma senza essere stata forzata da fattori esterni (Whelan, Steenbergh & Meyers,
2010). I dati empirici finora raccolti non hanno contribuito a dissipare completamente tali
incertezze, a causa delle molteplici lacune metodologiche presenti che, nel complesso, hanno
indebolito la validità delle ipotesi e delle interpretazioni avanzate, anche se proprio in questo
senso l’attività di ricerca degli ultimi anni sembra aver compiuto dei progressi.
Anche lo studio Cochrane (2000) che si è interessato degli interventi per i giocatori patologici risale
a 10 anni fa ed evidenzia come i giocatori di scommesse sportive rispondessero ai trattamenti
cognitivo-comportamentali (Oakley-Browne, Adams & Mobberley 2007). In questa review sono
stati evidenziati solo 4 studi di trattamento psicologico, eterogenei rispetto al disegno, tipo di
interventi, esiti e periodi di follow-up. Tutti gli studi avevano un piccolo numero di partecipanti e
qualità metodologiche scarse. Nel breve termine gli interventi comportamentali o cognitivocomportamentali erano più efficaci dei controlli. Sono comunque raccomandate ricerche più
rigorose.
Un altro filone di ricerche è quello che analizza gli elementi predittivi rispetto alla possibilità di
completare un trattamento. Leblond, Ladoucer e Blaszczynski (2003) affermano che l’elemento
determinante rispetto al drop-out è l’impulsività e cioè le persone con maggiori livelli di
impulsività sono quelle che hanno maggiori probabilità di abbandonare precocemente il
trattamento.
L’insieme delle osservazioni condotte da diversi autori (Petry e Armentano, 1999) suggeriscono
che per i giocatori d’azzardo patologici sia necessario istituire un percorso terapeutico complesso e
multidimensionale che, a seconda dei casi, possa integrare: il trattamento farmacologico, il
trattamento psicoterapeutico individuale, il trattamento psicoterapeutico di gruppo, gli interventi
sulla famiglia, il trattamento di coppia, i gruppi di auto-aiuto.
Il GAP a differenza delle storiche forme di addiction, presenta difficoltà diagnostiche oggettive,
oltre che di valutazione degli esiti, in quanto non è possibile effettuare esami fisiologici ed
oggettivi come per la tossicodipendenza o per l’alcolismo come l’analisi delle urine o del sangue.
Dall’analisi della letteratura clinica svolta, emerge poi un’evidente dicotomia nella definizione degli
obiettivi del trattamento: se alcuni ritengono che la totale astinenza dall’azzardo rappresenti
l’obiettivo terapeutico da perseguire (McCown & Chamberlain, 2000), altri sostengono che
l’obiettivo sia quello dell’acquisizione di forme di gioco controllato, ovvero non caratterizzate dal
fenomeno della “rincorsa” (Blaszczynski, 1988).
Per quanto concerne le tipologie di trattamento, oltre agli approcci clinici riportati si stanno
consolidando sempre con più forza lo strumento gruppo come un’importante risorsa terapeutica
riabilitativa, che consente di fornire un livello di assistenza adeguato ad un costo sostenibile.
Inoltre per la particolare tipologia di utenza è necessario intervenire a più livelli sia in riferimento
alla cura della problematica finanziaria sia in riferimento al ruolo del sintomo ed al suo embricarsi
nelle dinamiche familiari. In questa ottica in alcune situazioni dove il gioco d’azzardo ha assunto
forme patologiche e/o problematiche può essere necessario un intervento di tipo residenziale:
intervento che consente, in una certa fase della vita del giocatore, una concreta opportunità per
interrompere la coazione a ripetere, tipica del gioco d’azzardo patologico, e per offrire la
possibilità di avviare una riflessione più profonda per comprendere aspetti esistenziali o
psicopatologici di cui il gioco rappresenta un elemento compensativo.
5.1 Un modello integrato per il trattamento delle addiction da gioco d’azzardo. La
proposta terapeutica al GAP del Gruppo Incontro di Pistoia
Un modello integrato presuppone che fattori o eventi diversi possono condurre le persone allo
sviluppo di problemi di gioco d’azzardo. Il progetto “Altroazzardo” del Gruppo Incontro nasce nel
2002 con il preciso scopo di offrire una risposta terapeutica ai giocatori d’azzardo
patologici/problematici. L’orientamento adottato privilegia trattamenti ambulatoriali di tipo
integrato (equipe multiprofessionale) che utilizzano strumenti terapeutici diversificati..
Il Gruppo Incontro considera il GAP un disturbo che rientra nel quadro delle dipendenze
patologiche. Come nel caso delle altre dipendenze è dunque importante effettuare una
valutazione diagnostica che prenda in esame la presenza di eventuale comorbidità psichiatrica, per
verificarne o escluderne la presenza in modo da dare ad entrambi i disturbi un adeguato
trattamento (Iraci, 2009).
