APPUNTI SULLA GLOBALIZZAZIONE LE N per le aziende Il mercato diventa mondiale, la forza lavoro multiculturale, i clienti appartengono a paesi diversi, i luoghi di produzione si spargono per l’intero pianeta Romano Trabucchi el maggio scorso il termine “globalizzazione” ha compiuto vent’anni. È stato coniato nel 1983 da Theodore Levitt, teorico e docente di marketing della Harvard Business School. Con i suoi articoli e libri, Levitt sostenne, allora, che era giunto per le imprese il momento di imporre al mondo intero gli stessi consumi, utilizzando le nuove tecnologie della comunicazione per pubblicizzare i loro prodotti o servizi e per organizzarne la produzione. Quando il “villaggio” diventa “globale”, affermava, riecheggiando Marshall McLuhan, anche produzione e consumi devono diventare “globali”, con il grande vantaggio per le imprese di realizzare immense economie di scala e giganteschi profitti. La globalizzazione crea, dunque, alle imprese nuove sfide: il mercato diventa mondiale, la forza lavoro diviene multiculturale, i clienti appartengono a paesi diversi, i luoghi di produzione si spargono per l’in- il giornale del dirigente N 6 6 Romano Trabucchi, dopo aver operato, come dirigente, in due grandi imprese dei settori terziario e della comunicazione (con responsabilità nell’area risorse umane), ha diretto la Casa Editrice Etas Libri. È stato partner fondatore di due aziende di consulenza (Micom e Isso) e consigliere di amministrazione della multinazionale della consulenza Watson Wyatt Isso. È stato docente di “gestione del personale” presso la Scuola di direzione aziendale (SDA) dell’Università Bocconi. È autore di pubblicazioni di management e presso l’editore Franco Angeli dirige una Collana di management. Collabora a periodici e riviste. È membro del comitato scientifico del Cfmt. tero pianeta. La funzione marketing si potenzia e si specializza verso l’estero. Per citare un solo dato: nel 1965 meno del 4% delle posizioni di lavoro delle imprese americane era legato al commercio estero e alle esportazioni, mentre nel 2000 quella percentuale era salita al 25%1. La “piazza” del mercato diventa il mondo. È possibile produrre o fornire servizi dappertutto e in contemporanea. Un prodotto come un film, tipica espressione del nuovo capitalismo culturale (Rifkin), viene contemporaneamente lanciato in tutto il mondo. “Il Re Leone della Walt Disney, un film di grandissimo successo, uscì contemporaneamente in 500 paesi. Quasi 200 articoli ispirati al film sono stati creati su licenza e commercializzati, per capitalizzare sull’immagine del Re Leone. Un anno dopo l’uscita del film, ne venne presentata la versione teatrale a Broadway. All’uscita del teatro, gli spettatori dovevano passare attraverso un negozio, allestito nel foyer, in cui si vendevano i gadget del Re Leone”2.Per non parlare del gigantesco battage pubblicitario per l’ultimo libro di Harry Potter, per il quale le librerie di tutto il mondo, da Londra a Hong Kong, da Johannesburg all’Australia, sono state aperte anche di notte e dove le stazioni ferroviarie di alcuni paesi hanno ricreato il treno a vapore di cui si parla nel racconto. E se è facilmente comprensibile che questo avvenga per film e programmi di intrattenimento, in realtà avviene anche per il lancio a livello mondiale di ogni genere di prodotti. La concorrenza si inasprisce: diventa ipercompetizione. Sfida di tutti contro tutti. 1 2 H. C. Weizmann, J. K. Weizmann, Gestione delle risorse umane e valore dell’impresa, Franco Angeli, Milano, 2001, pag. 37 R. Normann, Ridisegnare l’impresa, Etas, Milano, pag. 89 UOVE SFIDE Non solo, si allarga l’arena competitiva che non è più limitata da confini geografici, si accorcia anche l’orizzonte temporale della strategia e delle operazioni aziendali. Per le imprese aumentano l’esigenza di muoversi liberamente per cogliere le opportunità economiche (flessibilità) e il bisogno di ridurre i costi, spesso con licenziamenti di massa che accrescono il valore delle loro azioni. Imprese e dirigenti