digital magazine ottobre 2010 N.72 iosonouncane democrazia del televoto blonde redhead Tremate, tremate le streghe sono tornate... SALEM, White Ring, oOoOO, Balam Acab, Modern Witch, Mater Suspiria Vision... Orange Juice Elisa Randazzo // No Guru // Crocodiles // Dargen D'Amico // One Dimensional Man Turn On p. 4 Elisa Randazzo 5 No Guru 6 Crocodiles 8 Dargen D'Amico 10 One Dimensional Man Drop Out 12 Blonde Redhead 20 iosonouncane 28 Tremate, tremate le streghe sono tornate Recensioni 36 Salem. iosonouncane. BlackAngels... Rearview Mirror 92 Orange Juice Rubriche 82 Gimme Some Inches 84 Re-boot 86 China Underground 96 Giant Steps 97 Classic Album SentireAscoltare online music magazine Registrazione Trib.BO N° 7590 del 28/10/05 Editore: Edoardo Bridda Direttore responsabile: Antonello Comunale Provider NGI S.p.A. Copyright © 2009 Edoardo Bridda. 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Staff: Mauro Crocenzi, Lucia Di Carlo, Desiree Marianini, , Fabrizio Zampighi, Stefano Pifferi, Marco Boscolo, Gabriele Marino, Teresa Greco, Andrea Napoli, Teresa Greco, Stefano Solventi, Antonio Puglia, Diego Ballani, Luca Barachetti, Giancarlo Turra, Edoardo Bridda, Gaspare Caliri, Gianni Avella Festival internazionale | 8° edizione Bologna, 30 ottobre - 6 novembre 2010 2 www.genderbender.it Guida In spirituale: copertina: Adriano Trauber (1966-2004) iosonouncane I n un’epoca in cui chiunque pubblica dischi, è un miracolo imbattersi in chi soppesa la mossa fino a quando non si sente pronto. Elisa Randazzo è siffatta rarità, un’artista con gli occhi spalancati sul mondo, pronta a raccogliere ogni barlume di vita e metterlo da parte. Dopo una gavetta d’eccezione che la avvicina a Lisa Germano (violinista, arrangiatrice e cantante nell’ultima formazione dei Red Krayola), ha avvertito il bisogno di aprire il proprio vaso di Pandora: “E’ stata una delle esperienze musicali più liberatorie della mia vita: avevo deciso di seguire l’istinto, il desiderio di registrare le canzoni così come venivano fuori.” Un agire ammirevole nell’era del calcolo e del distacco, questo mettere in primo piano il vissuto e ricavarne canzoni intense, sospese - senza hippismo da cartolina - in certa California (dove la Nostra, dopo un lungo girovagare, risiede) a cavallo tra ’60 e ’70. C’è semmai catarsi, evidente sin dalla copertina che raffigura una fotografia in fiamme, metafora di un passato che lascia il posto al presente; ribadita da una dimensione sonora domestica che indica la genesi meditata ma viscerale: “Nel bel mezzo del divorzio decisi di vendere l’anello nuziale per pagare studio e mixing. Ho inciso voci e violini a notte fonda nel mio soggiorno, senza sovraincisioni.” Con la 4 No Guru Turn On Turn On Elisa Randazzo —Eli's Coming— —Milano Original Playback— Alla luce di un esordio promettente, indaghiamo i segreti di una cantautrice fuori dal comune No Guru recita la ragione sociale, ma non si tratta di una formazione all'esordio. Al massimo di un "supergruppo", come dimostrano i nomi coinvolti nel progetto. cura e l’amore di chi si guadagna il pane da stilista (con la linea “Dusty of California”, ispirata al suo mito Dusty Springfield) e di chi le note le ha assimilate con il latte materno, aggiungiamo. I genitori, Victoria e Teddy, vergavano infatti hit per Zombies, Linda Ronstadt e Frank Sinatra: “La vita famigliare ha ruotato attorno alla musica. E’ da lì che arriva, anche se il mio approccio è diverso: non scrivo per conto terzi ma partendo da un luogo e da un’interpretazione personali. Però, quando sono ispirata, lavoro finché non ottengo qualcosa e anche questo lo devo ai miei, come il ‘costruire’ i brani con gli archi.” Ecco il segreto della delicatezza dell’insieme, della collaborazione con Bridget St. John e del fantasma di Judee Sill che appare sovente, delle pagine che riportano alla Joni Mitchell che non è più e alla brillantezza del miglior Neil Young agreste. Bruises And Butterflies cresce con gli ascolti e persuade su un cammino già proiettato nel domani con passo sicuro: “Vedere i miei desideri realizzarsi mi fa stare bene. Non ho rimpianti per me questa è una cosa molto importante.” Da adulta, la grandezza non può che attendere dietro l’angolo. Giancarlo Turra S iamo in tempi di revivalismo anni Novanta e chi in quegli anni visse il proprio zenith, torna ora a farsi sentire. E’ il caso dell’ex Ritmo Tribale Edda, convertitosi a un folk intimo e mutante, degli Afterhours visti a Sanremo, del nuovo corso dei Massimo Volume, degli Starfuckers di Ordine '91-'96, del citazionismo dei Vessel targati Gismondi–Nuccini-Reverberi o dei rinati One Dimensional Man. Vecchie conoscenze che a bordo palco ritrovano nuovi estimatori assieme a quello zoccolo duro di fans che i Novanta li ha vissuti sul serio. Come hanno dimostrato i concerti affollatissimi dei Massimo Volume l'anno scorso o più di recente i molti lettori passati per la nostra recensione di Milano Original Soundtrack – complice la pubblicazione della stessa sul profilo facebook della band – dei No Guru di Xabier Iriondo, Andrea Scaglia, Alex Marcheschi, Luca Talia, Bruno Romani e Andrea “Briegel” Filippazzi. Di loro parliamo in questa sede, ex Ritmo Tribale ed ex Afterhours (con una punta di Detonazione) tornati come per magia sotto lo stesso tetto. Con in testa quella Milano sempre più ingorgo (culturale?) e sempre meno realtà disposta a tirare il freno delle pretese. Eppure è proprio la somma dei fattori a generare i No Guru, un’unità inscindibile di passato, presente e geografia che emerge anche dalle considerazioni della band: "Milano e duemiladieci: questi sono i due elementi essenziali. Sentivamo il bisogno di tirar fuori l’isterismo della città, lo sferragliare dei tram, la sensazione di vivere sempre in ritardo. E dunque tempi spezzati, sax dissonanti, uniti a un ritmo incalzante. Gli Afterhours, i Ritmo Tribale, gli anni Novanta sono solo note biografiche. Esistono e fanno parte del nostro bagaglio personale. Ma questo progetto vorrebbe andare oltre." C’è il rumore nervoso delle no wave a certificare la svolta stilistica. Una musica in bilico tra cesure intransigenti ed elettricità spigolosa, crescendo e rimbalzi funk, incentrata su una scrittura che in parte richiama la forma mentis delle formazioni-madri: “Abbiamo cercato di inserire ingredienti poco armonici all’interno di una scrittura fondamentalmente pop.Volevamo che il messaggio arrivasse, senza indugiare in avvitamenti strumentali troppo prolissi. Rispetto al passato le chitarre sono più acide, non ci sono i bassoni che tanto piacevano a Briegel, emergono stacchi dissonanti". Tra le righe tornano in mente i Contortions ma niente sperimentalismi gratuiti in bella mostra. Al massimo una solidità invidiabile garantita da musicisti decisi a rimanere ben sintonizzati sul presente. Il loro. Fabrizio Zampighi 5 Turn On Crocodiles —Psycho surfers— Dieci anni di provocazioni sonore sfociano in uno degli album pop più brillanti dell’anno. Dai Plot ai Crocodiles, la storia del duo californiano più hyped del momento C hissà se i fratelli Reid, nati al sole della California anziché nell’uggia di Glasgow, avrebbero covato quel misto di alienazione e tensioni urbane che ha fatto dei Jesus And Mary Chain un bignami esistenzialista ad uso e consumo di generazioni di noisemakers. In questo senso Brandon Welchez e Chriss Rowell sono solo gli ultimi del lotto. Loro vivono a San Diego, ma l’arte del rumore l’hanno imparata presto, come corollario ad un gusto per la provocazione che faceva dei loro Plot uno sputo un faccia a chi pensa ancora alla California come la patria di surf, bellezze siliconiche e muscolosi tipi da spiaggia. Plot sta per Plot To Blow Up The Eiffel Tower. Una storia breve la loro, articolata in tre album, l’ultimo dei quali, Saviors & Suckers, giace ancora unreleased in qualche cassetto polveroso. Nacquero dalla fantasia di Welchez e Rowell, appena conosciutisi a un meeting antifascista tenutosi a San Diego, e per sei anni misero a segno un attacco sistematico a ogni tipo di prevaricazione culturale. A prescindere dall’aspetto meramente musicale (il loro era un art punk che incorporava elementi noise e free 6 jazz), a spostare sempre un pò più in alto l’asticella della tollerabilità, fu una via crucis di gigs d’assalto, in cui la band attuava ogni tipo di provocazione. Fra le altre cose erano soliti presentarsi sul palco con uniformi che richiamavano quelle del partito nazista, per poi lasciarsi andare ad atteggiamenti omoerotici. Una volta, a Salt Lake City, si sfiorò la rivolta. Welchez ricorda l’episodio divertito: "Fu una sorta di Stonewall (la rivolta gay del ’69 che prese il nome da un locale del Greenwich Village, ndr.), stavamo suonando per un branco di palestrati omofobi che iniziarono a minacciarci dicendo che volevano ucciderci. Fortunatamente non passarono mai ai fatti". A settembre del 2006 i Plot annunciavano lo scioglimento tramite il loro MySpace: un comunicato di poche righe che metteva la parola fine al progetto, ma non all’attività dei due in qualità di catalizzatori delle tensioni creative che ribollivano ai margini della città. Welchez, insieme ad altri membri della band, formò i Prayers (autori di un solo EP per la concittadina Art Fag). Rowell, preferì dedicarsi alla letteratura. Scrisse addirittura due libri prima di decidersi a formare i Crocodiles insieme al vecchio compagno. Rispetto alla band originaria, le influenze del nuovo progetto erano tracciabili quasi geometricamente. I Crocodiles si muovevano in quello spazio cartesiano che ha sull’asse delle ascisse l’apatia esistenzialista dei Jesus And Mary Chain e sul quello delle ordinate il pop isolazionista degli Spacemen 3. Neon Jesus, il singolo che segnava l’esordio della band, era un grumo pulsante di energia negativa sepolto sotto scorie di feedback e detriti punk, talmente convincente da destare l’attenzione dei media e fungere da trampolino di lancio per l'etichetta creata dallo stesso Walchez, la Zoo Music. Ma non bastava, perché in un underground californiano scosso da fremiti creativi, era necessario che qualcuno si arrogasse l’onere di delineare i riferimenti culturali verso cui far convergere l’immaginario artistico. Ecco il senso delle serate intitolate Skull Kontrol, dal nome del blog curato dagli stessi Crocodiles: si trattava veri e propri happening, momenti di gestazione della scena cittadina, che avevano come protagoniste le più eccentriche sensibilità locali. "E' stato bello fino a che è durato – ricorda oggi Welchez – Erano serate incredibili, in cui si suonava di tutto, dai Germs a Biggie Smalls. Era qualcosa di veramente eclettico!". Ad affiancare i due nell’organizzazione e promozione delle serate c’era il loro amico Mario Orduno, creatore della Art Fag, etichetta fra le più attive all’interno del fall out di sonorità lo-fi, d’oltreoceano. San Diego diventava così la terza punta del triangolo che vedeva Brooklyn (con Woodsist e Captured Tracks) e Chicago (con la HoZac) agli altri due poli. Seduti al centro della scena c’erano loro, i Crocodiles, in virtù dell’attesa spasmodica che si respirava per il disco d’esordio. Welchez e Rowell lo registrarono di straforo nello studio di un amico produttore, sfruttando i suoi momenti liberi. Summer Of Hate, esce a metà del 2009: l’impeto anarchico dei Plot è in gran parte ammorbidito, incanalato in una narcosi psichedelica che pervade tutti i brani. Le coordinate sono quelle di un noise pop controllato, talvolta nebulizzato in una dilatata trance lisergica, cinico come il titolo più rappresentativo dell’album, quella I Wanna Kill il cui chorus "...nothing right, nothing wrong..." secondo alcuni esprime al meglio l'estetica apatica della band. "Niente di tutto questo. – affermano i due parlando di quel brano – Si tratta di una canzone scritta a soggetto. Non tutto quello che cantiamo va preso alla lettera. Siamo più attratti dall'aspetto musicale della faccenda. Esteticamente ci piace percorrere la linea di confine fra violenza e bellezza". A pubblicare il disco è la Fat Possum, etichetta dai trascorsi blues punk che sta radicalmente rinfrescando il proprio roster, fino a rendersi protagonista della nuova stagione indipendente a stelle e strisce. In quelle miniature di pop drogato, in quella surf music per chi ha ecceduto con lo Xanax, l’etichetta intravede un potenziale commerciale e decide di investirvi. Occorre però levigare le asperità di una produzione semiamatoriale e dotare la band di una serie di input che permetta loro di esprimere al meglio le proprie potenzialità. Per questo viene ingaggiato uno dei produttori più hyped del momento (James Ford del collettivo Simian Mobile Disco) e allestito uno studio di registrazione nel bel mezzo del deserto del Mojave, a Joshua Tree: un’abitazione opportunamente riconvertita e imbottita all’inverosimile di ogni tipo di strumento analogico e digitale. Anticipato dall’omonimo singolo (che vede come side track una cover dei Dee-Lite!), Sleep Forever è il brillante e caleidoscopico frutto di quelle sessioni. Pervaso dall’amore per i 60s più sognanti e per la wave più emotiva, il sound dei Crocodiles è un impasto di feedback, beat elettronici, vocalizzi aerei e colorate cromature d’organo che esaltano le melodie velvetiane della band. L’oltraggio nichilista si è tramutato in uno psycho pop sognante, al punto che il video dell’ultimo singolo Heart Of Love, mostra un assolato scorcio di California in cui fanno capolino quelle spiagge su cui oggi, i Crocodiles, appaiono perfettamente a loro agio. Diego Ballani 7 Turn On Dargen D'Amico —Prendi per mano D'Amico— Prendiamo al volo l'invito di Dargen e lo prendiamo per mano. Per capirlo, se la cosa interessa, bisogna entrare nel suo mondo a suo modo, saper mettere assieme carne ed esegesi, poesia e tamarragine. S ubito dopo l'uscita della prima parte (primi di giugno) e subito prima dell'uscita della seconda (primi di ottobre), abbiamo intercettato Dargen per cercare di capire meglio i perché e i percome della direzione - consapevolmente suicida - definitivamente intrapresa con il progetto su doppio EP digitale D'. Chiacchierata veloce ma densa. Partiamo da lontanissimo. Più volte hai detto della tua passione per i neomelodici. Qui a Palermo il fenomeno è di una pervasività incredibile. Ma a Milano, come li hai scoperti? La cosa ti interessa a livello di immaginario, di estetica, di voci? Chi ti piace? Il genere neomelodico è dappertutto, è uno stato della mente non una regione d’Italia, tant’è che anche i neomelodici palermitani cantano in napoletano. Io li ho scoperti prima che si navigasse in rete, era semplicissimo acquistare le musicassette neomelodiche negli autogrill, in tutti gli autogrill, anche nel profondo nord. Amo, ma preferisco comunque non fare nomi perchè i chiacchieroni non sono benvisti tra i neomelodici. Conosci Alea, la rapper di Acerra? Sono rimasto colpito anni fa dal suo primo singolo, Ghetto, pezzo che poi Neffa ha remixato e sul quale ha rappato una strofa (parliamo di tempi già post-Chicopisco). Era un pezzo con una sua violenza poetica, molto oldskool rap. Anche ad Alea ho chiesto dei neomelodici. Lei apprezza soprattutto i cantanti coi piedi ben piantati nella tradizione, tipo Maria Nazionale (tra i protagonisti di Gomorra versione Garrone). Anche a me piacciono quelli ben piantati, anche fisicamente. Non conosco la canzone di Alea, però l’ho sentita nominare più volte. Chiaramente abitando ad Acerra avrà una conoscenza ben più approfondita del genere, conoscenza che le invidio. 8 Visto che siamo in argomento...Ti piace l'ultimo Neffa hip hop? Vi lega, tra le altre cose, la stima che entrambi avete per Emiliano Pepe. Sì, il Neffa di quel periodo mi piace eccome, come è naturale che piaccia a chi mastica un minimo di rap. A Emiliano sono molto legato, ultimamente lo vedo poco, ma mi fa sempre sbattere ‘o core, lo voglio troppo bene e gli dedico Facimme Pace di Tony Colombo. Sempre parlando di cantanti amati nel mondo hip hop italiano, che mi dici di Diego Mancino? Conosco il suo ritornello per un pezzo di Fibra [Idee Stupide; ndr] e mi piace, ma la mia conoscenza si ferma lì. Mi stai facendo fare una figuraccia, grazie. Hai detto che a Fabri farebbe bene pubblicare un disco dalle vendite non multimilionarie. Hai detto anche che con Controcultura ha probabilmente centrato questo obiettivo. Quanto e come ti pare diverso dalle sue ultime cose? Il suo freestyle sul tuo Van Damme e le anticipazioni che ho sentito da Quorum mi hanno abbastanza convinto... Ha più chiare le proprie possibilità, meno angoscia, sa lavorare su di sé senza attendere che lo facciano i discografici. Sia tu che lui siete due nomi storici dell'HH underground italiano. Il vostro percorso artistico è simile e profondamente diverso, come dev'essere. Entrambi avete semplificato l'approccio alla rima e diminuito il tasso di tecnica rispetto alle produzioni storiche (penso a Una Minima e penso a Tana2000), a favore di una comunicatività più asciutta e allo stesso tempo a tinte più forti: le pose da "Eminem italiano" di Fabri, le tue produzioni che flirtano con l'electro (con quell'uso così deformante del vocoder, e ancora il rapping molto meno squadrato, vicino al cantato)... Si tratta in qualche modo di un adeguamento ai nostri tempi? Mi pare improbabile che un artista resti uguale a sé. Immaginati Vasco Rossi che in ogni disco ripropone Albachiara, magari cambiando qualche parola, qualche nota, ma sempre Albachiara, allora sì che sarebbe giusto incarcerarlo senza appello, l’immobilità è ben peggio del possesso di cocaina. La cosa che spaventa di più è che probabilmente i fan farebbero i salti di gioia ascoltando Albaalba, e l’anno seguente Chiarachiara, e via così fino al 2012. In Prendi per mano D'Amico dici "mi riconosco nel mio disco solo se mi rispecchio nel retro del cd". In Il Rap per me dicevi: "Il rap per me è dire cose che non credi su una musica non tua". L'autenticità è solo una delle maschere possibili? L’autenticità è relativa. I soldi falsi non sono più falsi di quelli veri. Ben vengano le maschere, il deodorante è una maschera, la buona educazione è una maschera. Nelle tue ultime collaborazioni con Amari e Crookers, e con questo ultimo eppì in particolare, sembra che tu ti stia costruendo una tua "poetica tamarra". Mi spiego meglio. "La mia religione è bere una cosa con te" non è una specie di aggiornamento della poetica montaliana delle piccole cose al tempo dell'aperitivo, dei cellulari, del social network eccetera? Penso anche a certe tue dichiarazioni in cui dici che Dio può stare dappertutto, anche e soprattutto nelle piccole cose... Sì, se l’ho detto, non lo nego. Lungi da me però aggiornare la poetica montaliana, più interessante e utile per me sarebbe se Montale aggiornasse la mia. In realtà le poetiche si aggiornano automaticamente. Forse, se oggi Montale fosse qui a Milano e avesse la mia età, sarebbe un cantautorap come me e magari a quest’ora saremmo assieme. Sempre in Bere una cosa, parli di "vita senza tempi morti". Mi ha fatto pensare a Pasolini e ai suoi discorsi su vita, morte, pianosequenza e montaggio... A me no, ma rispetto troppo le idee altrui per farti cambiare idea. La produzione di Malpensandoti ha qualcosa dei Daft Punk di Make Love. C'è la stessa atmosfera agrodolce, rarefatta, rallentata. Ecco, quando produci, come produci? Che tecnologia usi, a chi ti ispiri? E’ un accostamento che mi fa immenso piacere, come l’insalata e l’aceto balsamico, ma credo sia fin troppo sfavorevole per loro. I Daft sono una pietra miliare della musica contemporanea, hanno prodotto dischi e suoni che altrimenti non esisterebbero. Io inversamente, produco con pochissima perizia e molto a sensazione, non sono un musicista, non ho i mezzi per ispirarmi a chi vorrei. Produco con un vecchio pc e una vecchia versione di Acid Pro. Ultima cosa. Il tuo rapporto con la Sicilia. Ci ritorni ogni tanto o è solo un ricordo (o una fantasia)? Ci torno spesso, ci mancherebbe. E' un paradiso in liquidazione. Gabriele Marino 9 Turn On One Dimensional Man —A volte ritornano...— Mai ufficialmente sciolti, ma nemmeno attivi. Dopo un decennio di congelamento, torna la seminale formazione del noise-rock italiano per una serie di live e un nuovo disco... L a notizia ormai è di dominio pubblico, ma resta sempre di quelle bomba. Gli One Dimensional Man si riformano per una serie di concerti in cui celebrano, riproponendolo nella sua interezza, You Kill Me, il disco del 2004 che ne sancì il successo di pubblico e critica. Notizia che sicuramente farà piacere sia ai 30something, sia ai molti fan del Teatro Degli Orrori. I primi a cavallo dei 2 millenni videro crescere il terzetto veneto, apprezzandone il noise-rock di stampo newyorchese e i live incendiari; i secondi avranno modo di vedere da dove prende le mosse una delle macchine da guerra rock più in forma del momento. Noise-rock di matrice newyorchese, lercio e depravato, imparentato con quella forma bastarda di blues violentata da Surgery e Pussy Galore, in grado di diffondere il verbo di Scratch Acid e Jesus Lizard, completamente immolato ad una idea di rock sudata, appassionata, punk senza-essere-punk. Questa potrebbe essere una ideale cartolina dal mondo ODM. In più metteteci un cantante carismatico, musicisti con l’orecchio giusto (vedi alla voce Favero), un forte 10 immaginario letterario e una certa predilezione per la forma-canzone ed avrete una delle band più considerate e insieme sottovalutate del primigenio panorama rumoroso italiano.Vederli sul palco, per la prima volta o come un attesissimo comeback, non sarà male. Il fatto poi che il terzetto – a supportare Capovilla al basso e Giulio Ragno Favero alla chitarra troviamo Luca Bottigliero, batterista dei Mesmerico – roderà alcuni brani nuovi per l’annunciato full-length non fa che aumentare la voglia di seguirli on stage. Per ora accontentiamoci di questa chiacchierata con Pierpaolo Capovilla. Cominciamo con una domanda semplice, scontata e anche un po’ provocatoria: perché? perché dopo così tanti anni, Pierpaolo? One Dimensional Man non si sono mai sciolti. Abbiamo fatto Il Teatro degli Orrori, certo, ma ho sempre detto che One Dimensional Man avrebbero continuato il loro percorso; ora, è arrivato il momento di rimettere in moto questa creatura, che mi è costata tanta fatica... Come mai ti è costato tanta fatica rimettere su quest’animale da palco che sono ODM? Fatica? No, nessuna fatica, amico mio. Lo faccio con gioia ed entusiasmo, come sempre. Io non sto facendo altro che portare a compimento l'obiettivo che mi ero dato circa quattro anni fa: due gruppi, tourné tutto l'anno, in studio di registrazione ci metterò le radici.Voglio vivere la mia vita fino in fondo, costi quel che costi. Come è maturata questa decisione, mi riferisco al successo del Teatro, tantissime date, impegni in studio e in progetti particolari, ma pure all’“uscita” di Giulio dal Teatro per poi “rientrare” con ODM… Credo che io e Giulio siamo nel bel mezzo di un sodalizio artistico; lavorare insieme ci procura grandi soddisfazioni. Come si collocano gli ODM oggi? Voglio dire, all’epoca eravate dei precursori di un certo suono, ora la scena noise-rock italiana bene o male è matura, pensa a Lucertulas, Dead Elephant, ecc. e soprattutto c’è un certo distacco anagrafico tra noi vecchietti e le nuove leve… Vecchietti? Distacco anagrafico. Mi rendo conto...Ma dopo l'inaspettato successo de Il Teatro, riproporre One Dimensional Man era inevitabile. Se non ora, quando? C'è un pubblico inter-generazionale, che non vede l'ora di ascoltarci dal vivo. Sarà come dici tu, la scena ormai è matura, ma qualcosa mi dice che One Dimensional Man possano ritrovare un posto di tutto rilievo. I prossimi dieci concerti saranno all'insegna del nostro suono di sempre, ma il nuovo disco sarà invece molto innovativo. Dal tuo osservatorio privilegiato – intendo come distacco anagrafico e come realtà consolidata del rock italiano – come è la scena noise-rock italiana attuale? Esiste una scena noise-rock in Italia? Non lo sapevo. Di quelli di un tempo – penso a Crunch e Jinx tanto per far due nomi – ormai non si hanno notizie. Voi invece ritornate. Volete solo riscuotere il dovuto o al cuor non si comanda e il primo amore non si scorda mai? Sono convinto che One Dimensional Man sapranno superare ogni aspettativa. In cuor nostro, l'ambizione più grande è quella di fare un bel disco. Perché la scelta è ricaduta su You Kill Me? Perché fu quello della “svolta” o ci sono altre ragioni? You Kill Me è il nostro disco più rappresentativo, la scelta è stata naturale.Il live conterrà comunque pezzi da tutti i dischi, dal primo all'ultimo. Sarà una meraviglia. Ci saranno inediti. Contiamo di spaccare i timpani all'auditorio, e chissà, fors’anche oltre. All' universo ... Prima mi accennavi al nuovo disco come qualcosa di innovativo. C’è una attesa piuttosto grande, perciò vuoi anticiparci qualcosa? Per ciò che riguarda il nuovo album di One Dimensional Man, siamo ancora nella fase interlocutoria dello scambio di idee; ma io e Giulio lavoriamo con grande velocità, e abbiamo le idee chiare Il nuovo disco sarà profondamente diverso dai precedenti, molto più attento al futuro, e molto più "dinamico". I testi non li scrivo io, ma tutti Rossmore James Campbell, pittore e poeta australiano di Sidney che già collaborò con One Dimensional Man in "You Kill Me" ("This Man in Me" è un testo suo). Sarà un disco romantico, seduttivo, ricco di tristezza e disperazione, di gioia e riscatto. Questo ottobre sembra proporci grandi ritorni eccellenti …Massimo Volume, prima e ODM, poi…secondo me è segno della grandezza “avanguardistica” di certi progetti italiani…troppo avanti per i tempi in cui maturarono…che ne pensi? Sono d’accordo. Eravamo in anticipo sui tempi "italici", ma eravamo in ritardo a livello globale. Stefano Pifferi 11 Blonde redhead —Quasi per caso— Drop Out Hanno attraversato due decenni. Hanno uno zoccolo duro di fan che li segue appassionatamente. Abbiamo incontrato Amedeo, Simone e Kazu e ci siamo fatti raccontare la loro storia... Testo: Marco Boscolo 12 13 “Non lo so come capiamo quando una canzone è pronta: semplicemente lo sentiamo”. Sta tutto qui il pensiero musicale di Amedeo Pace e dei suoi due compagni di viaggio, il fratello Simone e la giapponese Kazu Makino. Non ci sono regole precise per la creatività, le canzoni e i suoni si formano piano piano nell'interplay tra gli strumenti, “quasi per caso, senza che ci siano delle strade già predefinite”. Ed è un po' difficile da credere mentre assistiamo al concerto bolognese del trio nippo-italiano di base newyorkese. Le canzoni sono eseguite con una professionalità e una vocazione estetica che non sembra lasciare alcunché al caso. Ne abbiamo avuto la riprova durante il pomeriggio, quando siamo venuti qui all'Estragon di Bologna per incontrare i musicisti. Erano solo le due del pomeriggio e i fratelli Pace erano già impegnatissimi nel loro sound check. Ogni pelle e ogni effetto della batteria di Simone (combinazione di tamburi acustici e percussioni elettroniche) è stato provato finché il fonico non ha trovato il livello che soddisfacesse il batterista. Lo stesso è valso per le chitarre e le tastiere suonate da Amedeo. Una precisione che sembra voler affermare che i suoni di qui e ora devono assomigliare all'idea che i Blonde Redhead hanno in testa, non si sa bene dove, ma bisogna cercarli finché non si trovano, in un'atmosfera generale che è difficile capire quanto sia fintamente o genuinamente naif. L'idea di ricerca sonora emerge anche dalle chiacchiere che abbiamo fatto sul tour bus con Kazu, considerata dallo staff e anche dai fratelli Pace, come la mente principale dietro a Penny Sparkle, l'ultimo capitolo di una saga indie che si avvicina senza colpo ferire ai vent'anni di attività. “Sono stata a Stoccolma dove ho lavorato con i produttori (Van Rivers e Subliminal Kid, gli stessi di Fever Ray, N.d.I.) e lì ho inizialmente scritto una versione di Here Sometimes. Suonare e lavorare in Svezia mi è piaciuto molto, così ho cominciato a pensare che avrei voluto realizzare tutto il disco in quel modo e con quell'atmosfera”. In quel periodo, come ci racconta lui stesso, succede che Amedeo si trovi in Islanda per suonare nel disco di un amico. Così è facile arrivare in Svezia e provare a mettere il suo tocco sul nuovo pezzo. Meno contento di questa produzione che Makino conferma essere stata piuttosto importante (“ma era quello di cui probabilmente avevamo bisogno”) sembra essere Simone, che raggiunto al telefono qualche settimana prima dell'uscita del disco ci ha raccontato che lavorare a distanza, tra New York e Stoccolma, non è stato così semplice:“abbiamo avuto da che ridire con la produzione, perché avevamo in mente un'idea di suono e loro ci hanno invece spinto in un'altra direzione. Abbiamo discusso anche pesantemente, perché ci era parso che la nostra idea di sound venisse troppo influenzata dalla produzione”. Alla fine, però, il risultato di questa scissione tra Europa e America, con Makino di qua e i fratelli Pace di là, sembra aver soddisfatto tutti e tre i membri della band, perché anche Simone alla fine sottolinea che le idee suoi suoni date da Van Rivers e Subliminal Kid ha prodotto una dialettica che si è rivelata produttiva per tutta la band nell'andare a parare in territori più europei che forse non erano del tutto attesi, in una definitiva ricongiunzione tra i due continenti, per chi, come i Blonde Redhead ha iniziato una carriera nel solco del chitarrismo sonico del Lower East Side ed è approdato in casa 4AD. Delle eventuali influenze del tipico suono dell'etichetta, la stessa di band atmosferiche ed eteree come i Cocteau Twins e i This Mortal Coil, i tre preferiscono non parlare. Al telefono, Simone era stato addirittura categorico:”non me ne frega niente di queste cose. Io penso a suonare e a portare avanti il lavoro dei Blonde Redhead. Non mi interessano le etichette messe dalla stampa e non mi interessano nemmeno le influenze che possiamo avere”. Ma 14 concede che durante la lavorazione del disco si ascoltava Third dei Portishead, la cui influenza fa capolino anche in alcune parti di batteria sul nuovo disco, e la musica brasiliana degli anni Sessanta. “Quando metti su un disco brasiliano di quegli anni”, racconta Amedeo sul tour bus, “hai immediatamente una sensazione di libertà che non ha eguali”, ma anche se con un filo di riluttanza ammette anche lui che i Portishead sono finiti nel lettore, forse tre o quattro volte, ma non so se questo abbia influenzato il sound del disco”. Makino starnutisce e ha il naso un po' chiuso di chi sta covando un raffreddore potente, sicuramente colpa di un autunno bolognese in anticipo e del condizionatore del bus settato su temperatura eccessivamente refrigeranti. La sua preoccupazione per la performance della serata, però, non è per la voce e il canto, ma per le parti di tastiera di Amedeo, il quale intanto se ne sta seduto con una tazza di te caldo tra le mani cercando di combattere l'umidità. “Nelle nuove canzoni ci sono ancora delle parti di tastiera che Amedeo suona con qualche esitazione, forse perché siamo all'inizio del tour e le canzoni sono ancora fresche”. Chissà, forse la preoccupazione deriva anche dal fatto che normalmente Amedeo suona di più la chitarra, lo strumento da cui derivava l'impronta sonora dei primi Blonde Redhead. “Dal vivo suono molto di più la chitarra”, precisa lui stesso, “rispetto a quanto non abbia fatto sul disco. Ma non è del tutto lineare capire in che direzione siamo andati con il nuovo disco. Il fatto è che di ogni canzone di Penny Sparkle abbiamo tre, quattro, a volte cinque versioni differenti”. Forse un giorno sarà il caso di preparare un bel box di alternate takes e rarità, un atto di celebrazione che finora la band non si è mai concessa. E se il modo di comporre è rimasto lo stesso dall'inizio della carriera, potrebbe anche trattarsi di una retrospettiva su svariati cd. Quando i tre appaiono sul palco, l'Estragon è pieno come per le grandi occasioni. Kazu, Simone e Amedeo si presentano in bianco, illuminati da lampade che ricordano delle lunghe candele. Le presenze confermate dell'organizzazione sono alla fine 1100, in perfetta continuità con le due tappe precedenti di Milano (800) e Roma (1400). Osservando e mescolandosi con il pubblico si capisce un po' meglio quale sia la vera abilità che ha tenuto i Blonde Redhead in linea di galleggiamento per tutti questi anni. I tre hanno sempre saputo filtrare in una forma originale e personale le istanze che hanno captato con le loro attentissime antenne musicali, alla faccia di quando sostengono di non venire influenzati da quello che ascoltano. O forse, nel loro caso, non si tratta di vere e proprie influenze, ma di una capacità di riplasmare lo zeigeist di un sound. E lo si intuisce osservando il pubblico, composto soprattutto da appassionati della prim'ora, da quelli che hanno cominciato a seguirli con La Mia Vita Violenta del 1995. Il titolo di quest'ultimo a ricordare le radici italiane dei fratelli Pace (con un omaggio a Pier Paolo Pasolini), mentre la 15 materia sonora che si sviluppa dentro è un art-rock noiseggiante di chiara matrice americana. Si tratta in realtà del secondo disco (l'esordio, omonimo, è dello stesso anno), ma è il primo con la formazione a trio definitiva, dopo l'abbandono di Maki Takahashi, e un disco ancora molto amato dai fan. L'estetica low-fi che lo pervade ha contribuito in maniera determinante a lanciare i Blonde Redhead nell'empireo degli eroi indie, sostenuti anche dal canto straniante e graffiante della Makino. Gli episodi più riusciti sono probabilmente le schegge garage (meno di due minuti) di I Am There While You Choke On Me e la soffusa Young Neil. Alcuni hanno sostenuto che la miscela sonora proposta da quei Blonde Redhead fosse un indie rock con un'attitudine math.Tutto si può giustificare, e forse il math rock di quegli anni ha influenzato studenti di arte e musica quali erano i membri della band all'inizio degli anni '90, ma a noi pare più onesto pensare che i fratelli Pace e la Makino mettessero la loro perizia 16 strumentale al servizio della loro musica senza apparire nerd, in un'estetica in bilico tra noise, art, Steve Albini e Thurston Moore. Difficile comunque incasellarli, anche solo umanamente, in una qualche categoria. Nemmeno quella di newyorkesi, di abitanti della grande città fatta di meticciato razziale, di immigrati da ogni parte del mondo, quella città che accoglie tutti coloro che hanno un minimo di talento (e volte nemmeno quello) come la loro casa adottiva, una patria dell'animo (artistico). “Io e Simone siamo nati a Milano, mentre Kazu è nata in Giappone”, racconta Amedeo avvolto dal suo maglione a righe con abbottonatura alla marinara, magari comperato in una delle sue gite in bici per le boutique di Soho. “A New York ci siamo soltanto trovati, ma almeno io non è che mi senta particolarmente a casa in quella città. Mi capita di più di essere a mio completo agio in mezzo alla natura, in un contatto diretto con lei”. Quasi di un ritorno alla vita selvaggia, nei boschi, un'idea che ha sempre affascinato gli americani progressisti, da David Thoreau a Christopher MacCandless. Probabilmente sta qui, nella negazione di alcuna appartenenza una chiave di lettura della prima parte della parabola Blonde Redhead, di apolidi del suono e dell'estetica. La stessa negazione, si trattava allora del pop, che contraddistingue il terzo episodio, Fake Can Be Just As Good del 1997, il primo disco in cui davvero suonano come i Sonic Youth in tutto e per tutto. I tre se ne fregano di poter essere considerati degli epigoni e snocciolano otto schegge di rock spigoloso dominato dalle chitarre abrasive di Amedeo e dal canto di Kazu Makino che a volte sembra proprio quello di Kim Gordon. Il percorso si fa via via meno spigoloso a partire dal successivo In an Expression of the Inexpressable dell'anno seguente, mano a mano che la voce della Makino trova una strada propria, tra Bjork ed Elisabeth Frazer, mantenendo un'attitudine artatamente hippy. Ammorbidimento ancora più evidente nel successivo Melody of Certain Damaged Lemons, il più accessibile fino a questo momento. Letti in prospettiva con quello che è avvenuto dopo, possono sembrare preludi dei capovolgimenti che si sarebbero concretizzati nel giro di pochi anni, quando i Blonde Redhead si accasano alla 4AD. “Forse sono stati proprio loro dell'etichetta a vedere in noi un sound potenziale per il loro roster, perché noi” racconta Amedeo mentre Kazu annuisce, “non ci siamo mai visti come una band con quel tipo di sound. Poi può essere venuto fuori qualcosa che si colloca in quell'area, ma non è stata una scelta consapevole”. D'altra parte, la continua ricerca aperta a qualsiasi stimolo non prevede certo che si vada in studio di registrazione con delle idee preconcette in testa. Ma tant'è che nell'effimera stagione della nu-wave, come veniva definito il ritorno in auge di sonorità post-punk grazie a Interpol, Editors e compagnia, che anche il nuovo Misery Is A Butterfly è un compendio dell'aria che tirava allora e che ha tirato per buona parte del decennio. Tramonta il lato rumorista della band e emerge in tutto e per tutto un pop rock accessibile, caratterizzato da atmosfere suadenti e dark. Non mancano alcuni momenti più angolari e più propriamente rock, come per esempio Falling Man, ma sono increspature in un sound che si sta spostando sempre più verso territori dream. Alle schiera dei santini si aggiungono ora Thom York e per certi versi anche Arto Lindsay. Se per molti fan ha significato una sterzata inaccettabile, Misery Is A Butterfly ne ha sicuramente raccolti per strada altri, provenienti da altri percorsi. Di sicuro il sesto disco ha fotografato meglio di molti altri un momento nelle vicende musicali del decennio, cogliendo gli aspetti essenziali di un'estetica che era in continuo movimento tra ambiti lontani e diversi. 17 Un'estetica cui ha contribuito anche l'aspetto dei tre musicisti: lo sguardo liquido di Simone e Amedeo, incorniciato dall'argento che comincia a fare capolino tra i capelli neri e il look preciso; Kazu Makino con un aspetto sempre da ragazzina, ingenua ma capace di graffiare. Un equilibrio delicato tra sogno e concretezza, tra caos e ordine. E dell'ideale lato b di quel disco, ovvero il successivo 23 del 2007, durante la serata dell'Estragon viene salutata dal pubblico con grande calore Dr. Strangeluv, forse una delle canzoni che meglio di altre possono essere essere indicate come ideale ponte tra i primi e i secondi Blonde Redhead: la chitarra di Amedeo è protagonista, ma è annegata dentro a un mare di synth che creano un'atmosfera sospesa ed eterea, la circolarità della melodia è ossessivamente psichedelica e sorreggono il tutto gli interventi misurati della voce della Makino. In quel disco trovavano spazio anche alcune tentazioni electro-pop, che però dal vivo vengono messe da parte, in favore delle nuove composizioni, che sul palco acquistano una consistenza tutta particolare. “La volontà in molte canzoni di Penny Sparkle”, ci raccontava Simone al telefono da New York, “era quella di creare uno spazio sonoro arioso e ampio, con pochi elementi che interagiscono tra di loro, in modo che in quello spazio ci possa succedere qualcosa”. Come se la materia impalpabile delle dieci tracce avesse bisogno dell'ascoltatore per essere del tutto efficace, come se le canzoni avessero quasi una vita propria. Una vita spesso determinata da un certo suono e dal mondo che quel suono evoca. Ma la scelta della strumentazione, di tutte le tastiere che determinano il sound del disco non è avvenuta con questa logica. “Non abbiamo scelto di usare una determinata marca di tastiere, per esempio una Casio, perché ci ricordava la techno” ci racconta Amedeo nel tour bus. “Le tastiere le abbiamo scelte semplicemente perché dopo averne provate tante, abbiamo trovato il sound che ci piaceva per le nostre composizioni”. Ancora una volta si ritorna alla musica come accidente, come causalità che succede e gode di un'esistenza propria, quasi indipendentemente dai musicisti. Forse proprio per questa inafferrabilità continua della loro musica, del continuo inseguimento di un sogno che esce dall'interazione tra le diverse sensibilità dei membri della band, la produzione importante, molto presente di Van Rivers e Subliminal Kid deve avere avuto un ruolo determinante nel trovare un ordine tra le tante idee di Makino e soci. Già con 23 era stato inevitabile parlare del famoso “tocco di classe” di Alan Moulder, uno che ha messo le mani sulla musica di gente come Depeche Mode, Smashing Pumpkins e Nine Inch Nails. Allora si era detto che Moulder aveva messo le chitarre messe in secondo piano per dare spazio alla sua idea, nel complesso più inglese ed europea, fatta di synth e atmosfere retrofuturiste. Oggi, alla luce di Penny Sparkle (a cui comunque Moulder a prestato i propri servigi per il missaggio finale: “Ci eravamo trovati bene”, ci aveva raccontato Simone al telefono), si può dire che quelle sonorità avevano e hanno radici più profonde all'interno della ricerca dei Blonde Redhead. Soprattutto per Kazu, spesso il motore primo di molte delle nuove composizioni, che nelle note stampe allegate all'uscita, ha dichiarato di essersi “innamorata della musica come di qualcuno che si conosce da tanto tempo. Era tutto sospeso in un'atmosfera di sogno, anche se a volte è stato burrascoso. A volte mi sono sentita come un pastore che cerca di radunare cinque stalloni in un recinto senza riuscirci. Ho avuto l'impressione di essere un collegamento con tutti, come se io rimanessi ferma mentre gli altri mi ruotavano costantemente attorno”. Ecco tutta la sensazione di vaghezza che pervade le sonorità del disco, l'atmosfera eterea, in pieno dream pop da 4AD, checché 18 ne dicano gli stessi protagonisti. Ma c'è anche una forza, dentro questo percorso, che fa dichiarare ancora a Kazu, che “se dovessi tornare indietro nel tempo, [lo] rifarei esattamente allo stesso modo”. In queste dichiarazioni apparentemente sconnesse, che comunque fanno parte del personaggio e dell'estetica naif del trio, ci pare di intravvedere una verità. Perché se la genuina ricerca del proprio suono non si è mai fermata, per i Blonde Redhead, così capaci di interpretare di pancia le vicende sonore che li circondavano di volta in volta, non è mai davvero arrivato il disco definitivo. Ma forse questo è impossibile per il loro essere continuamente in movimento, tra i suoni, tra le derive del pop, tra questa sponda dell'Atlantico e quella americana, senza appartenere del tutto a niente. Si ha come l'impressione che se i Blonde Redhead si fermassero, mettendo a fuoco, cesellando, si perderebbe il delicato equilibrio che li ha portati fino a qui. Nel bene e nel male. Nel frattempo, il concerto all'Estragon è finito e noi siamo usciti dal locale assieme ai fan. L'aria è ancora più fresca che nel pomeriggio, ma fortunatamente non piove più. Cercando di evitare l pozzanghere, i fan si riuniscono in capannelli, da quali captiamo brandelli di conversazione. Tutti sembrano soddisfatti della performance e della resa sonora dei nuovi brani. Apprezzano anche l'impatto scenografico delle luci, ma si chiedono come mai non hanno suonato quella o quell'altra canzone di Melody of Certain Damaged Lemons o di Fake Can Be Just As Good, dandoci l'impressione che dal vivo i Blonde Redhead siano almeno in parte un affare per nostalgici dei Novanta. Ognuno dei fan sembra avere una propria idea della band, una propria personale rifrazione luminosa che sembra scaturire da quel prisma sonoro. Come se non esistesse una band, ma tanti Blonde Redhead quanti sono gli ascoltatori e i cambiamenti che hanno attraversato. E tutti quelli che ancora attraverseranno. 