fortebraccio teatro I GIGANTI DELLA MONTAGNA di Luigi Pirandello adattamento e regia Roberto Latini RASSEGNA STAMPA 10 luglio 2014 Fantasmi pirandelliani di Massimo Marino Succedono bei paradossi nei festival italiani di teatro. Al festival Inequilibrio di Castiglioncello, per esempio. In questa rassegna laboratorio che si svolge nell’ottocentesco castello Pasquini, nei luoghi dove Diego Martelli ospitò i macchiaioli, tra progetti in divenire, “studi”, spettacoli che devono ancora maturare, visioni di danza un po’ algide, un po’ concettuali, all’improvviso irrompe il capolavoro. Anche qui si tratta, per ora di “materiali”: è uno spettacolo che forse non rivedremo più in questa forma. Ed è più che uno spettacolo, perché Roberto Latini - prendendo come testo e pretesto I giganti della montagna, l’ultimo dramma di Pirandello, e scavandolo con rara intensità e acume - ci regala un lavoro sulla vita, sull’apparenza, la paura, la rappresentazione di sé per proteggersi, per ritrarsi dal mondo o per sfidarlo. Lo fa, ereticamente, sulle orme di Leo de Berardinis, accreditandosi come vero erede del grande uomo di scena, perché ne recupera lo spirito, la luce l’ombra l’ascesi che cerca l’uomo attraverso il teatro, andando per maestria a rompere l’involucro della finzione. Lo spettacolo di Fortebraccio Teatro che abbiamo visto è quasi un incidente, o un ripiego. Doveva essere un duo con un’altra attrice fenomenale, Federica Fracassi, che però si è infortunata pochi giorni prima del debutto. E allora Latini decide di interpretare tutti i personaggi che intervengono nel primo atto, asciugandoli, portando il testo alla sua sempre più spiccata natura di attore zen più che minimale, dialogando con la musica e i suoni di Gianluca Misiti, veri e propri deuteragonisti, e con una scena sfumata dietro sipari trasparenti e resa mutevole da fondali cangianti che costituisce un vero e proprio altro filo per inoltrarsi nel labirinto. Nella villa di Cotrone Chi ricorda l’ultimo misterioso testo di Pirandello sa quanto il suono, nell’immaginazione dell’autore, fosse importante, con quell’inizio, in didascalia: “Dall’interno della villa si ode, accompagnato da strani strumenti, un canto balzante, che ora scoppia in strilli imprevisti e or s’abbandona in scivoli rischiosi, finché non si lascia attrarre quasi in un vortice, da cui tutt’a un tratto si strappa mettendosi a fuggire come un cavallo ombrato”. Siamo nella villa del mago Cotrone (la Crotone pitagorica è considerata uno dei riferimenti esoterici dell’autore): un luogo aperto e recintato, nel quale una compagnia di Scalognati si è ritratto dalla vita. Irromperanno, incuranti dei lampi finti con i quali gli abitanti vorrebbero intimorirli e respingerli, gli attori della compagnia di una “Contessa” che piange un poeta morto per lei che amava solo la sua arte, suicidatosi per l’impossibilità dell’amore. Sono in viaggio, i comici e la loro direttrice, languente su un carretto, verso una festa di nozze di Giganti per dare vita all’ultima opera dello sfortunato autore. Sappiamo che i Giganti non apprezzeranno e faranno a brani l’artista. Con la villa degli Scalognati siamo in un teatro e nella natura insieme, e Pirandello immaginava, per l’ultimo atto che non fece in tempo a scrivere, che l’azione si svolgesse intorno a un antico, contorto olivo saraceno. Latini dà voce alle voci dell’inizio, le proietta come scritte in caratteri di diversa grandezza e pathos (da film muto) sui vari velatini della scena, mentre alle sue spalle si intravede un paesaggio che sembra, nella luce crepuscolare curata da Max Mugnai, una brughiera selvaggia o un esercito di piccole marionette. La paura, il tentativo di tenere lontani gli estranei, di rimanere chiusi in questo rifugio d’anima, in questo recesso del mondo, e il teatro sono i due elementi forti iniziali. E poi si rivela come la messinscena non abbia spaventato nessuno, e anzi i lampi siano stati letti come segnali per indicare la strada o come fuochi di gioia, nel primo dei molti fraintendimenti prosaicizzanti dell’arte. Le voci, tutte, le incarna l’attore solo, ora rappando, ora giocando tra falsetto e toni profondi, ora distaccandosi dai molti microfoni e dichiarando, con timbro naturale, di essere un attore della compagnia della Contessa, che vuole rappresentare La favola del figlio cambiato del poeta morto. Si trasforma, nudo, mentre la scena si rivela un campo di steli secchi di grano tagliato, un paesaggio lunare, campestre, mentale, per raccontare il dramma che sta dietro il viaggio dei comici, per spogliare l’anima dagli orpelli e offrirla in pasto agli spettatori. E poi si ricopre e con toni epici da film americano (più Viale del tramonto che Via col vento) narra la storia di Ilse e del poeta, diventa Ilse, come già faceva Leo de Berardinis nei suoi memorabili Giganti, dove faceva rivivere austeramente, con una lunga veste femminile e sacerdotale, agendo dalle parti del velluto del sipario aperto sui bordi della scena, il mito del grande attore incarnato dalla Duse. Qui, nell’allievo di Perla Peragallo, che non ha mai recitato con Leo ma che sembra sempre più incarnare l’essenza della sua arte evocatrice della presenza assoluta, senza manierismi di scuola, c’è forse qualcosa in più. C’è una rassegnazione a lasciarsi possedere da personaggi ridotti a fantasmi di esseri viventi, che neppure fuggendo dal mondo trovano pace. L’ossessione del testo, sotto un rumore di pioggia, con una visione di qualcosa che cade (sono gocce? sono foglie? le scopriremo essere bolle di sapone), mentre cieli di nuvole scorrono alle spalle, sotto il suono struggente di un sax, diventa ombra, paura, rassegnazione e felicità a essere “padroni di tutto e di niente”, fantasmi in un mondo favoloso visitato dagli angeli e dallo stupore. Senza illusioni. Pellegrini maledetti come Tannhäuser, in frac e con un bastone fiorito di microfono nella natura secca, esausta. Con un acre incrinatura di dolore di vivere, perché l’attore i fantasmi li fa, li crea, e così si illude di contrastare o realizzare la vita: “Siamo fanciulli che prendono sul serio il loro gioco”. Senza più volto, quasi con rassegnata, rastremata disperazione, con il volto cancellato da una calza, pronto a diventare uno spaventapasseri crocifisso su quel campo tra i versi dei corvi, con un filo ancora di fede: “L’alba per l’avvenire, il tramonto per il passato”, mentre fuori incombono i Giganti e le nuvole mobili del fondale vengono cancellate da un cielo nero. Che a qualcuno può evocare lo schianto della carretta dei comici sotto il sipario tagliaferro dell’ultima, disperata versione di Strehler. Bellissimo e incompiuto. Scrive Latini: “L'incompiutezza è per la letteratura, per il teatro è qualcosa di ontologico. Trovo perfetto per Pirandello e per il Novecento che il lascito ultimo di un autore così fondamentale per il contemporaneo sia senza conclusione. Senza definizione. Senza punto e senza il sipario di quando c'è scritto - cala la tela”. Si potrà vedere ancora con il solo Latini il 30 luglio a Porto Polesine Parmense, l’8 e il 9 agosto a Chiusi al festival Orizzonti nella nuova versione con Federica Fracassi e poi a Short Theatre a Roma. (…) 05 luglio 2014 Tra i “Giganti” Roberto Latini dà anima e corpo al “mito incompiuto” di Pirandello di Roberto Rinaldi «Potevo essere anch’io, forse, un grand’uomo, Contessa. Mi sono dimesso. Dimesso da tutto: decoro, onore, dignità, virtù, cose tutte che le bestie, per grazia di Dio, ignorano nella loro beata innocenza. Liberata da tutti questi impacci, ecco che l’anima ci resta grande come l’aria, piena di sole o di nuvole, aperta a tutti i lampi, abbandonata a tutti i venti, superflua e misteriosa materia di prodigi che ci solleva e disperde in favolose lontananze. Guardiamo alla terra, che tristezza! C’è forse qualcuno laggiù che s’illude di star vivendo la nostra vita; ma non è vero. Nessuno di noi è nel corpo che l’altro ci vede; ma nell’anima che parla chi sa da dove; nessuno può saperlo...» (Cotrone dal terzo atto de I Giganti della Montagna di Luigi Pirandello) CASTIGLIONCELLO - “Mito incompiuto”, mito originato dalla fantasia da cui scaturisce la favola e il sogno. Quale strumento più adatto del teatro per far si che possa rivivere sulla scena e nella vita moderna, in cui l’uomo d’oggi è protagonista? L’arte da cui origina si eleva a rappresentazione e allo stesso tempo si interroga, si contraddice, nel tentativo illusorio di esprimere l’inesprimibile. Terzo dei miti moderni, I Giganti della Montagna di Luigi Pirandello, rappresenta il mito dell’arte, rimasto incompleto per la scomparsa del suo autore. Opera ascritta al periodo surrealista del drammaturgo e quindi opera di pura fantasia, incubatore di allucinazioni oniriche. Densa di significati simbolici, quest’opera spiega come Pirandello, nell’ultima fase della sua vita, attraversasse una profonda crisi per la sua arte, rivelando attraverso i personaggi stessi che animano i Giganti, l’ impotenza nell’affrontare la realtà, portandoli, di fatto, ad un isolamento esistenziale ancor prima di aver provato a reagire per non esserne sopraffatti. Una sconfitta stessa della sua arte rispetto alla vita in bilico tra realtà e sogno. L’incompiutezza del testo ha catturato l’attenzione di un protagonista assoluto della scena del teatro contemporaneo, giunto ad una maturazione artistica che vede Roberto Latini protagonista di una versione del tutto originale e metafisica de I Giganti della Montagna, ancora in fase di evoluzione e definita come un’anteprima di materiali. Un debutto nazionale al Festival Inequilibrio di Castiglioncello, in cui la sua presenza come interprete unico si rendeva necessaria causa l’infortunio occorso a Federica Fracassi, sua partner in scena. Un atto di coraggio e di senso della professionalità a cui l’artista non ha voluto sottrarsi per “onorare l’invito di un Festival a cui teniamo moltissimo e che tanto ha dato alla nostra compagnia. Cerchiamo di ricambiare anche nell’evidenza