Teorie sul gioco, una review
Tratto da The Sociology of Gambling, di Mikal J. Aasved, Charles C. Thomas Publisher,
Springfield, Illinois, USA
Mikal J. Aasved, in Sociology of Gambling, tenta di riunire e sistematizzare gli approcci teorici allo
studio del gioco d’azzardo, con un’attenzione non solo ai contributi di ambito strettamente
sociologico, ma con un’apertura interdisciplinare che spazia dalla Psicologia all’Economia,
passando per la Biologia. L’opera, sebbene non recentissima (2003), delinea un utile quadro
concettuale per gli studiosi del gioco d’azzardo e delle sue derive problematiche e patologiche. A
livello concettuale, è utile distinguere, nel novero delle teorie sul gambling, tra le armchair theories
(speculazioni da ‘poltrona’) e le elaborazioni risultanti da studi empirici, di natura qualitativa e/o
quantitativa.
Armchair theories
Le prime teorie sul gioco vengono proposte a cavallo del XIX e del XX secolo. Se Veblen
(Affluence or leisure class theory: 1899) sostiene che il gioco è positivamente correlato al reddito e
alla classe sociale, e dunque maggiormente praticato dai ceti più abbienti per sottolineare il proprio
status, secondo altri teorici, gli strati popolari, alienati e deprivati, in un contesto anomico vedono
nel gioco uno strumento per prendere alcune decisioni sulla propria vita e per vagheggiare un
possibile avanzamento socio-economico: frustrati a causa della propria condizione materiale, gli
individui sono motivati a giocare dalla insoddisfazione (Tec: 1964). In una seconda fase, alcuni
studiosi hanno adottato il paradigma strutturalfunzionalista, affermando che la funzione essenziale
del gioco sia quelle di ridurre il livello di stress sociale e preservare la struttura sociale, rafforzando
i legami interclassisti esistenti. In particolare, secondo Devereux (1949, 1968), il gioco serve per
allentare la tensione sociale e mantenere lo status quo.
Tra le critiche avanzate a queste prime elaborazioni, principalmente riferite alla mancanza di una
base empirica, la più significativa riguarda il fatto che simili approcci, e in particolare le teorie di
matrice strutturalfunzionalista, tendono a trattare le conseguenze di una attività come sua funzione o
causa, non riescono a riconoscere il carattere interclassista del gioco d’azzardo, risultano
etnocentriche (si limitano alle società stratificate, capitalistiche e occidentali) . Consapevoli di tali
limitazioni, diversi scienziati sociali hanno successivamente testato gli assunti
strutturalfunzionalisti: tra costoro, si distingue chi, come Zola (1963), ha condotto ricerche sul
campo fortemente condizionate dall’idea che il gioco abbia una funzione per la riproduzione sociale
e chi, come Scimecca (1971), con un approccio critico, ha concluso che esistono diverse tipologie di
giocatori con le più svariate motivazioni al gioco e che il gioco d’azzardo, aldilà di ogni su pretesta
funzione sociale, risulta essere un comportamento ‘normale’ e non deviante. Inoltre, secondo
l’ipotesi sottoculturale portata avanti da Newman (1968, 1972, 1975), la propensione al gioco è
slegata dalla classe sociale di appartenenza ma piuttosto favorita dalla pressione dei pari.
Tornando sul versante puramente teorico e non empirico, meritano una menzione gli approcci della
scelta razionale e del valore o dell’ utilità attesi, che considerano le persone come decisori razionali
in grado di scegliere il corso d’azione più efficace per avere successo. Le teorie economiche di
derivazione marxista sostengono, da un lato, che il gioco d’azzardo offra alla classe dirigente un
altro mezzo per sfruttare le masse lavoratrici ma, d’altro canto, suggeriscono che il gioco possa
diventare persino dannoso per le classi dominante, poiché suscettibile di ridurre il pluslavoro e di
privare i lavoratori di quel reddito che potrebbero spendere nell’acquisto di beni di consumo,
necessario per la riproduzione del sistema. Anche le teorie di stampo economico non sono esenti da
critiche, che si sono soffermate sul fatto che esse non siano in grado di spiegare la diffusione del
gioco tra i ceti abbienti e le decisioni irrazionali spesso prese dai giocatori.