so- no sempre più condizionati dalle valutazioni dei mercati e degli intermediari finanziari globali. La competitività fra le imprese diventa il comandamento supremo cui tutto deve essere subordinato. La struttura dell’intera organizzazione aziendale viene ripensata. Come abbiamo indicato nel primo articolo (vedi n. 1-2/2003), le imprese tendono a farsi leggere. Di fronte al turbolento orizzonte globale hanno bisogno di “leggerezza” e di grande rapidità di azione. Nell’era industriale si puntava sulla solidità: sul capitale fisico, sull’importanza degli edifici, dei macchinari, delle materie prime. lavoro possono notevolmente variare. Aziende di informatica della Silicon Valley producono software in India. Quello che si progetta a Los Angeles può essere prodotto in Canada, venduto in Europa e fatturato in qualche paese del sud-est asiatico (ha detto scherzosamente una volta Alessandro Baricco che la globalizzazione è quello “scanzonato collage” per cui a Bangkok è possibile mangiare lo stesso hamburger che fanno in Connecticut, confezionato in una scatoletta fabbricata in Perù e commercializzato da una ditta a capitale misto franco-giapponese). Le TLC rendono possibile questa estrema La parola globalizzazione è ormai entrata nel linguaggio comune. Ma, come spesso accade, il termine viene usato in modo generico e si presta agli slogan più disparati, quasi sempre vuoti di contenuto. Insomma, la globalizzazione viene mitizzata o demonizzata, ma quasi mai ci si sofferma a cercare di capirne le implicazioni, le opportunità, i rischi. Questo è il terzo articolo con cui Romano Trabucchi affronta alcuni di questi aspetti. Lo fa in modo aperto, problematico, senza nessuna pretesa di sistematicità, cui del resto un tema ancora così controverso nemmeno si presta flessibilità spaziale, temporale e organizzativa. Il computer che collega istantaneamente tutti i punti del globo, favorisce questa organizzazione e rafforza le interdipendenze tra tutti gli operatori locali. In questo contesto si moltiplicano le ristrutturazioni, le alleanze strategiche, le fusioni, le incorporazioni, le compartecipazioni (nel 1998 furono portati a termine 23.962 accordi di fusione in tutto il mondo per un valore di 2,4 trilioni di dollari e un incremento di quasi 5 volte rispetto al 1991)3. Cambiano, perciò, continuamente i confini fra l’impresa e il suo ambiente competitivo. Sorgono filiere o costellazioni di imprese collegate da rapporti produttivi o di mercato, spesso senza accordi societari, ma con semplici joint venture; alleanze necessarie per appropriarsi di competenze che diversamente sarebbero accessibili in modo più costoso e possono essere un mezzo per ridurre la libertà di manovra di un concorrente attuale o potenziale. Anche i rapporti fra le diverse imprese e organizzazioni si fanno leggeri e flessibili. 3 The Economist, 9 gennaio 1999 7 6 il giornale del dirigente Si puntava su strutture gerarchico-piramidali. Oggi conta il capitale immateriale costituito dalle conoscenze, dall’immaginazione, dalle informazioni, dalle competenze. Conta la velocità di azione e di reazione. Contano le relazioni. Conta il capitale umano. Le aziende cominciano ad apprezzare le competenze più della disponibilità delle persone, e questo ha una serie di conseguenze sul rapporto contrattuale del lavoratore con l’impresa e sul modo di concepire la sua vita professionale. Finisce il fordismo come filosofia organizzativa in base alla quale l’impresa è qualcosa di monolitico, solidamente radicata in un luogo, sede di lavoro per tutti i suoi operatori. Con la nuova filosofia postfordista l’impresa diventa una rete in cui le diverse funzioni possono avere localizzazioni diffeUn film come Il Re Leone, con tutte renti; in cui viene le operazioni di merchandising ad esso collegate, secondo Rifkin è il tipico spezzata la catena esempio del nuovo capitalismo culturale del valore; in cui l’esternalizzazione delle attività non primarie consente ad essa di concentrarsi sull’area strategica nella quale possiede le