di un’impreparazione pensando che qui possiamo condividere una fase del lavoro (…) e abbiamo deciso quindi di presentare scene dello spettacolo che verrà e di farlo in forma di materiali”. Definizione di uno studio in divenire di cui non potremmo che attenderne l’esito finale ma che nel frattempo resta segno tangibile di un’esperienza di totale appagamento sensoriale, e perché no, emotiva. Latini ci offre una lettura dove ci si immerge nella piena totalità per lasciarsi trasportare dal flusso continuo di visioni oniriche: quasi fossero proiezioni del nostro inconscio. Lampi che squarciano il buio della nostra mente segnata da una condizione di instabilità nei confronti della vista stessa. Pirandello credeva in un’arte come “specchio della vita” senza riuscirci e il rifugio consolatorio nel surrealismo porrà fine alla sua esistenza terrena. La trama racconta di una compagnia di attori che giunge dopo lunghe peregrinazioni in un tempo e luogo indeterminati – al limite fra la favola e la realtà – , in una villa chiamata “La Scalogna”. La contessa Ilse (proiezione che rappresenta l’autore stesso), è la prima attrice e capocomico di una compagnia di attori segnati dalla miseria e povertà, condizione atavica di chi vive da sempre nell’effimero mondo dell’arte e nella difficoltà di andare in scena con il proprio spettacolo. Nella villa abitano personaggi grotteschi tra cui Cotrone chiamato il Mago per via delle sue doti di preveggente. Un indovino che sembra conoscere in anticipo le cause del fallimento artistico della Compagnia della Contessa. Metafora che intreccia un’aspirazione destinata a soccombere per l’impossibilità stessa del rapporto antitetico venutosi a creare fra arte e vita, realtà e sogno, condizione drammatica e interiore vissuta dallo stesso Pirandello nell’affrontare le sue ultime opere drammaturgiche. Ilse deciderà di andare a recitare altrove la Favola del figlio cambiato (dello stesso Pirandello) dove viene richiamato il principio di teatro nel teatro. Cotrone decide di accompagnare la compagnia dai “Giganti della montagna”, i detentori del potere e produttori di ricchezze. L’esatto opposto degli artisti “morti di fame”. Il loro rifiuto di accogliere la rappresentazione farà si che Ilse non compresa, morirà uccisa dal dolore o per mano dei servi dei Giganti, unici spettatori incapaci di comprendere il messaggio poetico e d’amore proteso verso chi non accetta logiche illusorie di bontà e fede a fronte di ben altri scopi materiali e di profitto. Ritratto impietoso di una società che si nutre solo di ideali cinici e perversi in cui l’Arte non potrà mai soccombere. Roberto Latini si addentra nella storia partendo dalla relazione iniziale che si viene ad instaurare tra Cotrone e Ilse, accentrando su di sé i due ruoli con un senso della misura efficace da non subire nessuna conseguenza, rispetto alla drammaturgia originale studiata insieme a Federica Fracassi. Le sua apparizioni in scena sono anticipate da atmosfere rarefatte dilatate. Il nero domina come una cappa pesante e avvolge la figura ieratica dell’attore, da cui sgorgano le parole enfatizzate come suoni provenienti da mondi lontani e misconosciuti. Appaiono gradualmente filari di spighe di grano dorate, quasi a simboleggiare il ventre stesso della terra madre da cui si origina la vita stessa, omaggio al Libro della Genesi: “Polvere sei e polvere tornerai. L’uomo è sulla terra per coltivare, per costruire e per morire” ( 2,5). Morte e Risurrezione. C’è un profondo rispetto della poetica in cui Latini si offre come cantastorie e narratore di un travaglio esistenziale che ci appartiene e da cui sembra impossibile affrancarsi. Generoso nella completezza espressiva che gli appartiene da sempre, l’artista sceglie di caratterizzare con immagini visive il senso del tempo che scorre inesorabilmente come il cielo attraversato da nuvole nel loro scorrere senza fine. Un caleidoscopio di colori avvolgono la sua ombra che appare e scompare, la luce calda che ammanta la scena per farsi rapire dalle tenebre bluastre e lattiginose. Bolle di sapone scendono dall’alto per alimentare un sogno, un parto della fantasia, un inebriamento dei sensi visivi. Roberto Latini sembra dirci che vivere e condividere il Sogno si possa vivere liberi dalle miserie umane, dal dolore e dalla sofferenza. E quando cala la quiete e la pace ecco che lui stesso nell’ultima scena si trasfigura passando dalla condizione di uomo a statua vivente; un corpo nudo svelato che sembra ricordare il personaggio Gollum dal Signore degli Anelli, fino alla traslazione finale che lo fa diventare un spaventapasseri e il suo lento reclinare del il capo, al centro del campo di grano, fa calare la tela. Tra i personaggi dei I Giganti, Cromo nel ruolo di un caratterista, Pirandello gli fa dire: “Fuori di noi! Stiamo sognando! Avete capito? Siamo noi stessi, ma in sogno, fuori del nostro corpo che dorme là”. E tutto pare un sogno da cui è difficile risvegliarsi nell’ineluttabilità di qualcosa a cui non si può sfuggire, e che pure affrontandolo, non si può vincere. Si chiama destino. 09 dicembre 2014 IL TEATRO DEGLI SPIRITI di Alessandro Toppi Roberto Latini fa de I giganti della montagna una partitura scurissima, solitaria, percepibile appena. Innalza tra il palco e la platea un velario sottile, dispone nel piccolo spazio di Sala Ichòs cinque finte zolle di spighe e usufruisce di luci fredde o soffuse, deboli, scarne. Così facendo rende il suo corpo una presenza larvale, mai chiara del tutto, mai davvero definita nella sua dimensione corporea. Assistiamo allo spettacolo di un attore ma, questo attore, è una buia rifrangenza, un’apparizione chiaroscurale. Sfumano le gambe; le braccia, il petto e le spalle hanno una definizione parziale mentre – del volto – intuiamo talvolta un occhio e una guancia, talaltra una parte della fronte, un orecchio. La voce, assistita da più microfoni, suona differente e distorta: pluritonalità teatralizzata, per cui s’accumulano echi fantasmatici, gravosi accentuazioni di spavento, vocalità roche o stridule, risatine tremende. Nascono, dalla scena, e si diffondono per tutta la sala le presenze dell’opera di Pirandello e non sono manifestazione fisica, ma sono spiriti, fantocci semitrasparenti, evocazioni che appartengono al buio e che restano al buio (o che, al massimo, avanzano facendosi notare in penombra) ma che parlano, respirano, dicono del loro dramma, della loro esistenza. S’odono in sottofondo gli starnazzi notturni degli uccelli, una luce a mezza sala fa sera lunare, prima che sia nero fitto. In quest’atmosfera in cui il giorno lascia definitivamente spazio alla notte, la prima frase detta da Roberto Latini: “Io… io… io… io… ho… paura”. Comincia dalla fine, Latini, ovvero comincia dall’ultimo scampolo de I giganti di Pirandello, comprendendo che il sentimento di terrore, tremendo e benefico, è la linfa emotiva dell’opera. Un carretto d’attori in dissesto, poveri, miseri, senza più alcuna fortuna, giunge in un luogo abitato da strane figure malinconiche, appartate: teatranti al cospetto di giocosi allestitori di spettacoli fatti di lampi, saette e d’anime che prendono forma e fanno racconto. Si tratta – è noto – di una rispecchiamento: la villa di Cotrone è un teatro, il teatro appartiene alla villa di Cotrone e, difatti, “sono dei nostri” dice il Mago riconoscendo, negli attori, lo stesso destino che è degli Scalognati. Latini rende questo progressivo avvicinamento. Lo fa emanando – dall’assito – brevi barbagli, lampi visivi, frammenti di pose momentanee: siede, accucciato, ed è la Contessa, portata sul carretto, mentre – quando staziona a centro palco – diventa l’insieme di figure che abitano la villa tant’è che, la sua maglia verde, è un richiamo cromatico alla “lingua verde sul tetto” ch’essi sferrano al buio. Senza che sia percorso neanche un metro, assistiamo così alla realizzazione di un approdo. Sulla destra di chi guarda pende un lampadario, a otto luci. Sia chiaro: è arneseria d’avanzo, vecchia rimanenza, simbolo, pura attestazione ambientale. Ci dice, illuminato fiocamente, che siano nella villa. Qui comincia l’opera davvero: si fa massa di presenze e dialogo, facendo monologo solitario. S’alternano così pezzi di battute, singole frasi o interi passaggi de I giganti posizionandosi in parti differenti del palco, si passa da un microfono a un altro microfono e – quando è il momento in cui Ilse fa la sua recita – si lascia salire dall’esterno una musica da ballo, tardiva e memoriale: il ricordo torna a farsi sentire, allegro un tempo, oramai dolcemente triste, nostalgico. Il lavoro di Latini va visto, inutile raccontarlo. Assunto l’impegno critico di scriverne conviene sottolinearne piuttosto la capacità di comprendere pienamente il testo di riferimento e di trascinarne in palcoscenico i motivi fondanti, pur trasfigurando l’opera sul piano visivo. Ciò che sembra davvero abbia colto è la ragione stessa de I giganti di Pirandello. L’opera, si narra, nasce come mito teatrale ed è (anche) dovuta alla sventurata sera del primo dicembre del 1927, quando la compagnia di Pirandello è costretta a recitare I sei personaggi al cospetto d’un pubblico di braccianti, che nulla coglie della messinscena, che niente comprende delle parole. “Fummo costretti a uscire di nuovo sul palco e a dire ‘guardate che è finito’, perché tutti rimasero pietrificati e non si muovevano” racconta Rina Franchetti. In virtù dell’episodio – effettivamente alla base del capolavoro – troppo spesso s’è messo in palco I giganti come una riflessione sul rapporto tra il Teatro ed il pubblico, tra il Teatro e la società che ripudia l’Arte dei guitti, dimenticando che I giganti ha subito un’evoluzione profonda e che, il copione, ha assunto ben altri significati. Diviene – per Luigi Pirandello – l’occasione di una vera e propria pacificazione col Teatro in quanto Teatro, inteso non più come “vignetta animata” che svilisce il lavoro degli autori attraverso la propria natura posticcia, ma come