19 iosonouncane —Democrazia del televoto— Drop Out Violento, irrispettoso, frantumato, lucido. In una parola, Iosonouncane. Ovvero come sopravviere a una società in cui tutto "è una gara, come al solito, tra bionde e more" Testo: Fabrizio Zampighi 20 G ente da aperitivo Il De Marchi è un bar fuori dal tempo. Almeno per il sottoscritto. Ci compri delle bottiglie di birra da venti cl a poco più di un euro l’una. Un posto per studenti, è chiaro, in una città come Bologna che dagli studenti succhia tutto o quasi per poi riciclarlo nei salotti “buoni” di Del Bono o Cofferati. Togliendo nel contempo sempre più spazio proprio a quegli studenti che pagano cara la possibilità di frequentare l'università, in onore a una concezione di quiete cittadina borghese, univoca e probabilmente irrealizzabile. Se non ci credete chiedetelo ai tipi del Locomotiv. Loro ne sanno qualcosa. Ma qui si parla d’altro, nello specifico di un musicista trapiantato nella città felsinea da quasi un decennio: Jacopo Incani. E’ lui che incontriamo tra i tavoli del locale verso sera, per una chiacchierata informale sul suo esordio ufficiale a nome Iosonouncane, La macarena su Roma. Giacca simil-militare, scarpe da ginnastica, sguardo attento, idee chiare. Un sardo coriaceo, orgoglio21 dopo." Forza lavoro e sfruttamento, diritti civili e sudore, nell'immaginario di una città – e di una regione, la Sardegna, la stessa di Berlinguer e Gramsci – che porta ancora i segni delle sue origini. Con gli ingressi delle vecchie miniere abbandonate sparsi per il paese e le leggende su chi in quelle miniere è morto a garantire al luogo un'aura di esoterismo macabro mica da poco, non bastasse una posizione geografica quantomeno singolare. Nasce qui Incani e la storia del suo paese la manda immediatamente a memoria. Come manda a memoria i primi ascolti giovanili propagandati dai genitori: i cantautori, i Pink Floyd, i Beatles e i Rolling Stones. Quando si dice il DNA. A dieci anni ci si sposta a Iglesias, comunità più articolata rispetto alla piccola Buggerru, dove la musica diventa adolescente e il Nostro incontra i giovani sodali che finiranno per confluire nei seminali Adharma. Intanto sono scoccati i Novanta e il lettore CD ha decisamente cambiato Pacchetto tematico Partiamo dall'inizio. Buggerru, re- stile: “A tredici anni ho scoperto gli Oacita la carta di identità. Sardegna Sud- sis. Rimasi proprio folgorato da (What’s Ovest. Una gola tra il mare e le mon- The Story) Morning Glory?, non so il tagne su cui si arrampicano un pugno perché. Ho smesso di giocare a calcio e di case con una storia interessante ho iniziato ad ascoltare anche psichedealle spalle: “Buggerru è stata fondata lia di metà anni Sessanta. Con un amico, a metà ‘800. I terreni erano della fami- poi, mi divertivo a spezzettare i brani di glia di Modigliani, che li vendette a una altri e a ricomporli con un registratore a compagnia francese. Questa compa- quattro piste. In seguito sono arrivati angnia scoprì che sotto le montagne c’era che i Radiohead, i Placebo, i Muse. Tutti uno dei più grossi giacimenti di piom- gruppi della mia adolescenza”. E' frebo d’Europa e così cominciò a scavare quentando Thom Yorke e compagnia chiamando operai da tutta la Sardegna che gli Adharma si fanno le ossa. Con e dall’Europa. Nella valle i francesi co- un misto di Muse e Verdena che mastruirono le abitazioni per gli impiega- turerà in un rock con venature crosti delle miniere e nel giro di vent’anni sover prima e in un indie-rock con Buggerru divenne una città da diecimila rimandi progressive-funk nella parte persone, oltre che un centro culturale più importante della carriera. Quelcon aspirazioni europee. Nel 1904 ci la che la band comincia a Bologna, ai fu una protesta gigantesca dei minatori tempi dell'università: “Con gli Adharma che si concluse con l'eccidio degli stessi. facevo cose che mi piacevano ma che Questo evento tragico portò la camera non sentivo proprio mie. In più allora del lavoro di Milano a indire il primo avevo dei problemi ad accettare la mia sciopero generale nazionale sei giorni voce. Mi vergognavo molto, sia della voce samente proletario, i cui natali, come impareremo di lì a poco, ricoprono un’importanza notevole nel quadro complessivo della proposta musicale, almeno quanto la biografia. Alla fine dei convenevoli si contano sei bottiglie sul tavolo, abbastanza per decidere di alzarsi, andare a mangiare qualcosa di veloce e ripiegare verso casa Incani, ché per l’intervista c'è bisogno di un posto in cui far scorrere le idee senza filtri esterni. Quattrocento euro al mese per un monolocale dalle dimensioni ridottissime, all’interno del quale spiccano un paio di Groovebox, qualche tastierina giocattolo, un’Ephiphone acustica, una loopstation, una drum machine e un laptop.Tutto quello che serve per dar vita alla canzone d’autore dirompente e all'elettronica fosca che ritroviamo all'interno del disco: home made come l'etica punk impone, professionale come garantito dalle moderne tecnologie domestiche. 22 23 che dei testi che scrivevo. Quando ho iniziato ad usare il campionatore mi sono casualmente ritrovato a scrivere come scrivo ora e a cantare come canto ora. E’ stato un passaggio molto naturale”. Il gruppo vorrebbe farsi adottare dalla Bologna culturalmente più ricettiva, guadagnare qualche ingaggio e arrivare a incidere un disco. In realtà le cose si fanno piuttosto complicate e se da un lato quel disco tanto atteso lo si incide sul serio per Jestrai (Risvegli EP), dall'altro le dinamiche interne alla band non reggono il peso del nuovo contesto: “Eravamo tutti compagni di liceo, tutti di Iglesias. Quando siamo arrivati nel capoluogo emiliano credevamo molto ingenuamente che le cose sarebbero state abbastanza facili e che qualcuno ci avrebbe notati semplicemente suonando in giro. In realtà il contrasto tra la vita in Sardegna e la vita a Bologna ci ha messo in difficoltà. I rapporti si sono fatti più problematici anche perché in giro a suonare ci andavamo poco, pur avendo pubblicato un EP con Jestrai. Nel natale 2007 io mi sono poi reso conto che avevo mollato l’Università (Dams) senza laurearmi, stavo lavorando in un call center e l’unica cosa che volevo fare era suonare dal vivo. E così dopo otto anni ho lasciato il gruppo. In quel momento ho comprato un campionatore, una chitarra amplificata e ho cominciato a registrare materiale per conto mio.” Rewind. E' il 2004 e ci sono i Liars a suonare all'Estragon. Incani è lì e rimane folgorato. Batteria loopata in diretta, suono violento, attitudine anarchica, per un gruppo dal fascino animalesco e certamente sovversivo rispetto ai canoni del rock più tradizionale. E' la fisicità ritmica e provocatoria della band ad aprirsi un varco nell'immaginario del Nostro. Nuovi tasselli da sommare a quel mosaico che andrà a costituire la base dello stile musicale di Iosonouncane, assieme ai già citati cantautori (il Lucio Dalla di Com'è profondo il mare, 24 il Fabrizio De Andrè di Storia di un impiegato, il Giorgio Gaber di Polli di allevamento, il Lucio Battisti di Anima latina) e al Syd Barrett dell'adolescenza.Accade un'altra cosa, sempre nello stesso periodo. Un Incani allora collaboratore di webzines musicali si invaghisce a tal punto del Suzuki Bazuki dei Mariposa da voler intervistare il gruppo di persona, dopo un concerto. Evidente il significato intrinseco dell'episodio: da un lato le analogie caratteriali con l'ensemble di Orvieti, Giusti, Cimino, Gabrielli, Canè, Fiori, Marchi (surrealismo, rottura degli schemi, creatività underground, matrice ideologica) garantiscono un'intesa immediata e un terreno fertile su cui crescere, dall'altro l'evento stabilisce un ponte con le personalità della band che gestiscono la Trovarobato (Michele Orvieti e Gianluca Giusti). A loro Jacopo si rivolgerà – con la mediazione di Daniele Calandra degli Addamanera – quando verrà il momento di incidere l'esordio discografico. Forward. Incani lavora in un call center, non ha più un gruppo con cui suonare e continua a trafficare con i campionatori: “A luglio 2008 mi trasferii alla Bolognina e mi ritrovai a condividere con un amico una casa vecchissima, senza pavimento in bagno e senza riscaldamento. In quel periodo lavoravo in zona fiera e così il mio ritmo di vita era scandito dal lavoro durante il giorno e dalla stanchezza che mi costringeva ad andare a dormire alle nove la sera. Poi mi svegliavo alle quattro della mattina e registravo musica con le cuffie. Così per un mese. E’ stato in quel periodo che ho scritto i primi pezzi, partendo dalla dimensione autobiografica, ma raccontando anche di altri. Per il mio primo disco volevo scrivere canzoni che fossero in qualche maniera collegate tra loro”. Una chitarra, degli appunti sparsi e qualche frammento di suono. Non esiste un metodo preciso per comporre un brano. Anche perché si fa musica nei ritagli di tempo, togliendo ore al sonno, quando l'insoddisfazione per un lavoro frustrante ti lascia respirare. Basta un titolo o un giro di chitarra per partire (Il famoso goal di mano), un beat da tastierina giocattolo o un testo per un cortometraggio mai andato in porto (La macarena su Roma). Magari su un loop campionato, alla ricerca di quell'elettronica in bilico tra Fennesz, Keith Fullerton Whitman e Flying Lotus (Il ciccione) che giorno dopo giorno acquista sempre più credito nella tua personale classifica di ascolti. Con un approccio ai testi visivo, narrativo, ritagliato su un contrasto continuo tra dettaglio e campo lungo (Summer On a spiaggia affollata, Il corpo del reato) e sui soliti noti, in fatto di scrittura: “Alla fine i miei pilastri sono Syd Barrett e Brian Wilson. Il primo per l’irregolarità negli accordi, il secondo per le intelaiature degli arrangiamenti. Oltre a questi, citerei l’approccio alla voce di Lucio Dalla, che mi piace moltissimo”. Prima libera associazione: i Massimo Volume. Nessun punto di contatto tra il gruppo bolognese e la parabola di Iosonouncane, né da un punto di vista strettamente musicale, né testuale, né generazionale. Eppure c'è un elemento fondante che unisce le due esperienze: la biografia. Da una parte la figura dell'immigrato borderline che finisce sulla pagina scritta e nei testi di un Emidio Clementi biografo di sè stesso; dall'altra la sfera personale/lavorativa/esistenziale dell'Incani che diventa il principale motore di tutto il progetto. Certo, cambia l'approccio. Nel primo caso si racconta in maniera lineare, ci si affida a una musica descrittiva, non è necessario un processo di interpretazione che filtri la sovrastruttura; nel secondo è proprio il punto di vista originale, la personalità sopra le righe a costituire un valore aggiunto. Il modus operandi di Incani è quello giusto, tanto che nel giro di poco si 25 collezionano sei brani da spedire in free download (il Primo Pacchetto Tematico Gratuito) sulla classica pagina di myspace che nel frattempo ci si è preoccupati di inaugurare – con un gioco di parole che riprende ironicamente il cognome del diretto interessato – a nome Iosonouncane. Ci si accorge quasi subito che le musiche deraglianti e i testi fiume in oggetto hanno bisogno di respirare, di uscire dalle quattro pareti intonacate di un appartamento e di farsi ascoltare. Se non su disco – a quello si arriverà poi -, almeno su un palco. Anche perché la proposta è malleabile, scostante, fluida, suscettibile di mille modifiche in corsa, ma soprattutto talmente provocatoria da poter trarre giovamento da una dimensione live in cui giocare al rialzo. E' così che nasce la versione delirante del Teatro Canzone del Gaber naziona26 le a firma Iosonouncane. Come uno sfogo ubriaco e senza reti di sicurezza, che macini al suo interno i call center, la frustrazione per un lavoro sottopagato, la violenza delle ideologie, la rabbia per una coscienza civile pressoché inesistente: “Suonando certi pezzi mi sono reso conto che alcune cose che avevo registrato a casa erano canzoni nate sulla base di un’idea di canzone alla quale potevo arrivare solo seguendo determinati passaggi affrontati durante i live. Quando ho cominciato a suonare molto dal vivo, le due dimensioni si sono toccate influenzandosi a vicenda. Suonando ho capito quante cose in più avevo messo nei pezzi in casa, scrivendo e registrando quando già facevo i concerti mi sono reso conto di quali suoni avrei voluto portare dal vivo e ancora non avevo portato”.Va da sé che l'approccio scelto è di quelli senza compromessi. Un coacervo di urla, saluti romani, macchiette da talk show, affiancati alla musica e sbattuti in faccia a chi ascolta. Rappresentazione fedele di noi stessi: supponenti, provinciali, falsi, ma anche aggressivi, spaventati dal diverso, ben contenti di rinchiuderci in forme di socialità pre-costituite come gli aperitivi. E quando qualcuno ce lo fa notare, le reazioni sono tra le più disparate: “In alcuni casi vedo che il pubblico apprezza molto, altre volte ho rischiato che i toni provocatori che uso durante i concerti non venissero compresi. Di base credo che le mie esibizioni non siano di facile approccio, vuoi perché musicalmente non sono accomodante, vuoi perché ogni tanto c’è anche bisogno di interpretare quello che si vede e si ascolta. Cogliere l’ironia. Del resto voglio la libertà di esprimermi, anche a costo di rischiare qualcosa. Anche se in realtà il problema dell’interpretazione di quello che faccio cerco di non pormelo. Quando scrivo La Macarena su Roma dal punto di vista di un italiano medio che guarda la tv, fa zapping e dice io sto bene da solo ecc…vado a sviscerare quei piccoli incastri quotidiani che mi rendo conto essere anche i miei. Sarebbe troppo facile muovere una critica verso gli altri senza fare autocritica.” Il riferimento alla sfera politica c'è ed è evidente. Ma è una politica del sopravvivere, del quotidiano, nascosta tra gli isterismi ruvidi e declamati che fanno da carburante a tutto il materiale. Niente di paragonabile, per dire, alla nostalgia falce e martello degli Offlaga Disco Pax (seconda libera associazione) con cui si recupera invece un immaginario, lo si coibenta attraverso il ricordo personale e lo si dà in pasto al pubblico. Qui è il teatro delle miserie quotidiane a prendere il sopravvento, in un autocritica costante che non si accontenta dell'appartenenza ma vuole andare oltre. E' al release party dell'ultimo, omonimo, disco dei Mariposa che Jacopo Incani calca per la prima volta un palcoscenico importante. Tocca a lui aprire al Locomotiv per la band bolognese, ma non tutto gira come dovrebbe. Del resto manca l'esperienza, la consuetudine nell'utilizzo delle macchine, la lucidità per affinare gli interventi e legarli con i brani o magari solo un occhio critico che possa suggerire la direzione da prendere. Da quel momento in poi, tuttavia, le cose cominciano a funzionare, come dimostrerà anche un Indipendulo 2009 al M.E.I. affrontato col giusto piglio (“E' andata molto bene. Il pubblico ha reagito positivamente”) L' orchestrina incalzante E si arriva all'esordio ufficiale. Le registrazioni sono fissate per luglio 2010 a Bologna presso lo Studio Spaziale e la spina dorsale de La Macarena su Roma è ovviamente il Pri- mo Pacchetto Tematico Gratuito. I pezzi già scritti vengono rielaborati ma non cambiati radicalmente (“In realtà vorrei continuare a registrare i dischi in casa, per poi andare in studio a mixare e a masterizzare”), se ne aggiungono altri (l'amarissima Il corpo del reato, la molle Il Ciccione, la scapicollante Il boogie dei piedi, l'onirica Giugno), si dà il giusto rilievo a qualche monologo particolarmente riuscito (I superstiti) o a qualche campionamento felicemente alieno (Rifacciamoci la bocca coi cibi buoni di Gusto). Lo scopo è rendere tridimensionale il suono, pur mantenendosi nei paraggi dell'approccio casalingo che caratterizzava il demo originale. Alla fine il risultato soddisfa, nell'ottica di una maturità che se musicalmente è ancora al primo step, nei testi mostra già una concretezza invidiabile. Naturale conclusione di un percorso a tappe che assomiglia a un romanzo di formazione un po' incasinato, in cui ogni elemento, alla fine, va al posto giusto. Tanto che, arrivato a questo punto, anche il diretto interessato ammette di volersi fermare un attimo per valutare con un minimo di distacco quanto fatto e come evolvere. Tra gli obiettivi, lavorare sull'aspetto musicale con più calma, magari sfruttando il tour che lo occuperà a tempo pieno da ottobre 2010 (per le date c'è la pagina eventi di sentire ascoltare). Rimane il tempo per un ultimo scambio di battute e ne approfittiamo per chiamare in causa gli Uochi Toki (terza libera associazione). I terreni musicali sono evidentemente diversi, ma accidentati allo stesso modo, in un tripudio di frantumazioni ritmiche, campionamenti, rumore. E poi in entrambi c'è quell'idea di scrittura elaborata, maniacale, decisa a dare ad ogni singola parola il giusto peso: “Gli Uochi Toki mi piacciono molto. Poi sono un fan sfegatato di Dargen D’amico, anche se nella musica che ho prodotto fino ad ora non c’è traccia di questo tipo di influenza. Del resto lo ascolto solo da un anno. Credo che abbia una profondità enorme, ad esempio in brani come Moderata Crisi, e mille livelli di interpretazione. Mi piacerebbe in qualche maniera collaborare con lui un giorno…” 27 Tremate, tremate le streghe son tornate —Salem, White Ring, oOoOO, Balam Acab, Modern Witch, Mater Suspiria Vision, //Tense//, CREEP— E Drop Out Estetica hauntologica, immaginario esoterico, synth-pop virato dark e beat house andati a male. In più sigle criptiche e occultismo 2.0. Tutto questo è il witch-house, l'ennesimo trend del sottobosco. Testo: Stefano Pifferi 28 ra ovvio che quel fenomeno, più o meno circoscritto e/o riconoscibile definito hypnagogic-pop o, nelle sue infinitesimali varianti, glo-fi o chillwave, mostrasse il lato oscuro e perverso. Quella estetica della ricordanza, fatta di memorie di memorie e slittamenti sfocati di significato ha virato il proprio asse portante al nero dell’incubo horror e della reverie più angosciosa, trovando paradossalmente nella stagione del sole e della luce la sua esplosione. È di questi ultimi mesi infatti l’ennesimo, nuovo trend mediatico proveniente dal più tetro underground e definito a vario titolo nel microcosmo online. Tra le più affascinanti, proprio witch-house. Gioco di parole che rievoca due componenti essenziali in questa nuova (vecchia) onda: l’occultismo di base e l’esoterismo etimologico, ma anche, musicalmente, una versione “posseduta”, maledetta e scarnificata della house. Palme che si stilizzano in piramidi nere, geometrie che creano spigoli appuntiti, suoni che imputridiscono fino a marcire. Incubi semi-horror ed evanescenza ai massimi livelli la fanno da padroni. Esoterismo e nascondismo 2.0. Chiedere rispettivamente a Tri-Angle e 29 salem 30 Disaro, label di riferimento per il neo(sotto)genere: la prima (titolare è Robin Carolan del blog 20 Jazz Funk Greats) è un tripudio di grafica ossianica e grado zero dell’informazione; la seconda, pregnante esempio di deviante nascondismo nell’era dell’occhio orwelliano ed estetica di riciclo. Label distanti e diverse ma accomunate da una estetica mutante in grado di deviare le istanze glo-hypna verso lidi disturbanti in cui convivono forme estreme di hip-hop, wave gotico-esoterica, synth-pop che più robotico e dark non si può e hauntology oscura. Tutto intorno una scena, per quanto impalpabile perché legata ai bit del flusso internettiano, alla versione da sottobosco del myspace (soundcloud e bandcamp su tutte) e alla delocalizzazione da un vero e proprio centro geografico, sta piano piano prendendo il sopravvento, finendo anche con l’avventurarsi in circuiti mainstream dell’informazione come Rolling Stone e The Guardian. A partecipare a questo sabbath della memoria 80s una serie di band dai moniker oscuri, inintelligibili, criptici a dir poco, fatti di slash e asterischi, croci e triangoli, tutto in grafica povera; come se il rifiuto di un nome comprensibile fosse la nuova frontiera di chi si occulta “anche” agli occhi del sottobosco indie, rendendo impossibile qualsiasi “googleata”. ▲, †‡†, Gr†ll Gr†ll, oOoOO, //Tense//, Pwin ▲ ▲ Teaks, †NO VIRGIN † e letteralmente una marea di altri, è tutto un florilegio di simbologia e geometrie da iper-ermetismo, come se nella migliore delle ipotesi i ventenni di oggi avessero scoperto le infinite possibilità della tastiera. Oppure, nella peggiore, avessero applicato al sottobosco indie la neolingua adolescenziale da sms/chat. Inutile parlare di discografia per progetti che vivono quasi esclusivamente online, ma l’immaginario collettivo è un tripudio di geometrie, piramidi, angoli acuti e sfarfallio di immagini eighties-pop mirabilmente rese da collettivi di video- e film-maker in bassa fedeltà come Mater Suspiria Vision/ Cosmotropia De Xam, Aids-3D e filiazione tutta, in una sorta di ciclo di Creamaster girato in una discarica post-industriale infestata che riprende il futuro ipotizzato e sognato negli 80s. Il legame tra musiche e immagini (video e grafiche) è inscindibile: i collage tardo-adolescenziali delle copertine dei cd-r o la slow-motion di fotogrammi rubati dal trash televisivo degli ultimi 30 anni si sposano idealmente con il riciclo al negativo di una memoria acquisita e non vissuta. Accanto ai nomi meno noti, alcune band più intelligibili si stanno facendo largo. Nomi come Balam Acab, White Ring, Modern Witch, Creep, Water Borders o i citati oOoOO, dovrebbero essere familiari a chi bighellona per le estremità nascoste del web. Accomunati in una “scena”additata coi nomi più disparati (drag, haunted house, screwgaze, cave crunk, ghost juke) tra i quali il più gettonato tra i bloggers è witch-house, offrono uno spaccato piuttosto vario per sonorità: si va dal dubstep a quello più ambient mefitico, al dark o ancora alle eteree atmosfere di matrice shoegaze-goth per finire addirittura al versante ebm-oriented o limitrofo al pagan-folk. Sonorità diverse accomunate da un senso di imminente minaccia, cavernosi echi, beat sintetici e da un impatto visionario. A far da collante, tanto da essere riconosciuto come vero e proprio capostipite del genere, è un progetto americano paradossalmente assurto al ruolo di culto su magazine patinati per ragioni che esulano dal portato musicale: il solito gossip r’n’r fatto di vizi, droghe pesanti, omosessualità e scandali sui generis. Salem, questo il nome scelto da tre twenty-something di Traverse City, 31 Michigan, Heather Marlatt, John Holland e Jack Donoghue, con quest’ultimo di base a Chicago. Nome evocativo e d’impatto, ma non secondo i tre che minimizzano le ragioni della scelta trincerandosi dietro una ingenuità che puzza di artefatto: Salem suona bene ed è anche un bel posto, ci confessa Heather, col sodale John a farle eco: Lo scegliemmo molto tempo fa e quando un nome suona bene anche dopo 5 anni è da paura no? Il riferimento rimanda alla città tristemente famosa per la caccia alle streghe e la scelta si rivela ideale per evocare un immaginario di occultismo e irregolarità borderline che si tramuta musicalmente in un evanescente e sfocato mix: shoegaze impalpabile, techno minimale, effimera pomposità blackmetal e dubstep greve e cavernoso, il tutto white ring 32 condito con voci ethereal alla 4AD o mutanti da hip-hop bianco da sobborgo urbano. Proprio il contrasto tra le suadenti atmosfere oniriche delle vocals di Heather e il vocione cadenzato su base juke di Jack (Quando rappa riesce ad abbassare il ritmo e finisce col somigliare ad uno del ghetto, dice John) sono il segno più evidente di un sound che sfugge e insieme rimiscela influenze e rimandi tra i più distanti. Se esiste un posto in cui possono convivere Oneohtrix Point Never e Burial, Cocteau Twins e hauntology made in Ghost Box, quel posto è King Night. In apparenza fuori contesto, è il sostrato rap o hip-hop rintracciabile nelle ritmiche cadenzate e obnubilate a sorprendere e a portare a galla passioni giovanili mai sopite e esperienze pregresse in ambiti juke e ghetto-house chicagoana: È l’aspetto percussivo quello che più mi interessa nella musica, conferma Jack. Sin da ragazzino ho sempre ascoltato rap e hiphop, soprattutto per le ritmiche, tanto che da quel punto di vista lo considero un genere in continua evoluzione. Non è un caso che gli artisti che più mi influenzano ora sono per lo più producer rap come Drummaboy, Araabmuzik, dj Nate. Anche John aveva un progetto juke-disco, Whore-Ce, col quale si divertiva a comporre folli canzoni da discoteca nelle nottate casalinghe a base di speed. In merito all’importanza del rap/hip-hop per Salem è, però, piuttosto evasivo nonostante abbia spesso citato Three 6 Mafia, Twista, Lil’ Wayne come influenze: Di solito non mi preoccupo di quale tipo di musica sto ascoltando o dalla quale sono influenzato, quanto di “cosa” è quella balam acab canzone, come suona, la sua melodia e la sua struttura. A differenza della iperproduzione tipica da 2.0, Salem ha una gestazione lenta. Pochi e brevi vagiti sparsi nel giro di un paio d’anni, da aggiungere ad una serie di tracce singole o remixate abbandonate nell’impalpabilità del web o a qualche oscura compilation. Dopo il cd-r Fuckt su Disaro (some goth kids get a hold of early Three Six Mafia, si leggeva online su quella raccolta di pezzi), l’esordio “vero” arriva nel 2008 col 7 pollici Yes, I Smoke Crack per Acéphale. Quattro pezzi di heavenly voices, beat sintetici e estetica hauntology, seppur ancora in forma prodromica lanciano il proverbiale campanello d’allarme tra gli addetti ai lavori. L’anno scorso la band ha spinto sull’acceleratore, proponendo un trittico di uscite, ovviamente tutte sold out. Water (Merok Recs), OhK (Big Love) e Frost (Audraglint) sono un percorso di avvicinamento ad un sound personale, grazie ad un lavo- rio anche sugli stessi pezzi (Redlights, Sweat, OhK tornano spesso in forme mutanti) che ne ripensa spesso i dettagli lasciando intatta la base di partenza: un synth-goth virato glitchyhop che crea brulle e desolate lande di gelida pop-music per novelli dark da cameretta. Fino a poco tempo fa – dice Heather in merito al culto creatosi attorno a loro – non sapevo ci fosse altra gente che fa musica simile alla nostra, ma con questo non voglio dire che abbiamo iniziato noi. Di sicuro non ho nessuna intenzione di far parte di un movimento o di una scena. Se ci sono altre persone ispirate da ciò che facciamo, ok, buon per loro. I tre sono però concordi nel considerare la propria musica non come una semplice evoluzione al negativo delle istanze hypna-pop (Heather: non credo che sia l’opposto di nulla, no), quanto una sorta di personale catarsi su pentagramma: se John afferma che la propria musica proviene spesso da un luogo di profonda tristezza, Jack ribatte: Ciò che mi piace della nostra musica è che copra un ampio spettro di situazioni di vita e sentimenti, così che se ci sono momenti negativi o tristi, c’è anche un forte senso di speranza e abbandono. Affermazioni che ci trovano in parziale disaccordo soprattutto per il tentativo di smarcarsi dalla neo“scena”. L’humus da cui prende le mosse tutto il variegato movimento che abbiamo descritto finora è proprio quello dell’hypnagogic, ossia una deviata e malata rievocazione degli 80s. Nel fenomeno witch-house però quell’immaginario è virato al nero, piegato verso l'incubo e rievocato spesso e volentieri con l'ausilio di video e immagini sgranate, in slowmotion, roboticamente reiterate. Pronto a mostrare l’altra faccia della medaglia di quello scintillante e illusorio decennio, il suo lato oscuro. 33 Breve geografia in 10 mosse witchy W hite R ing Duo di Brooklyn formato dal synthetico beat maker Bryan Kurkimilis e dalla novella chanteuse Kendra Malia e tra i più goth del lotto. Avvolti da un manto brumoso e circondati da simboli runici, i due hanno esordito lo scorso marzo con un 7 pollici condiviso con i sodali oOooO, edito dalla svedese Emotion. Sul loro lato sguinzagliavano Roses, quattro minuti per bassi molesti, rullanti taglienti, synth apocalittici ed il mesto, confuso cantato di Kendra. Pochi mesi ed è tempo per un nuovo singolo: Suffocation, il loro pezzo migliore, esce per la canadese Hi-Scores Recording Library su vinile corto e in digitale con ben cinque remix aggiuntivi, tra cui anche uno ad opera di Mater Suspiria Vision, altro quotato nome del giro. A fine ottobre il primo tour europeo del gruppo, ovviamente solo in UK. (Andrea Napoli) o O oo O Il moniker sotto cui si cela Christopher Dexter Greenspan è tra i più criptici e quindi emblematici della nuova sottocorrente. La prima creatura viene licenziata ad inizio anno da Disaro, etichetta che si è imposta come punto di riferimento per tutta la casa delle streghe. Un cd-r con sei brani tra cui spicca la cover di un vecchio pezzo disco-funk come Summertime, Summertime dell’italo-americana Nocera, qui riadattato sia nel titolo (NoSummr4U) sia nel sound che si fa assai prossimo ad un altro tormentone di recente fattura, il glo-fi. Segue il singolo split con i newyorkesi White Ring di cui abbiamo già detto e ora è di imminente pubblicazione un EP su dodici pollici per Tri Angle che se porterà a maggiore compimento le tracce fin qui seminate sarà di sicuro una tappa obbligata. (AN) M ater S uspiria V ision Una delle realtà più interessanti ed eccentriche del giro, partendo dal nome, passando per le grafiche trash-glam, per giungere all’incredibile numero di video-clip autoprodotti che affollano la pagina myspace. Autori di una serie sconfinata di micro-uscite su cd-r, cassetta, dvd-r e finanche vhs, sempre tirate in una cinquantina di copie al massimo, il duo composto da soggetti rispondenti a nomi quali ℑ⊇≥◊≤⊆ℜ e Cosmotropia De Xam è artefice di un sound claustrofobico come pochi. Linee di basso pesanti come macigni, campioni di inquietanti voci infantili ed apocalittiche ritmiche marziali fanno il paio con grafiche da magazine di moda deturpato e titoli che non si vergognano di abusare di parole come witch, crack e tutto il nuovo immaginario d’ordinanza. (AN) //Tense // L’opera del duo (trio dal vivo) di Houston è quanto di più lontano ci sia da canoni, per altro dettati da pochissimo, della witch house. La musica dei //Tense// è infatti pura reinterpretazione di quel sound Industrial Dance/EBM che vent’anni fa fece il successo di una label come Wax Trax!. E allora perché il nome ricorre spesso sulle pagine web dei soggetti in questione? Semplice, perché ancora un volta è la texana Disaro ad averci messo lo zampino, pubblicando il cd-r Consume, dopo che la francese Desire aveva già licenziato l’album Memory, prima in CD e da poco anche in LP, a breve distanza dal nuovo EP Introducing. Per chi avesse poca dimestichezza con la materia, si tratta di un’elettronica smaccatamente anni ’80-’90, connotata da pensanti beat meccanici, voci incalzanti e liquidi giri di synth. La versione primigenia di quello che oggi va sotto il nome di drag. (AN) †‡† Altro nome criptico, altro giro di infiniti remix e pezzi sparsi online. Influenzato in parti uguali da acid-house, 80s new wave, 90s dance, goth rock, hip-hop, noise, 2nd wave of black metal, geometry (?!), il ragazzetto che si nasconde dietro l’alternanza di croci e doppie-croci va di ritualità e occultismo come se piovesse. Chiuso nella sua cameretta, col solo ausilio di pc, qualche filtro e microfoni modificati, †‡† frantuma l’immaginario goth anni ’80 a forza di white noise di fondo, sinfonico procedere black-metal e iniezioni di ebm marcia e rallentata al massimo suffragando la definizione di “gothic chillwave” con cui è stato etichettato online. Imminente l’esordio in cd-r sull’immancabile Disaro. (Stefano Pifferi) CREEP Trip-hop e rape-gaze campeggiano sul myspace dei Creep, progetto al femminile formato dalle djs newyorchesi Lauren Flax e Lauren Dillard, ma non c’è molto da fidarsi su chi si nasconda veramente dietro la sigla Creep. Di certo c’è la musica, che si muove sul versante più sognante, seppur sempre angsty, dell’intera faccenda. Roba limitrofa alla minimal-techno più ossianica o al synth-pop più esoterico, dilatato e dreaming che si configura a volte come un glitchpop dalle forti tinte dark, altre come una sorta di versione horror dei Cocteau Twins. Titoli come Empty Church o Jessica King non sfigurerebbero affatto in qualche b-movie horror d’antan. Le ragazze si offrono anche come remixers (tra gli altri, anche di Memory Tapes) e il prossimo 7” per TriAngle prevede Romy dei The xx alla voce. (SP) M odern Witch La sigla Modern Witch è appannaggio di Kristy Foom, Mario Zoots e Kam Khan, trio formato a Denver un paio di anni fa dai primi due e con all’attivo una cassetta autoprodotta (Comfort Noise del 2009) e un cd-r untitled per la solita Disaro. Sound eterogeneo che spazia da una sorta di electroclash sedata ad un synth-pop claustrofobico e mutoide, che sfocia facilmente nella minimal-wave più horror cantata sporadicamente da una Nico ventenne. Tutto un trionfo di beats, drum-machine dei primordi, synth di seconda o terza mano ossessivamente reiterati. Un tempo si sarebbe definita cold-wave. (SP) P win ▲ ▲ Teaks Se intitoli un pezzo The Secret Hypnagogic Dreams Of Laura Palmer (nello specifico il cd-r split con Hobo Cubes su Hobo Cult recs) o Beyond The Red Room hai già detto molto, se non tutto, del tuo universo di riferimento. Alla base delle musiche del geniale moniker c’è una visionarietà filmica lynchana, che slabbra il potenziale horrorifico del glo-fi notturno in “a night of hypnagogic dementia”, come recita la press. Una manciata di release, quasi tutte in formato cassetta, come l’appena uscito split a 4 su Mind Magnetic, fanno di Pwin Teaks uno dei nomi “gelidi” di questa nuova onda. (SP) G r † ll G r † ll Voci campionate al ralenti, battuta bassissima e drogata, ritualismo di matrice esoterica e codici alfanumerici a nascondere/confondere ancor di più l’immaginario ebm contorto e sfasato di questo solo-project di cui nulla più della sigla identificativa è dato sapere. In verità qualcosa si sa, tipo nome e cognome, Martin Noermann, e provenienza, Danimarca, ma non ci metteremmo la mano sul fuoco. L’unica traccia discografica – il cd-r self-titled su Disaro, tanto per cambiare – evidenzia un retrogusto old-school industrial tra i più pesanti dell’intero lotto, tra brume Burning Star Core, folate di rumore bianco sempre in modalità riverberate lo-fi e voci possedute dall’anima venduta al diavolo del black-metal nord-europeo. Scheletriche architetture dark-noise che speriamo escano in forma più definita. (SP) B alam Acab Progetto solista dello studente ventenne Alec Koone che, dopo anni di registrazioni noise e drone in cameretta, ha cominciato a sperimentare incalzando i sample concreti di sempre con nuovi beats rudimentali, arrivando subito ad attirare l’interesse della neonata, ma già emblematica, Tri Angle. Come già accennato nell’ultimo Gimme Some Inches, See Birds è il primo EP del nostro e imbastisce in sei pezzi scheletriche strutture dubstep, eteree come Mount Kimbie, astratte suggestioni ambient e sfuocate immagini sonore à la Ducktails. Il 12 pollici spopola tra i network dell’elettronica corrente tanto da essere momentaneamente sold out e per ora non sono annunciate nuove uscite. L’headliner sul Myspace di Koone però parla chiaro: “No witches in this house!”