Terrasonora - Si’ vo’ Ddio (Radici Music) Se Core e tamburo è stata più di una promessa, la seconda produzione di Terrasonora mostra che il gruppo dell’entroterra partenopeo (i musicisti sono originari di Afragòla, Acerra, Pomigliano d’Arco) sia fuori tanto dal cono d’ombra dei modelli dominanti nel folk revival campano, quanto distante dal neotradizionalismo tutto tammorre di chi celebra “raccolti che non ha mai portato a casa”, per dirla con l’antropologa Maryon McDonald (cfr. We are not French. Language, Culture and Identity in Brittany, 1989). Non è casuale che la celeberrima tammurriata vesuviana “Alli Uno”, unico brano di tradizione e cavallo di battaglia della storica NCCP, si proietti verso orizzonti rock. In ciò la band esplicita da un lato la sua volontà di rimarcare il rispetto per il mondo contadino, dall’altro, non volendo considerare la tradizione come peso morto, cerca una via di fuga da percorsi sonori già battuti. Per niente passatista, dunque, senza slogan sudisti o revanscisti, il folk d’autore di Terrasonora conserva quella matrice melodica combinata ad immediatezza esecutiva che aveva già colpito nel disco d’esodio. Tutto è mediato dall’esperienza maturata in questi anni. La mescolanza di voci (c’è un cambio d’organico rispetto all’album precedente con l’inserimento di una nuova vocalist), strumenti acustici ed elettrici (batteria, flauti, tamburi a cornice e a calice, basso elettrico, chitarra, bouzouki, chitarra battente, clarinetto, ciaramella, pianoforte, tastiere, scacciapensieri) trova corrispondenza nella fusione di ritmi della tradizione campana e forma canzone con nuances pop e rock. Con una poetica dialettale d’autore profonda, in virtù del contributo di Pasquale Ziccardi che affianca Gennaro Esposito nella stesura dei brani, i Terrasonora raccontano il proprio territorio, ma si proiettano in una dimensione più universale, come con “Statt’attiento”, dedicata ai sette operai della Thyssen-Krupp, che diventa lucido, rabbioso commento alle morti sul lavoro. Un suadente flauto di canna è lo strumento guida di “Si vo’ Ddio”, che su ritmo di tammuriata descrive una storia d’amore tramontato malamente. Nel ripercorrere i motivi che hanno condotto alla rottura, il protagonista si rivolge perfino a Dio. Nel finale il brano diventa “una sorta di processione per le vie del paese” – racconta Gennaro Esposito – “che vede intrecciarsi fede, preghiera e quotidiano, rappresentato dal gioco dei bimbi in strada”. Si mantiene sempre elevata la tensione emotiva nella splendida “Guardame”, che prova a raccontare il conflitto israeliano-palestinese con gli occhi di chi si trova a pagarne le conseguenze pur senza averne colpa. Una sinuosa ciaramella costruisce un adeguato clima sonoro, le inattese trame finali del pianoforte trovano perfetta sponda negli altri strumenti. Costruita su una mistura di versi ottonari tipici dei canti sul tamburo e un impianto ritmicoarmonico di tarantella è “Votta Votta”, mentre chitarre folk-pop si impongono nella solare “Bona Jurnata”, elogio del vivere intensamente le piccole cose del quotidiano. “Nunn'o ssaje” immagina un dolce dialogo tra una madre scomparsa e il proprio figlio. Di nuovo un cambio di passo con “'O Katanga” – sotto l’andatura un po’ scanzonata, ecco la descrizione amara e ironica di personaggi di cui è piena l’Italia, e che a parole si dicono capaci di risolvere tutti i problemi. Il disagio di chi non si identifica in una società che non rispetta la dignità dell’uomo è il tema di “Na parola 'e cchiù”. Lo strumentale “Angulanum”, dall’ipotesi etimologica dell’antico nome di Agnano, località dell’area nordoccidentale di Napoli, chiude il disco con il suo umore mediterraneo orientale portato da violino e lira pontiaca di Michele Signore. Come sempre, il disco è prodotto nell’elegante packaging cui ci ha abituato l’etichetta fiorentina. Ciro De Rosa