vera e propria esperienza chimerica, riservata a un pubblico di iniziati che ha il privilegio – avendo scelto di sedere in platea – di assistere al mostrarsi delle ombre, delle figure, dei personaggi. L’evento infelice che Pirandello vive, recitando ai contadini, sparisce mentre prende posto una riflessione sull’Arte di scena intesa, dunque, come insieme di prodigio e d’astuzia, d’inganno e di tecnica, di fantasia e di mestiere. Così, quando Cotrone dice “Siamo qua come agli orli della vita” la parola fondamentale della frase è “orli” giacché segnala che il teatro appare al confine, sul margine, lì dove la vita non è quasi più vita mentre già si presta a diventare diceria ricreativa, incerta sostanza metaforica. E quando – sempre Cotrone – continua dicendo che “gli orli si distaccano”, che “entra l’invisibile”, che “vaporano i fantasmi” descrive esattamente la concezione teatrale dell’ultimo Pirandello e – di rimando – anche la concezione del lavoro di Roberto Latini, che fa de I giganti un teatrale sortilegio dell’invisibile: come chiamandoli, ad uno ad uno, dal fondo del palco, lascia che si presentino in ribalta le figure fantastiche generate dall’autore, mostrandole nella loro dimensione ombratile, pestilenziale e incantevole: reali e irreali, false e veritiere, eteree e carnali, sono sembianze vedibili ma soltanto per la breve porzione di tempo che loro spetta. D’altronde è ancora Cotrone a spiegare che i prodigi della villa (e del teatro) avvengono “perché a noi basta immaginare, e subito le immagini si fanno vive da sé” e che – quando un’opera scritta trova il suo compimento – è perché i personaggi possono apparire così come appaiono nella fantasia dell’autore, “senza che ci siano corporalmente”. Dopo aver battagliato lungamente con gli attori, amati e odiati perché inclini a tradire il dettato drammaturgico, Pirandello pensa quindi all’attore come ad un tramite alchemico, come ad uno strumento d’apparizione. Sempre meno muscolare, l’ultimo attore pirandelliano è egli stesso un essere differente, capace di abitare quella sottilissima membrana di mezzo che separa ciò che è vero da ciò che vero lo sembra soltanto. Uomini (o donne) che “non appartengono alla realtà quotidiana” ma che – almeno per il tempo dello spettacolo – “sono del mondo superiore dell’arte”. E così si regola Roberto Latini facendo perdere peso al proprio stesso corpo: nudo nell’ombra o di nero vestito, se intorno domina il nero. E quando deve farci intuire l’Angelo centouno della Sgricia si slarga sul volto una maglia bianchissima, perché il suo viso prenda il colore sbiadito degli spettri e poi, con una fascia-calza color carne, fa perdere nettezza ai suoi connotati. È un momento-chiave perché, con esso, si ottiene la certezza che Latini abbia davvero capito la natura ambigua e tenebrosa de I giganti, la sua labilità scenica, la sua stranezza sfuggente. Per questo fa scivolare polvere dalle mani; per questo – postosi controluce, togliendosi la maglietta – lascia evaporare pulviscolo; per questo una pioggia di bolle discende dall’alto morendo sul palco: perché cos’altro sono se non polvere, pulviscolo e bolle, i personaggi di teatro e le loro vicende, che appaiono per il tempo che serve a farsi notare, prima di sparire al battito degli applausi? Sale sui trampoli, ad un punto, Roberto Latini, chiamando in altezza i giganti del titolo, che sono dell’opera l’incombente pericolo, lo sventurato futuro. In realtà si tratta di un’ulteriore deformazione corporea, di un’ulteriore dimostrazione che – tutto ciò cui assistiamo – ha la stessa consistenza di un sogno, abitato da “larve evanescenti”. Piace ricordare – a chi non lo sapesse – che I giganti ebbero prima un altro titolo, quando apparve nel 1931 come atto unico, su Nuova Antologia: si chiamava I fantasmi. Ecco, Latini sembra aver scoperto I fantasmi celati nell’arsenale de I giganti, sembra aver perlustrato l’opera come si perlustra la villa, attirandoli in scena. “Attirare” è il verbo esatto. Perché queste sostanze teatrali già esistono ma vanno spinte e costrette a farsi vedere. E riprendendone i gesti, ripetendone le parole, innescando un processo di materializzazione timbrica ch’essi tornano facendo del palcoscenico – da luogo vuoto – un luogo pieno. C’è un’immagine di Pirandello, dovuta al nipote Andrea, che ce lo descrive intento alla lettura di un testo: egli legge il suo lavoro e si resta affascinati “dalla sua trasformazione in tante figure e voci diverse e dalla tensione intorno, come all’assistere a un rito arcano”. A questa va unita la testimonianza di chi lo vede, sul palco spoglio del Valle, presentare agli attori i Sei personaggi: ci dice Dario Niccodemi che Pirandello diventa un tripudio energico “di parole, di suoni, di urli”, che il suo volto si tramuta demoniacamente, che la fronte lascia intravedere “strani fulminei corrugamenti” mentre la voce s’aggrava per far entrare, certe espressioni, nella mente di chi ascolta. Prende tutte le sembianze, Pirandello, recita tutti i ruoli – “fa da uomo e da donna” per citare I giganti – esattamente come fa Roberto Latini a Sala Ichòs, collegandosi idealmente alla pratica originaria del Maestro: tralasciando, invece, le tante recite che, in quasi un secolo, di quest’opera sono state fatte. C’è l’ultimo momento su cui occorre sostare un attimo. Il gigante/Latini s’appende a un lungo ceppo di legname, al lungo ramo d’albero che gli fa da bastone. È, di fatto, l’ultimo segno dello spettacolo. Si tratta del ramo d’ulivo che Pirandello immagina di voler far sorgere nel centro di scena, per chiudere I giganti che, si sa, è opera priva di finale. Con il rantolo che gli rimane confessa l’idea al figlio Stefano, mentre poggia la testa al cuscino, con la Morte che lo attende a un metro per portarselo via. Riflettendo, oltre lo spettacolo di Latini, piace pensare che l’albero che Pirandello desidera far nascere ne I giganti sia un richiamo all’ulivo saraceno sotto cui nasce – nella piana del Kaos – quando la madre fugge dall’epidemia di colera che devasta Girgenti. Pirandello unisce così l’ultima scena dell’ultima opera sua al suo stesso venire al mondo, chiudendo il cerchio: “C’è un olivo saraceno, grande, in mezzo alla scena: con cui ho risolto tutto”. Tornando a Latini ed al suo I giganti, la scelta del ramo diventa perciò l’ulteriore suggestione di un legame fortissimo che l’attore/regista ha saputo stringere con l’autore siciliano. Sia pure una forzatura del critico ma ci sembra che, con questo ramo, sia giunto fino alla fonte, Latini: nel grande bosco di querce e d’ulivi, nel “vuscu de Causu”, dove Pirandello inizia il suo involontario soggiorno sulla Terra. Un luogo simile, quasi identico, a questa vallata erbosa, a questo spiazzo nel quale sorge, solitaria e decaduta, la villa di Cotrone. Lì è giunto Latini, intuendo che – nello stesso punto in cui tutto ha avuto inizio – tutto è destinato a finire. Così pensa Pirandello, così capita ne I giganti della montagna. Così accade a teatro: ogni notte, ad ogni replica. 22 dicembre 2014 Roberto Latini, la bellezza del perdere il confine Quando a teatro si manifesta la bellezza occorre lasciarsi toccare. Accade con i Giganti della Montagna di Roberto Latini. di Ilaria Drago Roberto Latini - I Giganti della Montagna. Uno degli spettacoli più belli che abbia visto ultimamente. Poetico, forte, onirico, amaro, straziante, magico. "Se i limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo, per andare appena oltre, per provarci almeno, devo muovere proprio da quelli." Roberto Latini. Ecco quello che cercavo di esprimere, dopo avere visto i suoi Giganti della Montagna! È arrivato. Tutto questo, guardandolo, assaporandone i respiri, scivolando nel sudore umano del corpo teso, nella voce tirata, tutto questo è arrivato. Oltre il limite. Elevato. Sublimato. Qualcosa di altro nasceva dal corpo di Roberto, dal corpo delle sue parole, dalle sue viscere piene di azzurro. Parlava la sua essenza attraverso il calore profondo di Cotrone, ma proprio quella essenza, proprio dal limite-Roberto che tutto si porgeva lì, si offriva, i limiti si spaccavano, i confini venivano rarefatti fra grano e oro. E si era risucchiati in un mondo altro eppure tanto vicino. Tanto vicino come lui in quel momento, nello spazio piccolo del Mat, eppure dietro un velo, intoccabile, irraggiungibile e devastante. Un contrasto ghiacciante. Vicinissimo, lontanissimo. Ciò che resta è nostalgia. Micidiale nostalgia. La Bellezza si è manifestata; occorre lasciarsi toccare, lasciarsi fare. Occorre perdere. Perdere insieme a Roberto il limite, il confine. "provarci, almeno"! 