Approcci qualitativi e quantitativi
A partire dalla fine degli anni cinquanta del secolo scorso, l’attività di ricerca sul gioco si è
intensificata e ha prodotto contributi variegati rispetto ai comportamenti e alle motivazioni dei
giocatori, oltre che ai fattori di rischio legati all’azzardo.
L’analisi delle interazioni all’interno di piccoli gruppi di giocatori, ha portato a considerare il gioco
come strumento utilizzato dagli individui per ritagliarsi un ruolo e come modalità di espressione.
Secondo Goffman (1959, 1967, 1969), le persone non giocano per soldi ma per impressionare gli
altri: fondamentale è il concetto di azione, che si concretizza nell’eccitamento per il rischio e nella
dimostrazione di forza caratteriale da parte del giocatore. Sotto questo profilo, la dedizione al gioco
d’azzardo pare motivata dal desiderio di assumere una diversa identità (Oldman: 1974, 1978) ed è
sostenuta dalle reti sociali che si creano col tempo negli ambienti di gioco (Rosecrance: 1982, 1985,
1986, 1988, 1989).
Questi e altri approcci evidenziano come gli individui che nella vita quotidiana non riescono a
praticare valori socialmente riconosciuti – soprattutto nel mondo occidentale - come la ricchezza,
l’affermazione personale e professionale, l’intraprendenza, la competitività e l’indipendenza, spesso
ricerchino sistemi alternativi (ad esempio il gioco d’azzardo) per la loro espressione (Abt: 1985;
Herman: 1967, 1966). Le ricerche in questo ambito hanno compiuto uno sforzo per integrare
diverse prospettive disciplinari, interpretando il gioco come una necessaria ricreazione legata a un
insopprimibile istinto biologico, come una forma di evasione dalla vita quotidiana, le cui deviazioni
patologiche posso essere in parte spiegate scavando nelle biografie individuali e in relazioni
famigliari, presenti e passate, conflittuali e disfunzionali.
Alcuni ricercatori, attraverso l’osservazione partecipante e l’intervista in profondità, hanno
raggiunto conclusioni interessanti, anche se difficilmente generalizzabili, secondo cui alcuni
giocatori sviluppano problemi con il gioco in seguito a un vero e proprio cortocircuito favorito da
errori cognitivi rispetto alla causalità degli eventi e a un locus of control orientato eccessivamente
all’interno (Browne: 1989, 1994 ; Hayano: 1982; Rosecrance: 1988). Secondo quanto proposto
dagli studiosi che hanno avanzato tale ipotesi - on tilt theories - i giocatori, per minimizzare la
possibilità di perdere il controllo improvvisamente e rovinosamente e di incorrere nelle
conseguenze associate, dovrebbero evitare circostanze a rischio (determinati luoghi di gioco,
sessioni di gioco lunghe, provocazioni da parte di altri giocatori) e lavorare sul controllo delle
proprie emozioni. Per corroborare queste ipotesi e prescrizioni, viene proposta una casistica
(Lesieur: 1979, 1986, 1987, 1988, 1989, 1990, 1991, 1992, 1993; Rosenthal: 1970, 1987, 1989,
1992, 1993, 1995) che associa a un episodio di blackout lo sviluppo del cosiddetto chasing, ossia il
tentativo di recuperare tutte le perdite del passato; un processo che, pur apparentemente scatenato
da un singolo episodio di perdita di controllo, spesso riflette precedenti traumi di vita interpretabili
come precursori del gioco irrazionale.
Passando ad approcci di stampo quantitativo, alla ricerca di regolarità tra diversi gruppi, i crosscultural studies applicati al gioco d’azzardo hanno tentato di testare una serie di correlazioni
ipotizzate tra comportamenti, fattori sociali e ambiente. I risultati delle suddette ricerche appaiono
tuttavia viziati dalla mancata considerazione delle specifiche variabili culturali. Parallelamente, e in
maniera forse meno ambiziosa ma più promettente dal punto di vista scientifico, a partire dagli anni
settanta nel mondo anglosassone sono state condotte survey a larga scala sul gioco d’azzardo.