competenze distintive; in cui i tempi di APPUNTI SULLA GLOBALIZZAZIONE È evidente che anche la rigidità tayloristica dell’organizzazione del lavoro viene meno. Il postaylorismo va parallelo al postfordismo. La struttura organizzativa dell’impresa cambia: abbandona il carattere gerarchico-piramidale. Anche l’organizzazione della fabbrica si flessibilizza a tutti i livelli. Si pensi all’impresa estesa (extended entreprise), applicazione che poggia sulla teoria dei frattali. Nella fabbrica frattale i fornitori (una volta ritenuti rigorosamente “esterni” all’impresa) producono sul posto i pezzi e i sottosistemi che sono poi montati just in time sul corpo dell’auto posizionata sulla linea di montaggio che scorre ai due lati di un complesso di uffici in vetro, costruiti per facilitare la collaborazione tra tecnici e operai e lo scambio di informazioni4. Anche i confini dell’impresa si fanno mobili e incerti. E questo avviene proprio nella fabbrica automobilistica (paradigma della “monoliticità” industriale) da cui era nata la catena di montaggio con le ferree regole e i tabù dei Ford e dei Taylor. I fornitori entrano nella fabbrica e concorrono direttamente alla produzione: un buon esempio di questo è stata la “politica” della qualità totale. In sintesi, la “nuova” impresa, come abbiamo accennato, è caratterizzata dall’“effetto Odd”: outsourcing (esternalizzazione); delayering (appiattimento della piramide gerarchica); deconstruction (frammentazione della catena del valore). Anche il lavoro cambia. In questa situazione di grande turbolenza e incertezza cambiano le sue condizioni e la sua concezione. Non solo non ci sono più i mestieri che si svolgono per tutta la vita ma il lavoro - come afferma Bauman - “è sovente un’operazione una tantum, l’attività di un bricoleur, mirata a quanto è a portata di mano e a sua volta ispirata e limitata da quanto è a portata di mano, più il risultato di un’occasione presa al volo che il prodotto di un processo pianificato e programmato”5. Come ha affermato Ulrich Beck, il lavoro viene “flessibilizzato”: viene spezzettato nella sua dimensione spaziale, temporale e con- il giornale del dirigente 4 8 6 5 M. Carter, La rinascita di una forza trainante, The European, vol. 3, luglio 1998 Z. Bauman, Modernità liquida, Editori Laterza, 2002, pag. 159 trattuale. Questo ha implicazioni sui problemi dell’occupazione, sulle forme di lavoro e di rapporto contrattuale. Si realizza una molteplicità di rapporti e di contratti di lavoro. I nuovi lavori sono tanti: tanti lavori, altrettanti modelli contrattuali. I giovani, i destinatari dei nuovi contratti, sono stati definiti la “nuova razza flessibile”. Anche il tempo di lavoro è molto variabile. L’orario pieno quotidiano e per 5 giorni settimanali non è più la norma. Quando la produzione diventa per l’impresa un’attività non primaria. La tendenza alla “leggerezza” ha fatto sì che molte grandi aziende si siano “liberate” anche dei processi produttivi, esportandoli in zone del mondo dove la mano d’opera è a buon mercato o le condizioni per l’impresa particolarmente favorevoli. La produzione non è ritenuta un’attività strategicamente primaria e, quindi, viene appaltata all’esterno (all’estero). Qui l’outsourcing non ha una ragione specialistica, ma si giustifica con la ricerca, da parte delle imprese, di un aumento di deregolamentazione, di libertà imprenditoriale e di massimizzazione degli utili. Anche l’esternalizzazione della produzione è vista come un aspetto del grande processo di dematerializzazione. In questa impostazione il marketing diviene la funzione centrale e decisiva per il destino dell’impresa, perché si occupa della filosofia della sua immagine e della costruzione del marchio. Il prodotto nasce in fabbrica, ma ciò che il cliente compra è il marchio. È il marchio che trasmette valori, mode e costumi e motiva all’acquisto. È il marchio che garantisce la continuità del prodotto e dell’impresa. L’aspetto rilevante della produzione sono le idee, le immagini, i valori e le conoscenze