30 dicembre 2014 Il teatro più bello del 2014, da vedere anche nel 2015 Sei spettacoli teatrali italiani scelti tra i migliori del 2014 e che, con un po’ di pazienza, sarà possibile vedere anche nel 2015. di Graziano Graziani I giganti della montagna Partiamo da un premio Ubu, che è il più prestigioso del teatro italiano. Quest’anno il premio Ubu come migliore attore è stato assegnato a Roberto Latini. Finalmente, verrebbe da dire, perché è noto che Latini sia tra gli artisti più intensi della scena italiana. E non soltanto per il fatto di saper utilizzare la voce come un vero e proprio strumento, ma soprattutto perché Latini è portatore di una visione profonda e personalissima del teatro. In questo senso è un piccolo paradosso il fatto che gli venga attribuito questo riconoscimento per l’interpretazione di un lavoro non suo, l’Arlecchino di Antonio Latella – anche se è nella natura dei premi concentrarsi sugli spettacoli che hanno più possibilità di essere visti. Riflettere su questo aspetto è probabilmente una questione irrilevante, buona giusto per gli addetti ai lavori; ma allo stesso tempo è uno spunto ottimo per considerare i percorsi che portano gli artisti ad essere quello che sono. Il premio è stato accolto giustamente come un riconoscimento dell’intero percorso di Roberto Latini, che proprio quest’estate con il suo Fortebraccio Teatro ha portato in scena il primo studio dei Giganti della montagna di Luigi Pirandello. Un lavoro straordinario, che avremo modo di vedere concluso nel corso del 2015, per il quale il critico Massimo Marino ha scomodato un parallelismo con una leggenda, i Giganti di Leo de Berardinis. Non è un caso però: il teatro di Roberto Latini, come pochi altri, è in connessione tanto con la tradizione che con la contemporaneità. La scena dei suoi Giganti, per esempio, si apre su un panorama notturno, nel mezzo di un campo di grano dove i teatranti dell’opera pirandelliana si aggirano come fantasmi dagli occhi bianchi e inquietanti, simili a quelli degli zombi di The walking dead. È un impatto visivo forte a cui si somma quello emotivo: bastano voce e microfono affinché si sprigioni un universo di personaggi, una polifonia a cui si aggiunge la presenza di Federica Fracassi. Spesso accade così nei lavori di Roberto Latini, che molte volte parte dai classici del teatro: c’è un livello colto, di citazioni e sottigliezze che sono in grado di cogliere gli appassionati, e un livello emotivo in grado di arrivare a tutti. L’esempio più calzante è forse il suo Ubu Roi, spettacolo di grande bellezza in cui si aggirava vestito da pinocchio in una scena di abbagliante biancore – riferimento esplicito a Carmelo Bene, che in tanti chiamano in ballo parlando del lavoro di Latini, anche per via della particolare ricerca sulla voce. (Lui, di fronte alla domanda lapidaria di Franco Cordelli a un convegno di qualche anno fa – “Leo o Carmelo?” – rispose sardonico “Perla”, alludendo a Perla Peragallo, alla cui scuola si formò quello che sarebbe stato un altro futuro protagonista della scena, Ascanio Celestini.) Dove. Se siete tenaci avete tre occasioni a gennaio per vedere l’Ubu Roi: il 15 gennaio a Cuneo, il 18 a Castiglioncello (Li), il 21 a Casalecchio di Reno (Bo). Sono le ultime date di un lavoro che ha avuto quasi più repliche all’estero che in Italia, e che è uno dei più belli degli ultimi anni. I Giganti, invece, sono un percorso in costruzione: l’11 gennaio a Moncalieri (To) e il 24 a Vicenza va in scena il primo atto. Per ulteriori aggiornamenti: Fortebraccio Teatro. (…) 30 dicembre 2014 Gli spettacoli del 2014 per Paper Street di Redazione Dopo otto mesi di sperimentazione e quattro di collaudo, la sezione Cronache Teatrali chiude il 2014 con oltre 200 recensioni e numerosi approfondimenti dedicati ai principali festival di arti performative della Capitale e della Toscana. L'attenzione, l'interesse e la curiosità suscitati ci spronano a proseguire questa avventura "critica"; e così, superato questo primo periodo di beta test, vi raccontiamo ora i nostri spettacoli preferiti. Ma prima una piccola premessa. Rispetto ad altre forme di spettacolo, il teatro ha un "limite" non indifferente: non è registrabile, lo si può scoprire solamente dal vivo; guardarlo in video sarebbe come leggere uno spartito con gli occhi o ascoltare solo l'audio di un film. Con i tempi che corrono, poi, le teniture sono molto brevi e per di più, molto spesso, i teatri accolgono solo nuove produzioni; insomma, basta avere un impegno di troppo e si rischia di perdere per sempre uno spettacolo. Stilare un classifica largamente condivisa, dunque, non è un compito semplice, perciò ecco il nostro compromesso. A tutti i collaboratori che ci hanno supportato quest'anno nello sviluppo della sezione, abbiamo chiesto di convenire su tre spettacoli andati in scena nel 2014 - indipendentemente dall'anno di produzione nonché di lasciarci qualche riga sulla motivazione del proprio voto (una piccola curiosità: il primo della nostra Top10 è stato l'unico a trovare tutti d'accordo fin dal primo turno di voti). A questo piccolo podio, inoltre, affianchiamo altri sette titoli largamente condivisi che troverete tutti a un democratico quarto posto ex aequo. Non ci resta che augurarvi un ottimo 2015 da spettatori e invitarvi a commentare e dibattere sui nostri profili social: il bello delle classifiche è anche questo! (…) 4° - I Giganti della Montagna - Atto I di Roberto Latini/Fortebraccio Teatro Una ballata a suon di distorsioni dove i vivi si confondono con i morti, la realtà con i contorni indefiniti dell'incubo. I giganti della montagna – Atto I di Roberto Latini ha il coraggio della sperimentazione, trasforma in voci le immagini di umana precarietà sfidando il mito di un inviolabile Pirandello. Laura Marano (…) 10 gennaio 2015 Latini: “Sperimento e trasformo Pirandello” Alle Fonderie Limone con "I giganti della montagna atto primo", l'attore premio Ubu: "Ho innovato pensando alle grandi messinscene di Strehler e Tiezzi" di Maura Sesia IMMAGINAZIONE. Una parola che è il perno del percorso di Roberto Latini, il quale, con il suo Fortebraccio Teatro, si immerge ne "I giganti della montagna atto primo" di Luigi Pirandello, domani alle 21 nella Sala Piccola delle Fonderie Limone di Moncalieri, ospite della rassegna "Parole d'Artista" curata dal Teatro di Dioniso. Roberto Latini ha vinto nel 2014 il Premio Ubu come migliore attore, uno dei vari riconoscimenti ricevuti nell'arco di una carriera che ha segnato la contemporaneità teatrale italiana. Lei ha affrontato spesso i classici, in primis Shakespeare, in modo originale ed anticipando molti altri teatranti: l'amplificazione, il video in diretta, la luce. L'incontro con Pirandello è avvenuto solo ora? "Come Fortebraccio Teatro sì, però avevo già avuto l'occasione di dirigere "L'uomo dal fiore in bocca" per Lombardi Tiezzi nel 2011". Quanta libertà si è concesso nell'allestire Pirandello? "Ne ho fatto un lavoro per unico interprete, ma con la consapevolezza delle messinscene magistrali ed integrali che mi hanno preceduto, penso a Giorgio Strehler, Leo de Berardinis, Federico Tiezzi. Assodato questo patrimonio culturale, posso permettermi il lusso di affrontarlo come lo si può sperimentare oggi, di stare sulle parole del testo, che sono altissime, dentro una misura di incompiutezza". Lei ha debuttato l'estate scorsa con un assolo, poi ha realizzato una versione dialogata con Federica Fracassi ed ora torna al soliloquio: a cosa si devono queste mutazioni? "E' un metodo per replicare l'incompiutezza, insita nel copione". La scena è un campo di grano, perché? "E' la cornice esterna, che mi è parsa esatta, per contenere l'immaginazione, che è il teatro stesso. Il luogo del teatro è in quello spazio che fa da ponte tra platea e palcoscenico ed è riempito dall'immaginazione degli spettatori". A che pubblico si rivolge? "Penso che la platea sia più avanti degli spettacoli proposti. Confido che le mie opere pongano domande e non diano risposte. Da spettatore ho avuto il privilegio di assistere a esempi di letteratura teatrale, come "Arlecchino servitore di due padroni" di Goldoni con la regia di Strehler, ma viene il momento in cui si devono fare i conti con il contemporaneo". Lei si è formato frequentando lo Studio di Recitazione di Perla Peragallo, la compagna di vita di Leo: cosa le hanno lasciato quei maestri? "Lì ho conosciuto anche Carmelo Bene, quella scuola è stata capace di crescere persone che avessero una propria personalità, che non fossero solo attori addestrati". Torna nel torinese, dopo l'annullamento, nella scorsa stagione, del suo "Ubu Roi", previsto alla Cavallerizza Reale che fu poi chiusa. Che legame ha con Torino? "E' una città che amo, sono venuto spesso, in spazi alternativi ma importanti, come il Tangram Teatro, dove vinsi il concorso Prova d'Attore". 19 gennaio 2015 I GIGANTI DELLA MONTAGNA SECONDO ROBERTO LATINI di Laura Bevione «Immaginazione». E poi «ho paura», l’ultima battuta del dramma scritta da Pirandello. Parole che compaiono sul fondale e sul sottile sipario semitrasparente che delimitano lo spazio in cui Roberto Latini mette in scena i suoi Giganti della montagna. Parole che non soltanto esprimono emblematicamente la visione dell’arte – e dunque della vita – dell’autore siciliano; ma riassumono vocazione e fatalità di un incontro artistico. Latini – adattatore, regista e unico interprete, dopo alcune repliche condivise con Federica Fracassi – affronta il complesso ed ermetico dramma pirandelliano, attratto dalla sua incompiutezza che, anziché costituire un handicap, pare amplificare la forza – drammatica e speculativa – della parabola di Ilse e di Cotrone. Latini sintetizza in sé i vari personaggi, sfruttando la propria indiscussa perizia vocale, enfatizzata dall’uso di microfoni che, a tratti, sono anche significativi elementi scenici. L’attore è seduto in proscenio, si muove fra due fila di alte spighe di grano, si accoccola in posizione fetale, si erge su bassi trampoli, trasforma una semplice t-shirt in immediato correlativo oggettivo di una composita interiorità. L’immaginazione, la preziosa e pericolosa facoltà che è di Cotrone – e di ogni artista – di suscitare “apparizioni” e risvegliare “fantasmi” – guida anche Latini, concentrato nel tentativo non tanto di dare compiutezza a un dramma che mai potrà averla, quanto di assecondare quel pressoché infinito “arsenale” di possibilità che Pirandello dischiude. Un tentativo che è necessario compiere, anche se quella oscura e sconosciuta vastità non può che suscitare insormontabile paura. I giganti della montagna. Atto I, adattamento, regia e interpretazione di Roberto Latini. Visto alle Fonderie Limone di Moncalieri (Torino) l’11 gennaio 2015, nell’ambito della rassegna Parole d’Artista. 