In un primo momento, ricercatori britannici e statunitensi (Nevada survey), con l’intento di
determinare i tassi di gioco problematico sulla popolazione generale e alcune correlazioni tra di esso
e alcune variabili specifiche, hanno dimostrato che differenti variabili demografiche e pratiche di
gioco sono associate a differenti tipologie di gioco d’azzardo e, di conseguenza, a differenze nello
sviluppo di problemi connessi (il che rende difficile ogni tipo di conclusione generalizzata). Negli
anni successivi, alcune ricerche australiane hanno corroborato l’ipotesi che il gioco sia più diffuso
tra i gruppi sociali meno istruiti e che i tassi di gioco problematico si alzino nelle aree dove sia più
semplice accedere a luoghi e opportunità di gioco d’azzardo; quest’ultimo aspetto ha trovato
supporto nei dati emersi contemporaneamente da nuove survey prodotte negli Stati Uniti (in
particolare da Gallup) che, tra le altre evidenze emerse, sottolineano la correlazione tra genere
maschile e propensione al gioco.
Una raffinazione delle conclusioni emerse dalla prime massicce raccolte di dati relativi al gioco è
rappresentata dalla specifica attenzione posta dai ricercatori ai fattori di rischio psicosociali,
comportamentali, demografici e ambientali. Secondo i più convinti sostenitori di tale approccio, se
si è in grado di determinare con buona approssimazione quali condizioni antecedenti sono più
strettamente correlate con lo sviluppo di una dipendenza, è anche possibile predire coloro i quali
sono a maggior rischio. Alla ricerca di correlati o predittori del gioco problematico, si sono
sviluppate una serie di ricerche rivolte a differenti gruppi sociali - dai bambini agli adolescenti, dai
giovani adulti agli individui più maturi, dalle femmine a particolari minoranze - riscontrando tra i
fattori di rischio più comuni: fattori demografici di rischio - età (giovanile), condizione
socioeconomica (bassa), stato civile (celibe/nubile), genere (maschile), appartenenza a minoranza
etnica e religione (non cristiano protestante); fattori ambientali di rischio - episodi di dipendenza in
famiglia, genitori autoritari, perdita precoce dei genitori, abusi subiti durante l’infanzia e altri gravi
traumi; fattori comportamentali di rischio – consumo di tabacco/alcool/droghe e disordini alimentari
(con l’aggiunta, per gli adolescenti, di assunzione precoce di comportamenti a rischio, violenza,
propensione alla menzogna, comportamenti antisociali, scarsa resa scolastica; interessante in
proposito il risk factor model proposto da Griffiths – 1988, 1989, 1990, 1991, 1992, 1993, 2000).
Critiche e sviluppi
Gli studi quantitativi evidenziano che il gioco d’azzardo non è un comportamento deviante ma
‘normale’ poiché la gran parte degli individui gioca. In particolare, le survey che si sono rivolte
negli anni alla popolazione generale identificano quali segmenti della popolazione sono più
propensi al gioco, in quale misura e con quali preferenze, ma non riescono a dare conto della
pressione dei pari, delle norme subculturali e di altri fattori poco tangibili. Anche i più
particolareggiati studi correlazionali presentano della criticità legate a risultati spesso conflittuali tra
diverse ricerche e alla difficoltà di dimostrare la causalità dei fattori di rischio correlati o predittori
della propensione al gioco e allo sviluppo di problematiche connesse. Dal canto loro, gli studi
qualitativi hanno l’intrinseco - per quanto dichiarato - limite di prendere in considerazione casi e
situazioni specifiche, per loro stessa natura non generalizzabili. Per stemperare queste difficoltà e
dare una rappresentazione più complessa e ricca del fenomeno, Aasved (1993, 1995, 2002) propone
la progettazione e realizzazione di studi basati su metodologie miste e orientati da approcci
multidisciplinari di stampo psico-socio-biologico. (Fabio Lucchini)