. (AN) 34 35 Recensioni — cd&lp highlight AA. VV./Gonjasufi - The Caliph's Tea Party (Warp Records, Ottobre 2010) G enere : elettronica / psych Eravamo molto curiosi di questi remix di A Sufi And A Killer. E per la peculiarità della voce di Sumach - alla prova con qualcosa di diverso dallo psych&vintage cucitogli addosso alla perfezione da Gaslamp Killer (e alla prova essa stessa, come materia prima da manipolare) - e per la qualità dei nomi coinvolti. In sintesi? Progetto sontuoso ma poco sostanzioso. Il Sufi-rimaneggiamento non riesce del tutto, la voce finisce spesso con il cozzare con le (ri)produzioni e il risultato non suona bene come potrebbe sulla carta. Scorriamo la tracklist. La minacciosa liturgia ambient di Mark Pritchard (Ancestors), il pauperismo vintage di MRR (Holidays) e il casino psych/terzomondista di Dem Hunger (SuzieQ) sono numeri fuori fuoco. C'è buon mestiere: Bibio che mantiene il piglio funky dell'originale (Candylane), l'heavy wonkyzzazione di Jeremiah Jae (Kobwebz), lo shuffle ossessivo di Bear In Heaven (Love Of Reign), il ralenti deformante di Oneohtrix Point Never (She's Gone). Ci sono ottimi il tiratissimo electrofunk-ragga di Dam Mantle (Ageing), la vera e propria trasfigurazione di DedN a opera di Broadcast & The Focus Group (detriti bucolico-psichedelici, arpeggini e pizzicamenti esotici, harpsichord, percussioni tribali), la rarefazione dubstep di Shlohmo (Change), il remake di My Only Friend (b-side off-album di Kobwebz) firmato Hezus, l'ostinato muro di synth della DedN di agdm. Ecco, sono proprio le produzioni di quest'ultimo, sempre in coppia con Gonja, quelle che aspettiamo adesso. (6.2/10) Gabriele Marino Abe Vigoda - Crush (PPM, Settembre 2010) G enere : wave I veterani dello Smell, il quartetto di mezzosangue che ci aveva sorpreso con un caleidoscopio di colori a tinte forti qual'era Skeleton, torna col nuovo album e ci spiazza nuovamente. Se quel disco era un torrido caleidoscopio tropical36 punk, Crush annerisce la tavolozza, tanto è pervaso da una predominanza di toni tendenti al grigio della wave più minimale e fredda. Certo, le avvisaglie c'erano state nel mini Reviver e nell'avvicendamento alla batteria tra il dimissionario Reggie Guerriero e il nuovo Dane Chadwick, ma sinceramente non ci saremmo aspettati una sterzata così brusca. È tutto l'universo di riferimento ad essere cambiato radicalmente. Synth-pop, cantato di stampo bowieano (periodo berlinese, per intendersi), florilegio di bassi cavernosi e ritmi da disco-beat d'antan, atmosfere tra goth e new romantic, riverberi e delays a dar cupezza e profondità al suono. Insomma, più che ad un iridescente e solare frullato punk tropicale, Crush sembra rimandare alle operazioni di recupero wavey di acts come Xiu Xiu. Repeating Angel, Throwing Shade o Dream Of My Love non lasciano adito a dubbi: gli 80s più scuri son lì, non più dietro l'angolo ma nettamente in primo piano, tanto che si stenta quasi a riconoscerli. C'è da chiedersi il senso di una operazione del genere. Ruffiano annusare dei trend del momento? O libertà creativa spinta ai suoi massimi livelli? Una possibile chiave di lettura ce la offre una discografia che non ha mai tentato di replicare una formula acclarata, ma si è sempre spinta oltre. Certo, mai con una svolta repentina come quella di Crush. Per ora giudizio sospeso. (6.9/10) Stefano Pifferi Aeroplane - We Can't Fly (Eskimo Recordings, Ottobre 2010) G enere : disco O ttanta Già con l'ultimo Chromeo abbiamo fatto fatica ad arrivare alla fine. Ecco che ci arriva oggi un'altro lavoro infarcito con quei suoni anni Ottanta retrofuturistici. Il duo italo belga formato da Stephen Fasano e Vito De Luca aveva fatto gridare al miracolo nel mix per la rivista Mixmag di qualche tempo fa. Quel disco suonava fresco e balearico; ricordate quanto fossero fuori tempo massimo e per questo super attuali? Oggi tornano esaltati da Pitchfork (che si gasa per il singolo electro reggae funky che dà il nome all'album) e riportano ancora una volta sul banco del mercato i suoni Black Angels (The) - Phosphene Dream (Blue Horizon Records, Settembre 2010) G enere : P sycho R ock Dici Black Angels e ti vengono in mente gli altri "Black", quelli che proprio in questi giorni pubblicano l'atteso Wilderness Heart. Due collettivi di stonati che, oltre a metà del moniker, condividono un amore incondizionato per la psichedelia dei tardi 60s e le pesanti trame lisergiche post sabbathiane. Significativo che i due gruppi si siano dati appuntamento per un'ideale Battle Of the Bands che i Black Mountain affrontano confidando nella tradizione folk, imbastendo un hard prog pragmatico, grazie al quale riprendono contatto col pianeta Terra. Dal canto loro gli Angels abbandonano parzialmente i raga circolari del precendente Directions To See A Ghost, ma finiscono per scolpire un suono austero e marziale che sembra indifferente alle pene terrene. Officiano un rito della cui sacralità sono stati custodi gruppi come Jefferson Airplane, The 13th Floor Elevators e Pink Floyd: una celebrazione mistica dell'epopea psichedelica, del suo potere di immaginare paesaggi maestosi e sconvolgenti. Magari non sempre caldi e assolati, ma sempre suggestivi e dannatamente reali. Bad Vibrations apre il disco, ma si pone idealmente al centro dell'intero album: un'omelia oscura che mette mano all'anima nera del sogno hippy. Alex Mass vi canta in una sorta di trance sciamanica, con quella che sembra un ideale punto di incontro fra la vocalità statuaria di Grace Slick e quella emotiva di Neil Young. Il drumming tribale e gli accordi lividi generano una tensione che si stempera improvvisamente in una cavalcata verso gli infinti spazi. Si tratta di un brano che funge da modello a tutto quello che verrà in seguito: le infinite varianti di uno psycho folk elettrico, rimodellato di volta in volta sul simulacro di un beat diafano (Sunday Afetrnoon), di un deragliante space rock (River Of Blood), di un mantra barrettiano (Yellow Elevator #2) e di chissà che altro. Compatto e scuro come un monolite, Phosphene Dream è l'opera di un gruppo che non si limita a riproporre logori stilemi, ma ha l'ambizione di aggiornare un linguaggio, l'unico che funga da appiglio allo smottamento del rock dallo panorama odierno. Una musica perennemente in bilico fra trascendenza e pulsioni ataviche: una dicotomia che mette l'ascoltatore in uno stato di soggezione. Difficile andare oltre giocando con le stesse carte, problema che loro stessi dovranno affrontare nel momento in cui decideranno di dare un seguito a questo capolavoro. (7.8/10) Diego Ballani anni Ottanta e un po' di progressività che vorrebbe rifare il buon vecchio Prins Thomas. I rimandi ve li cediamo volentieri: scoprire da dove han preso i coretti, le chitarrine e le tastierine è solo questione di minuti. La rielaborazione di quegli anni da bere ormai inizia a puzzare di vecchio. Dopo qualche giro di giostra non ce la facciamo più ad avere sotto gli occhi le immagini di Spagna, Sandy Marton e le brutte copie dei Daft Punk di Discovery. Il mestiere c'è (hanno remixato gente del calibro di Grace Jones, Friendly Fires e Sebastian Tellier) ma ho (t)tanta voglia di cambiare. (5/10) Marco Braggion 37 Aloe Blacc - Good Things (Stones Throw, Settembre 2010) G enere : vintage bl ack Aloe ci ha folgorato a inizio anno con una canzone speciale, uno di quei pezzi capaci di diventare immediatamente un tormentone e di restare tali senza mai venire a noia. Parliamo di I Need A Dollar, sigla della serie tv How To Make It In America. Ha bissato poi qualche mese dopo con una commovente versione di Femme Fatale dei Velvet Underground. Insomma, ci ha pompati alla grande Aloe per questo suo secondo album. E il disco - prodotto benissimo, con dinamico spirito vintage, dal duo Truth&Soul - è davvero un gioiellino black, intenso e compostissimo, dominato dalla sua interpretazione generosa e dai ritmi r'n'b del piano, equamente diviso tra amore familiare, amore erotico e consciousness. Tra popsoul sporcato di ottimismo gospel (la title track), pathos funkysoul (Take Me Back), sottili rifiniture di wah-wah (You Make Me Smile), calchi Sixties (Politician, che sembra mimare Atlantis di Donovan), un valzerino black (If I), grumoso funky (Hey Brother), cartavelina reggae (Miss Fortune), staffilate funksoul e organo da chiesa (So Hard). Aloe ci regala un disco dove mestiere e ispirazione sono un'unica cosa. (7/10) Gabriele Marino Altar Eagle - Mechanical Gardens (Type Records, Settembre 2010) G enere : synth pop / shoegaze Back in the 80's with Altar Eagle's shoeagaze. Brad Rose e la moglie Eden Hemming hanno scoperto di avere un'ulteriore personalità: Mechanical Gardens è un disco pop, dove niente ricorda anche soltanto vagamente il noise multiforme di The North Sea o lo psycho folk di Corsican Paintbrush (l'altro progetto insieme dei due). Delicate atmosfere shoegaze coesistono con ritmi techno, dolci melodie dream-pop sono accostate a loop di pura elettronica: sembra quasi che il duo di Tulsa abbia rielaborato le influenze musicali degli ultimi trent'anni e le abbia riversate in piccole citazioni all'interno dei brani. Forse anche per loro lavorare a Mechanical Gardens è stato un tuffo indietro nel tempo, come suggerisce il sound che spesso sembra provenire da una vecchia cassetta. Così iniziare con gli Slowdive in Battlegrounds è dichiarazione d'intenti, d'amore per synth, echi, riverberi e tastiere ondeggianti, che ritroviamo in B'nis B'riht Girls, colonna sonora di una felicità ideale difficilissima da raggiungere. Poi s'inserisce la cassa in quattro e un 38 vecchio amore della Hemming, l'indietronica: Spymovie mette insieme primi My Bloody Valentine e techno artica, strizzando l'occhio ai Cocteau Twins. Il dream-pop che si fa dance sognante e metronomica di Mechanical Gardens è un buon connubio, nonchè un bel tentativo di destreggiarsi nel mare affollato della synth wave. (7/10) Gemma Ghelardi Andrea Cola - Blu (A Buzz Supreme, Ottobre 2010) G enere : pop d ' autore L'ex Sunday Morning abbandona il suono homesleepiano del promettente Take These Flowers To Your Sister e si presenta in prima persona con canzoni in italiano e indole pop. Gli Aidoru ci mettono strumenti e marchio associativo, da par suo Andrea Cola aggiunge ad ogni traccia delle piccole sorprese, per una scrittura che non cerca stravolgimenti ma vibrazioni dal lato che non ti aspetti. Si parte con il canonico pop-rock elettrificato di La mattina presto e l'ottimo lavoro percussivo di Diego Sapignoli su Mangia le fragole. Poi Legno bianco ci lascia intendere un Rino Gaetano in vena sentimentale coi Blur a fare da backing band e Se io, tra voi sceglie il passo analogico smentendo la titolazione endrighiana, opzione ancor più evidente nella successiva Così lontano in vero così vicina al Battiato di Patriots.. Tuttavia di Blu piacciono soprattutto il candore maturo e l'indole soul fuori dal genere, che sono stati le stesse armi in più di un altro recente esordio in italiano, quello di Marco Iacampo. Come il già Goodmorningboy, Andrea Cola rivendica in modo puro e diretto il suo essere al mondo, talvolta con un filo d'ironia discreta (l'aurea d'antan di Piove a Milano) o un richiamo potente alla tradizione meno consona (l'ansiogenia rockista alla Captain Beefheart de Il cuore trema). Ma più spesso scegliendo di stare con la schiena dritta a guardare un orizzonte dilatato e onirico, si prenda ad esempio l'emozionante Anna, senti che tamburi. (6.8/10) Luca Barachetti Anika - Anika (Invada, Ottobre 2010) G enere : dup - post - punk The first lady of Invada, come da press, arriva all'esordio con un disco di "uneasy easy listening" tanto sorprendente quanto accattivante. Cresciuta e formatasi tra Berlino e Bristol, di professione giornalista freelance e promoter musicale per passione, la ragazzetta mette a frutto tutto il background accumulato in anni di ascolti sul versante punk, dub e 60s pop e le casuali frequentazioni col salotto buono di casa Invada: mr. Geoff Barrow (Portishead, ma soprattutto in questo caso Beak>) in persona si pone, infatti, come mentore in studio della bionda chanteuse in nome di una sensibilità musicale comune. Ne esce una versione teutonica di Santogold al ralenti (Terry) o una specie di what if con Nico calata nel melting pot dei giorni nostri, condito da disco-punk anemico alla maniera di una M.I.A. dopo un bong d'erba buona (Yang Yang, guardatevi il video per un immaginario visivo alla M.I.A.), P.I.L. cresciuti nei sobborghi di Bristol intorno alla metà dei 90s (End Of The World), disco-not-disco attualizzato al terzo millennio e post-punk anglosassone al femminile e in fissa col funk bianco. Un esordio che non sfigurerebbe al cospetto delle ristampe targate Soul Jazz. Che a pubblicare oltreoceano sia la Stones Throw non è che l'ulteriore attesto di stima per questo piccolo gioiellino. (7/10) Stefano Pifferi Antony and the Johnsons - Thank You For Your Love EP (Secretly Canadian, Agosto 2010) G enere : avant pop Tipico ep-antipasto per ingannare l'attesa dell'album lungo Swanlights (che poi, cosa ci sarà mai bisogno d'ingannare...), questo Thank You For Your Love è un cinque tracce che rimarrà come una virgola nel repertorio di Antony and The Johnsons, congiunzione tra le solenni volute di The Crying Light e il chissà cosa che a breve ci verrà rivelato. Tanto la dinoccolata title track che la ben più mesta My Lord My Love fanno intuire coloriture errebì riconducibili alle ultime evoluzioni Lambchop. Quanto al resto, esercizi di stile nelle rarefazioni scentrate di You Are The Treasure e nelle due cover (Pressing On di Bob Dylan e Imagine di John Lennon), arrangiamenti parchi e preziosi per una voce sempre più capace di somigliare solo a se stessa. (6.4/10) Stefano Solventi Antony and the Johnsons Swanlights (Secretly Canadian, Ottobre 2010) G enere : avant pop Sinceramente non mi attendevo molto da Swanlights, quarto lavoro lungo per Antony and The Johnsons. Vuoi per il non trascendentale antipasto Thank You For Your Love EP, e in parte perché era stata annunciata la presenza in scaletta di pezzi già noti, eseguiti più volte live però mai pubblicati. Sospettavo insomma che Hagerty inaugurasse già la pratica del raschiamento del barile, ma gli ascolti hanno fugato ogni timore. Al contrario, c'è da stupirsi che tracce come la sinuosa I'm In Love o la palpitante Christina's Farm abbiano trovato solo adesso la consacrazione fonografica. E' un disco più essenziale dei predecessori, gli arrangiamenti del sempre ottimo Nico Mulhy perseguono una frugalità assieme delicata e incisiva, il pianoforte e gli archi disegnano scenari bucolici senza sbrodolature, sfrondati da una tensione tiepida, senza requie (come in Ghost). Lo spiritual moderno che da I'm A Bird Now trovava solenne trasfigurazione in The Crying Light, rivela qui un cuore folk le cui radici rimandano alla prima Nico passando dai Dirty Projectors (The Great White Ocean) e che non disdegna di confrontarsi con un camerismo cinematico dagli sviluppi melodici neanche troppo vagamente Morrissey (Salt Silver Oxygen). Forse mai come in questo disco la voce è sembrata tanto vicina, scoperta, carnale. Ad altezza d'uomo. Discorso che vale anche per il contributo di Björk in Fletta (brano risalente alle sessioni di Volta), mentre fa eccezione la title track, dove su un tappeto di riverberi elettrici Antony imbastisce una fosca liturgia psych che scomoda fantasmi John Martyn e Tim Buckley. Resta la sensazione di un artista che ancora sta esplorando i propri limiti e le possibilità, di un individuo che non smette di porsi domande sulla vita e sullo stare al mondo, di un'espressione figlia di questo percorso difficile e meraviglioso. Un procedere tra incertezze, inquietudini, illuminazioni ed estasi. Che gli fanno legittimamente sostenere - e splendidamente cantare: ogni cosa è nuova. (7.3/10) Stefano Solventi Arp (The) - The Soft Wave (Smalltown, Settembre 2010) G enere : K raut , cosmic Alexis Georgopoulos è una vecchia volpe. Già avvistato negli Alps (III e Le Voyage su Type), e nella tracklist del Dj Kicks di James Holden, in passato ha inciso per un'infinità d'etichette: DFA, RVNG INTL, Troubleman Unlimited, Lo, Rong, Type, Root Strata, Eskimo, Deitch. Appena sporcato di noise (Alexis si è trasferito di recente nella Grande Mela) e registrato originalmente su nastro per poi esser riversato in tutti i soliti formati, The Soft Wave è un album dal sound in punta di dita: synth 39 analogici, chitarra, piano e qualche flauto sporadico con tanto di dichiarazione d'amore a Brian Eno e Robert Wyatt nell'unica song del lotto, la ballata From a Balcony Overlooking the Sea. Gli Arp, secondo l'autore, si occupano di short stories o filmic vignettes. Di fatto remissano le sinfonie all'ananas dei primi Kraftwerk fino ad Autobahn. Semplice. Ruffiano se volete. Niente male. (7/10) Edoardo Bridda Autre Ne Veut - Autre Ne Veut (Olde English Spelling Bee, Settembre 2010) G enere : pop Chiudete gli occhi e immaginatevi una puntata d'antan di Top Of The Pops presa da una vecchia VHS. Fate sfilare Prince intento a riprendersi da una sbronza (Wake Up), lo spauracchio di Arthur Russell (Soldier non gli invidia nulla) e la silhouette di Molly Ringwald, la rossiccia lentigginosa di The Breakfast Club. Otterrete l'ennesimo clash memorie '80: gli Scritti Politti (quelli di Cupid & Psyche e Provision) intinti nel meta-pop russelliano e osservati secondo lo sguardo distorto di Ariel Pink, imbarazzo (Two Days Of Rain) e cadute inclusi nel prezzo. Alcuni episodi però non sono affatto male: Drama Cum Drama è un gioiello, mentre il pop di OMG e la stranita ballata Loveline sembrano provenire da un giovane - e alticcio - Green Gartside. E Green un perché ce l'ha sempre avuto. (6.3/10) Gianni Avella Baby Blue - We Don't Know (Trovarobato, Settembre 2010) G enere : blues - indie E se We Don't Know fosse il disco soul dei Baby Blue? Un soul scarnificato e in combutta con la psichedelia di Syd Barrett (Don't ask Me Why), infantile e ripetitivo (Oh Marie), rumoroso (Shut Up), filtrato da un crooning narcotizzato ma ancora riconoscibile (I Don't Know). Nessun ripetersi grossolano e fuori fuoco di soluzioni già viste nell'Ep d'esordio e in Come! insomma, ma un progetto discografico coerente capace di mantenere un approccio riconoscibile e di rappresentare al tempo stesso un'interessante variazione sul tema. A rinfrancare i vecchi estimatori pensano brani pungenti come Earthquake, ma il resto del programma sceglie coscientemente di lavorare sulla scrittura rallentando i tempi, lacerando la classica ballad con i consueti isterismi (Stay A While), perdendosi in un intrico di linee vocali solo apparentemente abbozzate (Dawn). Fino ad arrivare alla 40 conclusiva Porto Palo, ideale punto di giuntura tra i vecchi e i nuovi Baby Blue, con la sua forma canzone definita e vagamente "antoliniana" solcata dal solito blues tagliente. Se i parametri stilistici della formazione toscana sembrano ormai ampiamente definiti, pare che al loro interno rimanga ancora un discreto margine di manovra per oltrepassare con stile quei rimandi Blues Explosion/White Stripes che dagli esordi costituiscono il principale "limite" della proposta dei Baby Blue. (7.1/10) Fabrizio Zampighi Beautiful - Beautiful (Al-Kemi Records, Settembre 2010) G enere : rock Cristiano Godano, Luca Bergia e Riccardo Tesio incontrano Gianni Maroccolo e Howie B al Teatro Petrella di Longiano. Improvvisano in solitaria, registrano, assemblano. Ne nasce Beautiful, vera e propria band con al seguito un disco omonimo di dodici tracce fra strumentali e canzoni fatte e finite. I Marlene Kuntz ripassati di elettronica? Non esattamente, ma nemmeno un qualcosa che si possa definire con precisione. In Pow pow pow pare quasi di ascoltare i Twilight Singers - e il discorso vale anche per l'ottima In your eyes. Single too! veleggia vanamente ottantiana e sintetica dalle parti dei Depeche Mode e non sono due delay e due distorsori a salvarla. Fatiche gioca su un iniziale rumorismo scuro che anticipa chitarra e pianoforte crepuscolari, con la prima ad esplodere solitaria e non del tutto a fuoco. White rabbit riesuma invece il più ovvio fantasma di un Nick Cave benedetto da David Tibet, mentre una serie di strumentali più o meno lunghi contenenti un po' di tutto (crescendo post, noise d'occasione, trucioli d'elettronica assortita) fanno da inconcludenti neo-Spore o da meri riempitivi. Non saremo di certo noi a deprecare il tentativo da parte di musicisti con importanti percorsi alle spalle di intraprendere direzioni in diagonale per arrivare a sbocchi imprevisti. Ma qui è tutto fin troppo casuale e in definitiva inutile. Forse le tante idee sviluppate in sede d'improvvisazione andavano limate di più (e alcune proprio eliminate). Forse, molto più semplicemente, questi dream-team di nomi altisonanti che si mettono a fare musica insieme non funzionano perché mancano di quel fuoco primigenio che li rende sostanziali oltre il proprio esserci. Lasciamo ai Beautiful il beneficio di una seconda chance, e speriamo comunque che il tutto non diventi - perdonateci la boutade, ma non è nostra la scelta del moniker - una telenovelas. (5.2/10) Luca Barachetti highlight Crocodiles - Sleep Forever (Fat Possum, Settembre 2010) G enere : P sycho pop Nell'autunno psichedelico del 2010 non potevano mancare che loro. Brandon Welchez e Charles Rowell sono due noismakers di San Diego, la cui importanza è cruciale nel coacervo di suoni urticanti del nuovo lo-fi americano, soprattutto in virtù del ruolo di animatori dell'agguerrita scena californiana, nonché di un passato da terroristi sonici con i Plot To Blow Up The Eiffel Tower. I Crocodiles esordivano poco più di un anno fa con quel Summer Of Hate che, oltre ad essere finito nella mia personale top ten di fine anno, aggiornava il linguaggio dei Jesus And Mary Chain con il cinismo ruspante di brani come I Wanna Kill. Con quel lavoro forgiavano psychocanditi di immacolata grana melodica, rivestendoli di fango e detriti. Oggi ricalibrano le ambizioni upgradando il loro garage pop ipnotico, pulendo e levigando, facendo brillare le chitarre, campendo gli spazi con organi e synth analogici, dando aria ai brani fino a far spirare una fragrante brezza lisergica. I due, dal canto loro, non ci provano neanche a nascondere i riferimenti: si va dai soliti fratelli Reid pacificati dalle droghe, agli Spacemen 3 più garage e meno isolazionisti, fino allo shoegaze dei Telescopes e a tutto quel ronzare di fuzz e melodie malate che un quarto di secolo fa, in Gran Bretagna, finiva per lambire le classifiche. Oggi le solite trame vengono imbastite da un gruppo di freaks che, nonostante la provenienza, di sole e spiagge non sa che farsene. Meglio dedicarsi alle atmosfere ossessive e decadenti di Hollow Hollow Eyes e Billy Speed, in cui sembra di ascoltare i brani di Pornography sfregiati da un complesso freakbeat. In un certo senso sta proprio qui la forza dell'album: in quella purezza 60s che percorre tutti i pezzi donandogli fascino e freschezza. (7.3/10) Diego Ballani Belle And Sebastian - Belle And Sebastian Write About Love (Rough Trade, Ottobre 2010) G enere : pop , soul "Devi guardare il sogno aldilà degli alberi attraverso le finestre del tuo salotto". Scrivere d'amore è la capacità di trovare i colori nel grigio quotidiano, di scovare poesia nella routine di una vita ordinaria. Stuart Murdoch e i suoi lo fanno da quattordici anni e, possiamo dirlo, pochi altri come loro. La formula della longevità dei Belle And Sebastian sta tutta qui, nel titolo di un ottavo album che ce li restituisce immancabilmente fedeli a se stessi eppure, nondimeno, rinnovati. In che modo? Tra un ammiccamento glam e una facezia pop, già il precedente The Life Pursuit aveva segnato la strada, seguito l'anno scorso dall'ancor più eloquente God Help The Girl, capriccio solista di Stuart ove i vezzi white/northern soul già esibiti a più riprese in precedenza prendevano del tutto il sopravvento, definendo così il carattere della mossa successiva. Ecco quindi spiegato il duetto - probabilmente impensabile per gli aficionados della prima ora - con Norah Jones nella malinconica Little Lou, Ugly Jack, Prophet John: invero riuscito se ci abituiamo alla nuova immagine dei Belles come professionisti del soft pop contemporaneo (un crossover indie-chic à la She & Him, per tirar fuori un paragone non troppo peregrino). La rinnovata scelta di Tony Hoffer e dei suoi studi losangelini d'altronde la dice lunga: irrimediabilmente lontani, lontanissimi i tempi in cui gli scozzesi erano sinonimo di maldestra ingenuità adolescenziale, di intimità fieramente provinciale. Chiamatela, se volete, età adulta. Ed è pur vero che di fronte al sound levigato, pulito e brillante di quest'ultima prova si potrebbe - a ragione - parlare anche di mestiere, non fosse per una freschezza di scrittura (senz'altro corroborata dai quattro anni di stop) e una maestria negli arrangiamenti che pochi dubbi lasciano sulla qualità complessiva del lotto. Oddio, all'altezza di I'm Not Living In The Real World (rockettino tendente all'irritante di Stevie Jackson) si soffre un po', ma al cospetto di gemme dall'architettura sonica perfetta quali I Want The World To Stop (degna erede di una I Fought In A War, solo molto più cool), I Didn't See It Coming e la stessa title track (con ospite l'ugola dell'at41 trice brit Carey Mulligan, giusto per restare in mood God Help The Girl) non si può che far l' - ennesimo - inchino. (7/10) Antonio Puglia Black Heart Procession - Blood Bunny/Black Rabbit (Temporary Residence, Ottobre 2010) G enere : wave cantautorale Annata ricca di avvenimenti, il 2010 di Pall Jenkins e Tobias Nathaniel: dopo aver splendidamente riesumato i Three Mile Pilot, quello che è rimasto il nucleo anche dei Black Heart Procession ci propone un mini-CD generoso nella durata e artisticamente apprezzabile. Tre nuove tracce di elegante romanticismo - da un'America che, come quei Tuxedomoon maturi cui il duo somiglia sempre più, si fonde alla Germania dei primi '70 - convivono con un pugno di remix in una rivelazione sulla metodologia e lo stile dei Nostri. Nel senso che è per l'appunto il lavoro sul suono a sottolineare la robustezza della scrittura, sia che si assoldi Lee "Scratch" Perry per la follia in camere d'eco di Freeze, si convochi Eluvium a rielaborare Drugs tra glissando ambientali e tasti cameristici o il concittadino Jamuel Saxon la declini in downtempo. Variazioni su temi e trame che (sommate alle pulsazioni oblique e alle filmiche cupezze ideate da Mr.Tube, alias Jenkins medesimo) permettono agli inediti di cui sopra di risaltare, passando dalla squadrata ma eleganteBlank Page al gassoso, malinconico quadrettoThe Orchid attraverso la torbida melodia di una magistrale Devotion. Idee fin troppo valide e articolate per un semplice "riempitivo" discografico: anche questa è classe. (7/10) Giancarlo Turra Blastema - Pensieri Illuminati (2Roads/Halidon, Ottobre 2010) G enere : M ainstream rock Disco dalla gestazione travagliata, questo esordio dei Blastema, che solo oggi viene alla luce, dopo delusioni e disaccordi con alcune etichette e festival italici. La bella voce di Matteo Casadei (con un nome così...), che a tratti sembra inseguire gli stilemi di un'icona del rock targato Italia, come l'Edda dei Ritmo Tribale, traina un sound in realtà piuttosto lineare, in un incerto equilibrio tra rock chitarristico di stampo 90s e un rock d'autore circa Scisma, in uno sguardo che sembra guardare soprattutto al vicino passato. Quando escono da questo schema, con gli accenni ska (Sperma) o il tentativo disco-pop della titletrack, le cose si muovono meglio e 42 raggiungono risultati non disprezzabili con Canzone da 3 euri, che mette insieme hardcore melodico e anthempop da classifica. Ma sono i testi che spesso scivolano in sanremismi e xfactorismi facili a costituire l'anello più debole di una proposta che, nonostante le buone qualità di fondo, non sembra ancora aver trovato la direzione in cui muoversi. (5.7/10) Marco Boscolo Brisa Roché - All Right Now (Discograph, Settembre 2010) G enere : I ndie Nata negli Stati Uniti, Brisa Roché risiede da alcuni anni in Francia, dove pare che abbia trovato la propria patria d'adozione. Il suono che esce dalle quattordini tracce di questo suo All Right Now, il terzo album della carriera, è un amore sconsiderato per la musica degli anni Novanta. Sarà perché dopo essere cresciuta nella Carolina del Nord, Brisa decide che a sedici anni, lei classe 1976, doveva vivere nel pieno la scena grunge di Seattle. Dopo la morte del padre, un po' di progetti emo-pop falliti e un flirt con il mondo del jazz, Brisa è uno strano miscuglio di Joni Mitchell da giovane, la Nina Persson che ha reso grandi i Cardigans e una smodata ammirazione per la P.J. Harvey di Dry. Registrato in California, il disco dovrebbe risentire dell'influenza del dream pop West Coast, ma in realtà si limita a incalarsi in un sound classico da Novanta, reazionario per la scarsa volontà di rinnovarsi e introverso per i riferimenti. Come nel caso di tanti ritorni più o meno manifesti e voluti alla musica dei quegli anni, sul piano formale non c'è nulla che non vada in queste quattordici tracce, se si esclude il fatto che se ne potevano tagliare quattro o cinque senza che cambiasse il senso dell'operazione: sono tutte prodotte, suonate e cantate bene. Il problema è che a guardarsi solo indietro, senza nemmeno la curiosità di scovare qualche gemma oscura dimenticata, si rischia di scrivere sempre le stesse canzoni. (6/10) Marco Boscolo Carl Barat - Carl Barât (Pias, Ottobre 2010) G enere : O rchestral pop "Se hai lavorato a un'idea che non deve vendere nulla è molto più facile. Puoi andarci di cuore. Ho sempre saputo che quest'album era la verità. Lo sentivo nell'anima". A parlare è Carl Barat, co leader e autore di due album firmati Libertines assieme a Pete Doherty, e altrettanti dischi come leader dei derivativi Dirty Pretty Things. Quel highlight Deerhunter - Halcyon Digest (4AD, Settembre 2010) G enere : P opgaze Se la nostalgia di un passato più o meno remoto è una delle chiavi di lettura decisive per la musica di questi anni zero, bisogna però distinguere tra chi si limita a un citazionismo elegante e raffinato seguendo solamente la moda che permette di avere più visibilità (via Pitchfork e altri canali di comunicazione), e chi, invece, plasma la materia della tradizione a proprio piacimento perché l'ha oramai fatta propria e sente che a quella tradizione potrebbe un giorno aspirare ad appartenere. Alla seconda categoria appartengono sicuramente Bradford Cox e i suoi Deerhunter, che ritornano con quello che si rivela il loro disco più coeso e organico, lasciando da parte le parziali indecisioni di Cryptograms e il rischio della ripetizione insito in Microcastle. Oggi il "cacciatore di cervi" sembra aver trovato un equilibrio sonoro che ha portato a un popgaze più fruibile che mai, sempre però dipinto su di una tela sonora oscura e atmosferica, che per certi versi deve qualcosa anche all'ambient. Oltre alla bontà delle composizioni, spicca un lavoro davvero certosino sul suono delle chitarre che spesso sono sufficienti per dare un'ambientazione precisa a tutto il pezzo. È il caso, per esempio, della citazione byrdsiana di Memory Boy o dell'eco R.E.M. di Revival. Desire Lines si apre come un pezzo degli Arcade Fire, i Deerhunter possono essere accostati per la capacità di entrambe le band di tracciare una proprio strada che unisca il porticciolo protetto dell'indie con il gusto delle masse. Altrove, invece, si deve faticare un po' di più per entrare nel bosco musicale dei Deerhunter, come nella stratificata Helicopter che si chiude con un falsetto fragile e intenso di cui non si pensava fosse nelle corde di Cox, o nella cerebrale Earthquake, che posta a inizio scaletta sembra quasi un manifesto: ritmo blando, scandito da percussioni parsimoniose, ma secche come colpi di frusta e chitarre ipnotiche. Due dei pezzi migliori del lotto sono posti, invece, in chiusura: Coronado, uno stomp quasi solare sottolineato da un sax molto black, e He Would Have Loughed, che ricorda le sonorità del progetto solista di Cox (Atlas Sound), salvo trasformarsi progressivamente in qualcosa di completamente diverso, quando il ritmo rallenta e ci si sposta in paesaggi dream. Un disco apparentemente semplice per l'immediatezza che contraddistingue la maggior parte degli episodi, ma in realtà ricavato da una stratificazione di idee e suoni che lo fa crescere ad ogni ascolto. La dimostrazione che semplice e semplicistico non sono sinonimi. (7.5/10) Marco Boscolo Barat che il 31 marzo scorso, al Boogaloo, dichiarava che lui e Pete erano "pronti ad incidere nuove canzoni", quando era chiaro al mondo che tornare a scrivere assieme era più un desiderio suo che non del flaccido compagno oramai legato, sia in tour che in studio, ai più fortunati Babyshambles. Rispetto alla fortune dell'amico, Barat fin'ora non ha fatto una gran carriera. Con la band rifaceva i Libertines in un giochetto di cui si è presto stufato (e il pubblico prima di lui). In solo si era fatto battere sul tempo dall'amico che aveva confezionato, nel marzo del 2009, un buon lavoro a nome Peter Doherty (scritto con la erre finale) la cui formula era proprio identica a quella che aveva in mente lui. Curiosamente Carl, all'epoca in cui uscì Grace/Wastelands, bisbigliava alla stampa di aver pronte delle canzoni, al piano, esattamente l'opposto rispetto allo stuolo di fiati e ottoni dispiegato dal Dohery "a teatro"; in quello stesso periodo, smentiva voci sulla reunion Libertines che di lì a poco avrebbe spinto più di ogni altro. Non voleva presentarsi davanti ai compagni a mani vuote e Carl Barât è qualcosa in più della risposta al disco di Pete. Anzi, è un buon album, sfarzoso, pomposo, disneyano, strutturato secondo una serie di canzoni che sono poi classici canovacci da Tin Pan Alley, cantati in un crooning da innamorato abbandonato. Classici sor43 retti da una scrittura che c'è e non scimmiotta, come suggerirebbero i chronicles da punk-rocker. Lo stile poi è cristallino, diciamo pure maccartneyiano. L'altra faccia dei Libertines in versione orchestrata mantiene, dunque, le coordinate vaudeville e serenade, portandosi appresso tutte le idee melodiche all'avant spettacolo. Tanto che in questa sede il trentenne, per la prima volta, mostra al mondo che può essere un cantautore emancipato e che forse la strada e le buone maniere gliel'hanno indicate i Divine Comedy. Dietro alle splendida The Fall Troviamo Neil Hannon in persona, mentre l'altro ospite azzeccato è quell' Andrew Wyatt (Miike Snow) co-responsabile delle orchestrazioni (The Magus, Je Regrette, Je Regrette, What Have I Done e la finale Ode To A Girl). (7/10) Edoardo Bridda Charlatans (The) - Who We Touch (Cooking Vinyl UK, Settembre 2010) G enere : P op , rock Dietro a quel cesto di capelli tinti, Tim Burgess è un po' come Ian McCulloch: non vuole arrendersi all'età, certi patetici romanticismi proprio non li vuole abbandonare, ma è ancora in grado di scrivere delle canzoni fresche e convincenti in ottimi arrangiamenti pop-psych. Who We Touch esce corredato da un secondo ciddì di alt takes e b sides che forse è chiedere troppo all'ascoltatore, eppure, portando pazienza per un singolo deboluccio come My Foolish Pride (un bubblegum teenager simil Lemonheads) ed episodi del peggior Noel Gallagher come Your Pure Soul, è da considerarsi un lavoro riuscito. Ancora una volta la specialità e la forza risiedono nella song bucolica, un formato che funziona sempre, sia quando Tim lo taglia con i riffoni punk presi di peso dai Sex Pistols (l'indie rock di Love Is Ending), sia quando lo immerge in brume synth e passo d'uomo (Smash The System) o in salse più americane (When I Wonder). Perdonandogli altri peccati come gli slanci al cielo di Intimacy o porcate '80 come Trust In Deside, l'effetto incanto per il motorik di Sincery (altro momento rockista non convenzionale della faccenda) e per la progressione pop-prog lennon-pinkfloydiana di Oh! è assicurata. Con Who We Touch il marchio Charlatans arriva degnamente all'undicesimo album in vent'anni di carriera. (6.7/10) Edoardo Bridda 44 Chromeo - Business Casual (!K7, Ottobre 2010) G enere : disco 80 I due giovani di Montreal ritornano sul luogo del delitto Ottanta e provano a portarsi di nuovo sull'hot spot del gotha synth pop mondiale. Con l'aiuto di Philippe Zdar (mezzo Cassius) al mixing tentano di bissare le promesse che avevano fatto con il mix sul DJ Kicks di qualche tempo fa, ma la loro proposta, anche se viaggia attraverso tutti i territori della decade da bere, non convince fino in fondo. Ci vanno sì di electro funk (Hot Mess), di vocoderato ammiccante (I'm Not Contagious), di ricordi camp progressivi moroderiani (Night By Night), di assoli di chitarra e di altri trucchetti (tra cui il bellissimo featuring di Solange Knowlesin When The Night Falls), ma sembrano più due impegati che devono portare a casa il pezzo che due che si divertono. E questo cuore di plastica dopo un po' rivela la sua artificialità dedicata - come dice il titolo esclusivamente al business. Fancy Footwork è solo un bel ricordo. Peccato. Ci stiamo iniziando a stancare del retrofuturismo spicciolo e da qui in poi siamo sempre più consci di meritarci qualcosa di più dell'ennesimo clone di Discovery. Perfetto per qualche negozio di abbigliamento, qualche sfilata o qualche festina in appartamenti chimici. Buona la resa globale, ma il prodotto resta alla lunga prescindibile. Sufficienza tirata per i funksters sciccosi P-Thugg e Dave 1. (6/10) Marco Braggion Cibelle - Las Vênus Resort Palace Hotel (Crammed Discs, Luglio 2010) G enere : futurexotica Si rivoltino pure le placche tettoniche, finisca questo derelitto pianeta, c'incenerisca e sommerga: rimarrà sempre un nightclub dove mettere in scena quel che resta del sogno. Alla fine del mondo, ed oltre. Così Cibelle torna, quattro anni dopo lo stupendo The Shine of Dried Electric Leaves, ad immaginare una realtà parallela dove certe guizzanti ossessioni sonore (le sue) dettano le coordinate. Stavolta il turbillon electro-jazz-bossafolk-psych-exotica l'ha spinta ad ipotizzare un concept dove, in uno scenario futuro tra l'apocalittico ed il balzano, tal Sonja Khalecallon tiene banco al Las Vênus Resort Palace Hotel assieme alla sua band, i fidi Los Stroboscopious Luminous. La loro missione è intrattenere i reduci dalla catastrofe pasturandone l'immaginario col lenitivo della musica (e del palcoscenico), una combinazione di dramma e understatement che conduce non certo a caso verso atmosfere jamesbondiane: vedi la melmosità Shirley Bassey di Braid My Hair e la deliziosa cover di Underneath The Mango Three (dalla soundtrack - appunto - di Agente 007: licenza di uccidere, anno 1962). Ben venga poi certo romanticismo giocoso, tipo quello onirico e clownesco di Melting The Ice, oppure capace di squadernare serica pensosità (Sad Piano), senza con ciò rinunciare alla fregola di scozzare idiomi, aromi e chimere come nel forrò edulcorato di Frankenstein, nello psycho-cha-cha-cha di Escute Bem e nel cibermambo di Man From Mars. La componente ludica, in questo iperpost-decamerone, è un segnale portante, come testimonia la presenza di It's Not Easy Being Green, pezzo portato al successo dalla rana Kerimit del Muppet's Show e qui virata in languido doo-wop acustico. E cosa dire di Lightworks, che dell'originale di Raymond Scott (musicista elettronico attivo già nei fifties) ripropone il piglio infarcendolo di delirio, acideria tex-mex e piña colada. Cibelle, insomma, conferma di voler prendere molto sul serio l'arte di non prendersi sul serio. Il risultato è un (altro) album-cocktail che sembra aver azzeccato il giusto dosaggio tra gioco, raffinatezza e profondità. (7.3/10) Stefano Solventi Clientele (The) - Minotaur EP (Pointy, Agosto 2010) G enere : psych pop Siano benvenuti mini album come questi - e ne fioccano, ultimamente - perché rivelano una sbrigliatezza impossibile ai lavori lunghi e in ragione di ciò ci raccontano lo stato delle cose con chiarezza spesso inaudita. Dei Clientele, ad esempio, sapevamo l'indole ambigua, quel dolciastro dimenarsi tra caligini e assenzio, tra sere fradicie di spleen e pomeriggi sonnacchiosi. Sembrano (sono?) degli inguaribili bohemienne, ostinamamente (e ostentatamente) ricercati con le loro trame languide e flou, ma anche d'altro canto dei neo-psichedelici insidiosi, contagiati dal germe acido che sprezza le confortevoli traiettorie della consuetudine. Duplici e quindi mostruosi, inafferrabili alieni della radio accanto, una linea tracciata in obliquo tra le malinconie febbrili di Jekill e lo scostante vitalismo di Hide. Capirete quanto mi sembri azzeccato quindi un titolo come Minotaur, palpitazioni cameristiche a battezzare una scaletta di sussulti deliziosamente autunnali (Strange Town, Nothing Here Is What It Seems), guizzi d'asprigna luce pop (Jerry, Paul Verlaine) ed affezioni sperimentali (il talkin' su sfondo electro-noise di The Green Man). Degna di nota - per quello stare in bilico tra carezza e deviazione - è la cover di As The World Rises And Falls, pezzo pescato dai sixties a firma dei losangelini The West Coast Pop Art Experimental Band, che chiarisce altresì a quali radici i Nostri amino restare aggrappati. Per il 2011 è atteso il nuovo album Haunted Melody: altro titolo programmatico? (7/10) Stefano Solventi Clinic - Bubblegum (Domino, Ottobre 2010) G enere : pop Qualche anno fa, in occasione dell'ultimo album a sigla Clinic, ovvero Do It del 2008, ci domandavamo se alla fin fine la band di Jonathan Hartley, Ade Blackburn, Brian Campbell e Carl Turner non continuasse a riproporre pedissequamente lo stesso disco. La risposta non sembra arrivare nemmeno da questo nuovo capitolo della loro avventura discografica, il sesto dal 1999. Le coordinate principali rimangono sempre quelle dell'art punk, ora declinato più sul versante pop, stile Howard Devoto, altre rimanendo più fedele alla linea che porta ai Fall. Se l'impianto sonoro di base rimane sempre lo stesso, bisogna però dire che qui i Clinic hanno cercato l'ispirazione in tantissimi luoghi diversi della musica, tanto che accanto alla coesione estetica fa capolino una varietà che ci fa dire che ogni canzone sia un unicum a se stante. Vi si ritrovano spoken-word presi a prestito dai Cream di Wheels of Fire (Radiostory), strumentali ispaneggianti (Un Astronauta En Cielo), lo stomp-blues di Forever, la ballad quasi emo di Baby, il folk di Freemason Waltz (che centri la massoneria?) e le sfumature caraibico-brasiliane di Milk and Honey. Il problema di Hartley e soci non è tanto scrivere canzoni godibili, quanto riuscire un giorno a scriverne una che rimanga impressa più del tempo che passa nel lettore. (6.5/10) Marco Boscolo Colya - 54 e non sentirli (Music Valley, Giugno 2010) G enere : rock italiano I fiorentini Colya s'impossessano della magniloquenza Muse senza provare quel minimo colpo di coda assolutamente vitale in simili situazioni. E così 54 e non sentirli pare una raccolta di outtakes da Black Holes and Revelations, con il trio ad imbastire tracce dal passo sicuro e granitico, distese sulle quadrature della batteria e gli inevitabili saliscendi vocali del già Canemorto Antonio Nardi alla chitarra e al violino. Cosa servirebbe? Probabilmente una canzone rotonda e ispirata come quella Laura che nel 2005 li vide esordire in un promettente ep, oppure una produzione meno ag45 ghindata di festoni sonici ad inseguire col fiatone i primi Marlene Kuntz. Qua e là un certo sentore Radiohead pre-Kid A non aiuta, e nemmeno la rilettura di Vivere una favola di Vasco Rossi che pare restituire il favore al rocker di Zocca intento a scoprire l'avanguardia verseggiando in italiano Creep. Non si esce vivi dagli anni novanta per dirla parafrasando l'Agnelli. O forse non si esce vivi e basta. (5.2/10) Luca Barachetti Corin Tucker - 1,000 Years (Kill Rock Stars, Ottobre 2010) G enere : indie folk - rock Non fosse bastata la musica, delle Sleater Kinney serbiamo ottima opinione anche per l'essersi ritirate imbattute all'apice della carriera. Prerogativa dei più grandi, la scelta del "momento giusto" per sparire e altrettanto quello dell'ipotetico ritorno, che s'avrebbe da fare solo con qualcosa di rilevante da dire. Regola che vale per Corin Tucker, la quale - dopo un periodo trascorso a godersi le gioie della famiglia - riappare con relativa, omonima band dalla Portland dove tutto è iniziato, recando undici brani di folk-rock virato indie, cioè devoto ai '60 però ricco di mosse che lo allontanano dal puro revival e in ciò simile a certe cartoline inviateci più di un ventennio fa da Barbara Manning. Penna tuttora brillante, la maturità restituisce un approccio più posato ma senza forzature, evidente nel gusto per il dettaglio "di peso" che fece grande The Woods e nell'urgenza espressiva, felicemente adattata alla nuova fase dell'esistenza; che emerge chiara dal caracollare dylaniano ma inquieto della title track e dalla gemma introspettiva di chiusura Miles Away. Nel mezzo, una solida varietà di sfacciate citazioni Byrds (Riley) e ticchettanti nervature da Slits senza reggae (Half A World Away), di momenti tesi eppure leggiadri (It's Always Summer) e scorribande robuste (Big Goodbye), di impennate (Handed Love, Pulling Pieces) e riflessioni (Dragon). Esattamente quello che t'aspetti da un'artista coscienziosa: bello avere certezze, ogni tanto. (7/10) Giancarlo Turra David Wrench / Black Sheep Spades & Hoes & Plows. Songs Of Insurrection, Defiance & Rebellion (Invada, Agosto 2010) G enere : neo - folk L'ombra lunga dei Current 93 più bucolicamente ossianici si stende sul terzo album di David Wrench, dall'espli46 cito sottotitolo Songs Of Insurrection, Defiance & Rebellion. L'albino e ieratico produttore, pianista e cantautore gallese, sotto l'ala del mentore Julian Cope (che insieme a Fat Paul e Michael Sullivan del giro Black Sheep contribuisce alla causa), unisce una lunga una composizione inedita a quattro mani a 3 radicali rielaborazioni di folk tradizionali britannici di stampo insurrezionale. Lunghe tracce di neo-folk che assumono toni crepuscolari e contorni malinconico-decadenti alla Tibet, con una strumentazione all'osso (mellotron, wurlitzer e poco altro) a sorreggere la profonda e grave voce di Wrench. Scelta ideale per esaltare il cuore tematico del disco, i traditional ruotanti intorno a canzoni anarchiche, riottose, brucianti e disperate che narrano di minatori inglesi di fine '800 (The Blackleg Miner) o gridi libertari poi repressi nel sangue (A Radical Song). Dark e controverse ballads lasciate ai margini dai revivalisti folk moderni, come ammette Wrench stesso nell'accluso, corposo booklet con testi e introduzioni ai pezzi, e che rappresentano soltanto il primo passo di una seria ricerca sulle origini della musica folk più oscura e ribelle. Vera e propria etnomusicologia della rivolta. (7/10) Stefano Pifferi Dreamend - So I Hate Myself, Bite by Bite (Graveface, Ottobre 2010) G enere : F olk pop Dreamend in realtà è semplicemente il moniker dietro il quale si nasconde Ryan Graveface, patron anche dell'etichetta, specializzata