26 gennaio 2015 28 gennaio 2015 23 gennaio 2015 I giganti della montagna secondo Roberto Latini Pirandello nel XXI secolo di Alan Mauro Vai I Giganti della Montagna secondo Roberto Latini, un mosaico di visioni dense e ricoperte di un immaginario cupo e seducente. La sua voce è il distillato di un corpo che si muove attraverso le trame del testo con la profondità di una vanga che rivolta la terra da sotto in su, la rivitalizza aprendone il nerbo. Lo spazio teatrale è la sala piccola delle Fonderie Limone, lo spettacolo è ospitato nella rassegna Parole d’Artista organizzata dal Teatro di Dioniso di Valter Malosti, con l’organizzazione strenue di Elena Serra, artisti dediti a creare e distribuire Bellezza. Un buio alleggerito da uno schermo trasparente che domina il boccascena su cui troneggiano frammenti dell’opera, e la parola PAURA immerge il tutto nella scena iniziale. Tre microfoni ,una sedia, Roberto Latini è il corpo solista tripartito in 3 tonalità differenziate per altrettanti personaggi. Il testo è quello di Pirandello, l’atmosfera è quella atomica della Villa detta “La Scalogna”. Il senso della presenza parte da un cuore di corde vocali legate a doppio filo con la terra, radicate al mistero incompiuto di un testo che nasconde linee di senso varie e sfuggenti. In mezzo alla scena un altro schermo che si ritrae e dà aria alla visione, incantata distesa di spighe secche di grano, recise, bionde vite seccate. Roberto Latini si muove per la scena mutevole fra artefici videoscenografici e protesi trampoli che lo proiettano al di sopra delle file di grano, una Sgriccia spaventapasseri dalle tonalità chiaroscure. Un Pirandello esploso in pezzi, in cui si riconosce la scia della selezione accurata dei testi per costruire il percorso dell’esperienza, fatta di sensi visivi esaltati da luci ed immagini dalla potenza surreale e sonorità umane sempre mediate dal microfono scettro che incorona la voce di Latini come artefice di una regale Bellezza. La magia interpretativa è sempre al di là del consueto, sposta l’illusione del senso dentro al ritmo e alla pasta del suono materia vibratile. Uno spettacolo da assaporare a sensi aperti e senza aspettative di costruzioni teatrali da XX secolo. Con Latini siamo dritti dentro al nuovo millennio di ricerca ed estetica della creazione dal vivo. Nel futuro della visione. 30 gennaio 2015 C’è chi crede alle parole: “I giganti della montagna” di Roberto Latini al Teatro di Casalecchio di Stefano Serri Un testamento: “I giganti della montagna”. Testamento di Pirandello e della drammaturgia di inizio secolo: non solo per l’incompiutezza, ma perché documenta un’estrema e postrema riflessione sul teatro (quello scritto e quello fatto): è la cosa ultima (novissima) che l’autore siciliano ha dedicato alla scena. Roberto Latini ha sfidato la rappresentabilità di questo dramma realizzandone una versione davvero “sua”: lo ha adattato, ne ha curato la regia, lo ha interpretato. Il risultato ha debuttato in prima nazionale il 29 gennaio (in replica il 30) a Pubblico. Il teatro di Casalecchio. È una compagnia teatrale, guidata dalla Contessa, la protagonista dell’opera: una combriccola di istrioni appassionati quanto affamati che girovaga tentando di rappresentare “La favola del figlio cambiato”, dramma dello stesso Pirandello. Questa compagnia non trova per la sua messinscena un’arena, una fondazione e neppure un’associazione culturale, ma una villa abbandonata e oscura, retta da un mago prestigiatore, Cotrone, a capo degli Scalognati. Crocevia del teatro novecentesco, saturo di sviluppi (si pensi agli Scarrozzanti testoriani) come di riferimenti alla tradizione (dai misteri a Calderon, dal meta-teatro alla Tempesta, testo già setacciato da Latini), “I giganti della montagna” sono un’eccellente i giganti della montagna1banco di prova per chi, come il registainterprete, ha messo la riflessione sul fare teatro (declinata in parodie, citazioni, maschere) non solo al centro delle sue operazioni registico-drammaturgiche, ma anche del suo essere attore. Il suo Arlecchino nell’allestimento de “Il servitore di due padroni” diretto da Antonio Latella veicolava, insieme alla Beatrice/Federigo di Federica Fracassi, le luci più evidenti e i dolori più profondi dell’agire teatrale. Non sembra un caso, quindi, che proprio questi due attori si siano ritrovati a sfidarsi in una simile partita senza finale. Il testo era stato inizialmente pensato e costruito per entrambi, ma un infortunio dell’attrice, pochi giorni prima del debutto del primo atto, ha reso Roberto Latini l’unico depositario del lavoro comune. Per questo, come sottolinea lo stesso Latini, questo è uno spettacolo “con” lui, ma “senza” Federica Fracassi. Spettacolo per due voci, per voce non sola. Tra pensiero e concerto, è proprio la voce, contesa da microfoni e silenzio, a primeggiare; bolla di sapone, fragile e iridescente, il corpo-polvere dell’attore esalta la propria fisicità atletica, ma sa al contempo stravolgersi in viscere di donna. Latini tiene, del dramma, le parole, vere protagoniste, liberate da ogni incrostazione psicologica. La trama cede il posto al suono, la progressione dialogica è sacrificata per una continua esposizione dell’io: tutto al presente, senza cronologie, didascalie, un mare senza scogli e rive, solo orizzonti. Qualche ingenuità e qualche eccesso, soprattutto nella parte scenotecnica: dilatazioni compatibili con il carattere eminentemente lirico dello spettacolo. I momenti più riusciti sono i più spogli, come gli inizi d’atto o il finale. È il vuoto, che fa paura forse allo stesso regista, a rendere possibile la presenza. Anche se mancano i personaggi, manca un’attrice, manca una storia e un finale, grazie all’attore e al suo coraggioso esporsi nel vuoto della scena, anche questa sera si recita lo stesso. 02 febbraio 2015 Roberto Latini e "I Giganti della montagna" di Enzo Radunanza Solitudine, infelicità, ansia, paura, ossessione, disperazione e costernazione per un’arte non apprezzata dal mondo. Sono solo alcune delle sensazioni che si provano seguendo l’adattamento che Roberto Latini ha creato per “I Giganti della Montagna”, l’ultima opera di Luigi Pirandello, rimasta incompiuta per la morte dell’autore e che andò in scena postuma nel 1937. Chiunque vada a teatro credendo di assistere alla messa in scena tradizionale del testo pirandelliano, che racconta le vicende di una compagnia di attori che trovano rifugio in una villa isolata, rimarrà deluso. Roberto Latini, anche in questo lavoro, esprime tutto il suo talento creativo trasformando "I Giganti della Montagna" in un grande e ricercato esempio di teatro contemporaneo. Concettuale, moderno e con un linguaggio poetico che racconta il senso ed il mistero della vita e delle sue sofferenze. A volte si tratta di una narrazione impegnata (e forse non per tutti) ma sempre coinvolgente e appassionata. La vicenda racconta di una compagnia di artisti-girovaghi guidati dalla contessa Ilse, che non riesce a trovare uno spazio scenico per rappresentare lo spettacolo dal titolo “La favola del figlio cambiato”. In una notte buia, in cui solo la pioggia scrosciante spezza un silenzio opprimente, arrivano in una villa detta "la Scalogna” (il nome è già un programma). L’abitazione sembra abbandonata ma si scoprirà che abbandonati e solitari sono i suoi abitanti, ossia un gruppo di disadattati che, dopo l’iniziale diffidenza, accolgono gli attori. Le reciproche solitudini e inquietudini trovano la giusta composizione. Luogo e tempo sono indefiniti come se Pirandello avesse già avvertito e respirato quel senso di incompiuto che poi si concretizzerà per la sua morte. Un aspetto anacronistico che viene rispettato e riprodotto anche nella sceneggiatura di Roberto Latini. Il contesto è scarno, adornato da uno sgabello, da un campo di spighe rinsecchite e illuminato da un lampadario mobile quasi spettrale. Il regista e attore romano trasforma l’incompiutezza dell’opera pirandelliana in un punto di forza e, anzi, espressamente dichiara di essere attratto dai testi incompiuti perché gli appaiono congeniali alla stessa idea di teatro. Su questa base può osare e creare un adattamento personalissimo, in cui la massima potenza è attribuita alla parola. Come già anticipato, la scenografia è essenziale, anche se bisogna riconoscere che le musiche e i suoni di Gianluca Misiti, accompagnati dalle luci di Max Mugnai, creano un’ambientazione suggestiva. A volte sembra quasi di assistere ad un concerto tanto la musica (spesso moderna) invade il palco. Le luci, sempre molto cupe, mettono in risalto solo una parte del corpo, spesso il viso, lasciando ad ognuno di immaginare quello che vuole. La fisicità di Roberto Latini si esprime nell’ombra ma risulta evocativa oltre che prorompente. Tutti i personaggi, maschili e femminili, sono interpretati dallo stesso regista-attore che manifesta tutta la sua bravura. Gli bastano una voce (a volte naturale e altre acusticamente alterata), una diversa postura, dei movimenti impercettibili, una maglietta o un torso nudo per raccontare l’universo interiore e tormentato dei protagonisti, facendo dimenticare che – tutti- escono dallo stesso corpo. Le parole e le frasi sono spesso ripetute più volte, compulsivamente per accresce il senso di ossessione. A volte le parole vengono scritte sullo sfondo perché siano ancora più forti e descrivono uno stato d’animo (la paura) o raccontano il contesto e le condizioni climatiche. In alcune scelte, lo spettacolo di Latini ha un qualcosa di circense. La musica incombente e amplificata, la voce distorta dal microfono, la gestualità vivace ma mai decontestualizzata dell’attore, l’arrivo del mago Cotrone sui trampoli e l’ultima scena in cui il protagonista recita sospeso nel vuoto sono tutti elementi di grande effetto. Visto il 30/01/2015 a Casalecchio Di Reno (BO) Teatro: Pubblico 04 febbraio 2015 Roberto Latini. Agli orli della vita Roberto Latini presenta il debutto finale de I giganti della montagna di Simone Nebbia Vocazione. Secondo capitolo. Capita a Simonenebbia critico teatrale di costruire un piccolo calendario interno, intimo, e che qualcosa resti come un residuo di appartenenza, una visione rimandi a un’altra senza che vi sia alcuna sequenza, continuità. Ma per un mestiere che è un po’ missione e un po’ malattia va bene anche questo riconoscere, riconoscersi, attraverso il teatro che si vede. Siamo spettatori dell’invisibile, incantati dal crinale che divide la verità dalla finzione e mescola noi nel vento madido che proprio lì s’innalza, siamo sonde di mondi