Il gioco d’azzardo patologico, come tutte le altre forme di dipendenza necessita, per essere meglio
compreso, di studi e di ricerche in continuo aggiornamento in quanto è un fenomeno strettamente
legato alla società ed ai suoi mutamenti, all’offerta di giochi, come di sostanze, agli stereotipi
forniti dai mass media. Oltre a ciò è fondamentale lo studio del caso singolo, poiché ogni storia
osservata nel dettaglio, può contribuire ad arricchire la conoscenza dei significati individuali, il
diverso percorso umano che ha portato più soggetti al medesimo comportamento.
5.1.1. Terapia di Gruppo per giocatori in trattamento e familiari.
I gruppi si svolgono a cadenza settimanale e condotto dagli operatori del servizio e cioè una
psicoterapeuta ed il responsabile del servizio, che ha competenze sia educative che psicologiche. La
scelta della doppia conduzione nasce dalla volontà di integrare competenze importanti per la
gestione di un gruppo di questo tipo, sia di carattere più prettamente psicoterapeutico, sia di
carattere psico-educazionale e cognitivo. Infatti si lavora sul doppio binario del riconoscimento ed
espressione delle emozioni e della ristrutturazione delle convinzioni erronee che tanto peso hanno
nel mantenimento della patologia stessa. La formazione specifica della psicoterapeuta poi, indirizza
il gruppo verso un approccio di tipo transazionale, focalizzando l’attenzione su quelli che sono i
“giochi psicologici”, cioè tutte quelle transazioni, scambi comunicativi tra due o più persone che
contribuiscono all’instaurarsi ed al mantenersi di un certo comportamento. Si parte dal
presupposto cioè che il giocatore tenderà a riprodurre all’interno del gruppo gli schemi relazionali
e comunicativi messi in atto nella dinamica della coppia, ipotizzando inoltre che “il giocatore potrà
essere portato a rapportarsi istintivamente agli operatori come in una “sfida a un gioco” dove non
potranno esserci che un vincente e un perdente. Svelare il “gioco” può essere un modo per aiutare
il giocatore a decidere di “cambiare mossa” e abbandonare la “posta”(Russo 2006).
Quest’attività rappresenta il fulcro del servizio ambulatoriale in quanto consente al giocatore di
assumere un ruolo attivo nel trattamento, facilitando un processo di responsabilizzazione,
fondamentale ai fini del cambiamento. I membri del gruppo interagiscono tra loro, si confrontano
attivando la funzione di rispecchiamento per cui chi è più avanti nel percorso sarà in condizioni di
rivedersi e aiutare coloro che si trovano in una fase meno avanzata.
Sono inoltre previsti: incontri periodici di counseling giocatore e familiari; supporto e
monitoraggio della situazione lavorativa; lavoro di rete; monitoraggio della situazione economica;
consulenza Psichiatrica; psicoterapia individuale, di coppia e familiare
5.1.2 Trattamento residenziale
Rivolto a quei pazienti che mostrano di non essere trattabili a livello ambulatoriale e che
necessitano un maggior contenimento rispetto al comportamento patologico del gioco d’azzardo
quale quello della comunità terapeutica.
Il modello di comunità terapeutica per il trattamento della dipendenza da gioco d’azzardo
utilizzato dal Gruppo Incontro, ha come riferimenti oltre che la residenzialità, necessaria ma non
sufficiente a far diventare un luogo specificatamente terapeutico, due doppie dimensioni:
elementi espliciti ed elementi impliciti del contesto e del trattamento che determinano le
componenti necessarie di natura terapeutica, normativa ed organizzativa che creano quello che
definiamo la struttura terapeutica di una comunità (Iraci, 2005).
L’approccio residenziale prevede un coinvolgimento a 360 gradi. Si richiede al soggetto di
abbandonare temporaneamente il proprio ambiente di vita, i suoi affetti e le sue abitudini e
trasferirsi in un ambiente per lui nuovo e sconosciuto, che ha norme particolari ed impegnative a
cui il giocatore non è abituato. Dal primo momento gli viene richiesto di controllare i suoi
comportamenti ed adattarsi al contesto. La convivenza con altre persone, che come lui sono in
trattamento, obbliga il paziente a confrontarsi con gli altri componenti del gruppo, confronto
finalizzato anche a generare fratture e dubbi nelle sue erronee convinzioni e credenze. Tali dubbi
e fratture sono necessarie per iniziare quel processo di cambiamento verso una nuova e diversa
gerarchia dei valori. La comunità consente di avere feed back continui dal gruppo dei pari e dagli
operatori, sia sui comportamenti agiti, sia sul riconoscimento delle modalità relazionali derivanti
dal proprio ambiente culturale e familiare. In questa prospettiva all’individuo sono riconosciute
proprie potenzialità di crescita e di autonomia che vengono sostenute ed incrementate durante il
percorso terapeutico. Ne consegue che obiettivo primario è quello di privilegiare una dimensione
“evolutiva” nel tentativo di aiutare e sollecitare il soggetto a recuperare e/o a individuare nuove
modalità relazionali e nuovi aspetti di sé.