in piccole produzioni in edizioni limitate. La sua musica è un viaggio nell'America delle ghost town minerarie, magari al tramonto, quando gli spirti della notte cominciano a prepararsi per uscire dai loro rifugi diurni. Ne esce un folk-pop fortemente psichedelico, incentrato sulla reiterazione di semplici pattern e pochi versi (si veda l'iniziale Pink Clouds In The Woods, i cui oltre sei minuti determinano l'atmosfera sognante di tutto il disco). Altre volte si trovano inserti d'elettronica e voci corali che gli inglesi amerebbero semplicemente definire come haunting (An Admission). Per il resto, siamo di fronte a un lavoro sulla coralità che ricorda ora i R.E.M. di Automatic For The People (Magnesium Light) ora i Calexico (Pieces). So I Hate Myself, Bite By Bite nel suo complesso è un disco piacevole, capace di mettere l'ascoltatore nel mood dell'autore, ma con quale canzone non del tutto all'altezza (sembrano bozzetti o poco più), passa via senza che ne rimangano troppe tracce nelle orecchie. (6/10) Marco Boscolo highlight Drivan - Disko (Smalltown Supersound, Agosto 2010) G enere : indie , lo fi pop Dietro al progetto Drivan troviamo una vecchia conoscenza di SA, Kim Hiorthøy, tuttofare a casa Smalltown e anche grafico, illustratore, film maker e non ultimo musicista. Un personaggio chiave nello scacchiere della post-IDM scandinava e l'autore di almeno un paio di gioielli - Hei e Melke - di quella che all'epoca è stata definita anche col termine di folk-tronica. Kim lavora con suoni concreti, piano e chitarra. Ama i ritmi di casa Warp ma è capace di passare da un breakbeat a una cassa in 4 (o un levare) con la stessa disinvoltura dei Mouse On Mars. La sua arte riede comunque nel ricreare ambienti raccolti e campestri in uno streaming di ricordi e purezza attraverso particolari microfonazioni che, a seconda delle finalità, impoveriscono e/o vivificano la fonte sonora (non a caso è autore di un album di soli field recording, For The Ladies). Disko, ottenuto grazie alla collaborazione di tre performer conosciute durante una piece di teatro danza, è di fatto il suo primo album pop. Ci troviamo una buona varietà di arrangiamenti che ne ripercorrono i loop più caratteristici e le canzoni, sognanti e intimiste, cantate dalle ragazze con una punta di infantilismo e in lingua svedese, chiudono idealmente il cerchio di una ricerca decennale sulla narrazione folk contemporanea. Kim il norvegese si è rinnovato arricchendo la palette con una buona dose di tradizioni svedesi. La sua musica ne esce uguale e diversa. Molto attenta ai particolari sonici e con buon senso melodico. Fascinosissima la dizione svedese di Lisa Östberg, Louise Peterhoff e Kristiina Viiala, protagoniste di buone canzoni: il downtempo funk di Lat det Va, il dream folk elettronico à la Type Records di Inget Mer Sen, l'hip hop di Shamshalam, Shimshilim, il ragga folk con campionamenti da vita dei campi di Kampa fino al classico mood nordico tra cassa e minimalismi al piano di Det Gor Ingenting. Da avere. (7.3/10) Edoardo Bridda Edda - In orbita ep (Niegazowana, Settembre 2010) G enere : canzone d ' autore Un anno fa Semper Biot ce lo ridava vivo e in salute dopo un periodo difficile tra tossicodipendenza e inciampi esistenziali assortiti. In orbita festeggia invece il primo anniversario del ritorno, un ep registrato lo scorso marzo negli studi di Radio Capodistria riguardante l'Edda dal vivo, laddove l'ex Ritmo Tribale si presenta ancora più nudo di quanto non lo sia stato in un disco d'esordio che era di culto già prima di essere pubblicato. Dei cinque brani in scaletta quattro sono presi proprio da quel lavoro ma vengono riformulati per un organico ridotto (vitale il lavoro di Sebastiano De Gennaro fra percussioni ed elettronica), il quinto è una rilettura di Suprema di Moltheni che è pleonastico definire intensa. L'ep si trova solo sul sito dell'etichetta e ai concerti ma conviene appropriarsene: disadatto alle strutture trop- po rigide, Edda sul palco modifica le proprie liriche in itinere, ve ne aggiunge di altri (qui frammenti di Ancora tu di Battisti e A tratti dei C.S.I.) e canta il tutto con una spontaneità senza filtri che ha un qualcosa di ancestrale e intimo allo stesso tempo. Nudo appunto, ma nell'irripetibilità del momento, quando conta soprattutto ardere. (6.8/10) Luca Barachetti Edwyn Collins - Losing Sleep (Heavenly, Ottobre 2010) G enere : pop , northern soul Perdere il sonno, perdere la dignità. Chiedersi quale sia il proprio ruolo, il proprio senso. Sopravvivere a un ictus non è esattamente una passeggiata, e Edwyn Collins sceglie di raccontarcelo in maniera diretta, cruda, senza troppi fronzoli. Punk, potremmo persino dire. Losing Sleep è l'album che fino a cinque anni fa, quando si trovava 47 semiparalizzato su un letto d'ospedale, mr. Orange Juice non avrebbe mai sperato di poter fare. Ecco quindi dodici che più che canzoni sono poco controllate schegge di vita, sparate in velocità senza troppo curarsi della forma - sì, quella forma e pulizia che nel bene o nel male aveva segnato tutta la sua produzione post-Postcard. Un ritorno alla ruvida urgenza naif degli esordi? Nient'affatto, piuttosto la risposta a un'esigenza di immediatezza, derivata anche da limitazioni oggettive: la riabilitazione motoria non è ancora completa e quindi il re di Scozia ha soltanto cantato (per come gli è concesso, e purtroppo si sente) su un mucchietto di composizioni co-scritte - o meglio, devotamente regalate - da una serie di amici vecchi e nuovi: dall'antico compare Roddy Frame ai pischellini yankee Drums (la loro In Your Arms è una delle cose migliori), dall'onnipresente Johnny Marr ai suoi temporanei bandmates Cribs (la più che mai Buzzcocks-iana What Is My Role), dagli allievi primi della classe Kapranos / McCarthy (anche se di Franz Ferdinand, in Do It Again, ci sono giusto i cori) a Romeo Stodart dei Magic Numbers. Va detto, dello smalto del precedente Home Again (del 2007, ma realizzato prima della malattia) resta pochino, e quindi non è propriamente un "bel" disco Losing Sleep. Ma ha un suo senso. Vuoi come affettuoso tributo a una leggenda (ancora!) vivente, vuoi come necessaria catarsi. Lo prendiamo come un - amabilmente prescindibile "bentornato". (6/10) Antonio Puglia El Guincho - Pop Negro (Young Turks, Settembre 2010) G enere : strawberry jam E' incredibile come Pop Negro sia segno dei tempi, di questi tempi subito stanchi. In tre anni e tre album, siamo già passati dalla novità alla senescenza, dal contagio diffuso alla pandemia alla "metastasi" (di uno stile e di un modo di fare musica). E la cifra stilistica di Pablo appare qui supercaricata, superfetata, a un passo dall'autoparodia. La conoscenza del dato tecnico e di quello linguistico non si discutono, ed è proprio questo che sorprende, perché con la sua voce monotona, sempre tirata, e la sua produzione coloratissima e impastata Pablo non riesce proprio ad aggiungere nulla a quel mondo - immaginario & suoni - indie Duemila di cui voracemente si nutre e che va dagli storici(zzati) Animal Collective - a tratti si sfiora il plagio ideologico - fino alle ultime propaggini glo/chill come ultimissima moda di finto-bricolage ed esotismo terzomondista. Trentacinque minuti e nove pezzi tutti uguali, tutta la stessa 48 marmellata, con quelle tastierine vintage, quelle percussioncine, quelle chitarrine funky, quei ritmi spastici ed esagitati (wonkypop?), quelle massicce solarizzazioni calypso/caraibiche. (5/10) Gabriele Marino EL-B - Dirty EP (Night Audio, Maggio 2010) G enere : dubstep Lewis Beadle è uno dei riconosciuti prime mover di quello UK garage che andava diventando dubstep, nonché una delle pochissime persone citate da Burial nelle sue pochissime dichiarazioni pubbliche (l'altro nome fisso è ovviamente A Guy Called Gerald). Dirty è un EP di sgranchimento con dentro quattro pezzi di media lunghezza, molta aria di post-techno e in evidenza la derivazione d'n'b, con un minimalismo in toni di grigio a base di globuli dub e rullante step (l'ottusissima Dirty Dirty). Tre pezzi davvero molto buoni, alta maniera, ma poi il brano conclusivo lascia l'amaro in bocca, con quelle brutte tastieracce HHdancefloor e la brutta performance di Rolla Mc. (6.4/10) Gabriele Marino Elf Power - Elf Power (Orange Twin, Ottobre 2010) G enere : psych pop "Dedicated to Vic Chesnutt. We love you Vic". Non poteva mancare all'interno di questo disco la dedica all'amico scomparso tragicamente, che gli Elf Power di Andrew Rieger avevano accompagnato nel 2008 nel lo-fi pop di Dark Developments. Il gruppo di Athens, Georgia, presente nel collettivo Elephant Six e tra i fondatori della label Orange Twin, conta oramai una considerevole e apprezzata carriera lunga ben 16 anni, spesa tra power e psych pop. Tornano con un album omonimo, che si presenta come una sorta di summa della loro carriera; c'è il loro pop scintillante, nelle sue versioni psych e power, c'è il folk, il rock e in sintesi, tutto quello che l'indie rock di razza riesce a produrre nelle sue innumerevoli incarnazioni. In questo comeback ritroviamo le melodie ipnotiche ma non il consueto ritmo ipercinetico, che qui è calato, a favore di una compattezza e maggiori momenti di riflessione, una sorta di versione "adulta" della loro musica. Magari il prossimo lavoro ci smentirà clamorosamente chissà. Per ora ci piace questa metamorfosi. (7.2/10) Teresa Greco EMA - Little Sketches On Tape (Night People, Agosto 2010) G enere : impro Neanche il tempo di mettere la parola fine all'esperienza Gowns col lungo, straziante brano dwld-only Stand & Encounter, che Erika Anderson, metà cuore del progetto condiviso con Ezra Buchla, si ripresenta. La spilungona azzera il passato e crea dal nulla EMA, moniker/acronimo che la aiuta a esorcizzare il trauma post-Gowns, presentandosi al mondo con una breve tape rilasciata sulla label dell'ex Raccoo-oo-oon Shawn Reed. Little Sketches On Tape è il titolo emblematico per una serie di piccoli bozzetti notturni, dark e introspettivi, inconclusi e struggenti per solo voce, piano e chitarra. Il tutto condito da tape collage e rumori sparsi che risuonano di un feeling intimista, privato e sofferto: segno di una sensibilità - e di una voce, c'è da dirlo - fuori dal comune, capace di agire a 360° tra cantautorato off, weird music e impro di classe. Le brevi composizioni dell'album sono state inoltre messe a disposizione di artisti, dilettanti e meno, invitati a tratteggiare immagini partendo dalle suggestioni scaturite dall'ascolto della mezzora scarsa del disco. L'ennesima dimostrazione del cortocircuito tra arte e musica che sembra segnare questi anni '00 e un buon surrogato per difendersi dalla nostalgia per la dipartita dei Gowns. (6.8/10) Stefano Pifferi Emanuele Bocci - Un po' Gabbiano (Ottobre 2010) G enere : C abaret Dopo l'esperienza con Le Voci del Vicolo, Emanuele Bocci torna sulla scena musicale con il suo primo album da solista. Divertentismo da cabaret: questo il genere che predilige nelle dodici tracce di Un po' gabbiano. Bocci si rifà allo stereotipo del cantautore toscano dall'ironia scanzonata ma ragionata. Fra giochi di parole e "grulli" livornesi (Paolo Ruffini come special guest in Non ci sono più parcheggi), Emanuele cala le sue canzoni in scenari di quotidiana e futile routine. In episodi sciocchi come Sono un automa e nelle canzoni più "serie" (Dove era il bosco, Il musicista) l'imbarazzo assale l'ascoltatore per una scrittura priva fattura. Stornelli alla Baccini da osteria di vicolo genovese (Gli sfollati) ed incursioni in territorio ispanico a base di tarallucci e vino (Nunca mais) non convincono proprio, ne divertono . Al polo nord potrebbe essere la nuova hit di Canale3 Toscana o il pezzo forte della sagra del tortello. La voce di Emanuele poco si presta all'espressività richiesta in questo genere musicale; resta pulita, ordinata, senza vezzi ne giochi e, più di ogni latra cosa, manca di una scrittura briosa e simpatica. Questo disco dovrebbe risultare divertente, peccato non lo sia. (5/10) Giulio Bartolomei Emiliana Torrini - Rarities (One Little Indian, Settembre 2010) G enere : P op , dance Me and Armini terzo lavoro dell'islandese di stanza a Londra Emiliana Torrini non aveva convinto. C'erano degli eccessi di produzione, la scrittura non sempre reggeva la distanza, eppure i problemi non erano legati al formato quanto alle finalità. Perdendo l'aura magica dei primi due lavori, la trentenne si trovava a diversificare gli arrangiamenti non approdando, in realtà, da nessuna parte se non ad un formato piuttosto prevedibile e abusato. Questa doppia compila destinata ai completisti (e ai lounge selector) ci dà modo di riscoprire alcuni inediti del passato remoto di Emiliana come la Sugarcubesiana Weird Friendless Kid (splendida) ma soprattutto di risentire i primi singoli della chanteuse in una quantità disorientante di versioni tra dancefloor, r'n'b, hip hop, chamber e teatro. L'immagine che ci ritorna dell'Islanda di Love In The Time Of Science (Easy, To Be Free e Baby Blue) è di una terra - e lo sapevamo - molto legata al mainstream americano e ai suoni soul, house, 2 step bristol-londinesi. Emiliana non si è mai voluta incasellare come artista alt. snob, e questi "auto-featuring" ne rivelano l'anima da performer versatile e sensuale. Sono praticamente tutte ottime le produzioni da party e after party e i remix per mano di Rae and Christina, Toe Johansson, Dreemhouse e Dillion and Dickens. (7/10) Edoardo Bridda Emmablu - Eden (Slang Records, Ottobre 2010) G enere : rock Il binario è di quelli senza nemmeno una curva. E porta dritto dritto ai Led Zeppelin, ai Deep Purple, al rock sudista degli Allman Brothers (Southern) e, per certi versi, al nostrano progressive. Un hard-psych-prog tutto organi, chitarre elettriche, batterie sincopate rubato ai Sessanta/Settanta più elettrici ma senza eccessi gratuiti che facciano storcere il naso o grettezze da cover band. Pur rimanendo confinati in un'autostrada per il paradiso 49 highlight Iosonouncane - La macarena su Roma (Trovarobato, Ottobre 2010) G enere : elettro - cantautorato Jacopo Incani è il frutto della sua biografia. Una biografia da loopstation, campionata su più livelli, in cui si mescolano infanzia da cantautore, adolescenza barrettiana e attualità da discepolo di Flying Lotus. Ascolti che trovano spazio in uno scantinato della Bologna meno allineata tra un laptop e una chitarra acustica, con i vicini che scalpitano per le urla e una rabbia sgraziata, poetica, profonda, a reggere il gioco. C'è il Gaber lucido e spietato di Io se fossi Dio nelle corde di questo sardo sotto i trenta trapiantato in Emilia, disperso in uno zapping di ghezziana memoria e condito con gli scarti della TV spazzatura, attualizzato da un'elettronica sporca e omaggiato da testi provocatori e taglienti. Insomma difficilmente decifrabile ma necessario, per mettere a nudo il vivere squallido di un'Italia da alberghetto a ore in bilico tra call center e precarietà, razzismo e disparità sociale. Vi si da voce dall'interno, senza attenzione per le buone maniere o rispetto per la sensibilità retorica di chi nel disastro quotidiano ha trovato un proprio spazio vitale. Perché quando la tragedia della realtà sgomita per emergere e tu ci sei dentro fino al collo, non puoi far altro che raccontarla per com'è: surreale, cinica, violenta. Quel che accade in una Summer On A spiaggia affollata, con i vacanzieri che esultano per i barconi naufragati dei clandestini (Una folla selvaggia che invoca a gran voce / la versione in carne ed ossa delle morti viste in tv / poi finalmente il barcone affollato ribalta e comincia ad affondare / gli ombrelloni si gonfiano di un boato di gioia e di saluti per chi da casa è rimasto a guardare) o in una title track in cui si sparano sentenze dal divano di casa (Ma cosa fanno questi? Come vivono questi? Sanno solo fare figli / Disgrazie e figli /schifezze e figli / Ah! Non siamo mica noi i pazzi / sono loro che devono starsene a casa / come faccio io / così si risolve / ah beh certo, magari anch'io faccio schifo / certo ma qui dentro / dentro casa mia / nessuno mi vede), in una Torino pausa pranzo stile Thyssenkrupp piena di illustri ipocrisie (sulle panche donate da qualche imprenditore / la democrazia siede in veste ufficiale / e il suo plotone di testimoni / saponette alla mano / ripassa il commiato per gli ultimi tra i cittadini) o in una La macarena su Roma in cui la diretta TV diventa vita reale (Il trentanove, il mio portone / lo riconosco è il mio portone / sono sotto casa mia / cosa faccio? Vado anch'io?/ Che cosa devo fare? / Devo scendere devo andare? / no! È partito il televoto / oggi voto / oggi scelgo / oggi partecipo / oggi decido io). Nessuna retorica, nessun nichilismo da generazione zero, nessuna pretesa di rappresentare qualcosa o qualcuno, se non il diretto interessato. Un'individualità in bilico tra tragedie reali (Il corpo del reato), scenari onirici disciolti in stile Dalì (Il ciccione), autobiografia (Il sesto stato) e improbabili macchiette calcistiche (Il famoso goal di mano) ma capace di generare uno dei migliori esordi dell'anno. (7.6/10) Fabrizio Zampighi di cui si conoscono già limiti di velocità e destinazione, gli Emmablu riescono a suonare freschi e convincenti, come del resto aveva già rilevato anche il buon Stefano Solventi su queste stesse pagine ai tempi dell'esordio del gruppo. A dimostrazione del fatto che Le Vibrazioni sono solo la punta dell'iceberg di un revivalismo Seven50 ties "all'italiana" dato per spacciato in più di un'occasione ma mai ufficialmente morto. (6.7/10) Fabrizio Zampighi Eugene Chadbourne/Arbe Garbe - The Great Prova (CPSR, Giugno 2010) G enere : folk Loro calcano da quindici anni i palchi italiani proponendo un folk-punk urticante e nomade, multilingue - dilaletto compreso - e danzereccio; lui è una figura di spicco dell'underground statunitense, banjoista e chitarrista d'avanguardia influenzato dal free e già collaboratore di John Zorn, Violent Femmes, Jello Biafra, Camper Van Bethoven. Insieme hanno suonato durante un breve tour all'inizio del 2010 e The Great Prova è il risultato di questa collaborazione. Registrato in presa diretta il ventisette febbraio, il disco ha il pregio di andare oltre le solite schermaglie folk, e se da un lato media come da copione tra balcani, ritmi in levare e regionalismi, dall'altro può fregiarsi di una freschezza inedita garantita dal repertorio scelto - i brani di entrambi -, da certe iniezioni di rockabilly e country slabbrato (Ollie's Playhouse) e in generale da un'attitudine sperimentale quantomeno anomala per questi lidi. Insomma, si balla ma si apprezzano anche gli spigoli rumorosi di Why Kids Go To School, i banjo briosi di The Old Piano e Down The Drain, i Primus virati Messico di Women Against Pornography.Tanto che per una volta quasi ci si dimentica che si tratta di un disco live. (6.9/10) Fabrizio Zampighi Fabio Orsi - Random Shades Of Day (Privileged To Fail, Agosto 2010) G enere : drone Il dubbio principale è su dove incasellare questo Random Shades Of Day, dato che dei tre cd che costituiscono il packaging, i primi 2 sono di materiale unreleased o ormai da tempo out-of-print e il terzo, che intitola l'intera operazione, a tutti gli effetti il nuovo album del musicista tarantino-berlinese. Andando con ordine Orsi non si limita a riproporre alcuni dei suoi lavori migliori come i 3" South Of Me (Foxglove, 2006) o Faded On The Blowing Of Winter (Akoustic Disease, 2007), per forza di cose penalizzati dall'essere in edizione limitata, ma riesuma anche tracce unreleased o molto rare come lo split 7" lathe cut con l'amico Valerio Cosi. Trance music, drone, field recordings, rimandi etnomusicologi alla Lomax, personale concezione di psichedelia si alternano tra allucinazioni e slanci visionari dimostrando come anche il laboratorio privato di Orsi sia degno di nota. Nel terzo disco, il più nuovo anche cronologicamente, il tarantino da fondo alle sue tendenze dilatatorie diluendo la title track in 4 movimenti all'insegna di un droning fluttuante, ascensionale e di una sorta di "concept" sullo scorrere della giornata. In alcuni passaggi il suono elaborato da Orsi è immobile, quasi estatico (Part I) o ancestrale come una slow motion sulla nascita del pianeta (Part II), altre più minaccioso e oscuro come una colonna sonora dei primordi (Part III), ma resta sempre fortemente evocativo, per quanto sfumato e scontornato dal contesto a cui fa riferimento (qualunque esso sia). È ambient, è droning, è psichedelia e molto altro, ma sempre a suo modo. Essenzialmente, però, è ottima musica che dimostra per l'ennesima volta lo spessore e la sensibilità di un ottimo musicista. (7.3/10) Stefano Pifferi Fabri Fibra - Controcultura (Universal, Settembre 2010) G enere : hardcore rap A fine anni Novanta, Fabrizio Tarducci aka Fabri Fibra aka Sfiber/Fibroga, da Senigallia, era il nome su cui puntare nell'underground HH italiano. Voce nasale e impastata, immaginario slackerdepresso, rime funamboliche tra slang e nonsense, un primo disco solista - generazionale, Turbe Giovanili (2002) - patrocinato dalle basi di un Neffa già lontano dalla scena. Poi la rottura con il produttore della crew delle origini, Lato, e l'addio all'underground con la svolta Eminemiana del marcissimo Mister Simpatia, sulla Vibra Records di Bassi Maestro. Due anni di pausa e di messa a punto - e di crisi personale (droghe comprese) - e arriva il Tradimento dell'omonimo passaggio alla major Universal, un cambio di rotta in senso bruttamente commerciale segnato dalle basi dell'ex Sottotono Big Fish e da una radicale semplificazione del rappato. Arrivano il clamore mediatico e il successo di massa, grazie a mosse efficaci come i video-tormentone e in generale i testi cattivi - a base di moralismo e insulti - dei pezzi. Fibra diventa un personaggio, un guru, l'idolo dei ragazzini, il bersaglio delle mamme e dei tg. La scena si divide tra odio e rispetto. Passano tre anni e si bissa, anzi si getta il carico, con Bugiardo. L'interlocutorio Chi vuol essere Fabri Fibra? dello scorso anno è il segnale della stanchezza dell'uomo come personaggio sovraesposto, superintervistato, anomalia dentro il sistema eccetera. E' arrivato il momento del rilancio. Fibra canta su Festa dei Crookers, in coppia con Dargen D'Amico (altro nome di culto dei Novanta reinventatosi nei Duemila con un percorso parallelo e diverso), ma si va sempre più ridisegnando come "artista impegnato": conduce una trasmissione su Mtv in cui "mostra la vita di giovani che vivono situazioni disagiate e socialmente critiche, perlopiù stranieri o meridionali", si di51 highlight Massimo Volume - Cattive Abitudini (La Tempesta Dischi, Ottobre 2010) G enere : rock Saranno pure cattive, ma suonassero tutte come questi 11 pezzi, alle abitudini dei rinati Massimo Volume ci adatteremmo senza nessun problema. Sono passati ormai una decina d'anni da Club Privè e dalla colonna sonora di Almost Blue, ma non ce se ne accorge nemmeno: appena Cattive Abitudini comincia a girare a regime scatta il vortice spazio-temporale e i Massimo Volume di oggi solleticano il palato come i Massimo Volume di allora. Inutile cercare in questo disco innovazioni o svolte sconvolgenti: il ritorno più atteso del decennio vive delle solite, tese, vibranti canzoni da leggere che azzerano lo iato già dai primi incroci delle chitarre di Egle Sommacal e Stefano Pilia. Basta quello per essere catapultati all'indietro. Stanze, 1993. Almeno un paio di vite fa. Stessa emozione e stessa sorpresa. La voce di Clementi è, al solito, un magnete che attanaglia subito l'ascoltatore con le sue storie di ritorni e solitudini, maestri neanche tanto nascosti e esistenzialismo (mai) spicciolo. E un rivolo d'autobiografismo collettivo nell'iniziale Robert Lowell, metà amaro, metà rassicurante, insieme ci commuove e ci angoscia. Per la forza di parole solo in apparenza semplici e il timore di vedere di nuovo svanire dalle mani questo gioiello di letteratura fatta musica. O viceversa. Perché di musica nei dischi dei bolognesi ce n'è sempre stata molta. E ora, non ce ne voglia il passato, ce n'è ancora di migliore. Se del ruolo di Mimì tocca giocoforza parlare in altri termini, i restanti tre sembrano un corpo unico, solido e maturo. Il drumming di una Vittoria Burattini mai sopra le righe ma perennemente attenta e puntuale; le chitarre dei compagni di mille reading, poi, sono forse la nota migliore, musicalmente parlando, del comeback. Dialoghi serrati o contrappunti lievi e impercettibili, elettricità o sottofondo, l'intarsio è sempre di grandissima classe. Mai ci saremmo aspettati un ritorno del genere. Lo avevamo sperato, questo sì. Ma stavolta i quattro sono andati oltre ogni previsione rilasciando un album fresco e classico, che suona come i Massimo Volume che ci saremmo aspettati ma che ci stupisce ad ogni nota, ad ogni parola. (8/10) Stefano Pifferi chiara fan di Marco Travaglio, aderisce con entusiasmo al Woodstock a cinque stelle di Beppe Grillo. Ad anticipare Controcultura, esce Quorum, web album in free download con dieci pezzi veloci dove accanto al solito carosello anti-italico e agli ormai rodati tocchi eminemiani - anche nelle basi - Fibra riscopre finalmente il piacere delle strofe. Fa autoanalisi nella title track, più lucidamente del solito: "Ho un piede nel successo e l'altro nella fossa [...] Incastri che per te non hanno un senso, era dieci anni fa [...] Faccio un ragionamento, faccio un peggioramento e vendo per magia. Su in regia, non capite, era tutta una strategia, a casa mia scrivo in camice bianco come in farmacia". Controcultura segue questa scia e va subito detto che moltissime strofe spaccano e spaccano anche un casino, con un recupero pieno del gusto della rima e del gioco di parole. Parata infinita di produttori (Fish, Marco Zan52 girolami, Crookers e tanti altri) e basi meno tamarre e più grimey del solito. I contenuti sono sempre quelli: individualismo, schizofrenia, tristezza generazionale, società di plastica, televisione, la scena, nomi e cognomi (Noemi Letizia, Marco Carta), delitti di cronaca. Su tutto però, magari non per quantità ma per efficacia, vince il lato autoriflessivo, quello più interessante adesso che il Fibra moralista è definitivamente uscito allo scoperto, si veda il pezzo con ospite Dargen, quasi un mea culpa: "Non ricordo più quando eravamo bravi [...] Tanto l'originalità prima o poi la perdiamo tutti [...] noi che facevamo belle lettere, belle rime Fabri, ora che fanno schifo facciamoci almeno le letterine"; "Sono un insensibile, come un insensitivo che prende i soldi alle persone che stanno male. Anche io faccio così, con le mie canzoni anche se ne prendo pochi [...] ed è una bellissima insensazione essere qui in questo disco di Fabri che sarà quello che venderà meno in assoluto". Dice Fabri: "M'hanno creato a tavolino come un robot di plastica [...] che all'improvviso rompe i giocattoli e fa un casino". Oltre tutto, oltre l'incazzatura, le parolacce, l'impegno, le belle strofe, i brutti incisi cantati, le basi ampiamente migliorabili, la sensazione del capolinea. E' un mezzo homecoming? Con queste carte sul tavolo non sappiamo proprio come e quando finirà la partita... (6/10) Gabriele Marino Father Murphy - No Room For The Weak (Boring Machines, Ottobre 2010) G enere : wave Battezzato come una frase tratta da Day Of The Lords dei Joy Division e concluso da una scarnificata ed esangue versione di There Is A War di Leonard Cohen. Con queste credenziali, il nuovo mini dei Father Murphy non può sottrarsi alla tetra caligine che sembra riempirne l'universo e che ha ormai definitivamente azzerato gli squarci di luce dei primi passi. Una musica che più che torturata è tormentata, inquieta, travagliata, mossa da demoni difficili da comprendere se non attraverso un percorso laterale e atemporale tra estremi musicali e non solo: roba che tiri in ballo indifferentemente le musiche nascoste della New York fine '70 e l'immaginario visionario jorodowskiano, il misticismo pagano e morboso e le apocalissi Swansiane, il neo-folk di mr. Tibet o la new-wave più tetra e goticheggiante. Ma non è questione di rimandi diretti, quanto di affinità elettive che i tre adepti della chiesa del reverendo Murphy sono in grado di plasmare e restituire un sound personale, intimo, sentito e sofferto. Che si tratti di lunghe indagini neo-drone-folk-rock come in We Now Pray With Two Hands,We Now Pray With True Anger o lugubri e morbose esaltazioni dell'automortificazione (You Got Worry), l'oscurità la fa da padrona. In maniera però elegantissima e convincente. L'ennesimo grande passo. (7.2/10) affronta la materia. Deferenza frutto - ne siamo sicuri - più di un affetto sincero piuttosto che di un tentativo grossolano di plagiare uno stile. Eppure la musica funziona, anche perché l'Andreani non se la cava affatto male nel trasporre in note la storia dei due partigiani della 52esima Brigata Garibaldi che fa da concept al disco. Liriche profonde, approccio appassionato e un libercolo allegato con un intervento di Marino Severini dei Gang, per un'opera che non smuoverà forse le montagne, ma possiede certamente una sua dignità. (6.3/10) Fabrizio Zampighi Fops - Yeth Yeth Yeth (Monotreme, Settembre 2010) G enere : wave pop Altro non attendevano che di ritagliarsi un po' di spazio per mischiare con calma i rispettivi talenti, Dee Kesler e Chadwick Donald Bidwell, il primo cantante nei Thee More Shallows e l'altro autore nei Ral Partha Vogelbacher, band per così dire apparentate operanti in quel di San Francisco. E così son nati i Fops, un chimismo talmente effervescente da aver sprigionato nel giro di poche sessioni non uno ma due album, il qui presente Yeth Yeth Yeth e quel Priest In Them Caves già annunciato per l'inizio 2011. Siamo dalle parti di un cantautorato krauto in fatamorgana wave, tastieroni caliginosi e vibratili come dei New Order raggelati Kraftwerk (Ghost Town Hall) o strattonati Julian Cope (Yellow Jacket Corpse). Una specie di calore differito Cluster condisce ogni traccia, da quelle con una punta di Xtc nelle melodie (Black Boar, Scandinavian Preppie) a quelle che gettano una strizzatina d'occhio ai Wire meno esagitati (Glass Blower), e persino nell'inattesa processione psych di Maple Mountain. Uno sguardo retrò che pennella il presente. (7.2/10) Stefano Solventi Filippo Andreani - La storia sbagliata (, Settembre 2010) G enere : C antautore Francesco Bearzatti Tinissima 4tet - X (suite for Malcolm) (Parco della Musica Records, Settembre 2010) G enere : avant jazz Fabrizio De André, Massimo Bubola e Ivano Fossati, ovvero LA canzone d'autore. Per il suo esordio il comasco Filippo Andreani sceglie coscientemente di ricalcare in maniera didascalica la lezione dei maestri, registrando tredici episodi in bilico tra folk, testi impegnati e melodia. L'aderenza ai modelli è a tratti quasi imbarazzante, tanta è la rispettosa deferenza con cui il Nostro Torna il Tinissima 4tet di Francesco Bearzatti, band allestita in occasione del disco-omaggio a Tina Modotti. L'occasione è una suite dedicata a Malcolm X, altro personaggio che ha cavalcato la Storia a pelo, subendone tutte le conseguenze ma lasciando una traccia da cui è impossibile prescindere. Le tappe della sua vita offrono lo spunto a dieci episodi più una "digressione" in quel Stefano Pifferi 53 di Kinshasa a celebrare l'epica impresa di Muhammad Alì, che quasi dieci anni dopo l'assassinio di Malcolm sorta di formidabile nemesi - ne portò simbolicamente a compimento l'utopia. La scaletta si dipana quindi tra felpati post-bop, febbri free, trepidazioni blues (dal neanche troppo vago afflato Charles Mingus), spasmi funk, solennità hip-hop (la funerea amarezza di Epilogue, per la voce di Napoleon Maddox) e persino ibridi dance come la guizzante Cotton Club. Un autentico viaggio insomma nell'immaginario sonico nero che ha accompagnato - anche solo idealmente - la formidabile e controversa vicenda del cosiddetto "Detroit Red". Di Bearzatti apprezziamo la scrittura (molto belle soprattutto la solenne Conversion e l'orientaleggiante Hajj), ma ancor più la propensione ad alternare le trame di sax (ma anche clarinetto e xaphoon) con un accorto ricorso all'elettronica (sentitevi A New Leader), ingredienti che assieme allo stile frenetico di Giovanni Falzone - e ai suoi "human effects" come margini selvatici della tromba - ravvivano continuamente il sound, lo iniettano di imprevedibile e contemporaneità. Con due front man così, spalleggiati da una sezione ritmica dinamica e versatile, la presa sonica è garantita, in grado di superare d'amblé la maggiore difficoltà insita in un progetto del genere, ovvero determinarne l'urgenza, la necessità prima espressiva che "storica". Il jazz non è certo obsoleto quando sa mettersi in gioco con tanto entusiasmo, coraggio ed intensità. (7.4/10) Stefano Solventi Frankie Rose And The Outs - Frankie Rose And The Outs (Memphis Industries, Settembre 2010) G enere : garage - gaze Frankie Rose non è certo una sconosciuta; basta dire che è stata (soprattutto) batterista di Crystal Stilts, Vivian Girls e Dum Dum Girls per capire la portata della sua figura - certamente centrale, per le esperienze che ha attraversato, ognuna a suo modo significativa, nei nostri anni. Nella nuova compagine Frankie (come con le Vivian impegnata alle pelli, alla chitarra, e alle corde vocali) fa tesoro del suo curriculum, battendo il ferro caldo che aveva contraddistinto le tre band menzionate, piene di efficacia genericamente garagista. Frankie Rose And The Outs viaggia anzitutto sulle possibilità di resa e scrittura efficace di canzoni scanzonate garage-psichedeliche, in un terreno che tocca morbidezza shoegaze e piccole pillole acide Sessanta (la Count Five-iana Must Be Nice, 54 Don't Thread). Il combo lavora non certo sui riferimenti maturi del genere dei My Bloody Valentine, quanto sul presupposto dello shoegaze delle origini, quello dei primi Jesus And Mary Chain (vedi Girlfriend Island, veloce esercizio preso senza troppe titubanze dal manuale Psychocandy - o, se vogliamo, dalla raccolta Barbed Wire Kisses). Ci ricorda una volta in più come come gli zuccherini dei Chain fossero auto-ascritti nel solco della psichedelia Sixties (la finale Save Me, ballata a cavallo con Galaxy 500). Soprattutto la tecnica comprende però fresche revolverate Nuggets in tema garage (Don't Tread), qualche reminiscenza Vaselines, così come, curiosamente ma non troppo, avvicinamenti alle versioni più americane di Syd Barrett (That's What People Told Me), e quindi (la consecuzione è prevedibile ma piacevole) sovrapposizioni coi nostrani Jennifer Gentle (Candy). Sarebbe stato semplice, per Rose, procedere con gli automatismi del genere, e diventare prescindibile. Eppure, così come per le formazioni di cui ha fatto parte, conferma la tenuta di un metodo di rispolverare che si limita a fare ciò che sa fare, senza episodi che abbassino il livello: essere freschi, saper scrivere canzoni. (7/10) Gaspare Caliri Gerardo Balestrieri - Canzoni al crocicchio (L'Alternativa, Settembre 2010) G enere : etno swing Gerardo Balestrieri è un talento. Nel segno della nota propensione apolide e generosa, si disimpegna tra swing e tarantella, bosforo e latinoamerica, blues e chanson. Incroci e incontri vissuti con naturalezza disarmante, con la competenza di chi ha dovuto riparare mille motori lungo la strada e non c'è ingranaggio di cui non sappia l'incastro.A questo punto però bisogna metterci un però. Perché questo secondo vero album d'inediti oltre un decennio dopo I nasi buffi e la scrittura musicale considerato che Un turco napoletano a Venezia vedeva in scaletta solo riletture di brani tradizionali - non convince del tutto. Sembra mancare il sale del vissuto, sia pure in guisa di trasfigurazione teatrale (guitta e blasé alla Paolo Conte, che resta tra i riferimenti principali, oppure in punta di delirio à la Vinicio Capossela, che invece non c'entra molto). Forse il problema è che non sai bene dove finisca la calligrafia e inizi il mestiere, un mestiere capace di giocare carte spettacolari (vi basti la taranta-country-swing di Canzone ingiuriosa) ma in qualche modo più incline alla forma (la graziosa Rouen, la frenetica Ormai non provo più gaiezze, la disillusa Canzone al crocicchio) che non all'espressione. Come dire: è più posa che poesia. Sensazione che non cessa neanche con l'avvincente psychballad tzigana di Kegame, con la milonga turcomanna di Camera con vista o con quella Casa che prende in prestito il malanimo enigmatico di De André, salvo poi sparagliare tutto con palpitante frenesia balcanica. Uno spettacolo d'arte varia senz'altro gradevole, ovvero avvincente, ma non troppo coinvolgente. Spero d'essermi spiegato. (6.2/10) Stefano Solventi Goldmund - Famous Places (Leaf, Ottobre 2010) G enere : piano , soundtrack Il 2010 sembra l'anno di Keith Kenniff. Il ragazzo di Portland ha preso moglie e qualcosa nella sua vita è cambiato negli ultimi mesi: ha inaugurato ben due nuovi progetti e un'etichetta discografica che porranno definitivamente fine alla dicotomia che lo ha sempre contraddistinto, ovvero Helios e Goldmund. Tra la fine di quest'anno e l'inizio del prossimo assisteremo alla nascita sia dei Mint Julep, dediti all'indie rock/shoegaze (band che lo vedrà accanto alla compagna), sia un altro progetto, Meadows, che si occuperà di musica per bambini. Le due formazioni hanno già un bel po' di materiale pronto e wikipedia ci dà i titoli degli album: Save Your Season e The Littlest Star, entrambi previsti per 2011. Sono avventure molto diverse da quelle del tutto complementari intraprese fin'ora dal poliedrico musicista, e la prova del tre sotto il nickname Goldmund sembra dunque un momentaneo addio alle vesti di compositore e storico di colonne sonore, e non un nuovo tassello. Dopo Courduroy Road e The Malady of Elegance, l'ex studente della Berklee College of Music esplora perciò un'americanità che ha i contorni della definitiva cifra stilistica. Famous Places parla di luoghi che significano, o hanno significato, qualcosa per lui, ambienti armonici che descrivono contemporaneamente luoghi, situazioni e ricordi. Collaborando con registi indipendenti e componendo musiche per spot pubblicitari, Kenniff è diventato maestro nel disegnare con la mente le strategie della telecamera e con i tasti imprimere i colori e le prospettive, nel sottolineare sfumature e sensazioni con i piccoli interventi elettronici e ambient. L'album rappresenta pertanto una perfetta colonna sonora per un pamphlet stellestrisce, fortunatamente lontano dalle finte smancerie e dagli struggimenti hollywoodiani o dall'orgoglio nazionale dell'ultimo Van Dyke Parks. Goldmund è indissolubilmente legato al cinema ne- oclassico, e i maligni malignino sulla frustrazione di un musicista che voleva fare il regista. La sua è musica intelligente, fuori dal tempo e che sul tempo riesce a narrare, ma soprattutto un ascolto prezioso che svela nuovi segreti e particolari ascolto dopo ascolto. Sarà un addio? (7.1/10) Gemma Ghelardi Grey History - Lucifer Over Disneyland (Radical Matters, Agosto 2010) G enere : power - noise Due celebri figure dell'avanguardia italiana si nascondono dietro Grey History, sigla che, oltre a rinsaldarne l'amicizia, sposta oltre i paletti delle ormai quasi decennali collaborazioni. Fabio Orsi e Gianluca Becuzzi, loro i protagonisti, si muovono stavolta non più sulla scultura di suoni (l'ottimo So Far con (etre) su Porter) o sul versante più synth-pop della wave/post-punk, vedi i recenti album a firma Noise Trade Company. La scelta ricade su un ambito musicale di matrice grey area, con una particolare predilezione per i momenti più harsh e white noise dell'area più estrema di industriale ed electro. Power electronics violenta e nondimeno sarcastica, industrial-noise primigenio e humor nerissimo col suo immaginario (s)fatto di mickey mouse nazisti e disneyland luciferine: Boyd Rice benedice dagli inferi, Albin Der Blutharsch Julius se la ride, Whitehouse fa da mentore in lontananza e Maurizio Bianchi controlla nelle retrovie, ma la mano dei due - in particolare del background giovanile becuzziano - si nota eccome. Il declamare acido di A Cheap Holiday in Siberia svetta su tutto il resto, col suo sincopato incedere ebm unito a folate di gelida harsh, ma in generale tra droning imbastarditi (Armed Struggle Is Not Terrorism), vecchia e cara scuola industrial for the iron youth (God To Them All The Rest Of Us), ambient imputridita e fastidiosissima (East Carers Commando), di carne (umana) al fuoco ce n'è. E sempre di ottima qualità. A garantirne, se si avessero ancora dubbi, è la Radical Matters, che si propone come al solito con grande eleganza e materiali poveri, inscatolando il cd in una copertina da 7" curata in ogni dettaglio. (7/10) Stefano Pifferi 55 Half-handed Cloud - As Stowaways in Cabinets of Surf, We Liveout in Our Members a Kind of Rebirth (Asthmatic Kitty Records, Settembre 2010) G enere : schizo - folkpop Si legge dalle note: John Ringhofer ha registrato il nuovo lavoro di Half-Handed Cloud, Stowaways (abbreviazione di As Stowaways in Cabinets of Surf, We Live-out in Our Members a Kind of Rebirth), mentre faceva il custode di una chiesa di Berkeley, grazie alla sua tape machine portatile. Sembra fili tutto con il passato dei cinque album di John, culminato nella raccoltona Cut Me Down & Count My Rings. Probabilmente il grosso dei fan rimarrà lo stesso, ma non certo quelli più affezionati all'obliquità a cui Ringhofer aveva abituato. La sua musica ha sempre avuto la peculiarità di voler rincorrere gli appunti che scappano, che se non te li segni sono perduti. In Stowaways ciò contrasta con la tradizione iper-storicizzata, e condivisa, di alcuni inni americani del diciannovesimo secolo, espressamente citati nelle lyrics. Eppure Half-Handed Cloud lascia qualche pezzo sulla strada, finendo col risultare - per così dire - deficitario nella principale caratteristica della produzione precedente: essere memorabile e memorizzabile, avvicinando l'unicità, nella confusione lirica e melodica del sound espresso. John ha