incorporati nel prodotto e che il marchio esprime e valorizza. È, dunque, il marchio, non il prodotto, l’elemento fondamentale per il successo dell’impresa. Image is everything. Perciò il marchio deve rappresentare qualcosa di perenne. “I macchinari si usurano. Le auto arrugginiscono. Le persone muoiono. Ma i marchi sopravvivono sempre”, affermava Hector Liang, presidente di United Biscuits. In questa impostazione la strategia aziendale è pienamente legittimata a non considerare “primaria” la funzione della produzione: e a delocalizzarla in qualche parte del mondo. Qui il processo di dematerializzazione sembra aver raggiunto la sua forma integrale. Le multinazionali si svincolano dai prodotti materiali e la produzione non ha più quella considerazione che aveva nell’era industriale; non è più l’orgoglio degli imprenditori. È interessante notare come su questo punto si inserisca la denuncia di alcuni critici della globalizzazione. La fabbrica viene “rinnegata”, afferma Naomi Klein, la teorica dell’antiglobalismo. Nell’era dei supermarchi i prodotti possono non essere di ottima qualità; diventano irrilevanti; quello che conta è l’idea, l’identità culturale del marchio “In questa trasformazione, lenta ma inesorabile, delle priorità aziendali… società che si erano sempre accontentate di ricarichi del 100% sul prezzo al dettaglio rispetto al prezzo di produzione, sono andate alla febbrile ricerca di fabbriche, in qualsiasi parte del mondo, capaci di realizzare i loro prodotti a costi minimi per applicare un ricarico pari quasi al 400%”6. La contestazione delle multinazionali da parte del movimento che contesta questa forma di globalizzazione punta proprio sul processo di esternalizzazione della funzione produttiva e degli effetti che questo ha avuto per la logica delle imprese. No-global va parallelo a No-logo (il titolo del libro della Klein): due negazioni che sintetizzano la nuova contestazione all’economia globale. La tesi di Levitt, da noi citata all’inizio, diventa per la Klein il tentativo di colonizzare il mondo intero con un’unica cultura consumistica: i marchi delle multinazionali impongono un consumismo di massa dagli effetti devastanti per la qualità della vita degli uomini. In realtà, la delocalizzazione della produzione da parte delle multinazionali avviene spesso verso paesi che non hanno una politica fiscale e, soprattutto, hanno bassi salari e nessuna legislazione del lavoro. Qui l’esternalizzazione della produzione si sposa, secondo le critiche noglobal, con una nuova forma di “moderno schiavismo”. Certamente, le multinazionali, liberandosi degli stabilimenti, si liberano anche dei posti di lavoro e, soprattutto, del principio della “responsabilità del produttore” nei confronti della forza lavoro: un principio che apparte6 N. Klein, No-logo, Baldini & Castoldi, Milano, 2001, pag. 173 neva alla vecchia società industriale che faceva della sicurezza del posto del lavoro uno dei suoi punti qualificanti. La Nike, multinazionale dello sport, è l’esempio paradigmatico e molto citato di dove può portare la “leggerezza” delle nuove imprese e la loro tendenza ad “esternalizzare” ogni funzione aziendale, compresa la produzione. Quando, ad esempio, si scoprì che nelle fabbriche Nike in Cambogia lavoravano bambini, ci fu un grande scandalo. Partirono gli appelli contro il dumping sociale e a favore di un deciso boicottaggio dei prodotti dell’azienda. Alle Olimpiadi del 2000 a Sydney, il gruppo di pressione Nikewatch chiese agli atleti di boicottare i prodotti Nike. La multinazionale Usa per limitare i danni cancellò tutti i contratti con i fornitori cambogiani e questo fu, per la Cambogia, una sciagura, perché questo significava mettere sul lastrico decine di migliaia di operai cambogiani. È stato a seguito dell’intervento dei sindacati americani che si è trovata una soluzione per migliorare il rispetto dei diritti umani e le condizioni di lavoro (a cominciare dal divieto del lavoro minorile). Oggi la Nike annuncia stabilimenti che saranno controllati