L’individuo è quindi attore principale del proprio cambiamento e della propria crescita sia sotto
l’aspetto della relazione che dei tempi, mentre l’operatore ha la funzione di accompagnarlo in
questo processo offrendogli le condizioni facilitanti necessarie per il suo cambiamento. In questa
accezione la comunità terapeutica può essere concepita come un “laboratorio” dove si
sperimentano comportamenti ed emozioni nuove in grado di generare processi di cambiamento
nei livelli più profondi dell’identità dell’individuo duraturi nel tempo. La comunità terapeutica per
giocatori d’azzardo deve anche rappresentare lo spazio dove il giocatore può re-imparare a
giocare i giochi della vita e scoprirne la dimensione ludica evitando l’azzardo.
Questo tipo di risposta è sicuramente la più impegnativa sia per il paziente che per i familiari.
Si accede in comunità terapeutica dopo un accurata valutazione effettuata congiuntamente dal
servizio inviante e dal Servizio di valutazione. Il coinvolgimento di un familiare e/o persona di
riferimento è ritenuto un requisito se non necessario, fortemente consigliato, per la verifica della
gestione del denaro e accompagnamento nel percorso terapeutico definito con l’equipe. La
comunità terapeutica rappresenta il contesto che meglio risponde a quelle situazioni dove la
ricorsività e la coazione a ripetere del giocatore d’azzardo è divenuta drammatica, al punto che il
desiderio del gioco è irresistibile ed irrefrenabile.
6. Conclusioni
La maggior parte degli autori che hanno indagato gli aspetti patologici del gioco d’azzardo
concordano sul fatto che una delle caratteristiche dominanti di queste persone e quello di non
riuscire a controllare l’impulso di giocare. Negli ultimi anni tuttavia, ha cominciato a farsi strada
l’idea che ci siano delle similitudini tra il gioco d’azzardo patologico e l’abuso di sostanze, che si
tratti cioè di forme di dipendenza assimilabili e talvolta sovrapponibili. Anche nei giocatori
patologici possano addirittura manifestarsi crisi di astinenza con ansia e sudorazione, nausea,
vomito e tachicardia.
Le formulazioni teoriche di Taylor, Bagby e Parker (1997) che definiscono i disturbi da uso di
sostanze come disturbi della regolazione affettiva e quelle di Caretti ed il suo gruppo, che
riprendono questa concettualizzazione, mi sembrano un futuro campo di esplorazione
interessante per verificare questo modello anche nel gioco d’azzardo patologico.
Questo modello teorico mi sembra poter avere riflessi importanti anche a livello dell’intervento
terapeutico in quanto se nei giocatori patologici fossero riscontrate tra le altre, le caratteristiche
dell’alessitimia e della dissociazione, si potrebbe impostare un piano terapeutico che tenga conto
di ciò e che aiuti questi soggetti a regolare le proprie emozioni ed affetti in modo più funzionale.
Le varie letture del fenomeno GAP, da quella psicodinamica, a quella cognitiva e
comportamentale, a quella relazionale-sistemica, offrono ognuna un focus di osservazione utile
da cui si possono trarre elementi validi ed integrabili per approcciare questa complessa patologia.
Ad esempio è innegabile l’importanza che rivestono le cosiddette distorsioni cognitive del
giocatore e dunque la necessità di aiutare lo stesso a rimetterle in discussione, ma è altresì
importante considerare gli aspetti emotivi, il vissuto ed il significato che viene attribuito a quel
comportamento dal soggetto e anche dalla sua famiglia. In differenti momenti del processo
terapeutico sarà possibile così proporre differenti tipi di intervento, da quello residenziale e
pedagogico- contenitivo del sintomo, offerto dalla Comunità terapeutica, a quello gruppale, a
quello individuale e familiare. Altrettanto importante è talvolta la proposta farmacologica,
soprattutto nei casi dove è riscontrabile una comorbilità psichiatrica o anche per arginare ansia e
depressione o altri sintomi che possono insorgere come conseguenza del comportamento di gioco.
Credo che ogni tipo di intervento terapeutico che si occupi della presa in carico di giocatori
d’azzardo patologici non possa prescindere da una prospettiva multidisciplinare.
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