indistinguibili, inesistenti se non nello spazio di una concretezza momentanea, in via di sparizione. Ecco, il teatro che vediamo e che tracciamo pena in cuore e penna in mano è proprio così: in via di sparizione. E però, secondo due linee ben distinte di significato. Da un lato è l’evanescenza priva di soglie, quella nube in cui sembra possibile l’oscurità in luce e il sonno in veglia, la stremata, sbracciata determinazione di esistenza che si tradisce e scompare, nel punto esatto in cui c’è stato qualcosa, bisogna accettarlo – è raggelante ma vitale: ora non c’è più; dall’altro lato è la renitenza dei cavalli sulla via maestra, quell’inspiegabile, in apparenza, ostilità verso la strada battuta e la direzione certa, movimento a perdere col fumo davanti agli occhi e dietro le spalle di un attore di fronte al suo pubblico. Come si esce dalla sala – il Pubblico Teatro di Casalecchio di Reno – dove si ha avuto modo di assistere a I giganti della montagna di Roberto Latini? Simonenebbia se lo sta chiedendo da quando ha visto Vocazione di Danio Manfredini, cosa accade quando un attore misura la propria finitudine di uomo al cospetto di altri, continua a farsi domande nel silenzio lasciato dall’assenza sulla scena, un istante dopo la sparizione della luce. Prima, prima erano state parole strappate a un testo mai finito, parole scelte come tracce dalla sintassi di Luigi Pirandello, che sembravano non esistite prima di apparire nella bocca di una pronuncia strozzata, non per tornare nel vuoto ma per scoppiare e restare in lui come un carico visibile, un masso di Sisifo da un lato all’altro dello spazio. Roberto Latini – assistito dall’indocile scrittura musicale di Gianluca Misiti e dalle luci aurorali di Max Mugnai – è artista in grado di caricare su di sé quel peso, di fare scelte sofferte come privarsi dell’attrice che aveva condiviso con lui la prima parte del percorso (Federica Fracassi) e continuare solo, trovarsi «qui, come agli orli della vita» e confessare la paura del doppio, quel “mito dell’arte” che accidentalmente l’autore lasciò – ma per essenza non avrebbe potuto altrimenti – non finito. Un campo di grano fra tenebra e luce, dietro il velo nero che alza e abbassa la propria impostura sembra un roveto ispido, insidioso. Poggeranno o esploderanno le bolle di sapone che dall’alto vi cadono sopra? Vi resisterà il Cristo spaventapasseri che fa mostra di un corpo a un tempo vinto e palpitante? La pioggia proiettata cade perché incapace di appigliarsi al vetro della finestra, sarà asciutto il campo, sarà dunque stata, la pioggia? E sono parole che cadono trasparenti come le sfere a dire che «lo hanno preso per teatro, noi facciamo i fantasmi…», sarà per questo che un lampadario d’interni dall’alto rincorre l’attore e con lui la luce del mezzogiorno che penetra la notte delle ombre. L’uomo che si prova alla maschera ben consapevole che «le maschere non si scelgono» alza le mani e si arrende, comprende che «tutte le parole diventano crudeli» di fronte alla tenebra, così che la luce non scompare ma invita un’apparizione in un’altra come un inchino, rassegnazione a vivere a dispetto di ogni rovesciamento del noto nell’ignoto, scegliere l’arte non in opposizione alla vita ma proprio perché vita. Basta, sono anni che il critico dice di Roberto Latini. Ha fatto il suo anche questa volta. Ma sono anni che questi suoi spettacoli, tra i pochi di cui rimarrà memoria nel teatro che si studierà di qui in avanti, faticano a trovare produzioni, sostegno, distribuzione. Si vedono e scompaiono, rimangono nei magazzini come burattini inservibili e impolverati, chinati su un muro e con l’espressione fissa di chi attende si alzi un nuovo sipario. Il sipario, già, il bacio di rosso che due lembi di stoffa si cercano per illudersi di lasciarsi mai. Latini, che sta discutendo la storia del teatro recente e sta facendo detonare i classici della forma di tradizione in avanguardia, è l’uomo che si frappone tra il teatro e l’estinzione, ferma con il trampolino che suicida i pirati la corsa delle stoffe, all’orlo della vita alza un braccio, si prende una luce liminare, sembra dire che l’arte è vivere un altro po’. Mentre muore. 03 febbraio 2015 “I giganti della montagna” di e con Roberto Latini Andato in scena al Pubblico. Il teatro di Casalecchio di Reno (Bo) di Amelia Di Pietro Capita raramente, ma a volte succede. Succede che il teatro si avvicini così tanto alla poesia da condurre chi osserva in quel favoloso sogno fatto alla presenza della ragione di cui parlava Tommaso Ceva. Roberto Latini è riuscito, con I giganti della montagna andato in scena al Pubblico. Il teatro di Casalecchio di Reno (BO), a ricreare uno scenario poetico e onirico, in grado di connettere ciò che sappiamo con ciò che non sappiamo. L’ha fatto prendendo in prestito il favoloso dramma incompiuto di Luigi Pirandello che lui stesso definì il trionfo della fantasia e della poesia, ma anche la tragedia della Poesia in mezzo a questo mondo brutale. L’opera di Pirandello termina laddove il regista e attore Latini decide di iniziare il suo percorso in solitudine dentro questo luogo agli orli della vita. “Io ho paura”, questa è l’ultima frase pronunciata da Diamante, ed è anche la frase che dà inizio allo spettacolo, scritta in lettere cubitali sul velatino del proscenio. Quando il sipario si apre, tutto è nebuloso e indistinto. I velatini, posti su più livelli, rendono la scena ancora più incantevole e obnubilano il magma delle ossessioni, dell’inquietudine, delle visioni narrate e, nello stesso tempo, amplificano le parole, quelle significative, quelle che risuonano e vibrano sia nel testo pirandelliano sia nella messa in scena di Roberto Latini. Tra fulmini, lampi e un tripudio vorticante di suoni che dà l’impressione, come suggerisce Pirandello nella didascalia, “che si stia superando un pericolo che non ci par l’ora che finisca, perché tutto torni tranquillo e al suo posto, come certi momentacci di follia che alle volte ci prendono”, una compagnia di attori su un carretto di fieno, guidato dalla contessa Ilse, giunge alla Villa “La Scalogna” popolata dal mago Cotrone e dagli Scalognati. Fantasmi, minacciose apparizioni, luci abbaglianti: a nulla servono gli artifizi congegnati per allontanare gli avventori, una compagnia di teatranti giunti alla Villa dopo aver girato vari teatri invano, con la ferrea volontà di recitare La favola del figlio cambiato, un’opera scritta dal poeta che rinunciò alla vita per amore della contessa. In questo luogo magico, in cui si vive privati di ogni cosa tranne che della più importante, il tempo, “ricchezza indecifrabile, ebullizione di chimere”, uno ieratico Latini decide di mettere a nudo il suo corpo, di esporre la sua anima e la sua arte, in questo gioco, terribilmente serio, che è il teatro. Nessun orpello. Solo i microfoni che amplificano, distorcono, fanno riverberare la voce dell’attore che via via si trasfigura nei vari personaggi che animano la Scalogna, cambiando espressioni, toni, postura. Ed è proprio il percorso solitario dell’attore ad amplificare maggiormente gli infiniti sensi di questo vibrante e inquietante dramma pirandelliano. Unico aiuto in scena è il tappeto sonoro di Gianluca Misiti, a volte assordante e fragoroso, altre volte come una nenia che esalta i momenti lirici dello spettacolo. E se è vero che i giganti fanno paura, con il loro incedere rumoroso e selvaggio, con la loro incapacità di amare la Poesia e l’Arte, è anche vero che il Cotrone rappresentato da Latini è anch’esso gigante, e quei trampoli con cui lo impersona rendono giustizia a chi ha deciso di vivere delle proprie chimere, rendendo la verità dei sogni più vera di noi stessi. Latini impersona l’anima, grande come l’aria, sollevata dalla terra che guarda, dall’alto, con tristezza e impotenza, ma pur sempre determinata a convivere con i sogni, la musica, la preghiera, l’amore, ossia tutto l’infinito che c’è negli uomini. Tutto ciò che conta davvero. 05 gennaio 2015 Fantasmi ai bordi della vita: I giganti della montagna secondo Roberto Latini, con un fotoracconto di Futura Tittaferrante di Massimo Marino Paura. Paura (io non ho paura). PAURA. SUONI. LAMPI. AIUTO. I LAMPI. I LAMPI. Ci precipita come dentro un vortice, subito, I giganti della montagna di Roberto Latini. Come in un vecchio film muto, un Viale del tramonto apocalittico, la proiezione di una voce che arriva da regioni nascoste. Dentro/fuori, dentro/fuori. Rifugio/Apparenza. Isolamento dagli uomini /arte che può realizzarsi solo tra essi. Un solo attore, lui, Latini, è tutte le voci, in uno spettacolo che solo chi non ha sensibilità può definire monologo: è un’orchestra, quel “canto balzante, che ora scoppia in strilli imprevisti e or s’abbandona in scivoli rischiosi” che suggerisce Pirandello nella lunga didascalia inziale del suo ultimo, incompiuto, misterioso lavoro, un “mito”, come lo definisce. Lo spettacolo visto al teatro Pubblico di Casalecchio, (un po’ come il testo) ha avuto una concezione travagliata: inizialmente doveva esser interpretato a due, una voce maschile, Latini, e una femminile, Federica Fracassi, Cotrone e gli Scalognati ritiratisi nella villa esoterica, e la Contessa con la sua compagnia di attori, che cerca di dare vita al figlio mai nato, all’opera di un poeta che ha amato, che porta ora tra misteriosi giganti che incombono sulla pianura. L’attrice milanese, una voce intensa quanto quella di Latini, si infortunò poco avanti la prima: l’attore decise di mantenere gli impegni, andando in scena da solo, sperimentando su di sé le due voci-essenza. E il risultato fu clamoroso (leggi qui la recensione). Poi è stata reinserita Federica Fracassi, ma qualcosa non funzionava, era inserire un pur meraviglioso cristallo in una vetrinetta già completa, in modo sovrabbondante. Latini ha avuto il coraggio, doloroso, di decidere, a poco tempo dal debutto definitivo (questo di Casalecchio), di andare in scena da solo. Di diventare voce di quella schizofrenia che marca