sicuramente guadagnato in spirito sornione alla Kevin Ayers (The Sea Has No Face, I'm Over The Need To Bail), tutto sommato sorridente se ci pensiamo - ma come il Gatto del Cheshire carrolliano. I bozzetti della mezza mano funzionano ancora (Splashdowns Hold The Hymnal Together); HHC si mima clandestino, ma pur sempre entro la cornice del folk singer che non rinnega la provenienza (Out on the Ice, We Face Our Hearts) e la linearità, all'uopo (Divers Divers). Stowaways è un flusso di venticinque pezzi che ricorda gli esperimenti cantautoriali scanzonati - o de-canzonati (Concentric Groups of Mirrored Loops) - di Harry Nilsson o della giovialità para-cameristica di VanDyke Parks. Ringhofer non rinuncia all'arrangiamento "sovrascritto", che include piano, ottoni, piccoli circuiti (Brooks Embracing Burdens). Ma, in definitiva, lo scarto maggiore è quel suono ripulito, come fosse un vaudeville in chiaro, senza l'idea di carrozzone itinerante. Fa eccezione qualche solito frammento lasciato galleggiare (Guy With Driftwood Skin), complici i fiati e la schizofrenia dei vecchi tempi, che accalcava e continua in questo caso ad accumulare felicemente temi in rapidissima successione. E questo forse è l'Half-Han56 ded Cloud che vediamo meglio e vedremmo bene nei prossimi capitoli ringhoferiani. (7/10) Gaspare Caliri Helmet - Seeing Eye Dog (Work Song, Settembre 2010) G enere : noise - rock Suona irrimediabilmente datato il nuovo album della noise-legend Helmet, ma almeno non tocca i livelli imbarazzanti dei dischi post-reunion Size Matters (2004) e Monocrome (2006). Scordatevi la disturbante abrasività chitarristica di Strap It On (1991) e lo squadrato e chirurgico procedere noise di Meantime (1992). Quegli Helmet sono morti praticamente allora, al momento di trasformarsi in un ingranaggio mainstream con le devianze accessibilmente pop di Betty (1994) e, peggio ancora, con l'inconcludenza di Aftertaste (1997), definitiva pietra sulla carriera del combo newyorchese. Il ritorno non è che sia stato dei migliori, con cambi di formazione che catalizzano ancor di più il peso della formazione sull'ego del chitarrista e unico superstite Page Hamilton, ma tant'è. Di reunion inutili ne abbiamo viste e ne vedremo moltissime. Tornando a Seeing Eye Dog, di frecce al proprio arco ne ha, soprattutto nel dittico iniziale So Long e la title track: due songs compatte, furiose e condite di chitarre al vetriolo che fanno sperare in un ritorno ai tempi d'oro. Poi però il disco comincia a fossilizzarsi su una sorta di noise-pop in the vein of Foo Fighters e affini virato metal (Welcome To Algiers o la sinceramente orribile And Your Bird Can Sing): si lascia da parte la carica sovversiva e/o disturbante in favore di un rifferama potente ma prevedibile e scontato, spesso banale. La scrittura poi è visibilmente catchy, tanto che verrebbe da definirla pop se non si trattasse degli Helmet. Tecnicamente ottimo e perfettamente prodotto, Seeing Eye Dog è un passo avanti rispetto agli album dei 2000s ma è pur sempre un rammarico per chi ha apprezzato l'impatto violento e visionario dei primi Helmet. (6.4/10) Stefano Pifferi High Wolf - Ascension (Not Not Fun, Settembre 2010) G enere : tropical - psych Approda finalmente sulle spiagge Not Not Fun, il francese High Wolf e ci saremmo meravigliati del contrario. L'etica e l'estetica della one-man band d'oltralpe, oltre che il suono e l'attitudine, portavano alla etichetta di Britt e Amanda sin dai rigurgiti psych dei cd-r autopro- dotti col marchio Winged Sun. Assonanze e affinità tra marchi e sigle molto più vicine di quanto la geografia faccia pensare, certificate prima dalla tape Animal Totem e ora da questo esordio in vinile lungo Ascension. Come da titolo, un lungo trip in 5 canzoni fatto di foreste tropicali e effluvi post-psych creati col supporto di strumentazione desueta (tablas su tutte, ma anche synth analogici) e spirito girovago (il nostro è reduce da un mega-trip in India e zone limitrofe alla ricerca di field recordings e ispirazione). Roba che spappola il cervello e sposta la percezione, creando "quarti mondi" insieme immaginari e reali a disposizione di sensibilità inclini all'ascolto. In particolare, Meeting Of The Three Seas e Fire In My Bones si fanno apprezzare per il loro taglio trance-inducing, fatto di flutti di droning rituale e tribalismo acceso, ma è l'intero assemblaggio che fa di High Wolf uno dei modelli di riferimento della nuova psych "tropicale". A ruota, altri dischi in solo (Shangri L.A. per la giapponese Moamoo) o in combutta con spiriti affini (Neil Campbell a.k.a. Astral Social Club nel progetto Iibiis Rouge) stanno lì a dimostrare lo spessore del freak francese. (7/10) Stefano Pifferi Jack Sparrow - Circadian (Tectonic, Ottobre 2010) G enere : techstep organico Dopo Cyrus, Pinch e 2562 arriva il quarto moschettiere in casa Tectonic, la label di techstep gestita dal maghetto liquido di Underwater Dancehall. Jack Sparrow è il ragazzo di Leeds che atterra sulla label di Bristol e importa il suo mondo spezzato, technoide, magico, alienato, fumoso e drogato di osmotica biologia erditata dagli O.R.B.: le voci ambient e i pigolii dei uccellini, quelle cose che hanno fatto incetta di fan nelle lande e nei prati inglesi poi trasferitisi a Goa. Il paragone può sembrare peregrino, ma l'escapismo di questa linea di dubstep tutta concentrata sul taglio di un glitch che ricorda il d'n'b pulito della Moving Shadow e di quei loschi figuri insabbiati nella diaspora fine anni Novanta della jungle, emerge con un sogno visionario che si rifà all'immaginario biotech e che sta in piedi senza scimmiottare nessuna 'scena' o tendenza à la page. Con l'aiuto dell'amico produttore Ruckspin e con le belle vocals di Indi Kaur (che aveva già collaborato con Pinch), il pirata del techstep si porta su un livello creativo che non ha nulla da invidiare ai suoi compagni di scuderia. Il ritmo circadiano che ci impone con questa ora di ritmo va ascoltato dall'inizio alla fine. Una meditazione technoide che varia tra tribalismi ragga e punte di jungle glaciale a 160bpm. Sopra la media. (7.3/10) Marco Braggion James Blackshaw - All Is Falling (Young God, Settembre 2010) G enere : folk elegiaco Fin dall'esordio risalente al 2004 non passa anno nel quale James Blackshaw non pubblichi uno o più lavori. Per il 2010 è la volta di All Is Falling, titolo animato da uno spirito apocalitticamente elegiaco sull'onda della partecipazione agli ultimi due dischi dei Current 93 di David Tibet, con tanto di marchiatura Young God al seguito. Il compositore inglese nasce come fingerpicker puro, incidendo nel 2006 O True Believers - che ad oggi rimane il suo capolavoro, nonché uno dei dischi più importanti del nuova generazione post Basho-Fahey - e rimane tale almeno fino al 2008, quando con Litany of Echoes allarga al pianoforte e agli archi il proprio interesse compositivo. Da lì la svolta dichiarata ufficialmente con il successivo The Glass Bead Game dell'anno scorso: fra l'influenza dei raga e quella del minimalismo più canonico Blackshaw sceglie la seconda, concentrandosi su una scrittura che pur non essendo mai priva di una buona dose di virtuosismi prova la zampata emozionale sul gioco di ripetizione-variazione tipico di tutto il filone nymaniano. All Is Falling riprende i presupposti del suo predecessore e li allarga, ribadendo l'intenzione compositiva prima che performativa di Blackshaw e collegandolo pure a riferimenti ad oggi quasi del tutto inediti. Così lungo le nove parti di cui è composto il disco scorrono, accanto ai classici climax albeggianti di marchio Nyman (Part 2 per chitarra e archi) e a qualche calligrafia pianistica di troppo (Part 1), echi sinistri e sensibilmente psicotici alla David Maranha (Part 8) ma anche lunghe narrazioni cinematiche come dei Six Organs Of Admittance dediti all'evocazione cameristica (Part 7) e addirittura uno scampolo percussivo (eseguito dallo stesso titolare) in Part 6. Il tutto è complessivamente omogeneo, al punto che non appare per nulla casuale la scelta di dare alle singole tracce una numerazione in parti. Nonostante ciò il miglior Blackshaw continua a rimanere quello folkeggiante e chitarristico del sopra citato capolavoro. Conforta però trovarlo oggi in trasformazione, lontano da qualsiasi stagnazione interlocutoria ed immerso in un discorso sicuramente destinato ad evolvere ancora. (6.9/10) Luca Barachetti 57 highlight Non Voglio Che Clara - Dei cani (Sleeping Star, Ottobre 2010) G enere : canzone d ' autore Forse siamo al punto di non ritorno, meglio di così non si può fare. Anche a fronte di quello spirito di continuo recupero di ogni cosa - per cambiarne e contaminarne un parte o poco più - che è stata la cifra degli anni zero e di quest'appendice duemiladieci chissà quanto lunga ancora. Al ripristino di un certo cantautorato italico pre-settanta, rivisto con sensibilità neo-romantica e ascolti posteriori, i Non Voglio Che Clara hanno dato uno dei maggiori contributi. Qualitativi più che quantitativi, con soli due dischi dal 2004 ad oggi, di cui almeno uno (l'esordio Hotel Tivoli del 2004) fondamentale per capire quello sguardo all'indietro dato da una parte sostanziosa del songwriting indipendente sulla produzione dei vari Tenco, Bindi, Paoli, Modugno e Ciampi pure. I nomi, ognuno con le proprie peculiarità e le proprie distanze da quella stagione, li conoscete: Grazian, Baustelle, Benvegnù, lo stesso Morgan prima che venisse divorato, e via dicendo. Ma è naturale che siano i bellunesi capitanati da Fabio De Min a firmare il disco definitivo a riguardo. Dei cani ripete esattamente quanto fatto negli anni dai nomi citati e dagli stessi Clara. Ma con più lucidità, molteplicità d'influenze, eppure omogeneità del risultato. La produzione di Giulio Ragno Favero che compie l'operazione opposta a quella messa a punto per l'ultima magnifica uscita dei Valentina Dorme - là pulizia, spigoli, durezza; qui immersione in una soluzione orchestrale che non compete solamente agli archi ma coinvolge chitarre, organi, fiati, addirittura la voce. E poi la scrittura di De Min, il diario di uno o più amori finiti insieme ad una stagione inevitabilmente di passaggio (Gli anni dell'università), dove la prima persona non è una questione meramente grammaticale ma diventa il taglio emotivo di un racconto che mescola nostalgia, rabbia, malinconia, (livide) speranze. Si parte con La mareggiata del '66, titolo alla De Gregori, indole spectoriana calibrata il giusto rispetto ai Baustelle su major, liriche da brivido che vorresti sentirle cantate da quella Patty Pravo d'allora. Poi Il tuo carattere e il mio, che con le sue schegge d'elettronica e le vertebre di post-rock crepuscolare a tenere alto il brivido pensi sia la traccia con i Port Royal ospiti e invece no, è la successiva, Le guerre, primo dei due episodi chiaramente imparentate al beat (l'altro è Secoli, che mischia pure Brian Wilson e Flaming Lips). Più in là, poi, è la già citata Gli anni dell'università a stanare l'ascoltatore: il testo nella seconda parte è puro Paolo Conte ipermalinconico ma in ectoplasmi vocali alla Morricone e chitarre baluginanti come insegne che si spegneranno a breve. Tutti momenti di pari e inaudita intensità mentre il resto tiene la tensione al giusto grado e piazza i Non Voglio Che Clara nelle posizione alte di un'ipotetica classifica del neo cantautorato italiano. Nettamente staccati dagli ultimi Baustelle - dai quali non hanno fortunatamente preso lo spleen d'apocalisse citazionista - ma ad inseguire la progettualità intellettuale de I moralisti degli Amor Fou. Nati e cresciuti già oltre quel bianco e nero fin troppo vintagistico sul quale i Non Voglio Che Clara completano ora il loro sorpasso. (7.5/10) Luca Barachetti Junip - Fields (City Slang, Ottobre 2010) G enere : psych folk Esistono dai primi anni zero, ma esordiscono in lungo solo oggi gli svedesi Junip, trio capitanato dal chitarrista e cantante di origini argentine José Gonzàlez, al cui successo come solista (due album molto venduti, soprattutto in UK) si deve questo slittamento decennale. 58 Meglio tardi che mai, perché le undici tracce di Fields sono davvero gradevoli per non dire intriganti: folk psych in tiepida guazza elettronica, dolcezze lisergiche servite con flemma da maggiordomi pusher, il piglio sottilmente robotico ad innescare la seduzione ossessiva di raga placidi, la vena che d'un tratto s'imbizzarrisce in un galoppo irrequieto. Gioca a loro favore e non potrebbe essere altrimenti il canto lunare di Gonzàles, che ci ricorda in qualche modo le più morbide escursioni della Beta Band, così come non sembra peregrino segnalare elementi di paragone con George Harrison ed il più assorto John Martyn. (7/10) Stefano Solventi K-X-P - K-X-P (Smalltown Supersound, Agosto 2010) G enere : K raut , synth rock Abbiamo giusto intuito con gli Arp di The Soft Wave che la nuova ondata di corrieri cosmici non disdegna qualche pennellata d'attitudine noise newyorchese. E se dici NY e metti sul lettore l'attacco di Pockets arrivi direttamente sul lato rockista della faccenda, magari immaginando le mani (e le braccia) di Martin Rev dimenarsi sul synth. Dietro alla criptica sigla si nasconde tuttavia ben altro: salvo la summenzionata traccia e il traino di 18 Hours (Of Love) (adorata dalla cricca Optimo) non troviamo un ego à la Alan Vega a mettere a ferro e fuoco il mix sonico bensì tre disciplinati finnici professanti una rigida disciplina lisergica nello stile impersonale degli Add N To X (Labirynth). Proprio come i tre britannici dell'acclamato Avant Hard, anche qui: niente chitarre e niente canzoni, ma calcolati motirik Neu! e acidi controllatissimi a base di Can, Spacemen 3 e This Heat. La mente dietro al progetto non è l'ultimo venuto: Timo Kaukolampi, ex Op:l Bastards e The Lefthanded, noto ai più come produttore della divetta Ottanta di casa Smalltown Annie, è dal 2006 che anelava l'idea di una personale versione degli Lcd Soundsystem. Le macchine e lo studio dove far convergere rock, dance e synth-delia anni '70 non gli sono mancati ma chiedergli - come han auspicato molti addetti - il capolavoro, dopo quasi un lustro di riferimenti e referenti prossimi, era decisamente troppo. L'uomo, più umilmente, riesce a imbastire un'esaltante sintesi sonica con dei momenti all'altezza del mito e altre cose di buon mestiere (Aibal Dub, la Vangelis-iana New World) tutti trip da godersi sotto un palco invece del solito salotto fumoso. Non è poco a dir il vero. (7/10) Edoardo Bridda Kelley Stoltz - To Dreamers (Sub Pop, Ottobre 2010) G enere : P op psych Li abbiamo recensiti più che positivamente con il precedente Circular Sounds ma è probabile che il nome di Kelley Stoltz dica poco o nulla ai lettori di SA. Nel variopinto rooster della rinata Sub Pop, il suo è uno dei nomi meno hyped, schiacciato tra corazzate indipendenti come Male Bonding, Dum Dum Girls e Avi Buffalo. Perdersi questo suo ultimo lavoro sarebbe però, anche questa volta, un peccato. Significherebbe farsi mancare uno sguardo obliquo e smaliziato su un tema trito come quello della melodia lisergica di ascendenza 60s. Stoltz ne da un'interpretazione fresca, che fagocita elementi di modernariato pop (le sfuriate di fuzz, le fughe psych, gli "aah" e "oooh" a profusione, le chitarre al contrario) e li trasfigura grazie alla lente distorcente della produzione DIY. E' facile intravedervi una lunga gavetta a base di home recording e cut & paste sonoro, tuttavia la sua è una concezione opulenta della canzone che lo porta a stipare spectorianamente ogni idea nelle poche tracce a disposizione. To Dreamers è ricco di trovate ritmico-melodiche, racchiuso fra gli estremi costituiti dalla alambiccata costruzione wilsoniana di Baby I've Got News For You, e dall'ispirata poesia di August, sorta di incontro/scontro fra la malinconia asciutta di Nick Drake e gli svolazzi psichedelici di Syd Barrett. Basterebbe poi ascoltare una versione acustica di I Don't Get That, per goderne della fine grana melodica e appurare le doti di Stoltz in qualità di sofisticato artigiano pop. E' l'ottavo album per questo menestrello del Michigan, attivo sin dal '99 a riorganizzare i propri 60s in piccole visioni ad uso e consumo dei sognatori moderni. (7/10) Diego Ballani Killing Joke - Absolute Dissent (Spinefarm, Settembre 2010) G enere : wave , hard Averlo visto al Primavera Sound del 2006 pitturato come un Kiss dimenarsi come un vecchio animale da palcoscenico non mi ha certo colpito positivamente. Tutto quel grandguignolismo a base di horror e pose grottesche non era proprio il massimo anzi, pareva una regressione bella e buona dei presupposti post-punk dai quali il festival barcellonese era partito. Del resto, non vi era dubbio che lo spettacolo di Jaz Coleman e dei suoi compagni di un tempo Killing Joke aveva qualcosa di perversamente attrattivo. Youth, il produttore e bassista, Geordie Walker con i ritrovati riff granitici - spesso raddoppiati da tastieroni messianici - formulavano un mix mutante, nu metallico e assieme synth-etico con il quale finivi per fraternizzare. Absolute Dissent lo ripropone in studio con nuovi brani che sembrano una risposta goth-wave all'ultimo Klaxons o una versione malata del 59 gospel-soul dei Depeche Mode (tirati in ballo nel singolo European Super State). Con quella lama di dramma e farsa, evo hard rock e sintetiche nu metal, i vecchi KJ, orfani del bassista Paul Raven (deceduto nel 2007) e tornati in formazione originale, suonano sempre truzzi e beceri trovando un viatico nella contemporaneità macinando sapientemente l'abecedario di riferimenti storici di cui sono capaci: bassi cadaverici Big Black, sincopi Melvins (This World Hell), persino pose Motorhead (End Game) e un tantino di romanticismo asciutto di casa Sheffield (Honour The Fire) condito di citazionismi Pil (Ghosts On Ladbroke Grove su basi dub). Coleman e compagni mostrano di saper rielaborare idee e influenze proprio come fecero gli Wire di Send, dei quali recuperano la monoliticità; rivendicano l'evo barbaro che venne prima dei Muse ricordando a Bellamy e co. che sono i coglioni e la tecnologia l'unico binomio possibile. Nella loro brutalità calcolata, non c'è che dar loro ragione. (6.8/10) Edoardo Bridda Lele Battista - Nuove Esperienze sul Vuoto (Mescal, Settembre 2010) G enere : cantautorato La citazione da Pascal incastonata in fondo al booklet indica l'intenzione meditativa di questo secondo lavoro da solista dell'ex La Sintesi. Le dodici canzoni di Nuove Esperienze sul Vuoto scelgono infatti il lato interiore dell'esperienza umana, preferendo però le tonalità soffuse ad un più prevedibile colore scuro e guadagnando così in (sottile) imprevedibilità. Piace dunque questo Lele Battista più calibrato rispetto al precedente Le Ombre, ancora una volta in bilico tra Franco Battiato e David Sylvian ma con una maggiore consapevolezza di scrittura. Le trame elettroniche usufruiscono di un lavoro di artigianato che punta ad un suono capace di riempire i luoghi di ascolto come le menti. Il punto di partenza è Brilliant Trees, quello di arrivo forse Blemish.Tuttavia di strada ce n'è ancora tanta da fare, fermo restando che il nostro quando prova la sviata in combutta con Mauro Ermanno Giovanardi (il crescendo un pizzico coldplayano di Attento) trova il momento migliore di un disco da odorare e poi assaggiare lentamente. Come quei vini non eccellenti ma che diventano buoni se gli si concede tempo e attenzione. (6.8/10) Luca Barachetti 60 Locrian - The Crystal World (Utech, Novembre 2010) G enere : D rone Ci avevano lasciati appena 6 mesi fa con l'esperienza multi-collaborativa di Territories, ora tornano con The Crystal World, nome mutuato da un racconto di J.G. Ballard. E se anche in questo album figura un nuovo nome oltre al duo originale André Foisy/Terence Hannum, il lavoro di Steven Hess (On, Pan American, Ural Humbo) alle prese con elettronica e percussioni, sembra più quello di un terzo elemento che di una comparsa. Facile intuire che questa scelta sia servita a intensificare e addensare l'output sonico della band, di nuovo sotto l'ombrello di quello stesso drone annerito che caratterizzava l'esordio in studio Drenched Lands. Niente più doppie casse o chitarre in tremolo ma di nuovo lunghi feedback e synth con sustain infiniti, heavy metal mutato drone che non abbandona i suoi contatti con il genere originario. Ci sono ancora parti di chitarre che suonano come tali e non si è perduto del tutto il concetto di canzone à la Neurosis e Sunn O))), due band con le quali i chicagoani potrebbero iniziare a competere, sia per la cura dei suoni, sia per la forte componente evocativa. The Crystal World è la riprova di come la band sappia muoversi con naturalezza lungo più direzioni e strumenti non proprio ortodossi per il genere. I cori angoscianti di At Night's End, il piano di Obsidian Facades o la chitarra acustica e gli archi di Elevation And Depths suonano perfettamente a loro agio tra rumori ed urla lancinanti. La versione in cd contiene inoltre un secondo disco, non presente nel futuro vinile, una traccia unica delle evoluzioni lentissime che presenta nel modo meno compromissorio possibile quello che è il suono di questi ultimi Locrian. (7.2/10) Leonardo Amico Lonesome Southern Comfort Company (The) - Charles The Bold (On the Camper, Settembre 2010) G enere : folk rock Lui è John Robbiani, svizzero, ma si appresta a scuoterci l'immaginario col nome di The Lonesome Southern Comfort Company. E' recidivo. Lo ha già fatto prima come chitarrista dei Far From The Madding Crowd, poi appunto con questo progetto in solitario, pur aiutato dai vecchi compagni di viaggio (tra cui i compagni di etichetta Peter Kernel), previo un album omonimo ad agosto 2008. Quindici le tracce del debutto, altrettante nel presente sophomore Charles The Bold. Solita la vena folk-rock con qualche inevitabile strappo psych, highlight Phantom Band (The) - The Wants (Chemikal Underground Records, Ottobre 2010) G enere : neo - wave Buonissimo segno quando un gruppo odierno mette in difficoltà e spinge a citare tanti e tra loro diversi nomi per spiegarlo in qualche maniera. Sono dei bei tipi, questi scozzesi in giro da un lustro - alle spalle alcuni singoli e un altro album (l'interessante però acerbo Checkmate Savage edito lo scorso anno) - e scappano dalle mani come anguille appena pescate. Sono insetti che non c'è verso di mettere in una teca, e allo scopo ne devi consultare di enciclopedie. Sulle prime resti perplesso, poi ti persuadi che, alla luce di un'attualità colma di pallidi imitatori, sei al cospetto di un lusso. Rispetto all'esordio, ricavato da una serie di jam, The Wants è passo avanti d'eccezione che ha preteso sei mesi per rivelare la concretezza della proposta, un fiume dal moto impetuoso e dai tanti affluenti che fa pensare a dei Long Fin Killie (degli Stereolab) formatisi un decennio dopo, a dei Liars col cuore di panna invece che di zolfo; guardandosi attorno, a una versione depurata da intellettualismi e compiacimento di These New Puritans e Dirty Projectors. Senza la freddezza dei primi e la dispersività dei secondi, poggiando su un sentire misterioso e arcano e sulla possibilità - che ognuno ha ma pochi sfruttano - di ascoltare e rielaborare tutto lo scibile rock. Senza che i modelli scelti soffochino lo stile, emerge un vibrante sincretismo nella voce sospesa tra Ian McCulloch e David Sylvian (finendo talvolta dalle parti di Eugene Edwards, come nella fenomenale Into The Corn); nelle cadenze motorik e in arrangiamenti arguti e stratificati, da Associates del Duemila (Goodnight Arrow); nella penna che dipana con naturalezza pop, epica, ombre. Tre quarti d'ora abbondanti di sorprese, insomma, dove i Japan si alleano con i primi Eurythmics (O) e ballate sfociano in cavalcate kraut (The One Of One), dove il toccante folk Come Away In The Dark coabita con gli LCD Soundsystem europeisti di Mr. Natural. Per tacere del resto, maturità sinuosa e insieme spigolosa che intreccia tecnologia umanista e nervi scoperti, romanticismo e disillusione, memorie e aspirazioni. Il futuro, ipotesi sempre più complessa da pensare e progettare in modo credibile, passa anche da qui. (8/10) Giancarlo Turra per un rosario di ballate capaci d'imporsi con naturalezza disarmante, come pianticelle sbocciate tra la strada e il deserto, concimate ad amarezza Willard Grant Conspiracy e trepidazione Okkervil River, custodite con lo sguardo lungo e grave dei Johnny Cash e dei Cormac McCarthy. Infine raccolte con gesto naturale e servite in purezza acustica o in un bruciante intingolo elettrico (vedi il fortunale à la Crazy Horse in Tom, Dad & Mom). Il segreto è non staccare mai il piede dal pedale dell'intensità, certo. Così da definire un ambito narrativo coeso e per certi versi impenetrabile, senza scampo, allestendo una vicenda nella quale si celebrino ancora una volta i topos della solitudine sullo sfondo della frontiera, col mantice dei violini ed il gracidio dell'organo ad imbastire un conforto effimero. Che il folk-rock fosse una cate- goria apolide già lo sapevamo. Nella voce, negli scenari, nei ciondolamenti melodici di Robbiani vive l'ennesima conturbante epifania. (7.3/10) Stefano Solventi Love Amongst Ruin - Love Amongst Ruin (Ancient B, Agosto 2010) G enere : R ock Dopo i Boo Radleys e i K-Klass, il batterista - e jingle maker a tempo perso - Steve Hewitt lasciava i Placebo. Era il 2007. Oggi lo troviamo a capo di una band, Love Amongst Ruin, ragione sociale dall'immaginario assimilabile a quello degli ex compagni, ma con alcune differenze sostanziali. Priva degli attacchi emo-zionali di Molko, la linea Hewitt 61 highlight Salem - King Night (Iamsound, Settembre 2010) G enere : witch Tremate, tremate, le streghe son tornate. In realtà non son tornate affatto, dato che si manifestano solo ora sul formato lungo dopo aver creato un hype della madonna con una manciata di vinili piccoli e qualche sparso remix diluiti temporalmente in un arco di tempo che oggigiorno assomiglia ad ere geologiche e geograficamente per etichette che definire del sottobosco è già un eufemismo. Sia come sia, di questo trio misto (John Holland, Heather Marlatt e Jack Donoghue, questi i protagonisti) stanziato tra il Michigan e l'immancabile New York si parla già da molto tempo nella rete di forum e blog che agitano l'underground mondiale sempre alla ricerca della nuova sensazione. Mai come stavolta però, la sensazione è che oltre l'hype di rito, qualcosa di tangibile ci sia eccome. Se si prende il nome dalla città delle streghe per antonomasia della cultura americana, poi è naturale che i suoni prodotti vengano di conseguenza, elevando i Salem a band di riferimento della nascente scena "witch", versante oscuro, tenebroso, ossianico e esoterico dell'hypnagogic/ glo-fi. Per rimanere a coordinate spicciole e ben identificabili, King Night è un tetro miscuglio di ambientazioni angelico/mefistofeliche, beats cavernosi che tanto devono alle scarne trame dell'hip-hop così come alla densa gravità del dubstep o del juke chicagoano, delays e riverberi shoegaze che si fanno voragini (gli Oneohtrix Point Never remiscelati a dovere), eteree vocals femminili alternate a vocioni da rapper coatto, pulsioni minimal techno trash già anticipate dai ceroni bianchi dei Crystal Castles e goth-rock d'ordinanza. Un calderone di ingredienti magici per chi è stanco di palme e tramonti sfocati, droghe leggere e sfumati immaginari 80s: King Night inizia con una pomposità black metal che perpetua l'ufficio del rito satanico in pentacolo, Asia è l'immaginario ballardiano post-Burial, Frost il richiamo sensuale ambient delle sirene stregate dal ricordo Dead Can Dance, Sick è il bbreaking per una nuova possibilità di alt-hop, Release Da Boar il noise che i Sonic Youth non si permettono più. E via così, un colpo di grazia ai poseurs da cameretta che mantiene comunque un'aura poshy deviata sul 666 tanto osannato dal metallo nero. Qui c'è l'incubo, la decadenza degli yuppies presi a male, la polaroid sfocata e notturna dell'hypnagogic, il lato oscuro che invece di rifarsi al mainstream guarda alla Morte Nera e ne rielabora il senso strafacendosi di crack (come recita il loro primo EP Yes I Smoke Crack). Qui ci sono le streghe. Qui c'è la paura. E noi diamo loro il benvenuto. (7.3/10) Stefano Pifferi, Marco Braggion si fonda ora su un rock atmosferico dal cantato cool. La resa sonoica è rigorosamente live, gli hook melodici decisamente anni '90. Tra gli arrangiamenti troviamo ricami psych, archi (Bring Me Down), hard rock losangelini (Blood & Earth), trame à la Massimo Volume (Truth, Heaven & Hell) e un po' di quel gusto cyber/nu firmato Marylin Manson (Home). E' un lavoro masterizzato con tutti i crismi possibili, la batteria possiede un gran bel suono, ma dei L.A.R. ne facciamo tranquillamente a meno. (5/10) Edoardo Bridda 62 Lugano Fell - SLICE REPAIR (Baskaru) Primo compito per recensire Slice Repair (primo album regolarmente licenziato di Lugano Fell, dopo un cdr d’esordio) è – come sempre – sfuggire all’ineffabile. Il lavoro di James Taylor ci dà il pretesto per segnalare - una volta di più - un metodo che ha segnato (o seguito) il passaggio dal post-rock all’elettronica avant, scivolando dolcemente nell’elettroacustica. Le reminiscenze ci sono tutte, a partire dalla prevedibile eco in lontananza di Labradford / Pan American (Slope), che portava già a metà Novanta (in Labradford, per esempio) sotto gli occhi di tutti le potenzialità dell’ibridazione. Slice Repair non è però un fossile creato in laboratorio. Nasce con un brano di dilatazioni ambientali quasi cosmiche ma di provenienza compositiva minimalista (Bleaker), si muove su terreni già citati ma – almeno in un’occasione (47 Easy 47), prima della conclusione - riesce anche ad affrontare, con saggia profondità di visione, due mondi che si guardano: quello di Alvin Curran (c’è musica elettronica vivissima, popolata da un bell’intarsio artigianale di voci, in Preform Naple) e quello del glitch. Certo non si tratta di universi estranei, è vero, ma neanche troppo spesso messi a confronto. Non è però un caso, con tutta probabilità, che ciò che riesce meglio a Taylor e alla ragione sociale Lugano Fell è una versione butterata, glitchata ma ugualmente intensa delle suite di David Pajo / Papa M (Two Hundred Clocks And A Metre). È il recente passato che torna, forse. Ma ciò che promuoviamo è la capacità di rimescolamento che non suona per nulla passatista – né cerca di far finta che il cordone ombelicale sia ancora attaccato. (6.5/10) Gaspare Caliri Mark McGuire - Living With Yourself (Mego, Ottobre 2010) G enere : psych Naturale che, a furia di parlare di hypnagogic, memorie di memorie e estetica della ricordanza, qualcuno finisse con l'architettarci un intero album. Se poi quel qualcuno è il chitarrista degli Emeralds, una delle band elette da Keenan a rappresentanti dell'immaginario hypna-pop, allora la faccenda assume connotati interessanti. Oltre a muoversi in compagnia di John Elliott e Steve Hauschildt, McGuire è autore di una carriera sotterranea fatta di infinite produzioni in proprio tra cd-r e tapes per label altrettanto oscure come la personale Wagon, la Arbor o la Pizza Night. Psichedelia dronica e sperimentazioni meditative di chitarra, di cui si consiglia vivamente il recupero per lo meno dell'ottimo Guitar Meditations II e della ristampa Tidings/Amethyst Waves, su Weird Forest. Per l'autoproclamato esordio ufficiale, Mark McGuire concepisce il proprio personale manifesto, accantonando le scorie radioattive che contrassegnano la sua carriera in solo. Armato come al solito di sola chitarra (acustica e elettrica), il nostro incentra la riflessione sul proprio passato personale. Amicizie, legami famigliari, ricordi d'infanzia e questioni affini vengono scandagliate e rielaborate con un mood malinconico e nostalgico, tramutato musicalmente in lunghi strumentali di chitarra in punta di dita, ipotetici metà strada tra degli Emeralds "rurali" e certi movimenti faheyani, rotti di tanto in tanto da qualche tape sample vocale d'antan (protagonista, tra gli altri, anche McGuire stesso da bambino, registrato dal padre). Living With Yourself è un concentrato vario e cangiante di delicata e soffusa psichedelia intimista, capace in alcuni passaggi di sfiorare la stasi, in altri di abbandonarsi a bucolici quadretti pastorali, in altri ancora a mostrare dirompenti crescendo fino a trovare rare punte esplosive. La dimostrazione, se ce ne fosse bisogno, che la bontà dell'esperienza Emeralds risiede nel valore creativo dei propri protagonisti. (7.2/10) Stefano Pifferi Mark Ronson - Record Collection (Columbia Records, Settembre 2010) G enere : popmuzik Mark Ronson tenta il rilancio in grande stile. Si chiude in studio con uomini fidati, chiama a raccolta tanti ospiti diversi, jamma, registra, taglia e cuce (e canta anche). Il risultato è esattamente quello che voleva lui, senti due note e capisci subito il clash di elementi pop classici (coretti e melodie zuccherate anni Sessanta, tanto soul) e di skills produttive nu & now (quindi con gli occhi puntati indietro sugli anni Ottanta).Titolo, copertina e testo della title track non sono certo casuali e il disco è un continuo ammiccare al limite del plagio, una parata di cliché quasi irritante, tra tastierine e tastieracce, rullanti super popcorn e urletti vari. Se Mark azzecca featurer e motivetto guida, la cosa funziona e funziona benissimo (il singolo Bang Bang con QTip; una Somebody To Love Me che cavalca l'onda melodica di Day'n'Nite e vede un'intensa interpretazione di Boy George; una Glass Mountain Trust dove il desaparecido D'Angelo ci dà davvero dentro, fa a cazzotti con la brutta base e vince lui). Altrimenti ci si ferma a robette insulse (in primis, gli inutili intermezzi strumentali; non scordiamoci poi che mezza tracklist la canta la Pipettes Rose Elinor Dougall, e qualcosa vorrà pur dire) o si finisce per sprecare alcune buone possibilità (le comparsate di Ghostface Killah e di sua maestà Duran Duran Simon Le Bon). Per quanto sicuramente appassionato, Record Collection è troppo scopertamente un giochetto produttivo - neppure troppo chirurgico nel puntare al cuore nu-pop - per convincerci del tutto. Per quanto vivificato da qualche numero azzeccatissimo, sa davvero troppo di già sentito. Eccolo Ronson: tra Phil Spector e Paris Hilton. (6/10) Gabriele Marino 63 Mavis Staples - You Are Not Alone (ANTI-, Settembre 2010) G enere : bl ack Si dice che col passare del tempo si diventi più saggi, ma come la metti con chi era già saggio in gioventù? Mavis Staples fa musica da sessanta anni, da che con babbo "Pops" e relativa famiglia portò il gospel fuori dalla tradizione senza rinnegarla e annodandola a rock, country e mondanità black con maestria insuperata, tale da azzerare i parametri coi quali "giudichi" un album. Non bastasse il passato, ecco un presente favoloso felicemente sostenuto dall'esemplare Anti, tappe un We'll Never Turn Back che - prodotto da Ry Cooder onorando un debito da signore - inaugurava nel 2007 un rapporto rafforzato da premi, onorificenze e dal fumigante Live: Hope At The Hideout. Nulla di meglio, a questo punto, che mutare nella continuità chiedendo al saggio fan Jeff Tweedy di produrre il terzo lavoro e sceglierne i brani, pescando tra classici, ricordi di famiglia (firmate da papà, Downward Road e You Don't Knock) e offrendo un paio di originali (il sublime country "con anima" You Are Not Alone, la sinuosa e polemica title-track). Per cucire un abito di foggia atemporale dagli arrangiamenti essenziali e comunque curatissimi, scintillio commovente (Losing You: Randy Newman l'autore, degna del dylaniano Oh Mercy la resa) oppure gioioso (We're Gonna Make It e la sua The Band da acquasantiera; il crepitante funk Last Train di Allen Toussaint) quando non entrambe le cose assieme (il John Fogerty di Wrote A Song For Everyone traslocato in John Wensley Harding; I Belong To The Band sottratta al Rev. Gary Davis e posta in chiusura a Moondance). Quando arrivano la trascendenza del medley Too Close To Heaven/I'm On My Way To Heaven Anyhow e la limpida Wonderful Saviour, hai di fronte tutta l'inarrivabile dignità di musica e interprete. La quale voleva "fare un disco nel quale ogni canzone avesse un significato e desse un motivo per alzarsi la mattina." C'è riuscita. (7.4/10) Giancarlo Turra Melody Fall - Into The Flash (Nun Flower, Settembre 2010) G enere : E mo power pop A volte succede che i percorsi che le band prendono non siano per nulla lineari. Prendete questi Melody Fall, ovvero i nostranissimi Fabrizio Panebianco (voce, chitarra e piano), Marco Ferro (batteria), Pier Andrea Palumbo (basso e cori), Davide Pica (chitarra e voce). Questo che ci ritroviamo tra le mani non è un esordio, perché i quattro torinesi hanno alle spalle tre dischi pubblicati 64 in Giappone, l'ultimo dei quali licenziato addirittura dalla Universal, la major più major di tutte. Si vede che nel Paese del Sol Levante la formula punk-power-pop venata di emo non ha mai smesso di funzionare. Perché Into The Flesh ricorda da vicino le sonorità di gruppi come i Weezer e le espressioni più piacione Green Day. A tratti si infila nelle composizioni una reminiscenza hard-core, come se i nostri avessero mandato a memoria i dischi dei Pennywise negli anni '90, ma guardando le loro foto viene il dubbio che fossero troppo giovani. Il risultato dell'operazione, che vede l'interessamento delle alte sfere della discografia italiana e francese, oltre a quella giapponese, che è rimasta evidentemente fedele, sono 43 minuti adatti all'airplay radiofonico con ottime potenzialità commerciali. Ascolteremo queste undici canzoni mentre facciamo la cyclette, ma difficilmente ce ne ricorderemo qualcuna. (6/10) Marco Boscolo Mice Parade - What It Means To Be Left-Handed (Fat Cat, Settembre 2010) G enere : I ndie rock , etno What It Means To Be Left-Handed è ben il settimo album targato Mice Parade, un marchio di qualità e indefinitezza, d'artigianato sincero e confini variabili. Per essere precisi, quello di Mr. Adam Pierce è un suono casa dove di volta in volta soggiornano diverse persone e nazionalità. E la casa, capirete, non è mai la stessa. Il viaggio è sempre di quelli che vanno dall'esteriore all'interiore in un profluvio di sapori, tutti esotici, volendo anche anacronisticamente etnici. Dall'Africa al Brasile, dal mediterraneo all'Islanda, nella musica di questa perla del catalogo Fat Cat si sono intrecciate metriche jazz, folk, pop e non ultimo indie(folk)rock, (non?) genere cui Pierce s'è avvicinato più compiutamente nell'ultimo Mice Parade e che qui quadra dentro una personalissima poetica. C'è infatti sempre stata una contraddittoria indefinitezza melodica in tutti i lavori della sua generazione, cresciuta a pane e post-rock chicagoano: un aspetto che è stato affrontato di petto da pochissimi (Will Oldham) e che ha portato tutti gli altri, lui compreso, verso una continua ricerca di luoghi e situazioni soniche, sempre più lontani. A Hawk And A Hacksaw, HiM, e Mice Parade hanno intrapreso carriere all'insegna di un appassionante suono trans-etnico, ma se i primi hanno trovato casa immergendosi completamente in tradizioni lontane dall'occidente, e i secondi sono approdati a un più freddo approccio Tortoise-iano, Pierce sceglie l'uscio di casa trovando nel naturale indie-rock ascoltato da adolescen- te (la cover degli ottimi Lemonheads di Mallo Cup) la miglior ispirazione per una manciata di brevi song tra le sue migliori (Even, Tokyo Late Night, Fortune Of Folly, Couches & Carpets). E, sotto la rinnovata ispirazione, anche i momenti più tipicamente miceparadeiani acquistano una compattezza e una chiarezza di visione inedite (il misto di folk Múm e mediterraneo di Do Your Eyes See Sparks è splendido, idem il minimalismo e il piano classicheggiante di Old Hat). Segno che la maturità è finalmente qui, per giunta con tutta l'immediatezza della gioventù. (7.1/10) Edoardo Bridda Morlocks - Play Chess (Fargo, Settembre 2010) G enere : G arage rock La seconda vita dei Morlocks, la seminale garage band di Leighton Koizumi, è ormai un dato di fatto. Easy Listening For The Underachiever si è dimostrato qualcosa di più di una semplice rimpatriata, in quelle tracce c'era un grido di disperata vitalità da parte di chi, per sua natura, non sa stare senza succhiare linfa dalle radici stesse del rock. Radici che sono oggetto di un album tributo che si beve tutto di un fiato. Morlocks Play Chess è, infatti, un felice gioco di parole con cui la band suggella il proprio omaggio alla Chess Records e a una serie di brani simbolo su cui sono costruite le fondamenta del rock, monumenti blues e rythm'n'blues insuonabili da chiunque non voglia apparire come l'ultima delle cover band intenta a concedere i bis in un infimo bar di provincia. Affrontare pezzi come Boom Boom di John Lee Hooker, evitando l'odioso effetto karaoke è possibile solo se quegli accordi li si è vissuti da sempre. Su questo aspetto ogni dubbio è stato fugato dalle ultime esibizioni estive dei Morlocks, che hanno mostrato una band compatta e affiatata, feroce e lasciva al punto giusto. Koizumi, dal canto suo, maneggia la materia con l'abilità di un prestigiatore. Sfodera tutta la sua arte di garage rocker di lungo corso, rendendo dannatamente sexy I'm A Man di Bo Diddley, interpretando con tono delinquenziale Killing Floor di Howling' Wolf e trasformando You Can Never Tell di Chuck Berry in uno shake assatanato. L'adrenalina scorre a fiumi, lo stile viene dispensato a profusione e tutto fila liscio dalla prima all'ultima traccia. L'unico appunto è da farsi ad una produzione moderna, forse troppo moderna, con bassi pompati, batteria tronituante e chitarre brillanti, laddove il genere richiederebbe un sound filologico che i fan ricercano come una boccata d'aria fresca nel mare delle super produzioni odierne. Sono dettagli, naturalmente, critiche benevole di chi ai Morlocks vuole bene da sempre e attende con impazienza il prossimo album d'inediti. (6.5/10) Diego Ballani Neil Jendon - Male Fantasies (Land Of Decay, Giugno 2010) G enere : A mbient - N oise Un passato da chitarrista più o meno rock, dapprima in territori indie-mainstream con i Catherine e in seguito con le nebbie indie degli Zelienople di casa Type, da qualche anno Neil Jendon sembra essersi convertito alla religione delle manopole e bottoni, firmando dischi di ambient analogico vicino alle riproposizioni cosmiche di Carlos Giffoni, Expo '70 o Pulse Emitter. I due lati del nastro scorrono senza strappi e rotture e con la totale assenza di parti percussive. La ricetta del chicagoano consiste in lunghi sustain modulati LFO come spazi desolati, che una tecnologia deturpata fatta di filtri gracchianti trasportano in ambientazioni di industrie dismesse, e paesaggi urbani abbandonati. E in questo deve trovarsi quella sensibilità comune che ha portato André Foisy (Locrian) a pubblicarlo per la sua Land Of Decay e a dichiararsi suo appassionato ammiratore. 