dall’Organizzazione internazionale del lavoro e aperti ai sindacati. Ecco come la minaccia di un boicottaggio da parte dei consumatori e la paura di un danno che avrebbe potuto colpire il cuore dell’impresa, l’immagine del suo marchio, ha mutato l’atteggiamento di una delle maggiori multinazionali. Il problema è che la sostenibile leggerezza (fisica ed economica) che ha reso possibile l’attuale globalizzazione si scontra con l’insostenibile pesantezza (etica e sociale) dello sfruttamento delle persone, della negazione dei diritti umani, dell’ingiustizia sociale. Vedremo prossimamente gli aspetti critici della globalizzazione e quali problemi e soluzioni possano prospettarsi. Anche le malattie si globalizzano? Con quali conseguenze? Nell’epoca della globalizzazione riappare la paura millenaristica di un’infezione totale, come le antiche pestilenze, a causa di un mutante particolarmente virulento, come tanti film di fantascienza hanno immaginato. Oggi si parla del rischio di un’influenza planetaria. L’analisi storica ed epidemiologica ha messo, d’altronde, in evidenza come l’emergere di nuove epidemie è sempre legato a profonde modificazioni sociali ed ecologiche. E oggi migrazioni di massa, urbanizzazione spinta, globalizzazione, con la facilità, la velocità e l’estensione del sistema di comunicazioni, aumentano la pericolosità di queste situazioni. La novità è che il tempo di trasmissione della malattia per i ritmi veloci di circolazione di cose e persone è divenuto fulmineo a confronto con epidemie del passato. Basti ricordare che nel ’300 per tornare in Europa dall’oriente, dove era endemica, la peste impiegò qualche secolo. Precauzioni per la SARS. Nell’era della globalizzazione riappare la paura atavica dell’infezione totale Il caso della polmonite atipica (Sars) è un esempio significativo perché i suoi effetti si ripercuotevano sul “made in China”, un paese importante nel processo di globalizzazione. Si è temuto che, se la malattia fosse continuata con l’intensità originaria, avrebbe rischiato di compromettere il nostro stesso stile di vita, i nostri consumi che utilizzano prodotti o parti di prodotto che vengono dalla Cina (scarpe, abbigliamento, videogame, microchips e via dicendo). Il 40% delle scarpe Nike, per fare un solo esempio, sono fabbricate in Cina. Nella divisione globale del lavoro la Cina ha un ruolo fondamentale per la produzione dei nostri beni di consumo. Essa, con la disponibilità del gigantesco serba- toio di manodopera a costi bassissimi che si ritrova è, ad esempio, il principale partner commerciale degli Stati Uniti. La nuova situazione creata dalla malattia metteva, perciò, in crisi gli approvvigionamenti e i rifornimenti, non solo per evidenti problemi organizzativi, ma anche perché gettava una luce sinistra sulla possibilità di assumere il coronavirus dagli oggetti o dalle merci di provenienza asiatica. E, soprattutto, metteva in crisi la catena gerarchica e informativa che lega le imprese locali alla casa-madre e i controlli che questa esercita quotidianamente sul loro operato. Ecco un esempio (in negativo) di quella interdipendenza degli eventi a livello mondo, di cui abbiamo parlato. In una situazione come questa, se esce dal con- trollo, c’è il rischio che metta in crisi gli stessi vantaggi dell’economia globale. In una delle sue corrispondenze dagli Stati Uniti, Federico Rampini notava come le multinazionali americane abbiano ipotizzato anche un’“impensabile” retromarcia dalla delocalizzazione per riportare interi pezzi della loro produzione economica vicino a casa, per esempio in Messico. E concludeva: “Sarebbe un colpo senza precedenti alla globalizzazione”7. Un anno e mezzo dopo l’11 settembre, la Sars attacca di nuovo la stessa infrastruttura nervosa della globalizzazione e rischia di metterne in crisi proprio l’elemento caratteristico, la moltiplicazione del commercio mondiale ottenuta grazie alla cancellazione delle distanze. 7 La Repubblica, 29 aprile 2003 11 6 il giornale del dirigente APPUNTI SULLA GLOBALIZZAZIONE