l’estrema opera di Pirandello. Di farlo misurandosi con microfoni che ne moltiplicano la voce, la riecheggiano, la raddoppiano, allontanandosene, poi, per trovare timbri più asciutti, fino a quello naturale, quasi disarmato. Un’orchestra: non di virtuosismi, di profondità, intenzioni, suggestioni. Su un campo di grano tagliato, una notte lunare, dietro un velatino che smorza la visone, con quell’andamento da film fuori del tempo, con quella paura che incombe, con la minaccia di diventare solo spaventapasseri in un mondo in cui gracidano troppi misteriosi feroci corvi. Interferenze, tentativo di spaventare i visitatori con trucchi teatrali, scambiati per segnali che permettano di scorgere la strada. Dentro/fuori. Dentro/fuori. Un ritmo disco scatenato e sonorità che rendono la tensione, la sfida, il confronto tra i due mondi che entrano in contatto, in tensione, in collisione (i suoni sono di Gianluca Misiti, vera e propria altra voce, come le luci espressioniste e rivelatrici di Max Mugnai). Un lampadario a gocce, un campo: esterno/interno. Il mondo, l’anima. Ascoltare la favola, la poesia, loro che si sono ritratti dalle cose, quegli scalcagnati scalognati matti emarginati che sono ridotti a fantasmi del mondo come è. Come in fondo gli attori, laddove vige la legge dell’economia. Spaventare per sopravvivere. Essere spaventati. Ritmo del cuore che batte. Latini è il mago eremita e i suoi poveri compagni, emarginati da nave dei folli, ed è Ilse, l’attrice divina che rivive lo scambio del figlio a opera delle “donne”, maliarde contadine che per invidia rendono deficiente, brutto, stortignaccolo il bambino bello, mito popolare per giustificare l’infelicità, la demenza. Il teatro: luogo dove ci si esibisce e dove ci si nasconde. Come quella caverna aperta, oscura e luminosa, che è l’anima, che è la voce. Gocce che cadono su una finestra. Bolle di sapone (una favola). Nuvole. Un pianoforte struggente che sottolinea tutto ciò che scorre senza salvezza, inevitabilmente, come le parole del poeta morto. Attaccarsi alla vita, che comunque sfiorisce. La bellezza uccisa, dimenticata. L’apparizione dell’Angelo Centouno salvatore dai briganti protettore, i fantasmi, l’attrice, il falsetto, il tono metallico, quello nasale. Maschere, maschere, mondi, persone, trucchi, fino a scomparire, nei lineamenti, con una calza che annulla il volto. Nuvole. Pioggia. Cielo Azzurro. Siamo come sull’orlo della vita, dove appaiono i fantasmi. Le ossessioni. Lo spettacolo è un continuo di invenzioni, nel gioco di ombre di apparizioni del secondo atto, nella tensione continua tra dentro e fuori, corpo e ciò che è il suo interno, fantocci svuotati che vediamo da fuori e noi che guardiamo e ci guardiamo guardare…. Ilse vuole andare fuori dalla Villa. Portare l’arte tra gli uomini. Oltre la propria stessa voce che non riconosce. Cotrone inventa una realtà più vera di quella esterna. La contessa vuole portare la verità in mezzo alla gente. Cotrone si accontenta delle consolazioni della filosofia, della poesia. I giganti incombono. Lingue di fuoco. “Non siamo noi”. Un maschera becco lungo d’uccello, dei dottori durante la peste secondo la commedia dell’arte. Come in un sogno in cerca di coerenza. In alto, su un trabattello, mentre da fuori arrivano, brutali, i giganti. Caruso: “Una furtiva lacrima”. Struggente. Si stende l’attore, in alto, sull’impalcatura. Si sporge sulla platea. Gira e mostra i piedi, solo i piedi (“Una furtiva lacrima”), come un morto nel suo letto. Si chiude il sipario e restano fuori solo quelle scarpe nere, su un finale non detto, non scritto da Pirandello, non immaginato, come la morte, che coglie sempre troppo di sorpresa, mettendo fine al teatro. Ho raccontato questo spettacolo per squarci, per memorie, forse senza un filo, perché è un’esperienza avvolgente, travolgente, che chiama fortemente in campo le facoltà più interne di chi guarda, di chi si trasforma in elemento di un rito misterioso, che qualcosa dice circa il terrore e la possibilità di salvezza. Un capolavoro. Si può vedere sabato 7 febbraio al teatro Petrella di Longiano alle 21 e in poche altre date. Sarebbe il caso che girasse tanto, dappertutto. Una produzione Fortebraccio Teatro, Armunia, Festival orizzonti, Emilia Romagna Teatro Fondazione. Fotografie di Futura Tittaferrante 26 febbraio 2015 Tanti personaggi, un protagonista Roberto Latini e tutte le voci della paura di Mariacristina Maggi 27 febbraio 2015 Un Gigante della scena: Roberto Latini rievoca il “mito” pirandelliano di Roberto Rinaldi CASALECCHIO DI RENO (Bologna) – Lui solo sulla scena eppure così onnipresente da poter sembrare in ogni angolo del palcoscenico. Uno sdoppiamento che si triplica e si moltiplica fino a quintuplicarsi. La sua voce profonda dai registri timbrici dalle mille sfumature sibila e si insinua nello spazio, come tanti rivoli che si disperdono e si rifrangono rumorosamente. L’esclamazione spinta in avanti per catturare chi si siede di fronte e assiste al dramma. Parla di Paura Roberto Latini, seduto e ieratico, usa la voce per fendere il silenzio oscuro della scena a tratti squarciata da fulmini e saette. La Natura scuote e freme come se percepisse l’arrivo di estranei in un luogo dove sembra tutto immobile e perduto. Sono le prime suggestioni de I Giganti della montagna di Pirandello, rivisitati da Roberto Latini che concepisce un allestimento denso di rimandi e simbologie, derivanti dal “mito” pirandelliano come un montaggio di quadri suggestivi, creati dal talento di un artista capace di tradurre le parole del testo in evocazioni visive. Latini opera per progressioni continue di segni, azioni, gesti, voce e suoni, le accumula per poi disperderle ma sempre con un ordine costituito dato da un tessuto drammaturgico di potenza inaudita. Come lo è la scena quando dal buio appare un campo di spighe di grano luccicanti d’oro. Crea degli aloni di misteriose presenze, bolle metafisiche in cui si immerge e declama con enfasi, e con una tensione recitativa, tale da far emergere ogni singolo personaggio della storia. Uomini e donne che assurgono a interpreti di una vita errabonda. Tutto accade in un mondo parallelo segnato da un laggiù/quaggiù, un dentro e un fuori dove cercare di dare un senso alla propria esistenza. Scandisce il suono della voce amplificata da microfoni come se fossero prolungamenti del suono umano, gutturale, stridente a tratti come rumori di ferro, fende il buio di una scena che avvolge l’attore come un grande mantello. C’è tutto il fascino irrisolto del dramma pirandelliano in questa sua innovativa ed originale concezione de I Giganti. Poetica e struggente nel far rivivere le gesta di un gruppo di attori guidati dalla contessa Ilse, i quali si ritrovano a chiedere di recitare La favola del figlio cambiato (dello stesso Pirandello), in una villa chiamata La Scalogna, dove fanno conoscenza degli abitanti: il mago Cotrone e gli Scalognati. Non sono dell’idea di ospitarli e cercano di allontanarli con tuoni, fulmini, apparizioni di fantasmi. Il loro intento però non riesce e alla fine decidono di accogliere la compagnia; Cotrone cerca di convincere la contessa a recitare per gli ospiti il suo dramma, una storia scritta per lei da un giovane poeta che, innamorato e da lei respinto, si è ucciso. Illusorietà di un sentimento negato da far rivivere nell’immortalità del teatro. Esempio magistrale di come l’autore sfrutti il meccanismo di fare teatro nel teatro che verrà rievocato anche nei Sei personaggi in cerca d’autore. Latini fa suo il dramma escludendo ogni altra partecipazione (senza Federica Fracassi come era previsto), offrendo le singole caratteristiche dei personaggi. La paura e l’incognita dell’imprevedibilità, le ombre come entità misteriose di anime, in cerca di sollievo a cui la vita ha segnato un destino infausto. Quella vita che scorre inesorabilmente come i cieli attraversati da candide nuvole e presagi di temporali. La Natura inesorabile in cui l’uomo è immerso. E’ un canto dolente, malinconico, struggente in cui l’attore incarna alla perfezione la tensione drammaturgica fino all’epilogo dove sale su una sorta di scala piattaforma per sbucare fuori dal sipario chiuso in cui si congeda dal pubblico, quasi volesse lasciare la vita terrena, quando rientrando si fa trasportare disteso. Evocazioni continue di come la vita sia futile e marginale rispetto ad un dramma molto più complesso e indecifrabile. Roberto Latini con questo suo lavoro sapiente dimostra una maturità artistica di altissimo livello. E Pubblico Teatro di Casalecchio di Reno diventa uno spazio condiviso da tanti studenti preparati per assistere ad un teatro che si fa portavoce di un messaggio fortemente attuale. Non solo semplice visione o fruizione, bensì una partecipazione capace di far conoscere il testo drammaturgico per metterlo a confronto con la conoscenza diretta del suo interprete e regista, incontrato prima dell’inizio della rappresentazione. Sedimentare un sapere che si trasmette e produce la possibilità di capire come sia possibile attualizzare un genere di prosa classico, con gli strumenti del teatro contemporaneo. 