40 minuti di musica, più come evocazioni di scenari possibili che per lasciarsi catapultare la testa nell'outer-space. (6.8/10) Leonardo Amico Neil Young - Le Noise (Reprise, Settembre 2010) G enere : folk rock Facile ma arguta l'allusione del titolo al produttore Daniel Lanois, vero e proprio co-starring di questo lavoro, milionesimo titolo nella carriera infinita di Young. L'arguzia sta appunto nel celare dietro al calembour l'importanza del rumore - questo significa "le noise" in francese - per l'arte passata, attuale e forse futura del canadese. Rumore fido compagno ma duro da addomesticare, da plasmare, indocile alla disciplina delle forme, ruggito di pancia della bestia elettrica che non dorme mai. Il suono (acustico o elettrico) per Neil è sempre stato (anche) rumore. Quel suo stile così spigoloso e malfermo (tanto come strumentista che come cantante) è qualcosa di più che tecnica scadente e altro ancora da una calligrafia, è il segno stesso di un livello espressivo che come un filo rosso ha attraversato l'ultraquarantennale repertorio. In questo senso, Le Noise mi sembra, almeno come idea 65 di base, un disco importante. Perché se non è la prima volta che Young si confronta da par suo con questo aspetto (soprattutto con Arc e con la soundtrack di Dead Man, ma in questa chiave possono essere letti anche gli "azzardi" stilistici di Trans e Re-ac-tor ed il banco di prova acustico di Unplugged), è inedito l'affidarsi ad un produttore di tale livello. Il quale ha nel background tra le altre cose il precedente di Oh Mercy, l'album che recuperò una controversa ma tutto sommato riuscita profondità al suono di Bob Dylan. Lecito quindi ipotizzare che questo disco sia nato con lo scopo preciso di approfondire la questione: verificare la possibilità di un rumore strutturato come suono nell'arte younghiana. Neil Young si presenta così in perfetta solitudine con otto canzoni nuove (o seminuove), impregnate di quella stessa brusca apprensione - o "impegno" se preferite - che pervade gli ultimi lavori, in molti casi purtroppo all'insegna di un "cotto e mangiato" pressapochista che non rende giustizia né all'autore né all'ascoltatore (va un po' meglio con l'acustica Love An War e con quella Hitchhiker già proposta da qualche anno nei concerti). Le chitarre e la voce finiscono riorganizzate nella dimensione sonica di Lanois, in quel dominio plastico di riverberi e delay e dinamiche mercuriali, la spazialità scolpita in un non-luogo terrigno e digitale, un mondo insomma d'inquietudine ingegneristica, il mistero più patinato che c'è. Se è discreto l'intervento nei due episodi a spina staccata, negli altri casi immaginatevi la grana scabra à la Sedan Delivery sterilizzata e messa sotto una gelatina tremula. Il risultato è affascinante solo sulla carta, nella realtà suona piuttosto improbabile. Otto cavoli a merenda con un loro non meglio definito e neanche indispensabile perché. (5.5/10) biata rispetto al passato, visto che con Nuvole notturne siamo definitivamente dalle parti di un cantautorato malinconico/onirico che mescola chitarre acustiche, basi elettroniche e la produzione "allentata" di Paolo Messere. Quest'ultima rintracciabile in qualche accenno a certe rilassatezze post-rock eteree e per nulla fuori luogo, a cui si aggiungono crescendo elettrici sorprendenti (Eco), richiami Tunng (I ciliegi) e un tessuto strumentale sostenuto da contrabbasso, synth, pianoforte, Farfisa e armonium. Il risultato non dispiace affatto, anche se una certa uniformità nelle intenzioni impedisce di isolare momenti veramente memorabili. (6.9/10) Stefano Solventi Luca Barachetti Nihil Est - Nuvole notturne (Seahorse Recordings, Ottobre 2010) G enere : elettro - cantautorato Verrebbe quasi da dire che i milanesi Nihil Est abbiano seguito il consiglio che davamo loro ai tempi dell'omonimo demo. Quando ne parlavamo come di una band capace di mostrare una buona originalità negli episodi cantati in italiano - "un italiano lattiginoso che diresti colto dal giardinetto più recondito (e serioso) dei Mariposa, concimato a Bruno Lauzi e Robert Wyatt" - e meno predisposta a un'inglese ordinario sospeso tra miriadi di influenze. La ricetta del gruppo sembra tuttavia leggermente cam66 Fabrizio Zampighi Numero 6 - Extended Play 2010 (Autoprodotto, Settembre 2010) G enere : indie pop Bentornato a chi non se n'era mai andato, come i Numero 6. Attivissimi tra ep con collaborazioni di rilievo (Bonnie "Prince" Billy a ricantare Da piccolissimi pezzi nell'ep di due anni fa) e recenti dischi letterari in combutta con Enrico Brizzi, arrivano ora con questo ep che anticipa l'uscita del nuovo disco sulla lunga distanza, prevista per novembre (titolo I love you fortissimo). Extended Play 2010 ripropone i genovesi per quello che sono, ovvero una delle migliori compagini indie-pop della penisola. Qui fra retrogusti funkeggianti (Pronto per l'inverno) e pop matematico che emette rifrazioni chitarristiche (Semplice) confermano la devozione a Ivan Graziani come a Battisti (di cui vi è forse un omaggio ne Il regno dei no). Già queste tracce non sbagliano un colpo, tuttavia l'effetto è del tipo "le cartucce migliori non le abbiamo ancora sparate".Vedremo. (6.8/10) Okamotonoriaki - Telescope (munest, Agosto 2010) G enere : I dm , ambient In un percorso IDM che unisce smalti di classica, folk, pop, jazz, techno sotto la lente accorta e domestica da tipico artista audiovisuale giapponese, Okamotonoriaki Noriaki è figlio sia dei mondi sonici del primo Takagi Masakatsu sia delle sonorità elettroacustiche della City Centre Offices. Disponibile in 400 copie, Telescope è il settimo album del catalogo della giovane label mü-nest, un piccolo gioiello che unisce momenti ambientali/cinematici a episodi ritmati riconducibili a certi Tortoise esotici (Lighthouse) o alle ritmiche di un Jon Hopkins. Ed è un album elegante. highlight Somnambulist (The) - Moda Borderline (Acid Cobra, Agosto 2010) G enere : art rock Marco Bianciardi è un tipo difficilmente prevedibile. Lo lasciammo due anni orsono alle prese col debutto degli Hotel Ambiente, progetto che sanciva il suo distacco dagli Elton Junk e che lo vedeva abbandonare la batteria per un sorprendentemente efficace ruolo di front-man (chitarra e voce). Oggi il ragazzo venuto dal Chianti e volato a Berlino via Bologna, cambia ancora le carte in tavola presentandosi con un nuovo trio. Assieme a lui nei Somnambulist troviamo il violinista Rafael Bord - curriculum stratificato tra soundtrack e punk chanson - ed il batterista avant-jazz Marcello Busato. Risultato? Otto tracce romantiche e insidiose, veementi e cupe, d'una ricercatezza assieme meditata e selvaggia. Interni berlinesi scossi da tremori Afghan Whigs (sentitevi 80s Violence), il violino come ferite infette, il dark side dei dEUS (l'ottima Don't You Want To Devour This War?), le sgarbate arguzie noise della chitarra, una certa teatralità gothic-stoner (la title track), le sottigliezze impetuose e frastagliate del drumming (notevole il lavoro in Quinto mistero della gioia), poi tutto un parafernalia di theremin, vibrafono, sample, sax, piano... Occhio poi all'opening track Red Carpet, impeto indie tra i migliori uditi negli ultimi tempi. Moda Borderline è un disco che ti prende e ti porta via, come disse quel tale. Un viaggio stordente tra visioni d'inferno quotidiano che si porta dentro una specie di luce. E già altre canzoni pronte a sbucar fuori. (7.5/10) Stefano Solventi Pieno di vividi dettagli. Molto vicino ai modi di un Brian Eno per il modo in cui sono accostati droni, strumenti acustici e effetti (Mauna Kea). Trovatelo. Non ve ne pentirete. (7.1/10) Edoardo Bridda Orchestral Manoeuvres in the Dark - History of Modern (100% Records, Settembre 2010) G enere : synth pop Se non ora quando? Sembra essere questa lo spirito con il quale gli Orchestral Manoeuvres in the Dark hanno messo in pista il loro undicesimo album ufficiale, il primo dalla metà degli anni Novanta, quando, al contrario, era prematuro un vero e proprio revival delle sonorità sintetiche targate anni Ottanta. Oggi che i tempi sembrano fin troppo maturi, Andy McCluskey e Paul Humphreys tornano in pista e pare che il tempo si sia fermato all'anno di grazia 1986: electro, disco-pop ed infatuazioni kraute per l'esaltazione del modernismo. Ma se è impossibile che mai tornino a scrivere una Enola Gay, loro più grande successo e uno dei singoli più famosi di tutti gli anni Ottanta, non ci si può nemmeno accon- tentare di suonare oggi come allora, senza nessuna maturazione, senza nessun contatto con il contemporaneo. Perché queste tredici tracce paiono avanzi di magazzino di un'epoca di cui oggi vediamo nettamente l'influenza buttate nella mischia solo per raccogliere quanto più sia possibile. Nulla che non sia dignitoso, ma nulla che attragga l'attenzione per ritornare ad ascoltare alcuna delle tredici tracce. Si salva qualche melodia azzeccata (New Babies: New Toys, Sister Marie Says) e il tributo ai Kraftwerk degli oltre otto minuti di Right Side?. Per il resto meglio recuperare il disco omonimo dell'80, Organisation e Architecture and Morality, veri gioiellini di artigianato pop infarciti di intuizioni e fascinazioni tecnologiche. (5.5/10) Marco Boscolo Outrageous Cherry - Seemingly Solid Reality (Alive Naturalsound Records, Settembre 2010) G enere : P sycho pop Quella che il sottoscritto porta avanti con gli Outrageous Cherry è la storia di una passione iniziata una decina d'anni fa e mai completamente sopita, scattata quan67 do per la prima volta ascoltai l'attacco di Georgie, Don't You Know, brano che apriva lo splendido Out There In The Dark. La cosa che imparai ad amare di Matthew Smith e soci è il fatto che non si limitino a comporre canzoni, ma mettano in scena piccole utopie 60s: quadretti ideali in cui Ray Davies, Lou Reed e Syd Barrett partecipano a party psichedelici su meravigliose spiagge californiane, con Stones e Byrds a fare da sottofondo. Insomma, il meglio tutto insieme. Naturalmente la deriva oleografica è qualcosa di più di un semplice rischio; gli OC sono riusciti ad evitarla grazie ad un suono riconoscibile sin dal primo ascolto. Un personalissimo wall of sound a base di riff muscolari disciolti nell'acido, wah wah e fuzz a piede libero impiastricciati in melodiose filastrocche neo hippy, che Smith canta con voce ultra riverberata. Negli anni questa formula ha vissuto di minimi aggiustamenti, che li ha visti passare da uno psycho rock cosmico ad un power pop dall'alto tasso lisergico a cui aggiungere a piacimento piccoli ma significativi elementi, che siano fiati o curiose pose glam. Da un paio di album a questa parte, però, Smith è entrato in una sorta di stallo. Dal precedente Universal Malcontents i brani si assestano su un minimo comune denominatore che li rende sempre meno degni d'attenzione. Mentre su quell'album qualche pezzo ancora si salvava, qui si fatica a trovare canzoni che non vadano oltre il consunto tema merseybeat, le solite filastrocche narcotiche condite con slogan flower power cantati in maniera sempre meno convinta. Una fase passeggera? Speriamo. Intanto il sei politico se lo guadagnano con lo strumentale cosmico della title track e il garage rock pugnace di Self-Made Monster, oltre che per la stima che ancora riponiamo in Matthew Smith. Per il futuro, però, attendiamo il colpo di reni che rinfocoli l'antica passione. (6/10) Diego Ballani Parched - ARC (RareNoise) Parched, la nuova creatura di Eraldo Bernocchi, strutturata insieme a Davide Tiso, è riassumibile in una sola formula: dilatazioni per chitarra. La prassi dipende dalle possibilità compositive di una tecnica – che vede la seicorde assoluta protagonista, amplificata in ambiente - che prevede Tiso alle prese con strutture armoniche e arpeggi, Bernocchi alla chitarra preparata e all’elettronica. Arc è un album di post-rock quasi ambientale fatto di umori scuri ma mai radicali, abbastanza teso ma per nulla massimalista. Un prodotto capace di momenti di sospensione forse troppo prolungati ((Mute)ant – Hill), 68 ma anche di interessanti evoluzioni sul tema di ricerca su cui spesso si è impegnato David Pajo, almeno alla fine dei Novanta. No One In The Playground si dipana e ci trascina nelle linee di sviluppo minimaliste – ma profondamente post-rock, per estrazione – e trova un momento di messa in movimento di una distensione pervasiva. L’essenza del disco è la dilatazione, appunto. Il tocco di chitarra che serve a procrastinare un mood, un pensiero. Come una rilassatissima gambata di rana di un nuotatore nel mare più piatto, che ha l’obiettivo di ridare slancio, ma lieve, all’andatura, a mantenere un moto quasi impercettibile (A Melting Chair). Il mare si trasforma in piscina quando si arriva a fondo vasca, e bisogna riprendere il passo. E qui arriva l’inserto delle elettroniche (Invisible Wires), del tutto funzionali allo strumento principe dell’album e agli obiettivi dello stesso. E tutto non può che finire (Landscapes And Days Eternally Gone) con l’uscita dall’acqua, con le ossidazioni dell’aria, e dell’universo anno 2010, a cui non è facile presentare un disco con queste caratteristiche senza mandare a noia. Obiettivo superato. (6.5/10) Gaspare Caliri Peter Broderick - How They Are (Bella Union, Settembre 2010) G enere : songwriting / minimal Prima o poi anche i migliori sono costretti a rallentare, se non addirittura a fermarsi. E proprio in questi momenti i migliori si distinguono: si adattano e cambiano i piani. Prendete quel prolifico compositore che è Peter Broderick: pensava a un 2009 passato di corsa, lavorando al successore di Home e girando in tour sia da solo che con i danesi Efterklang. Poi un ginocchio operato che non vuole rimettersi lo costringe a una pausa forzata, il polistrumentista si ritira in Oregon e, non potendo più giocare con i suoni, si reinventa a giocare con pensieri e parole. Il risultato è How they are, un album delicato e malinconico, pervaso da una tristezza sottile che prende d'inverno, quando la pioggia scivola sui vetri e ti ritrovi a osservare il mondo esterno attraverso un vetro di cinismo e nostalgia (o attraverso una linea laterale, come canta, a cappella, nell'introduzione). Ai toni intimisti di Sideline seguono When i'm out, in cui note del pianoforte si rincorrono nel silenzio di una stanza, e la drammatica Pulling the rain, dove soltanto il registratore osa far sentire la propria presenza, ogni tanto, sbattendo sulla cassa del piano. Il fluire di emozioni continua con Human eyeballs on toast, ironica riflessione sull'uomo e sul desiderio di vedere le facce a friggere in padella (every time i see a man, i dream about his face in frying pan), fino a raggiungere il momento più evocativo con la minimale Guilt's tune, in cui pianoforte e chitarra accompagnano l'americano a toccare le corde dell'Arthur Russell di Another Thought. Con How They Are Broderick ci regala un album semplice, senza effetti o elettronica, che rappresenta la sua umanità prima ancora che la sua personalità artistica e che trova nell'essenzialità il mezzo per trasmettere una parte importante di sè. (7.2/10) Gemma Ghelardi Piccola Bottega Baltazar - Ladro di rose (Azzurra Music, Giugno 2010) G enere : canzone d ' autore Forse quelli della Piccola Bottega Baltazar l'hanno capito che la canzone d'autore, quella classica, di tante parole e Premi Tenco, non basta più. Loro che da lì provengono, nutriti da un immaginario fatto di De André (a cui hanno dedicato addirittura un disco tributo), Endrigo, Lauzi, ma anche di tante letture (quel Buzzati che spunta più spesso di quanto non s'immagini), forse hanno intuito l'esigenza di un passo in avanti, o meglio di lato, verso musiche altre parimenti nutritive. E così l'affidarsi al produttore e compositore Carlo Carcano (Donà, Bluvertigo, Morgan) per questo quarto lavoro è la risposta ad un atrofizzarsi sempre in agguato per chi, partendo da una tradizione immensa, ne ricalca i passi con poche possibilità di rinnovamento. Ladro di rose parte dal folk acustico tra la Francia e l'Inghilterra e vi innesta metronomie pop di chiara nobiltà, rumorismi, palpiti teatrali, perfino synth cosmologici e granuli di musica concreta. Le canzoni raccontano di ciò che quotidianamente succede dentro e fuori i muri delle nostre case, ricordandosi però che non bastano i muri a creare un dentro e un fuori quando al contrario tutto è collegato e quindi davvero reale. La Bottega scrive testi che non hanno una parola fuori posto, evitano la retorica da comizio e pure quell'intimismo ermetico che è la versione letteraria del "non so suonare, allora faccio musica sperimentale". E invece, seppur nello spazio d'interstizio di una canzone, sperimentano davvero - sul linguaggio, sulla possibilità di una narrazione cantautorale classica ma nuova - quando raccontano una storia di ordinaria rassegnazione italiana in L'ombra del Caliburo e un'altra di sempiterno impantanamento in Ossigeno («riportami su / in un paese che non sia truccato / che non sia in ostaggio / che abbia più fiato»). Oppure quando avviano un crescendo coldplayano per il drammatico mal d'amore di Stefania dorme vestita, zenith del disco insieme ad una Strologo metà in dialetto veneto metà in italiano che distribuisce versi come staffilate («Riva aprile coi so fiori, / coi poeti e i cantautori. / Tuti i scrive e tutti i sona: semo un popolo de mona»). Avessero accorciato di un quattro-cinque brani una tracklist che in quindici tracce raggiunge l'ora di musica ed inevitabilmente accatasta episodi interlocutori saremmo qui a parlare di un capolavoro. Tuttavia Ladro di rose è un disco buono, molto buono. E che soprattutto ci lascia speranzosi. (7/10) Luca Barachetti Piet Mondrian - Misantropicana (Urtovox, Settembre 2010) G enere : pop apocalittico I Piet Mondrian sfilano lo spleen atomico-vacanziero di Tropicana del Gruppo Italiano e vi aggiungono un'iniezione di sano odio nei confronti dell'umanità tutta. E Misantropicana, esordio su Urtovox dopo un convincente demo autoprodotto (Ci diamo allo sperimentale?, 2008), suona come dei Baustelle ridotti all'osso due minuti prima o due minuti dopo l'apocalisse nucleare. La voce maschile e quella femminile di Michele Baldini e Caterina Polidori vanno spesso all'unisono come dei Francesco e Rachele in spleen gainsbourghiano ma ripassati Kurt Vonnegut. Ovvero quella risata a denti stretti, quell'indolenza depressiva ma non depressa, quel cinismo da lingua senza peli contro l'era delle Tina Cipollari elette a modello comunicativo dominante. Il tutto rimpastato in una sequela di richiami cercati dal duo e portati in dote dal crescente Wassilij Kropotkin (Samuel Katarro) che cura gli arrangiamenti: un kazoo da Conte rincitrullito in Boogie Woogie, un funk stilizzato alla Offlaga Disco Pax con spurghi elettrici nell'incisiva title-track, qualche synth alchemico nelle liriche eccellenti di Ho votato Lega, un paio di sgomitate da poliziottesco zona Calibro 35 in Credo che per natura, e ad aleggiare pure la fascinazione di un Lucio Battisti per intenditori. Eppure sulle tredici tracce qualcosa risulta a noia, sarà l'eccessiva lunghezza di un disco che ripete il modello base (bozzetto folk chitarristico povero di accordi) cercandone infinite varianti. Certo è che i Piet Mondrian hanno già una carta d'identità loro e si fanno amare, perché odiano e non stanno bene. (7.1/10) Luca Barachetti 69 Poison Arrows - Newfound Resolution (File 13, Settembre 2010) G enere : post math Le "nuove risoluzioni" offerte dal comeback dei Poison Arrows non è che siano così nuove, ma di sicuro spostano l'asse del sound della band di Chicago. Anzi, superband, sarebbe il termine più esatto visto che tra membri - Patrick Morris (basso, ex Don Caballero), Justin Sinkovich (chitarra, ex Atombombpocketnife) e Adam Reach (batteria) - e ospiti vari - Pall Jenkins (Black Heart Procession, Three Mile Pilot), Brian Case (90 Day Men, Disappears) e Mia Clarke (Electrelane) tra i più rappresentativi - la congrega è di quelle che non passa inosservata. Alla base post- e math-rock virata spacey che caratterizzava First Class, And Forever, il combo chicagoano aggiunge una sterzata non da poco sempre sul versante vintageanalogico (loops, keyboards, synth) che ne dilata i contorni e offre una buona via di fuga alla risacca di genere. I toni sono sempre contenuti e mai sopra le righe, con relativa mancanza di picchi clamorosi: alcuni momenti (Inadmissible Architecture, For Lack Of An AK) rinverdiscono i fasti di June Of 44 et similia mixati con la concezione del suono aperto e robotico dei Trans Am, mentre altri (Flawed Acumen) sembrano mostrare un sentiero percorribile nell'amalgama del sound vintage-analogico sul corpo morto del fu post. Inoltre il gioco in studio di registrazione aggiunge e stratifica la strumentazione a disposizione del progetto compattando ancor di più la proposta del trio, senza mai eccedere né dare l'impressione di un artificio fine a se stesso. Rinnoviamo perciò il giudizio espresso per il debutto: non eccelsi ma per lo meno piacevolmente avventurosi. (6.8/10) Stefano Pifferi Prince Rama - Shadow Temple (Paw tracks, Settembre 2010) G enere : now - age Gli ultimi affilati alla Paw Tracks sono questi Prince Rama, trio misto cresciuto in una comune Hare Krishna, formatosi in una scuola d'arte in quel di Boston e infine - dopo aver ricevuto "il sussurro di Prince Rama nei propri orecchi" - riciclatosi in band per le vie creative di New York, versante Animal Collective et similia. Nulla nel terzo album dei bostoniani Taraka Larson (voce, chitarra, tastiere, synth, drum machine, percussioni), Nimai Larson (voce, batteria) e Michael Collins (voce, synth, drum machine, percussioni) - autodefinitisi a ragione now-age - va per il verso giusto: psycho-freakerie a più non posso si alternano a vociare irrequieto da mantra 70 inacidito, tambureggiare insistito a ohm andati alla deriva, manipolazioni digitali ad ancestrale musica corale. Non mancano nemmeno i campanellini mentre registrazioni e produzione - opera di Avey Tare, Josh Deakin e Rusty Santos - hanno avuto luogo tra vecchie chiese sconsacrate e la casa del nipote di Kurt Vonnegut (!!!). Insomma, nulla che si discosti dalla moderna fascinazione per i rituali orientali fatti di raga e free-folk, mix di tecnomodernerie e ataviche tradizioni ma con un apprezzabile sguardo strabico: un occhio strizza ai krauti più frikkettoni mentre l'altro ripassa le coordinate dell'America più weird. E il terzo? Beh, il terzo è socchiuso in meditazione, no? A far la differenza rispetto al canone di genere c'è che i tre, tra canti collettivi, invocazioni in sanscrito e adattamenti da canti indiani, sembrano crederci davvero e il tutto non suona come la solita pagliacciata ad uso e consumo degli hypers di mezzo mondo. Staremo a vedere. (7/10) Stefano Pifferi Redroomdreamers - Roosters On The Rubbish (Happy/Mopy, Ottobre 2010) G enere : indie rock Anni spesi a fare indie come Growing Ocean, apprezzato trio attivo nel napoletano lungo i perigliosi Novanta, quindi i colpi delle "alterne vicende" che prima spensero il progetto e poi, ben più tragicamente, la vita del bassista Inigo Grasso. Correva il 2008. Fu allora che Alessio e Dario, batterista il primo e chitarrista-cantante il secondo, decisero di dare vita ai Redroomdreamers, trovando nel polistrumentista Simone una versatile terza gamba. L'attualità ci offre il primo disco firmato dalla nuova entità, nel quale l'avventatezza tipica degli esordi s'impasta alla densità dell'esperienza. Soprattutto la prima parte di questo Roosters On The Rubbish testimonia una forza notevole, sintonizzata da qualche parte tra il cantautorato alternativo degli American Music Club ed il post grunge dei Pearl Jam altezza Yield, permettendosi altresì di mischiare fragranze Beck e Belle And Sebastian (nella sorprendente The Dog). Nel teorico lato B le trame si fanno più pensose perdendoci in immediatezza, però non smetti di avvertire un senso di necessità ed il calore disteso di chi non ha nulla da dimostrare. La voce di Dario, in bilico tra l'arguta limpidezza d'un Al Stewart e l'intensità bluesy di Ben Ottewell, accompagna le melodie al loro più vivido compimento. Un inizio davvero niente male per la neonata etichetta Happy/Mopy Records . (7.2/10) Stefano Solventi highlight Twin Sister - Vampires With Dreaming Kids / Color Your Life (Domino, Ottobre 2010) G enere : D ream , folk Sono in giro da un paio d'anni e il digi distribuito ora da self riassume una prima parte di carriera raccogliendo due eppì usciti rispettivamente nel novembre del 2008 e lo scorso marzo. A pubblicarli è Domino, etichetta che sulle nuove leve del pop indipendente c'ha un discreto fiuto e che con il presente quintetto proveniente da Long Island non sbaglia affatto. Essendo giovanissimi e praticamente a digiuno da studi di registrazione, i cinque hanno tutte le ambizioni, le folgorazioni e qualche difetto del caso. Relegati i confini labili e a una cifra stilistica ancora un po' ondivaga, le compensazioni ripagano, e con gli interessi: un preciso afflato melodico e la misura dello spazio sono già scintille per il perfetto mix di mistero, confidenze pop e incanto indie a tutto tondo. A colpire nel segno è il canto di Andrea Estella, tra l'art pop dai retrogusti folk del primo eppì Vampires With Dreaming Kids, e le atmosfere che dai Broadcast (Milk And Honey) portano ai Beach House (Lady Daydream) dell'altro medio metraggio Color Your Life.Attorno: spazi sempre aperti e coperti a dovere, smalti sostanzialmente psych bucolici pieni di varianti: qualche tocco library (Galaxy Plateau), un incantevole motorik (The Other Side Of Your Face), glo (All Around And Away), polveri di stelle, angoli twee e, per non farsi mancare nulla, ralenti indie '90 (i Pavement di Ginger). L'ondata fine Ottanta di 4AD che abbiamo già incontrato, dall'underground più profondo ai Blonde Redhead, arriva certamente anche qui ma diversamente dalle ortodossie del caso, i ragazzi ci mettono la continuità e la misura. Da Devendra e My Brightest Diamond ai Cocteau Twins (e compagnia dream) passando per la endless summer californiana, c'è un limbo dove tutto è possibile e qualche volta è davvero fantastico. (7.3/10) Edoardo Bridda Robert Owens - Art (Compost Records, Ottobre 2010) G enere : soul house Uno che attraversato la storia dell'house sempre in piedi non può che essere una grande voce. Perché la house è soul e il soul è voce. Owens (ricordate l'inno Can You Feel It?) è uno che ci vede giusto e presenta questo doppio monstre così "in qualsiasi posto dove suono, la parte vocale è la cosa che viene fuori di più. La musica è un ciclo. Nel giro minimal, la gente vuole solo sentire il beat, perché è fatta di droga. Ma noi siamo tornati per guardare ancora una volta alla sensibilità. Le persone hanno bisogno di fare comunità, di vivere l'uno vicino all'altro. Quando la gente esce vuole scambiare una parola con chi trova per strada. Specialmente nel tempo di Facebook, Twitter, etc. la gente vuole emozioni e devozione". Due dischi che presentano un ricordo di house impiantato nella sua voce, marchio di fabbrica altissimo di un qualcosa che può esistere solo in altri mondi. Owens è un personaggio che ti capita di sentire poche volte in un decennio. Uno che fa arte e lo sa può essere solamente venerato. Che siano ad ascoltarlo gli impasticcati della techno, o i nostalgici della balearica, quello che viene espresso qui è emozione. Puro distillato soul. Non si può rimanere indifferenti alla voce di un uomo così. Dall'inizio alla fine un groove che ti avvolge e che non ti lascia mai. Blackness e quadratura perfetta del cerchio smooth nel primo disco e del ritmo nel secondo. Imprescindibile al di là di ogni catalogazione Owens si affida al vecchio amico Larry Heard (dei Fingers Inc.) e alle nuove leve Atjazz, Beanfield e Show-B e sbanca. Old school makes art again. (7.4/10) Marco Braggion 71 Ruggine - Estrazione Matematica Di Cellule (Escape From Today, Agosto 2010) G enere : noise - rock Lo avevamo anticipato tempo fa, al momento di indagare la scena del Canalese Noise e ora è qui in tutto il suo splendore. Estrazione Matematica Di Cellule, esordio lungo per il quartetto a doppio-basso Ruggine, arriva confezionato in uno splendido digipack e avvolto in una costante tensione che avevamo imparato ad apprezzare all'epoca dell'omonimo ep. Riesumando i Massimo Volume (sensazioni che crescono / frasi che mi portano indietro nel tempo) Simone Rossi urla disperato e a noi sale un groppo in gola. Sembra di ascoltare Stanze, eppure il suono è rallentato, inspessito, aspro e vibrante: è una gara di resistenza di stampo posthc come se ne poteva sentire e apprezzare nella prima metà dei 90s. In più, il quartetto della provincia Granda mostra capacità di sintesi e elaborazione di generi addizionando il suono di slanci noise, cupo livore di stampo quasi industrial e stranianti aperture melodiche. Il segreto sta nella sezione ritmica: l'interplay tra i due bassi di Paolo Scalabrino e Francesco Rossi e la batteriamonstre di Davide Olivero (un pachiderma tanto mobile quanto denso) su cui si liberano la chitarra angolare e la voce scartavetrata di Simone Rossi. Una voce (e dei testi) su cui riflettere. Una band (e un suono) che aspettavamo da tempo. (7.2/10) Stefano Pifferi Ryan Bingham - Junky Star (Lost Highway Records, Settembre 2010) G enere : A mericana Impressiona di Ryan George Bingham la rapidità con la quale è divenuto una "sicurezza" e, ugualmente, quanta vita vissuta per davvero emerge dalla grana rugginosa e dolente delle sue corde vocali. Quasi che la sua statura autoriale sia stata scolpita negli anni trascorsi da una casa a un rodeo, finché qualcosa non si è messo in moto e un po' di radici le ha lasciate giustamente attecchire. Ora che persino il cinema lo ringrazia per una The Weary Kind che, inclusa in "Crazy Heart" ha fruttato un Oscar a lui e al curatore della colonna sonora T-Bone Burnett, ci potrebbe essere di che preoccuparsi. Invece no, lui prosegue dritto per la sua strada e addirittura fa meglio che in Roadhouse Sun nel replicare a Mescalito, istillando la certezza di poter offrire, a tempo debito, una versione prossima ventura di quel Capolavoro con altra maturità anagrafica. Che quella artistica non sia in discussione lo sottolinea questa terza raccolta di can72 zoni che testimonia l'alternarsi tra gli Stones più bucolici (Depression) e uno Springsteen sudista (Yesterday's Blues, Lay My Head On The Rail) mentre Steve Earle benedice i passi più sinceri e la novità è una "presenza" dylaniana più marcata (l'armonica di The Poet, Direction Of The Wind e la sua inedita vis polemica). Quando la scuola texana inaugurata da Townes Van Zandt applaude il commiato, intessuto delle meravigliose luci ed ombre gettate su Self-Righteous Wall e All Choked Up Again, noti la puntualità della produzione, merito sempre di Burnett, e l'assenza delle lievi sbandate presenti sul secondo album. Ulteriori segni di una crescita che non conosce soste e regala conferme con una disinvoltura rara. (7.6/10) dell'attenzione e ogni minimo rumore segue una dinamica propria, come se fosse parte di un'orchestra in cui tutto, dalla natura alla vibrazioni, ha un suo posto. Il risultato è un disco romantico, che immerge l'ascoltatore in una dimensione in cui natura e uomo si mischiano e si completano, dove non è più possibile stabilire la differenza fra l'uno e l'altro e si può finalmente cogliere quella vibrazione universale che le campane tibetane di Seasons cercano di propagare fra ricordi e luoghi. (7.3/10) Giancarlo Turra Già costellata di decine di uscite in tutti i formati, dai più minoritari ai classici CD, la vasta discografia di Dan Johansson in arte Sewer Election continua ad arricchirsi. A distanza assai ravvicinata dall'album Vidöppna Sår su Pan e dal singolo Kvävd per la milanese A Dear Girl Called Wendy, ecco un nuovo LP, questa volta targato RTB. Non del tutto nuovo, ad essere precisi, poiché Bristning è la riedizione in vinile di una cassetta rilasciata nel 2008 per la tape label Klorofyll Kassetter, il cui materiale viene oggi saggiamente riproposto e leggermente ampliato. Seasons (pre-din) - Your Eyes The Stars and Your Hands The Sea (Type Records, Settembre 2009) G enere : ambient Era inevitabile che nel momento in cui Seasons avesse deciso di sospendere per un momento le sue splendide self releases, si sarebbe lasciato convincere dalla Type Records: e non solo perchè ha collaborato sia con Richard Skelton che con John Xela Twells, ma perché Type è l'etichetta forse più adatta a cogliere la bellezza dell'ambient evocativo di Seasons. Agli ascoltatori appassionati del misterioso inglese forse un po' dispiacerà non essere più i soli ad avere una copia fatta a mano di Your Eyes The Stars and Your hands The Sea, copia che si erano impegnati ad ottenere, visto che nel giro di poche ore le uscite della Thy-records vanno sold-out. Ma la versione in vinile uscita su Type non è una semplice ristampa bensì una rivisitazione, un riflettere sugli stessi pensieri a distanza di tempo, con uno sguardo diverso. Come ogni lavoro di Seasons, anche questo disco è estremamente personale: quasi un percorso interiore, dove ogni luogo registrato (dai boschi agli edifici abbandonati) ha un significato per il musicista, che ne assorbe la vibrazione riproponendola in una vivida visione auditiva. Ai suoni catturati naturalmente sovrappone poi altri livelli, che rappresentano l'intervento umano: strumenti a corda e singing bawls, principalmente. I layer però non vengono percepiti come due cose distinte, ma come un fluire: i rumori quotidiani, pur essendo riconoscibili, arrivano diversi, come immersi nella nebbia, filtrati da un mondo interiore oscuro e complicato. Il procedimento è simile a quello di Skelton, ma se lì il suono sembra quasi un dono ai fantasmi che abitano i ruderi registrati, in Seasons la visione è più filmica: il suono è al centro Gemma Ghelardi Sewer Election - Bristning (Release The Bats, Luglio 2010) G enere : H arsh N oise Il suono Johansson è ben noto: loop di nastri registrati, rovinosi suoni di metalli raccattati in chissà quale discarica, assalti al rumore bianco che si alternano ad angosciosi silenzi asfittici, registrazioni analogiche che immortalano paesaggi astratti di malattia, perversione, sofferenza e annichilimento. L'immancabile celebrazione di una disfatta umana e emotiva affidata a due lunghi brani anonimi. Trovare delle specificità per cui Bristning spicchi tra i numerosi lavori precedenti è compito arduo che lasciamo ai fanatici del noise più duro; ma se cercate sgomento in musica fatevi avanti: la fogna di Dan è pronta a fagocitarvi. (6.8/10) Andrea Napoli Soho What - The First Impression Last (Sometimes, Agosto 2010) G enere : free - wave Piccoli Larsen Lombriki crescono. Dietro il moniker Soho What si nasconde infatti il progetto nato dalla mente deviata di Rudi Van Mad, che del collettivo avant-rock è (era?) chitarrista, tra le altre cose. In questo debutto "in solitaria", in cui cioè tutta la faccenda e i collaboratori (il grosso viene sempre dal giro LL) ruota intorno al suddetto chitarrista/cantante, si da fondo alla commistione 73 di generi della casa madre, ma mantenendo in nuce una sorta di dipendenza dalla forma canzone e dalla strutturazione interna dei pezzi. La wave più deragliante e free, il rock più destrutturato e noise, la pop music più infantile e deturpata, l'electro più dark e sperimentale convivono in un guazzabuglio di suoni che sfuggono in ogni direzione e che prediligono - nomen omen - un approccio improvvisativo e da first take. Basterebbe leggere l'elenco delle influenza lasciato sul myspace (da Snakefinger al sadomaso, dai Residents a Contorsions, Stooges e Neu, da Devo e Beefheart ai fumetti della Marvel) per comprendere come il suono della band, una volta ricoperto da un manto di lucida follia snowdoniana, sia realmente inclassificabile. Energico, trascinante, deragliante, The First Impression Last è non a caso finito tra i preferiti di quel pazzo di Julian Cope. La sensazione però è che resti un divertissement tra amici. (6.7/10) Stefano Pifferi Solar Bears - She Was Coloured In (Planet Mu Records, Settembre 2010) G enere : A mbient , indie L'IDM non è morta. Si è rinnovata abbeverandosi alla sorgente: vecchi synth, dischi krauti e colonne sonore dei Settanta. Questi i nuovi oggetti del desiderio dei sognatori da cameretta e questo il trend a tutto campo che coinvolge, da un lustro oramai, vaste fette di sommerso sonico al di qua come al di là dell'Atlantico. Una rielaborazione dei Boards Of Canada in chiave Germania '70 potrebbe essere il perfetto esempio per comprendere la formula dei Solar Bears, due ragazzi irlandesi che hanno recentemente portato a casa di Mike Paradinas un suono che mescola abilmente elementi rock (chitarra, batteria, piano) e sintetici (synth, drum machine) in chiave ambient, soundtrack, new age e attitudini tardo prog. Le buone maniere John Kowalski e Rian Trench, le hanno imparate alla Pulse Sound Engineering School. Con macchine e strumenti si muovono di buon artigianato (Forest Of Fountains, Children Of The Times tirano in ballo il dittico Kraftwerk-Daft Punk, in Twin Stars rimodellano sapientemente Vangelis, Klaus Schulze e i Tangerine Dream con fare da minimalisti IDM), e già qualche brivido arriva dal lato più rockista della faccenda (She Was Coloured In) o da episodi meno formali (il funk liquido in salsa chamber prog Primary Colours A the Back Of The Mind, la post-chill di Neon Colony). Una buona proposta per chi è ancora a secco di sonorità 74 '70. Ancora un po' di pazienza per coloro che vorrebbero una maggiore disinvoltura e emancipazione. (6.7/10) Edoardo Bridda Stereolab - Not Music (Duophonic, Ottobre 2010) G enere : pop retrofuturista Sembra giunta l'ora di chiudere per il Laboratorio, anche se l'ufficialità parla di una semplice messa "a temporaneo riposo". Anticonvenzionalità per anticonvenzionalità, i Nostri non se la cavano con un inutile best of e rispolverano tredici tracce delle sessioni che nel 2008 fruttarono Chemical Chords. Lavoro dignitoso che si assestava viepiù sulla formula geniale che aveva in precedenza sposato art e pop, krautrock e chanson arguta con mano lieve e ferma. Senza negarsi nulla quanto a sperimentazione e allargando il campo dell'ispirazione a Os Mutantes, United States Of America e Mouse On Mars, in testa un'idea di intellettualismo ironico e sferzante che scriveva regole proprie allorché citava a destra e a manca. Perfetta per l'epoca che la vide svilupparsi rigogliosa, la creatura di Tim Gane e Laetitia Sadier (attiva anche con gli apprezzabili Monade, prossima al debutto solista) ha smesso di stupire all'inizio del nuovo secolo, nondimeno conservandosi in buona forma: mai un'uscita inutile in una produzione copiosa e nemmeno qui si viene meno. Seppur in tono minore, il saluto è il consueto campionario di memorie trasfigurate e movenze falsamente "easy" mai autocompiaciute, apici una Leleklato Sugar d'elaborata delicatezza e un remix di Silver Sands in fenomenale transito da Düsseldorf a Detroit e ritorno, il saltellare sereno di Two Finger Symphony e la malinconia circolare che avvolge Delugeoisie. Al pari del valzerino Aelita e dei Neu! apocrifi di Pop Molecules, bellezza priva di rughe che non pensa al domani. (6.8/10) Giancarlo Turra Sufjan Stevens - The Age Of Adz (Asthmatic Kitty Records, Ottobre 2010) G enere : avant pop folk Dopo un lustro nel quale ci ha concesso solo lavori interlocutori, apprezzabili sì ma di sponda, Sufjan Stevens torna in sella alla bestiolina autorale. E la trova comprensibilmente vogliosa, carica. Però cambiata. C'è un'inquietudine nuova al lavoro nel petto, un tumulto intimo sebbene destinato - come è naturale - ad irradiarsi collettivo. Come prima conseguenza, il mega-concept highlight Walkmen (The) - Lisbon (Bella Union, Ottobre 2010) G enere : swamp indie Iniziarono nel 2002 come una sorta di prequel garage degli Strokes, per farla semplice e breve. Per i newyorkesi Walkman i consensi arrivarono consistenti, ma il pieno l'avrebbero fatto col ben più meditato quinto album You & Me. Due anni più tardi arriva il qui presente Lisbon, destinato ad alzare ulteriormente l'asticella. Fin dai primi solchi si susseguono chiari i segnali: l'arpeggio è un trillo morbidamente ostinato, il drumming un rombo basale, quanto alla voce, eh, è una voce di quelle che non potrebbero fare a meno di se stesse: un graffiarsi presente di graffi passati, una generosità ferita e bramosa. Semplici le melodie, rivolte ai fifties del country-folk che va trasformandosi nel formidabile ibrido errebì con tutte le oscillazioni doo-wop e swamp pop (e che più avanti rimbalzerà garage e surf), rutilante e accorato, in bilico consapevole sulla propria natura effimera. S'incendiano le chitarre, certo, come nel singolo Angela Surf City, con quelle espettorazioni che se mantengono genuinità lo devono alla ricetta che su tutto spande il suo aroma: suonare come chi ha siglato la pace coi demoni malgrado la terra continui a bruciare sotto ai piedi, malgrado il fragore del sangue nelle vene. Una maturità ancora inquieta, dove l'innocenza è un fantasma celebrato però mai rimpianto: questo il "luogo" che i Walkman si sono scelti, dal quale ti porgono con garbo febbrile la sarabanda dei sentimenti (la splendidamente tesa Blue As Your Blood), il valzer dei propositi (l'infiammabile Victory), l'errebì dell'età perduta (Juveniles). Quel luogo probabilmente esiste davvero, o almeno a loro è sembrato così nei due viaggi che li hanno portati in Portogallo: ecco spiegato il titolo della canzone che battezza l'album, ballatina col cuore in ambasce dai riverberi esotici, il momento più intenso in scaletta assieme a quella Stranded che s'inventa una brass band d'accompagnamento per la processione di un'anima triste. Agli antipodi, una Woe Is Me dalla disarmante, limpida, ossessiva vivacità. E' musica questa che gioca a carte scoperte con un mistero impenetrabile. Riguarda il motivo stesso per cui siamo ancora qui ad investire tempo, energia, emozioni nel rock'n'roll. (7.5/10) Stefano Solventi dedicato agli stati dell'Unione sembra al momento accantonato. Le coordinate della nuova mappa convergono quindi su Sufjan stesso, la cui tomentosa e feconda maturità ha già fruttato il sedicente ep - in realtà un album bello e buono - All Delighted People, uscito poche settimane fa. Adesso, come ampiamente annunciato, arriva The Age Of Adz. Non senza colpi di scena. E' come se Sufjan tentasse di edulcorare l'irrequietezza spostandosi senza posa tra scenografie spettacolari, o - se preferite - come se avesse ingoiato la pasticca (metaforica) che regala il conforto di visioni psych, electro e dream pop sbalzate e contemporanee. Un tuffo nelle proprie (e anche un po' improprie, massì) possibiità, in una dimensione profonda ma esuberante, sfaccettata fino allo sconcerto ed incontenibilmente empatica. La tavolozza sonica disegna scenari palpabili, a tratti sembra di stare dentro ad un dipinto vivo, di galleggiare sulla carnosa radianza di linee e colori. I riferimenti artistici, del resto, sono espliciti: il titolo stesso del disco rimanda all'opera di Royal Robertson, pittore della Louisiana classe 1930, morto nel '97, schizofrenico, sedicente profeta, abitato (lui e i suoi lavori) da allucinazioni futuristiche per non dire sci-fi. Qualcosa di quest'ultime abita le undici tracce in scaletta: una mischia balzana di elementi popular per attivare codici di stupore, d'insolito meraviglioso, il filo nero dell'angoscia nel patchwork ipercromatico. Sufjan pennella con estro sfrenato, si precipita da una visione all'altra, da una dimensione all'altra, ammicca l'iperdadaismo post-psych dei Flaming Lips, l'ipnoromanticismo panico dei Sigur Rós, il freak pop bucolico e corale (Animal Collective in testa), non si fa mancare ipotesi electro-funk dal calore accorato Radiohead (si veda la coda di I Want To Be Well). E in questo esercizio d'insopprimibile versatilità non scor75 da di aprire breccie sul cuore gospel-folk-pop della sua ispirazione, come porzioni di tela lasciate senza colore dove scorgi il disegno, una sottotraccia che riconduce alle lezioni Paul Simon, Brian Wilson e Van Dyke Parks. E' un sostrato irrinunciabile e scoperto, che in qualche modo tiene in piedi tutto il formidabile baraccone. E' il perno della giostra. In questo continuo allontanarsi e rannicchiarsi in se stesso, nel carosello degli azzardi che s'infiammano ed evaporano come sogni, mille volte Sufjan rischia di perdersi, di cadere, di sbagliare la svolta (quell'orribile autotune in mezzo alla fluviale Impossible Soul...), ma un attimo dopo ti ritrovi commosso o sbalordito o semplicemente divertito. Capisci che è lo spettacolo d'arte varia di chi in qualche modo sta cercando di fare chiarezza, di fulminare i fantasmi, di affacciarsi sul burrone. The Age Of Adz è un'opera eccessiva, imperfetta, forse velleitaria. Ma racconta il caos emotivo di questi anni come poche altre. Nel modo giusto. (7.4/10) da offrire a queste sonorità, ma noi non siamo tentati di dare voti alla carriera. (6.3/10) Marco Boscolo Suuns - Zeroes QC (Secretly Canadian, Ottobre 2010) G enere : art rock Da bravi figli dell'età dell'onniscienza, i Suuns da Montreal esordiscono proponendo un linguaggio composito, per il quale la calligrafia è questione di ingredienti e dosaggio, tutto un riarticolare forme, modi e mood che significa anche - soprattutto - innescare riverberi spaziotemporali. Nello specifico, Zeroes QC mette in fila una scaletta a base di kraut e post wave, electro-dark e artrock, scomodando con acume memorie Clinic, Wire, Suicide, Can, più una spolverata di Chrome e persino un pizzico di Polvo. Motoristici o semplicemente seriali, atmosferici e insidiosi, eclettici fin sull'orlo dello sconcerto, i quattro canadesi risultano divertenti da ascoltare. Stefano Solventi Ogni traccia nasconde una sorpresa, come se a scozzare le carte fosse il caos ma col raziocinio che gli punta la pistola alla schiena. Superchunk - Majesty Shredding Va a finire che l'ambaradan funziona. Malgrado la veloci(Merge, Settembre 2010) tà, gli scambi a tradimento e le pendenze a scapaccione, G enere : emo power pop Difficile parlare male di una band come i Superchunk, non avverti neanche per un attimo il rischio di deragliare. sia per il rispetto a una carriera comunque più che di- Anzi, c'è come un senso di coerenza lucida.Tutto ciò pregnitosa nel micromondo del power pop mondiale, sia suppone una capacità di calcolo da post-nerd del rock perché il leader Mac McCaughan e Laura Ballance hanno che affascinano più per la loro natura di fenomeni confondato la Merge Records che ci ha regalato Arcade temporanei che non per quello che sono o saranno in Fire, l'ennesima buonissima prova dei Teenage Fan- grado di esprimere. club o il ritorno di Tracy Thorn. Gente così ti viene da (6.7/10) ammirarla e basta. Stefano Solventi Musicalmente non avevano più detto nulla dal 2001, dopo undici anni di carriera e otto album. Anche dal titolo, He- Swahili Blonde - Man Meat re's To Shutting Up, era un disco che aveva del commiato, (Manimal Vinyl, Ottobre 2010) dell'addio alle scene. Ma sarà per il ritorno in pista anche G enere : neo - wave di altri gruppi storici della scena emo/power pop come i Uno che di star fermo non ne vuol sapere, John FruGet Up Kids (in tour lo scorso anno con un passaggio sciante: definitivamente (?) uscito dal gruppo, mentre anche in Italia), sarà perché i piccoli emuli come i We cura la propria prolifica carriera solista si è unito a questo Are Scientists sono in gran forma, sia quel che sia nel progetto, concepito a L.A. da Nicole Turley (già cantan2010 questi signori del pop da singalong, dell'hook facile te e batterista di tali WEAVE!) guardando al post-punk decidono di ritornare con undici nuovi brani. in buona compagnia (sono della partita Laena MyersNon c'è nulla che non vada in questi quaranta e passa Ionita, Stella Mozgawa e Michael Quinn; addirittura minuti di chitarrismo pop radiofonico e colorato, ma John Taylor dei Duran Duran presta il basso al framsembra che dal 1990 ad oggi non sia cambiato nulla. Ma- mentato wave-funk Tigress Ritual). Pratica che di questi jesty Shredding potrebbe essere stato inciso in qualsia- tempi ha esaurito la spinta propulsiva, per quanto qui si si momento tra il capolavoro No Pocky for Kitty e Come usi l'accortezza di guardare a formazioni scarsamente Pick Me Up: stesse soluzioni melodiche, stessi intrecci di imitate capendo come di cloni di Wire e Joy Division chitarre e voci, stessi riferimenti giovanilistici. Qualcuno se ne abbiamo piene le tasche. apprezzerà, e probabilmente il mercato ha molto spazio Sette brani in poco più di mezz'ora consacrati a impasta76 re felicemente la lezione di Raincoats (il folk maltrattato in chiave urbana), Slits (le voci isteriche, l'impasto sonoro organizzato secondo tecniche dub) e Rip, Rig & Panic (certo jungle-jazz a bagno nel funk in allegra confusione). Ne deriva una festa ebbra di ritmo su tappeti di percussioni, batterie "umane" e non e bassi scivolosi, attraversata in orizzontale da tastiere kraute e chitarre pungenti, violini e qualche colpo di genio (la sensazionale Red Money un outtake di Cut se l'avessero prodotto Brian Eno e Robert Fripp). Benedetta inoltre da un gusto melodico obliquo però robusto (esemplare la black mutante di Le Mampatee), che - come per le Rings - necessita di una frequentazione assidua e attenta per rivelarsi appieno. Vigoroso e meno fedele alla linea di quel che potrebbe apparire, Man Meat si perderà nel magma produttivo attuale per venire riscoperto nel 2020, quando potrete dire: "io c'ero". (7.3/10) Giancarlo Turra Swans - My Father Will Guide Me Up A Rope To The Sky (Young God, Settembre 2010) G enere : heavy rock Michael Gira aveva voglia di provare di nuovo quel taglio di chitarra e quel senso così marziale e primitvo di essere "heavy". Era stato molto chiaro quando un paio di anni fa ci disse che aveva voglia ancora una volta di suonare "pesante". Gli Swans come trademark quindi. Tanto ieri quanto oggi,che se ne dissotterra il cadavere con un disco, una compagine, un tour nuovo e un risultato ancora una volta diverso da tutto quello che c'è stato in precedenza. In questo senso, l'ultimo parto degli Angels Of Light, We Are Him, era già programmaticamente coordinato su quest'idea, quella cioè di reinventarsi di nuovo una ferocia, un'aggressività, un ruggito di chitarra nero antracite. Non un ritorno alle origini però. Niente catastrofi come in Filth e Cop, quanto una sapiente miscela di tutto quanto è venuto dopo Children Of God, fino alla chiusura avantgarde delle colonne sonore per chiechi. Che alla fine il prodotto finale della reunion suoni come un perfetto ibrido tra Swans e Angels Of Light dice molto sulle capacità attuali di questo "grande vecchio". My Father Will Guide Me Up A Rope To The Sky ne esce fuori con un generale senso di incompiutezza, come se si girasse sempre intorno ad un'idea senza mai centrarla in pieno. Alla fine tanto il suono, quanto la struttura dei brani ne risente, ma tutto viene salvato in calcio d'angolo, perché si avverte lontano un miglio che ci si trova nelle mani di un professionista. Uno che l'ha sempre saputa lunga e anche questa volta si era parato alla grande, met- tendo le mani avanti mentre dichiarava che i nostalgici dei bei tempi andati sarebbero stati delusi, perché qui nessuna operazione amarcord avera ragion d'essere. E alla fine, anche nella line-up, questi nuovi Swans targati anni zero, hanno davvero poco da spartire con quelli di ieri. Solo Norman Westberg e Christoph Hahn possono dirsi ex-membri a tutti gli effetti, mentre il resto viene dagli Angels Of Light: Phil Puleo, Thor Harris e Chris Pravdica già in Flux Information Sciences. Si capisce quindi come il disco suoni come un torrente guadato per metà, senza troppa convinzione, ma con qualche slancio, qui e li, della vecchia energià. L'apertura tre le campane di No Words / No Thoughts restituisce subito un'aria da tardi Swans, con la chitarra di Westberg che riporta indietro le lancette a The Great Annihilator. Il canovaccio del lavoro si evolve quindi in maniera abbastanza prevedibile. Da un lato i brani "heavy rock", spesso innestati, come quasi tutti, su solide spalle bluesy. E' il caso delle tracce più in odore di Swans, come My Birth, la marcetta apocalittica di Inside Madelaine o la marziale Eden Prison. L'altro corpus di brani è invece completamente legato agli Angels Of Light: Reeling The Liars In, Jim, Little Mouth, ballad tese e introverse. L'eccezione di You Fucking People Make Me Sick, che vede un inacidito Devendra Banhart in veste di hobbit sotto acido, cerca di allinearsi alle costruzioni astratte di Soundtrack For The Blind, ma il risultato è davvero pessimo e sconclusionato. Alla fine un disco che non aggiunge nulla, né a noi, né a Michael Gira che però, d'altro canto, vedrà bene di far fruttare di nuovo il nome Swans con il nuovo tour mondiale. (6/10) Antonello Comunale Teho Teardo - Soundtrack Work 2004 - 2008 (Expanding Records, Agosto 2010) G enere : A mbient / minimal Seguire le vicende artistiche di Teho Teardo significa essere condannati a rincorrere. E spesso ci si ritrova con il fiato corto. Musicista, compositore, sonorizzatore, sound designer, ma anche conduttore radiofonico, produttore e arrangiatore. Non bastasse tutto ciò a far venire un bel mal di testa, ci pensa la varietà del suo lavoro come musicista. Dopo esperimenti in proprio già nella prima metà degli anni Ottanta, nel decennio successivo Teardo acquista una certa visibilità sulla scena internazionale grazie al lavoro nei Meathead, band dedita a un rock industriale innervato di sperimentazione, lavora a Birmingham, New York, in compagnia di Lydia Lunch e remixa brani di Placebo, Girls Against Boys tra gli altri. 77 Ma è negli anni zero che l'attività di Teardo diventa meno sotterranea e raggiunge anche il pubblico del cinema d'autore italiano: sue sono le musiche originali di Denti di Gabriele Salvatores (2000) e Lavorare con lentezza di Guido Chiesa (2004). In particolare, le composizioni per quest'ultimo film sono contenute in quest'antologia che raccoglie il lavoro cinematografico dal 2004 al 2008 e ci aiuta a fare ordine. Vi ritroviamo le splendide atmosfere ambientali e vagamente disturbanti dei brani composti per La ragazza del lago, l'esordio di Malaioli e un piccolo caso nel 2007, e quelli per il più famoso Il Divo di Paolo Sorrentino (2008). Completano la raccolta le musiche originali per Il passato è una terra straniera e per L'amico di Famiglia. A supporto del lavoro alle chitarre, al piano, la rhodes e all'elettronica dello stesso Teardo, c'è un vero ensemble di archi che conferisce ai brani una profondità che va oltre il commento delle immagini per cui erano inizialmente pensati. Le sue composizioni atmosferiche sono sempre costellate di particolari che a volte disturbano (positivamente), altre volte fanno alzare un sopracciglio di stupore. E se la musica di Teardo ha interessato un maestro del soundtrack come Ennio Morricone, che lo ha definito un protagonista della ricerca "dell'originale attraverso un'economia di materiali e una forma personale di minimalismo", questa raccolta è un'ottima occasione per cominciare a conoscerlo. (7/10) Me). Terror è il produttore grime&dintorni dal tocco più elegante attualmente in circolazione. (7/10) Gabriele Marino Thermals (The) - Personal Life (Kill Rock Stars, Settembre 2010) G enere : A lt . R ock Sarò sincero, ero partito con l'idea di stroncarlo questo disco. Non perché odi i Thermals, anzi. E' che quando segui un gruppo dagli inizi e quello che più ti colpisce di lui è la sapienza con cui incrocia violente scariche punk con la verbosità polemica di un Bob Dylan, ti fa male vederlo raggiungere una maturità che è quasi sempre sinonomo di ponderazione, inevitabili restringimenti di orizzonti e inconsulti rallentamenti di ritmo. Più spesso di autentica noia. I Thermals in questo senso hanno fatto il più tipico dei percorsi e dopo album brucianti come More Parts Per Million e Fucking A, hanno dapprima iniziato a intravedere il potenziale commerciale della propria musica, andando alla ricerca dell'anthem che conciliasse la loro passione politica con i passaggi su MTV; dal precedente Now We Can See, poi, hanno iniziato ad assumere la posa dei veterani in disarmo, relegando ai margini l'urgenza che ci aveva fatto innamorare loro. Personal Life, com'era inevitabile, completa la svolta. Archiviata l'incazzatura dell'era Bush, i Thermals si concentrano sui dilemmi personali, finanche amorosi. MusiMarco Boscolo calmente seguono le linee guida di un alt rock di stampo 90s, che nei palinsesti americani ha da tempo rimpiazzato il ruolo dell'AOR. Il loro, tuttavia, è un power pop dissoTerror Danjah - Power Grid nante, dalle corpose linee di basso, che nei momenti più (Planet Mu Records, Luglio 2010) obliqui fa propria la lezione dei Pixies e che, per certi G enere : dubstep In attesa dell'album di debutto vero e proprio, Unde- versi, ricorda il modo in cui i Replacements piegavano niable, in uscita a novembre, Terror Danjah mette sul la tradizione blue collar ai dettami del punk. piatto un EP tagliato con il cesello, mezz'ora di pura clas- Dal punto di vista squisitamente melodico contiene alse produttiva. Il suo horror step strumentale è raffinatissi- cuni dei brani più compiuti dei Thermals: Not Like Any mo, uno stile non solo perfettamente modellato, scolpito Other Feeling e Power Lies sono mid tempo accorati, che in un continuo appagante esercizio di microspasmi, ma conquistano l'ascoltatore senza neanche irretirlo con un soprattutto immediatamente riconoscibile. L'uomo cura chorus vero e proprio. Non mancano neppure gli anthem tutte le componenti della sua musica, timbri, melodie e a presa rapida, anche se ora (è il caso di Your Love Is So Strong) il furore a cui si accompagnano è più misurato e struttura dei brani, e il risultato è eccellente. Otto titoli perfettamente autodescrittivi: rimbalzi e gio- l'indignazione è assente. chini alla Ikonika (Space Traveller), breaks e assalti di archi, Va dato loro atto di essere maturati senza invecchiare, come nel suo stile ninjesco (Menace), pulsazioni spastiche di aver pefezionato con conivnzione una formula magari annegate nel flow (Pulse), torcimenti (Twisted), studi di non più fresca, ma sempre personale ed avvincente. Perasciugamento dub (title track), luccicanti rullanti dubstep sonal Life, in questo senso, è una raccolta di pop song (Uptown Lane), atmosfera sinistra, due tocchi di piano su chitarristiche potenti, emotive e (quasi mai) scontate. una base più che secca disidratata (programmaticamente, Apprezzarle, ve l'assicuro, non equivale ad accontentarsi. Horror Story), addirittura ritorno allo UK garage via dan- (6.5/10) cehouse/tribal in un'altalena di sfarfallii di tastiera (Ride 4 Diego Ballani 78 Tricky - Mixed Race (Domino, Settembre 2010) G enere : tricky mesh spettatamente shoegaze o il noise in sbornia free della title track. Tra i crediti, oltre al padrone di casa - titolare anche Nona prova per l'ex vocalist dei Massive Attack e san- della Acid Cobra -, troviamo James Johnston (Gallon tone del trip-hop. Uscito dalle paludi di uno stallo mid-00, Drunk, Lydia Lunch Big Sexy Noise), Stéphane Pigneul oggi dopo il buon Knowle West Boy, l'uomo si ritira a Parigi (Object, Heligoland) e il nostro Alessio Gioffredi (Die ingaggia una serie di ospiti che gli consentono ancora latazione), a tirare le fila di un disco affascinante che voruna volta di esprimere il suo meticciato sonico. Nel grup- rebbe rappresentare un concept sulla confusione nei rappo dei featurers troviamo al debutto su disco la cantante porti umani ai tempi dei social network. italo-irlandese Franky Riley, che l'ha accompagnato nei (7/10) tour degli ultimi due anni e che sostituisce degnamente Fabrizio Zampighi Martina Topley Bird, il vocalist giamaicano Terry Lynn, Bobby Gillespie dei Primal Scream, il liutista e cantan- Underworld - Barking (Cooking te Hakim Hamadouche e per finire pure il fratello Marlon Vinyl UK, Settembre 2010) Thaws. G enere : dance Il disco salta di palo in frasca in maniera soffusa, come solo A sentire quel disco di collaborazioni dell'anno scorso Tricky sa fare, esponendo la forma canzone alla sua vo- (Athens), per non parlare delle dichiarazioni anti ellepì ciona sussurrata e cavernosa, quasi come un Tom Waits di un anno fa o degli sbandierati feat. di Paul Van Dyk postmoderno. Si va quindi dal remix dei Daft Punk di (e soprattutto Appleblim), pensavamo che Rick Smith Technologic in chiave bbreak (Kingston Logic) a ricordi del e Karl Hyde potessero tornare in campo con qualche trip-hop di Maxinquaye con il dialogo tra l'uomo e la ra- idea in più, magari contaminando il dancefloor con jazz, gazza (Early Bird, Ghetto Stars), dalla cazzatina araba che cantautorato made in Brian Eno (con il quale hanno fa tanto mesh di Hakim, al blues marcio e lo-fi di Come collaborato recentemente) e sonorità now on (dubstep To Me, dai i ricordi electro di Time To Dance all'ardkore ovviamente). Novanta dei Prodigy (Bristol To London). Non se ne parla. Barking punterà certamente a una glasMixed Race inaugura una fase nuova, rilassata e consape- sa gospel-OGM Eno-assistita, eppure gli hook melodici, e vole di assestarsi su una buona media compositiva sen- più in generale l'abecedario di loghi comuni pop innestati za strafare. Come i buoni vini si gustano meglio dopo nello stomachevole menù trance dance UK, sono davvequalche anno dall'imbottigliamento, così questo disco ci ro senza appello. fa capire che solo oggi Tricky è un'artista consapevole al E' tutto fermo al '96. Un sound ultra commerciale tar100% delle sue capacità, senza troppi patemi o doman- gato Novanta buono per qualche palestra o lezione di de filosofiche sul futuro del pianeta. L'uomo ci narra da spinning (Always Loved A Film). Se se ne esce si punta alla una prospettiva personale come si possa cantare ancora ballad (una patetica Louisiana) o all'ambient cuscinetto (gli col germe del trip hop in testa in un contesto che non Orb in fotocopiatrice di Simple Peal), mentre attorno si è più pre-millenaristico. Peccato che lo faccia solo per configurano una debole drum'n'bass - data papabile per mezz'ora. il revival - come singolo (Scribble), tristi episodi goth-pop (7/10) con matematico rise-up da pasticca (Between Stars) e paMarco Braggion sticci eurodisco sui quali è meglio soprassedere proprio (Diamond Jigsaw). Perlomeno il precedente Oblivion With Bells si adoUlan Bator - Tohu-Bohu (Acid perava a tenere alto il blasone di una prestigiosa casata, Cobra, Ottobre 2010) Barking, invece, punta a speculare sull'immaginario NoG enere : noise - psichedelia A sei anni di distanza dal loro ultimo disco - Rodeo Mas- vanta più sputtanato e pertanto si merita il peggio: che sacre - tornano gli Ulan Bator di Amaury Cambuzat, giornalisti additino comodamente gli Underworld come con un'opera strutturata, musicalmente ricercatissima e quelli di Born Slippy che cercano di rimanere a galla. come di consueto trasversale. Post-rock solo in superfi- (5/10) cie - soprattutto nelle geometrie allentate -, visto che in Marco Braggion, Edoardo Bridda realtà il materiale registrato è di quelli consapevolmente in bilico tra generi e approcci diversi. Come dimostrano le stratificazioni elettriche di brani come Speakerine o le atmosfere invernali di Régicide, una Ding Dingue Dong ina79 Venetian Snares - My So-Called Life (Planet Mu Records, Settembre 2010) G enere : ' ard - break - core Come al solito Aaron fa ciò che vuole, e questa sua libertà può portare ad alti e bassi di cui sappiamo bene. Questo disco è presentato dallo stesso Snares nella pagina ufficiale come la prima uscita di una nuova etichetta, la Timesig (sempre nel roaster Planet Mu). Le tracce del lavoro sono state "composte nel giro di uno/massimo due giorni", e questa urgenza si esplica in una "collezione di piccole storie". Ed è un diario allucinato che parte dalla base del breakbeat (il quasi plagio di Come To Daddy nell'opener Cadaverous) per poi rimestare tutti i trick del breakcore di cui è vate sin dalla notte dei tempi. Oltre ai ritmi, visto che siamo in piena moda da campionamento '92, troviamo vocine in elio e campioni da film di serie B (vedi il la retrofilia di Zomby richiamata in Aaron 2 e Who Wants Cake?) spinte pesissime sui bassi post-jungle (Ultraviolent Junglist) e accenni melodici, anche quelli tipici del nostro, che ricordano il suo album del 2005 Rossz Csillag Allat Szuletett (Goodbye9/ Hello10). Per addetti ma anche per chi c'ha il senso dell'umorismo breakkato. (6.8/10) Marco Braggion VeryShortShorts - Background Music For Bank Robberies (Bar La Muerte, Settembre 2010) G enere : avant rock Uno degli inconvenienti più piacevoli circa i Veryshortshorts capita quando provate a cercarli sul vostro motore di ricerca preferito: guardate che razza di immagini vengono fuori. Ti viene quasi il dubbio che l'abbiano fatto apposta. Tuttavia è ben altro l'immaginario di riferimento di questo trio italo-francese (Stefan Manca al piano, Stefano Roveda al violino e Jeremy Thòma alla batteria) stanziato a Berlino. Le quindici composizioni strumentali del loro esordio Background Music For Bank Robberies sono un curioso ed efficace miscuglio di tracotanza rock, estro improv e languori cameristici. Ne risultano brevi allestimenti sonori come soundtrack di sequenze ora romantiche e ora malsane, spesso trafelate e talvolta fragorose. Mitteleuropa e adrenalina, frenesia e lirismo, una pienezza sonora che fa perno sul drumming robusto ribattuto dalla puntualità anarchica (e subdolamente pensosa) del 80 piano, mentre il violino fa il diavolo a quattro tra il soave ed il mercuriale. Buon disco, band interessante. (7.1/10) Stefano Solventi Weezer - Hurley (Epitaph, Settembre 2010) G enere : A lt rock Da un pò di anni a questa parte, ogni volta che i Weezer si presentano con un nuovo lavoro, scatta in me una curiosità malsana che mi porta a chiedermi se riusciranno a cadere più in basso rispetto all'album precedente. Devo dire che fino ad ora non mi hanno mai deluso, inanellando una portentosa serie di scivoloni verso il fondo culminata con l'ultimo Raditude. Al cospetto di quella Fossa delle Marianne artistica, questo Hurley non poteva che mostrare segni di ripresa. Naturalmente non si esce dal paradigma del college rock infantile, che nella fattispecie ha i suoi picchi di demenza nelle lyrics di Smart Girls; questa volta però Cuomo e compagni si ricordano di essere stati una fucina di riffoni post grunge, e corroborano i nuovi brani con un chitarrismo potente che rimanda proprio agli esordi, purtroppo al netto della produzione di Rick Ocasek, che fece dell'album blu un bel bigino pop. Il nuovo corso, è sancito dalla firma del contratto con la Epitaph, che non sarà più una seconda casa per giovani skaters come accadde a metà degli anni 90, ma è pur sempre vicina al target naturale dei Weezer. Ai geeks e teenagers odierni i californiani offrono il pop al testosterone di Ruling Me e Where's My Sex (con un chorus oh-so-90s che farà la felicità dei vecchi fan), le virate malinconiche di Memories, ma poi appesantiscono tutto con l'anthem ultra epico di Trainwrecks e, in generale, con melodie volatili e un pop bidimensionale che fa a pugni con la ritrovata etica indie. Alla fine, con tutta la buona volontà, non si riesce ad arrivare alla sufficienza. E dire che (l'oscena) copertina con il faccione di Hurley, aveva ben disposto un fan di Lost come il sottoscritto. (5.5/10) Diego Ballani Wolf + Lamb - Love Someone (Wolf + Lamb Music, Giugno 2010) G enere : deephouse Dopo una serie di produzioni sciolte pubblicate prevalentemente sul solo formato digitale, ecco l'album di Zev Eisenberg e Gadi Mizrahi, nomi caldi dell'underground dance newyorkese. La loro formula è tutt'altro che nuova, ma decisamente graziata da un tocco personale. L'incipit Lynchiano, rumori ambientali e radio scassata che manda una vecchia musichetta inopportunamente allegra, seguito dal lento definirsi di un loop deephouse umbratile (Just For Now) inquadra perfettamente la loro musica. Dieci brani lunghi, monotoni e monocromi, una deep sinistra e illanguidita, animata da variazioni di tono minime ma sensibili, che la fanno ora electropop (Shoeshine Boogie), ora disco/garage (Love Someone), stilizzatamente tribal (Want Your Money), algidamente latin (I Know You're Living), jazzata (e desolata, Monster Love), Cobblestone Jazziana (Must Be Brooklynn), addirittura Depeche Modeiana (Therapist). Pochissimi elementi giocati molto bene, stile e atmosfera. (7.2/10) Gabriele Marino Wolf People - Steeple (Jagjaguwar, Ottobre 2010) G enere : '70 s rock Chissà quale batterio s'è infiltrato negli uffici della Jagjaguwar, se da tre annetti pure colà hanno preso a farsi paladini del ritorno all'hard rock e a talune pomposità progressive. Lo dimostrano i campioni di vendite Black Mountain e il relativo spin-off Lightning Dust, compagni di palco di questo quartetto britannico ora all'esordio "vero", dopo una raccolta di singoli e lo sguardo in ogni caso rivolto ai seventies. Sai che novità di questi tempi, e anche se mica tutti si chiamano Pontiak, anche qui ci si è recati a registrare in una casa di campagna: sostituite Virginia con Galles, e il gioco è quasi fatto. Si spiegano così l'imbarazzante flauto e i riff prelevati da Aqualung diTiny Circle e il frequente ricorso a un tentennare tra Led Zeppelin, Free e decine d'altri nomi meno noti (tranne i pieni e vuoti di Silbury Sands e il convulso magma Cromlech, il resto si riduce però a puro mestiere). Vale infatti a poco l'abilità esecutiva se non l'accompagnano attitudine sincretica o una penna che faccia la differenza: i Wolf People si raccontano mediocri e felici passatisti, una tantum capaci d'infilare la vibrante ballata folk Banks of Sweet Dundee Pt. 1 dentro una parata di svigoriti luoghi comuni. Non bastava nel 1973, figuriamoci adesso. (5.5/10) Giancarlo Turra Women - Public Strain (Jagjaguwar, Agosto 2010) G enere : pop storto Sorprende un pizzico meno del debutto Women ma resta una spanna sopra la media, Public Strain. Merito della capacità di Patrick Flegel (voce/chitarra), Matt Flegel (basso/voce), Chris Reimer (chitarra/voce) e Michael Wallace (batteria) di rendere incatalogabili le proprie musiche, disorientando l'ascoltatore con un mix di pop e noise, melodie sixties e Velvet, spolverate di Polvo, coralità solare e profondità weird. La matassa è sempre la stessa e pure l'amico Chad VanGaalen al mixer - e ospite qua e là - è ancora lui. Di diverso c'è un alone di latente oscurità, un rinchiudersi a riccio nelle melodie vocali e una rilassatezza da postparty a limare gli scatti del debutto. Disco difficile Public Strain: densissimo, stratificato, tendente al nero e non di facile impatto. Il quartetto giostra col pop sommergendolo di rumore, allenta la tensione strumentale aggrumando l'impatto emotivo, regolarizza gli arzigogoli mantenendo una totale libertà nelle strutture dei singoli pezzi. Particolare da non dimenticare, è infine il fattore canzone. Gli Women ne fanno di compiute e sensate, in pratica classiche perle dell'universo "storto" degli ultimi 30 anni. Gliene diamo atto. (7/10) Stefano Pifferi Yann Tiersen - Dust Lane (Mute, Ottobre 2010) G enere : pop orchestrale Piace l'artista che al sesto album ancora avverte la necessità di mettersi in discussione: segno che a muoverne le scelte c'è un vissuto che impedisce di pubblicare dischi con atteggiamento impiegatizio. Nello specifico, lungo i due anni trascorsi a preparare Dust Lane Yann ha perduto la madre e un caro amico, incupendo un lavoro iniziato in acustica solitudine e poi arricchito di sintetizzatori vintage, archi e cori con l'aiuto in fase produttiva di Ken Thomas (Sigur Rós, Dave Gahan). Arduo affermare se sia da imputare a costui o al musicista bretone l'esito, teatro interlocutorio dove tortuosità compositive e arrangiamenti sopra le righe spesso soffocano la magia. La quale torna solo in un'ombrosa Chapter 19,chanson preziosa dell'ospite Matt Elliott e, in misura minore, nella filastrocca pop Fuck Me (da gogna però il testo: "Fuck me, fuck me... make me come again") e nel David Axelrod apocrifo della title-track. Altrove ci si smarrisce dentro romanticismi ai confini del prog (Dark Stuff) e inutili lungaggini (Till The End), in belle idee risolte male (Ashes) e discreti inchini agli ultimi Flaming Lips (Palestine, Amy). Il futuro dirà se si tratta di un momentaneo appannamento o del sofferto cambio di pelle: per ora, l'unica certezza resta la novità negativa di una grandeur a briglia troppo sciolta. (6.5/10) Giancarlo Turra 81 Gimme Some Inches #9 Nuovo giro a colpi di vinile tra witchhouse e hypnagogic-pop, free-madness e pop-sixties. Protagonisti Talibam!, Aucan, Spectrals, Burial Hex and many, many more... Vi stavate preoccupando dell’assenza dei Talibam! dalla scena musicale? Il mese scorso non avevate trovato nemmeno una release del duo newyorchese? Tranquilli, questo mese i nostri preferiti tornano non con uno bensì con due 7”. Cosmoplitude è il primo 45 giri made in ESP-Disk della storia, è ultra-sexy come l'immagine di copertina ed è pervaso dalla solita attitudine free, cosmica, trascendente e appassionata che abbiamo imparato ad apprezzare. L’altro invece è uno split italico: a produrre è la trimurti del rumore meridionale Ammagar, Musica Per Organi Caldi e Lemmings, mentre a condividere i solchi del vinile troviamo i partenopei Ne Travaillez Jamais. Se il duo Shea/Mottel va di consueto free-form in presa diretta (registrato live al Cellar Theory di Napoli) che ne mostra scelleratezza e eclettismo, il trio nostrano offre Una Domenica In Campagna river82 berata e sfuggente in mille direzioni, potente e insieme screziata cavalcata free-form. Per americani che vengono da noi a registrare e pubblicare, ecco un percorso inverso. Per realizzare il loro primo 7” i bresciani Aucan attraversano l’oceano e se ne vanno nel lontano Sol Levante. È la Stiffslack a stampare lo split coi Talking Dead Goats da Osaka. Their side for home, our side for the club, suggeriscono i tre bresciani e l’ascolto di Crisis, in versione dub remix ce li fa apprezzare per quella forma mutante di combo quale sono. Cangianti e acidi come il vinile giallo del 7”. Già segnalato su queste pagine, Louis Jones aka Spectrals si sta facendo un nome a furia di dischetti in vinile. Ora, se non andiamo errati, è la volta del primo vinile lungo, fantasiosamente chiamato Spectrals Extended Play: 7 tracce per Moshi Moshi che – seppur includano il 7” Peppermint uscito per il singles club della label inglese a fine settembre – sono tutte inedite e mixano il bedroom pop sixties oriented che caratterizzava le prime releases con un piglio più r’n’r, sempre dei sessanta. Produzione semiprofessionale e impasto di Diana Ross & The Supremes e The Isley Brothers alla maniera di Phil Spector. Da tenere d’occhio. A sorprenderci questo mese però è Daniel Lopatin, noto come Oneohtrix Point Never che per Mego da alle stampe un 7” che per nomi e suggestioni è un vero e proprio gioiello. Seduto al piano e accompagnato dalla voce di Antony fornisce una versione di Returnal, già presente sul self titled, che è a dir poco strappalacrime. Il lato B è un’altra perla, visto che a remixare lo stesso pezzo è addirittura Fennesz, invero piuttosto fedele alla versione ufficiale, inebetita da qualche folata di uggiosa manipolazione digitale e da cascate di synth in overdrive. Proseguiamo con un mea culpa: non aver segnalato per tempo il nuovo EP dei //Tense//, band texana di EBM fedele alla linea con all’attivo già un cd-r su Disaro e un album su Desire. Proprio quest’ultima qualche mese fa ha infatti rilasciato Introducing, mini di sei pezzi in cui, più che presentarsi, il combo di Houston ricalca le coordinate, per altro già chiare, tracciate sull’LP Memory. Edito in due versioni, CD e cassetta, l’EP riproduce i vecchi dettami di funk robotico e meccanici electro beats da dancefloor ambigua come solo Front 242 e D.A.F. sapevano fare. Per gli appassionati un bel tuffo nel passato. Nei Peasi Bassi, dopo la compilation su doppio LP Kamp Holland, torna Enfant Terrible con una nuova uscita sempre su vinile. Dans è il primo 12 pollici delle Kim Ki O, duo di ragazze di Istanbul dedito ad una wave dai toni soft per basso, elettroniche e voci femminili. Nei sei pezzi che compongono il mini-lp le due giovani amiche danno fondo a quello che sanno fare meglio: pezzi brevi senza essere stringati, melodici senza eccessiva ruffianeria, astratti senza perdere di vista l’efficacia delle strutture pop. In rete è possibile vedere il video di Herkes Evine da un fotogramma del quale è stata ricavata la copertina del disco. Le premesse per un full-lenght d’interesse ci sono tutte. Chi invece non riesce a stare con la mani in mano è Clay Ruby, in arte Burial Hex, uno dei nomi più apprezzati del vasto sottomondo noise-drone che ritorna con una folta schiera di nuove pubblicazioni. La prima è il 12” one-sided licenziato dalla nostrana Holidays. Hunger consta di due tracce omonime su di un unico lato vinilico in cui l’uomo del Wisconsin mette a fuoco una nuova incarnazione della sua poliedrica creatura. Alla consuete atmosfere astrali il nostro aggiunge ora un beat di cassa, mai udito prima, che proietta un’immagine da soundtrack da film horror anni ’70 à la Goblin. Spontaneo il parallelo con From The Grave di Umberto, disco di cui parlammo (bene) qualche mese or sono. Una nuova declinazione che trova un secondo sbocco anche nell’imminente 7 pollici per Release The Bats, The Tower, che vanta un groove se possibile ancora più accattivante. A breve anche un nuovissimo 12 pollici tirato in solo centoventi copie dall’italiana Urashima dal nome programmatico: From The Rites Of Lazarus. Già in circolazione invece l’lp Vedic Hymns, split con i sodali Knit Her, in cui campeggia l’eccellente Storm Clouds. Chiudiamo con una segnalazione tutta italiana. Dopo la pubblicazione di Capputtini'i LignueSatàn,l’ubiqua Shit Music For Shit People torna con un nuovo 7 pollici, ancora in trecento copie e confezionato in carta da parati serigrafata, ormai tratto distintivo della label. Questa volta è il turno dei Two Bit Dezperados, quartetto sardo-brasiliano con membri di Love Boat e Rippers, che rilascia quattro pezzi di fuzz-garage da toni ora pop (Devil In Me) ora vagamente psichedelici (O-Yes). L'artwork di Sylvie P (aka Guillaume dei Feeling Of Love) arricchisce con gusto questa succulenta uscita che farete bene a fare vostra. Stefano Pifferi, Andrea Napoli 83 Re-Boot #8 Full immersion di primo autunno sotto una pioggia fitta di demo, autoproduzioni e affini. Il Belpaese del rock emergente - almeno lui - non conosce recessione. C'è del marcio nella cosiddetta Padania, e i Maciste ci sguazzano come un ranocchio nello stagno. E' un quintetto "con bombetta", sorta di uniforme clownesca che sottolinea il piglio balzano d'una proposta che è invece tanto lucida quanto proteiforme: immaginatevi un Tom Waits colto dalla taranta balcanica e da una febbre garage-weird, tipo Jon Spencer frastornato Kusturica, con tutto un afrore old-psych a scaldare la zuppa gitana. Debutto omonimo (Devil's Ruin Records, 7.2/10) che ci racconta il teatrino - perché di teatrino si tratta - con dovizia di particolari, con foga entusiasta, ghignante e liberatoria. Passiamo quindi ai siciliani Old Polaroid, che tornano a due anni dall'ep Man Who Hate Women di cui apprezzammo la centrifuga post-pop balzana e appassionata, torbida e visionaria. Stavolta ci provano con un album tutto intero, Why Do The Ducks Fly In Flocks? 84 Un mese di ascolti emergenti italiani (Moi Mercenaire Dischi, 7.3/10), senza affatto accusare il fiato corto della lunga distanza. Per (F)rancesco Cipriano e compagni (tra cui Enzo Cimino, già Mariposa) eclettismo è la parola d'ordine: canzoni pescate dal baule pieno di tutto alla rinfusa, fragranze stagionate e stordenti, ritratti audaci, ammennicoli esotici, specchi ossidati e foto sbiadite (polaroid, magari) restituite a vita nuova e contemporanea. Ne esce misticanza psych e languori bucolico-melò, una traiettoria storta e dolciastra attraverso le nebbioline dell'irrequietezza. Una promessa mantenuta. I Motel 20099 sono quattro ragazzi da Sesto San Giovanni, due chitarre, il basso, la batteria. Formazione standard per un rock ruspante che rimanda più o meno direttamente allo sguardo verso l'America degli eighties pre-Ligabue. Nel loro Romanticismo dalla periferia per giovani teppisti (autoprodotto, 6.0/10) per fortuna non ci sono machismi da indiani padani e steverogersband, semmai un estro paisley un po' ingenuo e inevitabilmente "italianizzato", appena contagiato da vibrioni cantautorali come dei nipotini ad altezza di marciapiede di Massimo Bubola. Un plauso all'entusiasmo, se non altro. Tutt'altra roba, ovvero un'urgenza wave di riporto nelle cinque tracce di EP (Anomolo Records, 6.8/10), questo il laconico titolo con cui debuttano i Drama Emperor da Macerata. Elettronica ed elettricità affilate con la pietra abrasiva dell'allarme, le voci distorte come il guazzabuglio emotivo che sovrintende la loro disamina del contemporaneo. Un po' Joy Division, un pizzico di P.I.L. e Bauhaus, particelle Primal Scream più un estro febbrile da cuginetti del Teatro degli orrori. Con siffatte coordinate non è semplice proporre soluzioni inedite, ma intensità e convinzione compensano più che abbastanza. Sembra di ascoltare il Bennato di Sono solo canzonette e invece si tratta di un giovane musicista siciliano con la fissa del tono sbracato. L'Erba cattiva (Barbienojarecords, 6.9/10) è un po' un esordio ufficiale per Carmelo Amenta – due Ep alle spalle – e raccoglie un campionario di suoni in bilico tra canzone d'autore, blues e rock. Poche idee ma buone, condite da una leggerezza negli arrangiamenti che stupisce per sobrietà ed efficacia. Quanto emerge da una Non è niente cantata sottovoce o dal Bennato di cui si diceva in apertura postato nel divertissement in levare di A Volte, dal Tom Waits notturno e ubriaco di Hombre o dalle inquietudini caveiane tra chitarre elettriche e piano di Strade. Melodia e qualche spigolo, in free download sul MySpace dell'artista. Altra declinazione piuttosto riuscita tra rock, pop e canzone seria – questa volta si cita il Battisti più soul, oltre alla scuola melodico-cantautorale nostrana degli anni Settanta – è quella che si ascolta in Bugie per Asini (Theatralia, 6.9/10) di Bimbo, al secolo, Simone Soldani più tutta una serie di musicisti prestati al synth, alla chitarra elettrica, al rhodes e alla batteria. Tra rimandi Coldplay su ballad in stile America anni Cinquanta (Non ho voglia di fare niente) e falsi plagi del Lucio nazionale (una Mille parole che gioca con l' Anna del cantautore di Poggio Bustone, una Figlio epidurale che ricorda vagamente Il tempo di morire) si collezionano dieci brani godibilissimi, il cui vero valore aggiunto sembra essere la produzione (Simone Soldani,Valerio Fantozzi, Ivan Rossi). Ci troviamo in Friuli dove il progetto the Storylines nasce quattro anni fa, a Piancavallo, nelle montagne che guar- dano la città di Pordenone. Il loro June Leaves (Megaphone, 6.8/10) è un disco lieve fatto di atmosfere soffuse e delicate, che riesce a coniugare elettronica e analogica, con guizzi folk e pop, il tutto per un cantautorato dal sapore piuttosto homemade, che ci ha ricordato in più di un momento le prime cose di Beck. Suoni molto umanizzati i loro, al di là dei mezzi usati da parte del gruppo, per un disco che ci ha colpito per l'espressività e una certa compiutezza estetica. Li aspettiamo alla prossima uscita allora. E rimaniamo ancora nella stessa regione questo mese, con la cantautrice franco-friulana Priska e il suo secondo lavoro Eppure ti vedo ancora (Nota, 7.1/10). Album tra italiano, francese e furlan, per musica di ispirazione classica e chamber pop, che fa della malinconia dark il suo punto forte. Dilatazione e atmosfere, rarefazione e raffinatezza caratterizzano in positivo quest’album, dove l’espressività è sempre contenuta ma viene comunque fuori con un bel piglio. Un’uscita che ne conferma il talento. Brava. Fabrizio Zampighi, Teresa Greco, Stefano Solventi 85 China underground#0 fare da tramite. Una traiettoria da aggiustare e da approfondire nel tempo, che però è doveroso percorrere per cominciare a osservare più da vicino un popolo di cui dovremo abituarci a sentiLa Cina è vicina? Sì, no, per certi versi. re parlare sempre più spesso nei prosTitoli di giornali, servizi televisivi. Miracoli simi anni. Un modo per familiarizzare economici e prodotti di qualità scadente, con uno spirito artistico che più ci vivi dittatura e violazione dei diritti umani, il a contatto e più sembra uguale e difascino del dragone. Poi pensi un attimo verso dal nostro. Certo, per fare musica e capisci che queste immagini-stereotipi si usano sempre chitarre, bassi e batpotrebbero anche non esaurire la com- terie, e le emozioni sono quelle comuni plessità di un paese. Ti capita di viverci a tutti gli uomini, ma nell’attitudine si per qualche anno e ti rendi conto che muove qualcosa di diverso. È per quela Cina, come qualunque altro luogo, è sto che intraprendiamo questo viaggio, più eterogenea di come te la presen- 11 puntate con cui iniziare a osservare tano i media. Vedi una tradizione forte la realtà artistica indipendente cinese, e una modernità in via di costruzione, con divagazioni artistico-cinematografiil che significa che c’è un modo tutto che ma con la musica sempre al cencinese di vivere la contemporaneità. Al tro, nelle sue diverse forme e nei suoi di là dell’ideologia e dello sviluppo eco- soggetti: chi la fa, chi la ascolta e chi la nomico. E poi c’è la cultura cinese, di produce. Si parte oggi, con una prima cui non sappiamo nulla perché da noi puntata sulle indie-labeltargate Cina. non fa notizia, su cui molti cinesi sono Mi sono chiesto cosa avrei potudisposti a investire le proprie passioni e la propria vita al prezzo di rifiutare vie to scrivere pur essendomi perso una puntata della storia. E che puntata: più facili di sopravvivenza. China Underground non sarà una Tian’an Men. Cina: musica, cinema e arte. Non rubrica che vuole spiegare la musica e l’arte cinese, ma un primo tentativo di è solo una questione di tecnica e taComincia la collaborazione di SA con il sito China Files. Comincia l'esplorazione del mercato indie potenzialmente più grande del mondo... 86 lento, c’è qualcosa che scorre dentro mentre si imbraccia uno strumento e si versano parole su un microfono o su una pellicola. C’è lo spirito di un’epoca e l’identità di un posto. Non è una buona premessa per uno che non può certo dire di essere nato nel posto e nel decennio giusto, per uno che Woodstock, Hendrix, l’hard rock, il punk, il dark e via dicendo li ha potuti solo studiare. O al massimo immaginare e rimodellare. Sì, vabbè nel ’94 c’erano i Nirvana ma erano così americani che lo spirito grunge lo abbiamo potuto solo imitare. Gianni Maroccolo in un’intervista di qualche anno fa rifletteva sul significato del rock. Lo immaginava come un’indole e come un modo di rapportarsi alla vita, ancor prima che come una forma musicale. Per la cultura alternativa cinese è lo stesso: in Cina la musica rock nasce come musica underground che incarna un certo spirito, un movimento d’animo che iniziò a covare nei giovani in un momento epocale della storia cinese. Era la Cina degli anni ottanta e del post-maoismo, quella che rinasceva sulle rovine lasciate dalla Rivoluzione Culturale. La Cina aperta all’esterno e al mercato; povera ma che voleva diventare ricca; convinta di sé, ma che guardava, imitava e sognava un Occidente-mito. Individualismo, libertà, malessere generazionale. Ma anche il non avere nulla. Nei campus universitari si viveva con poco e l’individualismo era anche la risposta di chi era abbandonato a un futuro difficile da immaginare, fra tante parole e ideali che arrivavano da fuori senza però essere davvero riconoscibili per una massa di giovani emarginata dai cambiamenti sociali. Nuovi colori nei vestiti, arte e utopia giovanile per sperimentare. Capelli lunghi, sigarette e birre consumate senza sosta ai margini dell’Università di Pechino per sfogare. E, nonostante tutto, valori sociali e morali duri a morire. Le proteste di Tian’an Men furono un po’ un simbolo, o un punto di rottura di tutto questo, e la musica che uscì fuori negli anni che le precedettero fu lo specchio fedele di un modo di essere e di una speranza, prima di ogni altra cosa. Pechino, 1986. Un ragazzo di 25 anni sale sul palco di un festival musicale e intona le note di Nothing To My Name. Canta un ideale lontano anni luce dai pezzi dell’epoca. Allude a un mondo avido di cambiamenti, rifiuta l’omologazione, parla di sé aprendosi a sentimenti scomodi per il regime. Oggi non so quanti ragazzi cinesi che amano la musica alternativa mi direbbero che ascoltano e che si emozionano con Nothing To My name di Cui Jian. Ma è un pezzo che è storia, è la fedele fotografia di un’epoca. E anche se non parlava di democrazia o libertà di stampa è divenuto una delle colonne sonore degli studenti che occuparono Piazza Tian’an Men prima della repressione. Perché incarnava un’indole e la cantava a squarciagola affinché potesse essere condivisa. Era l’alba del rock cinese. Tutti lo sanno e per questo rispettano Cui Jian e il valore di quel pezzo. Pechino, 1993. E’ l’anno di Beijing Bastards, il primo film indipendente cinese. Iniziato senza una sceneggiatura vera. Per girarlo - senza soldi - ci sono voluti 12 mesi e la sua uscita è valsa la censura e l’allontanamento dall’industria cinematografica del regista Zhang Yuan. Beijing Bastards è la storia del proprietario di un locale del circuito undergroundpechinese alla ricerca della ragazza che ha messo incinta ed è scomparsa. E’ anche la storia di un gruppo che non riesce ad esibirsi davanti a un pubblico. E quella di uno scrittore che prova a vendere le sue creazioni e quella di un pittore a caccia di un truffatore. Tra gli attori, ancora lui, Cui Jian, nei panni del leader della band. I protagonisti si sovrappongono in ricerche che divengono un vagabondaggio senza meta. Questa volta sono passati 4 anni da Tian’an Men e i sogni sono già seppelliti sotto una coltre di silenzio. In quegli anni la Cina pianificava la sua riabilitazione internazionale, dopo che le immagini di un uomo disarmato davanti ad una fila di carri armati avevano fatto il giro del mondo. Preparava i suoi PIL a doppia cifra, ma ci sarebbe voluto un decennio per avere di nuovo il rispetto dell’Occidente e non con la democrazia ma con i soldi. Era una Cina diversa da quella cantata da Cui Jian, o forse no, era la stessa Cina, solo più smarrita, dopo aver ripudiato il governo e la fine di un sogno forse non compreso neanche dagli stessi studenti. Smarrita per i cambiamenti che si intravedevano all’orizzonte: giovani marginalizzati dall’ingresso nel mercato, come quelli che prendono forma nelle prime pellicole di Jia Zhangke, una delle voci più autorevoli del cinema cinese di fine anni Novanta e dei nostri anni Zero. Intorno prendevano forma i primi progetti rock. Emergeva una fedeltà alle attitudini anglo-americane, che si incontrava con la tradizione folk del Nord-ovest cinese, di cui veniva ripreso lo stile del cantato urlato e dissonante. Dai Black Panther mosse i primi passi Dou Wei, oggi capofila della musica cinese d’avanguardia e sperimentale; nei Mayday compariva He Yong, chitarrista considerato tra i padri del punk cinese; le Cobra tessevano una formula new-wave al femminile, mentre i Tang Dynasty preparavano A Dream Returns To Tang Dynasty, un album destinato a divenire una pietra miliare dell’hard-rock cinese. Xindu, 2010. La seconda edizione dello Zebra Music Festival apre i battenti. Nella prima delle tre giornate di musica e intrattenimento accorrono 50.000 persone. Musica pop e alternativa, persino alcune vecchie glorie degli anni Novanta. Tre palchi, di cui il principale non ha nulla da invidiare ai migliori mega-eventi d’oltreoceano. Grandi sponsor e grandi ingranaggi commerciali; l’area che ospita e divulga le iniziative di alcune ONG locali stride con il megaschermo del palco principale, che nei momenti di pausa manda messaggi pubblicitari alternati a video stile MTV. Una macchina organizzativa lontana anni luce dai primi festival che mossero i passi alla fine degli anni novanta, guidati dal MIDI festival di Pechino. Gli anni Novanta sono stati una transizione importante per la musica cinese: la circolazione dei primi cd, l’apertura di pub e l’esibizione live nella capitale hanno aiutato lo sviluppo di una scena, mentre la ricezione di nuove forme musicali, ispirate al metal, al punk e al grunge si sono riflesse nell’ampliamento della geografia musicale oltre Pechino. Nel 1993 apriva i battenti la MIDI School, con un corso di tre anni per aspiranti musicisti rock. Il ricambio generazionale era assicurato e una maggiore competenza tecnica diventava negli anni 87 sempre più alla portata di tutti. La seconda metà del decennio fu accompagnata dall’arrivo del new metal, del rap e del post-punk. La Cina è cambiata. C’è da chiedersi se con l’aumento della band e la crescita dell’ambiente qualcosa di originario sia andato perdendosi in termini di autenticità per acquisire però qualcos’altro. I progetti effimeri sono aumentati, ma ugualmente sono cresciuti anche i contenuti dei prodotti di valore. Oggi la Cina è meno naive e se l’indole degli anni Ottanta è oggi ormai difficilmente riconoscibile, c’è maggiore consapevolezza della propria posizione e della propria funzione artistica. Mentre la musica alternativa ci ha guadagnato in nuovi suoni, sperimentazioni e persino tournée all’estero viste come forme di apprendistato. La Cina è cambiata. Si muove in modo disordinato attorno a un’industria discografica tutt’altro che tangibile, a un pubblico ancora molto ristretto e a limiti più o meno sensibili per la creatività artistica. L’internazionalizzazione è divenuta una realtà del nuovo millennio anche per la musica: alcune bandhanno firmato contratti con label occidentali, internet è divenuto il primo veicolo di promozione, mentre una serie di addetti ai lavori è sbarcata in Cina, chi per investire e chi per contribuire alla nascita della musica alternativa cinese, con nuovi locali, con etichette indipendenti, con attività di talent-scout. Nuove scene musicali hanno preso piede, in grado di mettere insieme competenza tecniche, forme musicali contaminate e sensibilità cantautoriale. Su tutte il neo-folk cinese (Xin minyao), ma anche progetti singoli dotati di ben altro spessore e personalità rispetto alle primissima scena musicale metal e punk, improntata ancora all’imitazione di modelli stranieri. Le barriere del regime esistono ancora oggi, ma somigliano al contorno di 88 uno spazio che al suo interno lascia una libertà di movimento sufficiente a creare un fermento, in cui la voglia di chi fa la musica, chi la produce e chi crea spazi per ospitarla convergono per creare una scena che ha in Pechino il suo epicentro naturale. Per chi è lontano come noi c’è tanto da capire e osservare. C’è da riconoscere un percorso a tratti anche snaturato. Oggi gli artisti musicali sono mille miglia lontano dall’indole del primo rock cinese; ma in pochi ti diranno di non apprezzare Cui Jian, se non altro per quello che ha significato. C’è un filo che parte dalla cultura post-maoista e arriva fino ad oggi, passando per Tian’an Men e per lo sviluppo di una super potenza economica. Di fianco, il mercato globale e l’Occidente maestro e raffronto costante, con le sue forme musicali e le sue competenze più specializzate sul piano strettamente tecnico. C’è anche chi dice che la musica non ha frontiere e permette incontri tra persone che parlano lingue diverse e distanti. Basta imbracciare uno strumento e iniziare a suonare davanti al pubblico di studenti fuori sede e di giovani cinesi all’interno di un piccolo locale di un qualsiasi hutong di Pechino per rendersene conto. * China Files [www.china-files. com] è un’agenzia di stampa composta da giornalisti, videomaker, fotoreporter e sinologi di diverse nazionalità. Sfruttando il valore aggiunto della presenza sul territorio cinese, si propone di ascoltare, osservare e raccontare la Cina contemporanea nella sua complessità, troppo spesso ridotta a interpretazioni in bianco e nero. Mauro Crocenzi China underground#1 chiarezza legale. Secondo: la confusione di una moltitudine di percorsi individuali uniti dall’amore per la musica ma sostanzialmente privi di coordinamento e pianificazione. Come “In Cina non c’è un mercato di mu- dire: non esiste un mercato indie, ma sica indipendente”. È questo un ritor- c’è un sacco di musica alternativa, che nello che ci si ritrova a sentire spesso piaccia o meno, di qualità o prodotta nei circuiti musicali dell’underground in casa, ma pur sempre indipendente. pechinese. È un problema di band Questa musica esce dalle sale prove, di qualità, in una scena musicale an- arriva nei locali, sui palchi dei festival cora molto giovane. E di pubblico, e anche su compact disc e sui (poin una società che ha ancora altre chissimi) siti o riviste specializzati; priorità rispetto alla musica alterna- sempre grazie a individui che spesso tiva. Ma anche di acquisto: pirateria senza alcuna esperienza ma con una e produzione a basso costo sono gran voglia di fare mandano avanti due problemi storici dello sviluppo una macchina, in equilibrio tra pasdi un’industria professionale made in sione e carenze di mezzi, con la priChina. Per l’esistenza di un mercato ma a compensare la seconda. Non è un caso che qui in Cina ci musicale indipendente non basta un numero di band o di festival musicali sia una consapevolezza molto minocostantemente in crescita; un merca- re - rispetto alla nostra Italia - della to gira intorno al coordinamento di distinzione tra mercato delle major e diversi soggetti fino a legare chi fa la mercato indie. Perché qui di distinziomusica a chi la ascolta. Dalla produ- ne ne fanno un’altra: tra industria dizione alla promozione, dal negozian- scografica (con un mercato esistente, grandi somme a disposizione, grande te all’acquirente. Riflettere sull’argomento con gli utenza e poca creatività) e musica addetti ai lavori cinesi spinge a due underground (senza un vero mercaconclusioni su tutte. Primo: la confu- to, con pochi finanziamenti e molta sione di un ambiente in cui manca- creatività). In mezzo, c’è qualcosa di no figure professionali specializzate, diverso, con una forma ancora apmezzi economici, distinzioni nette e prossimativa ma che ci ricorda la Modern Sky, Pilot Records, 13 Moth, Areadeath, Miniless. Le indie label tra auto-organizzazione, localismo e slanci industriali... Il mercato della musica indipendente in Cina scena delle indie-label americane. Sarà per invidia o per ignoranza, sarà per quel vecchio e irrisolvibile conflitto tra il vendersi e la fedeltà alla linea, ma negli ambienti maggiormente alternativi non si fa che un gran parlare di nomi come la Modern Sky Records, la regina delle indie-label targate Cina. Fondata nel 1997, la Modern Sky ha fatto da madrina a nomi molto caldi della scena nazionale alternativa, come Re-TROS, New Pants e PK-14, con un catalogo che oggi si avvicina alle 100 pubblicazioni dall’inizio delle attività. Emerso come nucleo originario, oggi quello musicale è solo uno dei tanti settori in cui opera l’impresa madre, la Modern Sky Entertainment, con specializzazioni che vanno, tra l’altro, dal campo letterario a quello cinematografico e al design. Musicalmente parlando, esiste persino una divisione dell’azienda, la M2, che si impegna nella gestione dell’immagine delle band. I festival patrocinati dalla Modern Sky sono tra i più popolari in Cina. Negli ultimi anni gli appuntamenti live del Modern Sky Festival e dello Strawberry Music Festival sono riusciti a guadagnarsi la partecipazione di artisti di calibro internazionale, 89 come Xiu Xiu e International Noise Conspiracy. La sezione discografica della Modern Sky Entertainment è radicata sul territorio, con tre sottoetichette specializzate divise per generi (rock-underground, world music ed elettronica) e agganci sempre più saldi con l’occidente, si veda la partnership con la multinazionale EMI e la licenza per la distribuzione di gruppi importanti come Radiohead, Mogwai, Bauhaus ed Echo & the Bunnymen. All’interno del panorama discografico indie esistono anche altri modelli di successo, come quello della Pilot Records, attiva nell’organizzazione di concerti di caratura internazionale (Peaches e The Secret Machines, giusto per citare i due eventi più recenti) e produttrice di gruppi cinesi con un buon seguito (AK-47 e Ziyo). O come la 13 Month, fortemente legata alla promozione della cultura live in Cina e allo sviluppo della scena folk-rock cinese. È con quest’ultima che incide Xie Tianxiao, la figura forse più rappresentativa del rock cinese dell’ultimo decennio. S celte di vita e di passione Realtà ben avviate come quella della Modern Sky Records, della Pilot Records e della 13 Month restano però una stretta minoranza nella scena musicale alternativa cinese, che è tuttora molto legata all’iniziativa dei singoli e frammentata in un mosaico di collettivi poco allineati all’industria musicale. In questo quadro, Pechino mantiene tradizionalmente il ruolo di centro gravitazionale, cuore culturale di una Cina divisa tra l’affarismo delle città costiere e le metropoli industriali nell’entroterra. La storia di Wang Xiao è a suo modo molto lineare. Il punto di partenza della sua esperienza è stato un sito internet, aperto nel 1997, quando il web cinese ancora non era il mezzo di supporto principale per la promozione. E da una passione per 90 l’heavy metal condivisa in una scena musicale allora ristrettissima, dove i principali soggetti si conoscevano tutti. Solo due anni dopo, Wang Xiao era già coinvolto nella pubblicazione di un paio di riviste specializzate. Poi per lui l’arrivo a Pechino e un progetto discografico che prende piede tra il 2003 e il 2004 con la nascita dell’etichetta metal Areadeath. Per risparmiare si cercano tutti gli espedienti possibili e così promozione gratuita e richieste morigerate da parte dei gruppi che entrano nel progetto permettono di dare respiro all’investimento iniziale. La strategia è quella di produrre (a basso costo) in Cina e rivendere all’estero, in un mercato già sviluppato. L’esperienza della Miniless ricorda invece la storia di una vera e propria etichetta di culto. Fondata nel 2006 da Yang Chang, Han Han e Li Xiaoliang, la label è tra le poche concentrate sulla scena musicale del Sud-Est della Cina, Shanghai e dintorni. Quando gli chiediamo di “promozione” e di “obiettivi”, Han Han storce il naso e preferisce parlare di “diffusione” e “percorso”. Per lui l’esigenza principale non è la vendita o l’affermazione della Miniless nel mercato musicale in quanto azienda. Le cinque persone che collaborano oggi con l’etichetta hanno tutte un altro lavoro e l’impegno che spendono nella musica è quello di “scoprire nuove realtà di valore per dare loro una voce”. Una piattaforma dove ognuno mette quello che ha, al servizio della creazione artistica musicale. Del resto Han Han viene da Hefei, uno dei tantissimi centri urbani cinesi con una popolazione di milioni di abitanti ma completamente priva di qualsiasi spessore culturale. La sua idea di etichetta discografica parte da un’esperienza di condivisione. Tra persone legate a progetti musicali affini e unite nel volere che questo suono sia cinese, perché troppi gruppi della scena cinese degli anni ’80-’90 sono finiti su un palco solo per le loro qualità di poser, per essere delle mere imitazioni di rockstar straniere. Le band che operano nella Miniless variano nello stile, dal noise allo shoegaze, dal post-rock all’elettronica, ma condividono lo stesso approccio alla musica, basato su un certo tasso di preparazione tecnica e su un atteggiamento live teso e nervoso (piuttosto che sfrontato, come era invece per i colleghi dei decenni precedenti). Ci sono poi esperienze ancora più ristrette, veri e propri collettivi autonomi completamente staccati dal mercato. È il caso della Nojiji, etichetta attiva dal 2004 in uno dei tanti distretti dell’immensa periferia pechinese, un riferimento attivo per i musicisti “delocalizzati” di una metropoli delle dimensioni di Pechino. Il collettivo prescinde da ogni considerazione economico-commerciale e si basa sull’auto-finanziamento, a supporto di un’attività creativa diversificata tra letteratura, musica, cinema, eventi. Fulcro del progetto è un concetto di cultura underground che muove dalla cultura beat americana fino a congiungersi con la filosofia buddhista cinese. Lo scenario abituale è quello dello “Small Buddha’s Saying Club”, spazio dove convergono le iniziative principali, ma il nome dell’etichetta ricorre anche in occasione di performance in spazi alternativi e di esibizioni estemporanee, il tutto all’insegna di un sound noise-sperimentale sporcato da segnali elettronici. La sfida della produzione di musica underground cinese Progetti come quelli della Areadeath, della Miniless e della Nojiji non mirano ad investimenti di successo, ma sono dettati da ideali che devono far fronte a carenze basilari, su tut- te quella di investimenti e di figure tecnico-professionali. La mancanza di soldi ostacola lo sviluppo di una scena musicale di valore e a risentirne è soprattutto la qualità del suono, limitata dalla sostanziale assenza di figure non solo provviste di competenze tecniche e di esperienza, ma anche in grado di consigliare le band sul suono da adottare. Un’altra sfida con cui confrontarsi è quella della vita breve delle band. Un processo tipo è quello che vede sciogliersi un gruppo subito dopo il periodo universitario per far fronte alla realtà lavorativa, che può portare un ragazzo anche a migliaia di chilometri di distanza dalla città di origine. La mancanza di continuità nei progetti può limitare la volontà di un produttore di investire sulla musica cinese ed indirizzarlo verso il mercato straniero. Tutto ciò costringe un’etichetta a vivere in continua trasformazione. Spesso persino quello delle tournée diviene un impegno organizzativo troppo complesso in un paese come la Cina, dove, oltre alla mancanza di locali in cui esibirsi, gli spostamenti risultano assai difficoltosi per via delle grandi distanze. A questi problemi si aggiungono quelli con cui l’industria discografica è costretta a confrontarsi su scala mondiale: crisi del mercato, download, Internet. La maggioranza delle label underground è stata fondata nell’ultimo decennio da giovani cinesi cresciuti nell’era di Internet. Il che porta ad una comprensione generalizzata del meccanismo dello sharing musicale. La vendita online è allora il modo più comune per fronteggiare la crisi, eliminando la maggior parte dei costi, mentre si tende a diversificare le attività e ridurre la produzione di cd. Ma anche in questo caso il mercato cinese è molto particolare. Il costo di un cd si aggira mediamente sui 3-4 euro a copia, essendo registrato a costi bassissimi e con una produzione scadente. L’andamento dei prezzi si è stabilizzato negli anni ’80 con l’arrivo di materiale discografico di scarto uscito dai circuiti internazionali e reintrodotto a prezzi molto bassi in quello cinese. Da allora fino ai giorni nostri gran parte della produzione musicale occidentale è rimasta su prezzi bassissimi per il diffondersi della pirateria. Il che oggi limita quei produttori cinesi che vorrebbero migliorare la qualità delle registrazioni nella musica indipendente, ma che si troverebbero a non operare più nei prezzi di mercato. Oltretutto il pubblico “alternativo” cinese per definizione non è orientato all’acquisto di cd: né di band straniere, estranee all’esperienza culturale cinese, né di quelle nazionali, ampiamente scaricabili dalla rete. Neppure le esibizioni live riescono ad invertire la tendenza, perché spesso le livehouse richiamano gente in cerca di un semplice svago e di nuovi trend sociali piuttosto che di buona musica. Ce ne sarebbe abbastanza per interrogarsi su come, nonostante tutto, le etichette indipendenti cinesi stiano sempre più aumentando. Per registrare in Cina basta poco, pochissimo: un registratore, un computer, un masterizzatore, un cd vergine. A prescindere dalla ricerca di registrazioni di qualità. In barba alle esigenze legali connesse con il copyright. Ma non si tratta solo di questo, c’è qualcosa che si muove nell’aria, come una coscienza di un processo ormai avviato e inarrestabile. Qualcosa di molto vicino ad una scena musicale in via di diversificazione e di definizione in cui è possibile riconoscersi, tanto per chi la musica la propone, quanto per chi quella musica la ascolta. sinologi di diverse nazionalità. Sfruttando il valore aggiunto della presenza sul territorio cinese, si propone di ascoltare, osservare e raccontare la Cina contemporanea nella sua complessità, troppo spesso ridotta a interpretazioni in bianco e nero. Mauro Crocenzi, Lucia Di Carlo, Desiree Marianini * China Files [www.china-files.com] è un’agenzia di stampa composta da giornalisti, videomaker, fotoreporter e 91 Rearview Mirror —speciale Orange Juice Londra, 20 febbraio 2005: il quarantaseienne Edwyn Collins viene ricoverato nel reparto di terapia intensiva del Royal Free Hospital per la seconda di due emorragie cerebrali susseguitesi nel corso di pochi giorni; un evento che lo lascia semiparalizzato e con una lunga e lenta riabilitazione neurologica da affrontare. Era allora arduo pronosticare un lieto fine a una vicenda così tragica e devastante, eppure la scommessa con il destino è stata in qualche modo vinta. “Sto lavorando di nuovo e scrivendo canzoni, lentamente” diceva già un po’ di tempo dopo. Ecco allora un album, Home Again, già registrato allora e poi uscito nel 2007, seguito l’anno dopo da un’effimera e celebrativa reunion della sua band, fino al ritorno vero e proprio con Losing Sleep (omaggio a un prime mover da parte di estimatori come Roddy Frame, Johnny Marr e Franz Ferdinand), cui si accompagna la pubblicazione su Domino di un ricchissimo cofanetto retrospettivo dei suoi Orange Juice, Coals To Newcastle (6 CD e un DVD di cui potete leggere sul sito <http:// www.sentireascoltare.com/recensione/7720/orangejuice-coals-to-newcastle.html>). Non c’è dunque migliore occasione per ripercorrere la storia del gruppo madre, ancor oggi misconosciuto capostipite dell’indie pop, scozzese e non solo, di cui in seno alla Postcard Records ha decretato la nascita. S tar t Alieni in top ten Se è indie, perché non deve essere anche pop? La parabola creativa degli scozzesi, prime mover pop soul in pieno post-punk, tra anarchia e tentazioni top ten. Una retrospettiva ne celebra le gesta. 92 Testo: Teresa Greco con contributi di Antonio Puglia again ! Gli Orange Juice (Edwyn Collins, David McClymont, James Kirk e Steven Daly nel nucleo originario) provenivano da Bearsden, un quartiere borghese della periferia di Glasgow e all’alba degli Ottanta erano già una novità pressoché assoluta nella convulsa scena post-punk. Pur con un recentissimo passato più punk oriented sia pur sui generis (erano nati nel 1976 come Nu-Sonics), si erano infatti formati alla scuola dei Velvet Underground,dei Byrds, della psichedelia pop dei ’60, del soul di Stax e Motown, della New York di Television e Talking Heads, della disco e del funk. La novità consisteva anche e soprattutto nel rifiuto della degenerazione punk nel machismo e dell’imperizia tecnica, ponendosene in netta antitesi fin dal nome scelto, che sapeva di autoironia e colore psichedelico. “Nessuno di noi beveva alcool all’epoca… sembrava perfetto, perché il succo d’arancia era ciò che bevevamo durante le prove” ricordava Collins. La sua voce particolare e calda, debitrice di Pete Shelley, Vic Godard nonché del maestri di stile David Bowie e Brian Eno rompeva totalmente gli schemi della ribellione e della militanza post-punk, con ironia, goiosità e un sorprendente inedito romanticismo; la stessa immagine del gruppo richiamava il loro ibrido di sixties e America (giacche di pelle scamosciata, camicie a scacchi Creedence, t shirt warholiane). Come sottolinea Simon Reynolds nel suo Post Punk (titolo originale? Rip It Up And Start Again, ovviamente), il chitarrismo che di lì a poco imperverserà grazie anche ai cugini da Edimburgo Josef K. e i concittadini Aztec Camera parte da qui; l’essenza del suono era infatti la seicorde ritmica, suonata in tempo doppio rispetto alla batteria, sul modello degli ultimi VU e degli Chic, altra grande influenza. Come ricorda il batterista Daly, “la nostra idea di fondere Chic e Velvet suona molto audace sulla carta, ma se si ascolta Live 69 la chitarra in doppio tempo di “Rock and Roll” non è molto lontana da quella di Nile Rodgers negli Chic, molto netta e secca”. Fondamentale per la crescita e il passaggio da Nu-Sonics a Orange Juice fu l’incontro nel 1978 con lo scafato sia pur diciannovenne Alan Horne, singolare appassionato di musica pre-punk (dal Northern Soul al rock psichedelico), un amore condiviso con la band che dal canto suo si lascia influenzare volentieri. Nasceva così la Postcard Records (gestita direttamente da Horne, anche manager dei gruppi) proprio con la pubblicazione nella primavera del 1980 del primo singolo in arancio (cofinanziato da Collins, Horne e McClymont), Falling and Laughing: puro jingle jangle, con un basso pulsante e un oscuro sentore velvetiano. A differenza dei colleghi contemporanei, Horne puntava però a un mercato più vasto rispetto al circuito indipendente, attraverso la distribuzione, la ricerca dell’appoggio della stampa musicale e i primi contatti con le major. Nella label arrivarono poi via via anche i citati Aztec Camera e Josef K. e gli australiani Go Betweens, idealmente vicini a quei suoni, creando una vera e propria identità locale sul modello idolatrato della Motown (lo slogan dell’etichetta era, non a caso, “The Sound Of Young Scotland”). Gli Orange Juice sfornavano così una serie di 45 (Blue Boy e il retro Love Sick, gioiellini funky e pop-soul adeguatamente riscaldati dal crooning sghembo di Collins; Simply Thrilled Honey, Poor Old Soul) che dominavano le classifiche indipendenti; Horne però continuava a nutrire ambizioni più ampie. Se è indie, perché non deve essere anche pop? La band così si apprestava a preparare un album (Onwards And Upwards) e un singolo (Wan Light) per la Postcard nel 1981 (mai usciti, vedranno la luce solo nel ’92 con il titolo Ostrich Churchyard), mentre nello stesso tempo si metteva alla ricerca di un contratto major, trovando infine la Polydor disponibile (con l’ideale benedizione di Horne, cui non restò che chiudere l’etichetta dopo il naufragio dell’esordio dei Josef K.). Non era più l’isola felice della label casalinga. Le cose non andarono infatti come sperato e l’album venne reinciso e ripulito nei suoni, uscendo con il titolo di You Can’t Hide Your 93 Love Forever (1982), incontrando modesta fortuna commerciale. Una versione clean del classico suono Postcard, che sapeva di già sentito rispetto alla musica di appena un paio di anni prima; un paradosso temporale. Sul mercato intanto cominciavano ad apparire alcuni epigoni, come gli inglesi Haircut One Hundred, dal suono e look sorprendentemente simile agli Orange del recente passato, sia pure un po’ più raffinati, e i Nostri erano messi nettamente - e ingiustamente - in secondo piano. A questo punto l’intuito pop di Collins ebbe la meglio: via dal gruppo James Kirk e Steven Daly (“gli elementi non professionali”) a favore di una formazione più stringata e snella: alla chitarra Malcolm Ross dei Josef K. e alla batteria Zeke Manyika, con cui si sarebbero realizzati i seguenti due album e tre singoli d’eccezione: L.O.V.E. Love (cover di Al Green), il funk di Rip It Up e il Philly sound di Flesh of My Flesh. Il gioiellino Rip It Up riuscì dove non si era arrivati prima: entrò infatti in top ten nella primavera del 1983. Uno spigoloso funk dance di matrice ottanta che sarebbe rimasto la loro maggiore hit, con un giro di basso di origine Roland 303 poi sinonimo di acid house e la solita chitarra Chic. Un hook di richiamo a Spiral Scratch dei Buzzcocks metteva poi bene in chiaro le loro radici (You know the scene it’s very humdrum /And my favourite song’s entitled Boredom, - Sai la scena è molto monotona, e la mia canzone preferita è Boredom – mentre seguiva un riff a due note che citava quello di Pete Shelley in quel pezzo). Perfetti alieni in top ten. Il pop (o New Pop che dir si voglia, reynoldsianamente) intanto sbancava in classifica anche oltreoceano, con una 94 versione piuttosto edulcorata rispetto alla prima eccellente ondata di Soft Cell, Associates e Human League (Duran Duran, Culture Club, Wham! e compagnia danzante). Pur spinto dall’omonimo singolo, Rip it Up (1983) ebbe però scarse fortune commerciali, mentre i rapporti tra la Polydor e gli OJ intanto si deteriorarono sempre più per le scarse vendite. Non bastasse,durante le registrazioni le tensioni interne sfociarono nell’uscita di Malcolm Ross (lo ritroveremo più tardi negli Aztec Camera) e David McClymont e la band si ridusse essenzialmente allo stesso Collins e al batterista Zeke Manyika, che registrarono l’EP Texas Fever (1984) così come l’ultimo album in studio, l’eponimo Orange Juice, il cui compatto blue-eyed soul apparve timidamente in classifica. La rescissione del contratto con la major all’inizio del 1985 segnò infine il capolinea. Singolarmente, il leader avrebbe conosciuto il vero successo a metà ’90 con il tormentone A Girl Like You, eccezione commerciale di una carriera solista più che dignitosa trascorsa sino ad oggi tra album di classe e una soddisfacente attività di producer. E di leggenda vivente, perché l’eredità artistica degli Orange Juice è stata di ispirazione per disparati artisti e movimenti, dagli Smiths ai Pastels, alla C86 e alla Creation, per non parlare della successiva Glasgow School (per citare una fortunata retrospettiva uscita nel 2005) dei vari Jesus & Mary Chain, Teenage Fanclub, Delgados, Belle And Sebastian, Franz Ferdinand. E la storia e la musica continuano. 95 (GI)Ant Steps #42 classic album rev Herbie Hancock Black Crowes Head Hunters (Columbia Records, Settembre 1973) Shake Your Money Maker (Universal, Settembre 1990) "No, non suono jazz. Suono musica nera". Parole e musica - la citazione è approssimativa - di Miles Davis. Chissà se ad Herbie Hancock frullarono tra le orecchie, assistendo all'attacco incrociato che la critica jazz riservò ad Head Hunters, album numero dodici a poco più di un decennio dall'esordio. E' probabile altresì che appena iniziarono a fioccare le royalty certi crucci siano evaporati come caligine mattutina: ci sono voluti quasi trenta anni affinché Come Away With Me di Norah Jones lo scalzasse dal piedistallo degli album jazz più venduti di sempre. Nel frattempo anche la critica aveva aggiustato il tiro, anche perché molto di quel che era accaduto individuava proprio in Head Hunters un capostipite, punto di riferimento e fonte d'ispirazione per hip-hopper d'ogni ordine e grado. Troppo facile però salire sul carro del vincitore. Meglio restare, per quanto possibile, al merito e all'epoca. Il pianista chicagoano usciva da un terzetto di album sperimentali che spostavano da par loro l'asticella della fusion (i notevoli Mwandishi, Crossings e - soprattutto Sextant). Tuttavia, dopo i fasti artistici e commerciali dei sixties, il mercato si era messo di traverso procurandogli non pochi grattacapi. Non per buttarla sul prosaico spiccio, ma la svolta di Head Hunters somiglia davvero ad una rivalsa nei confronti di chi lo calcolava ormai astruso, cervellotico, genio perso nel proprio formidabile labirinto. La metamorfosi investì in primis la band: della formazione precedente confermò il solo Bennie Maupin ai sax (più clarinetto e flauto), completando il quintetto con Paul Jackson al basso, un batterista (Harvey Mason) ed un percussionista iperversatile come Bill Summers (ecco a voi i futuri Headhunters). Per se stesso, il pianista si era apparecchiato un arsenale di piani elettrici e sintetizzatori. Ecco, dunque, mettiamo che il jazz - postulando Miles non esista. E che se c'è un obiettivo ce l'hai tutto intorno. Erano giorni caldi sul fronte del funk. Una rivoluzione 96 preparata a lungo e sancita da There's a Riot Goin' On di Sly And The Family Stone, ovvero l'abbattimento del muro tra la dimensione artistica e politica. Un incaricarsi della questione razziale senza sconti né vaselina. Un diverso porsi. Che investe tutti gli aspetti dell'espressione, visti come tanti anelli di un'unica catena, dall'acconciatura ai testi passando per il recupero delle radici sonore africane. Tenuto conto di questo, Head Hunters risponde ad un progetto preciso di concretizzazione del jazz. Il funk è un passaggio formale inevitabile e naturale. E' il codice della contemporaneità, ponte aereo verso i territori primordiali e ritorno all'urbanità selvaggia. Lo sguardo è metropolitano, il cuore impara battiti tribali. E il jazz? Il jazz è una, dieci, cento chiavi di accesso. Hancock ed i cacciatori di teste possono inventare uno spazio coerente e aperto, artificioso ed emblematico. Come dei buoni jazzisti trasfigurano tutto il portato black - contrasti, conflitti, rivalse, rivolte, consapevolezza... - in musica. Astraggono. Il risultato sono quattro tracce accattivanti e inesorabili: il funk è sostrato mercuriale (l'omaggio a Sly Stone di Sly) e sornione (la celeberrima Chamaleon) per invenzioni futuristiche e assolo incandescenti consumati tra fughe tribali e sospensioni robotiche. In Watermelon Man un motivetto carpito ai pigmei Ba-Benzelé spalanca una liquida meditazione soul-errebì come potrebbe un fantasma ridanciano Steely Dan. Infine quella Vein Melter che incede chimerica come uno stregone accigliato sulla strada silenziosa. Con la sua fruibilità disarmante, Head Hunters è un album che ha stabilito un prima e un dopo. Stefano Solventi "Cosa significa 'originale? Non mi va di sbattere tra loro due rottami recitano poesie e dire 'questa è una novità.' Noi suoniamo musica tradizionale. Musica etnica, insomma." Così Chris Robinson, cantante e frontman dei Black Crowes, metteva il punto a ogni malinteso in occasione dell'uscita del suo primo album. Chiarendo come la sua band non fosse una masticatrice di luoghi comuni come i farlocchi Guns n' Roses e men che meno l'ennesima mediocre imbucata al karaoke di Exile On Main Street. Non che il ragazzo (bianco che voleva la pelle nera) e il fratello chitarrista Rich Robinson (Keith Richards senza droga più Duane Allman senza megalomania) facessero mistero delle proprie fonti d'ispirazione, al contrario. Solo che nel 1990 erano figure piuttosto strane nel pieno dell'acid techno e dei Primal Scream che - traendo però spunto da una rielaborazione di Sympathy For The Devil - abbattevano la barriera tra discotecari e rokkettari. Sembravano, grunge escluso, dei reazionari col quel guardare l'arco '69-'72 allorché tali rivolgimenti copernicani erano in corso. Lo capimmo col distacco e la calma che, viceversa, il ruolo dei Corvi Neri era quello dei meravigliosi artigiani come non ne nascono (quasi) più, dei custodi competenti e abilissimi di una tradizione che sin da Elvis era di già un impuro crossover. Dove soul e country, blues e boogie si impastano e stratificano sino all'indistinguibile facendo peraltro il botto di vendite. Nondimeno, la gavetta era iniziata nell'84 e in quei sei anni c'è una chiave fondamentale di grandezza, quando oggi ascolti ragazzetti che passano dallo spremersi i foruncoli a incidere dischi. Impossibile imporsi con autorevolezza in quel contesto se privi delle adeguate conoscenze storiche e tecniche: hai voglia a scopiazzare Faces, (parecchio Rod Stewart, ma pure Steven Tyler nell'ugola di Chris: vedi sopra) e Led Zeppelin, ma stai tranquillo che Rick Rubin e George Drakoulias mica s'accorgono che esisti e mai Jimmy Page suonerà con te. Non resterai vent'anni sulla scena senza smanie da star; siccome badi al sodo invece che al soldo, puoi dirti orgoglioso di una discografia sostanzialmente im- peccabile. E che rinviene qui le proprie saled coordinate in una penna appuntita di melodie appicLontani da una ben gestita tendenza alla jam che giungerà, i sudisti infilano con Chuck Leavell alle tastiere un gioiello dietro l'altro: omaggi a Otis Redding con i mezzi del Dirigibile che scalano le "charts" (Hard To Handle) e autografi singoli perfetti (Jealous Again); dimostrazioni di un cuore romantico (Seeing Things, Sister Luck, l'altra hit She Talks To Angels) mentre ci si lancia a tutta nel rock 'n' roll (Thick N' Thin) assaporando le sfumature tra i due estremi (Twice As Hard, Struttin' Blues). Standard compositivo che rimpiangiamo e che, smerciato in tre milioni di copie, diede il via a una carriera forse al definitivo capolinea (ma ci avevano già provato e vanamente, i fratelli, a separarsi ). Classica al punto che potevamo raccontarvi della completezza di Southern Harmony And The Musical Companion o del policromo Amorica e il discorso sarebbe rimasto immutato. (Non) solo rock and roll, e ci piace. Da matti. Giancarlo Turra 97