24 marzo 2015 Latini sveste Pirandello di Tessa Granato Teatro Era di Pontedera, venerdì 20 marzo: si sentono arrivare I giganti della montagna. Li precedono un frastuono, un lampo, un momento di oblio. In origine è un dramma incompiuto, nato sulle ceneri della precedente novella Lo storno e l’Angelo Centuno. L’autore è il nostro orgoglio, il gigante della penisola italiana, il premio Nobel per la letteratura Luigi Pirandello. Noi cosa dovremmo fare? Parlare di Pirandello o di Latini? D’altronde poco importa, perché sembra che il testo e la rappresentazione teatrale abbiano lo stesso gruppo sanguigno, seppur appartenendo a due corpi differenti. Sono compatibili, quindi. Spettacolo vorticoso, questo di Latini, dove l’attore, solo in scena, quasi si annulla per diventare parte della scenografia, al pari del lampadario che sovrasta il palco e pare avere vita propria, o delle spighe di grano che marchiano di bellezza lo spazio. I giganti della montagna diventa visione, sogno, incubo, atomo infinito. Si percepisce come il suo creatore – Roberto Latini – sia animato da un amore folle per le parole del testo, da lui vivisezionate e analizzate nella loro intimità fisiologica. La trama non esiste quasi più, l’attore la sovverte e tende a scavalcare i significati a favore dei suoni, che acquistano, comunque, un senso e un sentire profondo, viscerale. Se il tempo a teatro scompare, qui si dilata e perde le sue coordinate spaziali senza pietà, diventando materia viva nelle parole implorate sulla scena. La pura rappresentazione e il verismo sono ormai un pallido ricordo. Il regista, nonché protagonista, rende astratto lo spazio, come una sequela di associazioni mentali che inseguono la scia di una lucciola – una traccia sfuggente e imprevedibile, a tratti luminosa, altri buia. Niente può assomigliare a questo spettacolo, niente può aver solo sfiorato un’idea simile, e assistervi è come assistere a un rituale laico, senza storia. Il testo originario – amplificato con mezzi che vanno dalla musica techno alla classica, da immagini proiettate sul palco al disegno luci – si trasforma in una potente “arma pacifica” (per citare una delle tante espressioni estrapolate dallo spettacolo). Tornando a Pirandello, egli ha plasmato nella sua opera, insieme a una miriade di altri personaggi, i giganti: figure mitologiche moderne, che nella storia non compaiono mai, ma le cui presenze sono avvertite dai protagonisti. Consapevole del disintegrarsi dei miti nell’era industriale, Pirandello immaginava come i giganti della montagna, senza mai essere visti, dessero risposte, parlassero, si sentissero arrivare. Roberto Latini riesce a evocare un’atmosfera sacra, mitologica e allo stesso tempo infernale, che sembra una reincarnazione dello spirito pirandelliano. In questo senso, la sua interpretazione ardita di un classico – che non è mai statico e univoco, ma in divenire – acquista significato e valore. Nonostante le sue movenze a tratti risultino forzate, Latini compie un commovente salto nel vuoto e vuole, a tutti i costi, stupirsi, non riconoscersi, triplicarsi e allontanarsi da se stesso. Questo processo, intuibile sulla pelle di uno spettatore aperto alla sua opera, è lampante, come la parola “lampo” ricorre ossessivamente durante lo spettacolo. Il monologo che precede la fine del primo atto è un’irripetibile scintilla di sensazioni contrastanti, un momento in cui il presente si annulla e ci si lascia trasportare, come posseduti, da una valanga di parole – magnifiche e terribili. Il teatro diventa così uno specchio magico della nostra vita, dove scorrono le immagini più radiose e tristi che abbiamo mai provato, i ricordi intimi più spaventosi e sublimi, sotto un cielo che cambia continuamente forma e colore. Roberto Latini, nel suo essere un artista visionario, regala con I giganti della montagna un istante catartico. 30 marzo 2015 Latini shock nei suoi Giganti di Elisabetta Marsigli Dopo le grandi messe in scena de I giganti della montagna fatte da Strehler o da Leo De Berardinis o di Carlo Quartucci e Carla Tatò con i “clowns bianchi” francesi, fino ai più recenti allestimenti di Tiezzi/Lombardi o di Vetrano/Randisi, giunge oggi l’interpretazione di Latini il quale punta ad altro “dentro” di quel testo così ricco di emozioni ed incubi: “parole fuori dalla trama e fuori dai personaggi, parole che ho pensato possano essere viste come pure.” Giocando con la voce amplificata (e per la partitura fonetica Latini viene considerato Carmelobeniano ma, ci sembra, senza la trasgressione e gli eccessi del Maestro) o con voce naturale e maschere oniriche (da qui il fatto di accomunarlo ad una scrittura scenica alla De Berardinis), in un ritmo altalenante, fatto anche di immaginario, di silenzi e scene di grande potenza evocativa, l’attore riesce a condurre una pièce scenica e musicale (anche qui con un ricordo al Bene/Majakovskij) con ispirata intensità: per restituirci un dramma contemporaneo sulla paura, sulla spiritualità, sulla vita, perché il fascino dell’incompiuto “lascia queste parole nella sorpresa della non destinazione”, sospese, come in attesa di essere revisionate per una stesura finale che mai avvenne. Fantasmi, fulmini e lampi, un campo di spighe secche contrapposte a bolle di sapone e fumo come negli spettacoli di una volta, che superano l’immaginazione e ridanno il senso dello spazio teatrale come per confrontarsi con il presente e con le nostre più intime paure insieme alla poesia di parole scritte nel vuoto. Un lampadario di cristallo incombe sulla scena, presenza oscura e al tempo stesso spirituale, come le immagini di terrificante bellezza scosse dalla inquietante voce di Latini che sul palco è tutti e nessuno. Una paura che non ci abbandona mai, in un finale che inserisce anche un accenno di “furtiva lagrima”, straziante, lacerante, mentre prima in piedi e poi sdraiato su un trampolino Latini lascia al gesto la conclusione di uno spettacolo che paradossalmente poteva essere – come per Pirandello – inconcluso, come una parola sospesa nell’incubo. 31 marzo 2015 05 aprile 2015 Roberto Latini: “Le paure del mio Pirandello” L’attore premio Ubu 2014 porta in scena a Nocera “I giganti della montagna” di Barbara Cangiano Io ho paura. Perché, Contessa, «siamo qui come sugli orli della vita». Certo, possiamo parlarne. Ma intorno alle parole è silenzio, silenzio, silenzio. Un silenzio così silenzioso che lo si può solo amplificare, distorcere, moltiplicare, in un «canto balzante, che ora scoppia in strilli imprevisti e or s'abbandona in scivoli rischiosi». Roberto Latini, anima di Fortebraccio teatro, premio Ubu 2014, parte da un the end mai scritto per riammagliare "I giganti della montagna", la partitura lasciata incompiuta da Luigi Pirandello, in scena domenica 12 al Diana di Nocera Inferiore nell'ambito della rassegna "L'Essere e l'Umano". Una lunga didascalia e le battute finali di un grumo di ossessioni, incubi e tensioni, così complesse da tradurre, che perfino la lingua si è fatta linguaggio. Per schizzare nei suoni distorti come i sensori di un sismografo, tra la sgangherata miseria di una compagnia di attori persi in una villa, La Scalogna, popolata da icone grottesche - vedi il mago indovino Crotone - che li accompagnerà verso i Giganti. Lampi. Un vecchio lampadario di cristallo si china su spighe arse e bolle di sapone, mentre Latini è corpo e voce e anima corale, solo in una polifonia di disperazioni, a riempire la scena nelle cui trame «entra l'invisibile e vaporano i fantasmi». Fino alla tela che si chiude, lasciando di fronte alla platea solo due scarpe nere. Un finale non detto, una scritta di luce da portarsi a casa: "Non siamo noi". Lingue di fuoco e (forse) lo spiraglio della filosofia. Latini, prima di lei Strehler e De Berardinis si sono cimentati con uno spettacolo complesso, come quello che porterà in scena domenica a Nocera. Ci racconta il "suo" giganti? Il nostro è uno spettacolo che ha la speranza di stare nelle parole di Pirandello prima che nella trama e nei personaggi. Strehler e De Berardinis sono diventati parte della letteratura teatrale e permettono a questo tempo di poter considerare la proposta di qualcosa d'altro. Si spieghi. E' un lavoro collettivo, anche se sono da solo in scena. L'ambizione è quella di stare sulle parole dell'autore, parole che hanno la loro purezza, ma non sono riuscite a destinarsi a fine, perchè si tratta di un'opera incompiuta. Non c'è un "cala il sipario". Alla fine dei testi si torna indietro. Sono convinto che se Pirandello fosse arrivato alla fine del terzo atto, avrebbe revisionato i movimenti del primo e del secondo, avrebbe convocato le parole sorprese nella loro interpretazione. Nella prima didascalia ci ha lasciato una dimensione preziosa, invitandoci a sentire le parole in un tempo indefinito. Lei è uno dei principali esponenti delle nuove tendenze del teatro contemporaneo, eppure spesso guarda ai classici. Anche Carmelo Bene diceva di "restituirli". Il pubblico è pronto per una fase nuova. In questo senso i classici sono un'occasione di svolta per il tentare quello che io definisco il teatro insieme. Quando i testi e gli autori sono un patrimonio collettivo, questo aiuta a metterci alla stessa tavola. L'attore non può più essere il tramite, il pusher del teatro. E' assurdo pensare che debba continuare a distribuirlo a sacchetti. C'è bisogno di una forte responsabilità del pubblico. Non è facile, perchè siamo viziati dalla passività. Ma bisognerebbe interrogarsi, alla fine di ogni spettacolo, non se sia stato bello o brutto, ma di cosa, io in platea, riesco a portare a casa di questa esperienza. Molti dei suoi lavori si sono visti forse più all'estero che in Italia. Ha a che vedere con uno statuto spettatoriale diverso, più maturo, meglio introiettato? All'estero il pubblico non si trova di fronte ad una lingua ma a un linguaggio. Non ti conosce, mentre in Italia spesso hanno visto lo spettacolo prima ancora che tu lo hai finito. Diciamoci la verità, manca la presupponenza che caratterizza tanto teatro italiano. Poi è successo anche in Italia che al di là delle mode, in qualche modo la questione performer sia stata dibattuta. Ci hanno provato con impegno, ma non ce l'hanno fatta a fare fuori l'attore. A proposito di attori, lei è stato più volte paragonato a due leggende, Leo De Berardinis e Carmelo Bene. Non le pesa questa eredità? No, perchè non mi sento caricato di nessuna eredità. Bene e Leo erano unici, come unici erano i tempi in cui Leo e Carmelo erano Leo e Carmelo. Ovviamente ci sono delle cose in comune, come l'uso dell'amplificazione, l'esplorazione del suono a voce alta. Non uso il microfono per ampliare il volume, ma l'amplificatore per maggiorare il silenzio intorno alle parole. Senza Bene forse non sarebbe potuto accadere. Lei si è formato alla scuola di Perla Peragallo, l'alter ego, potremmo dire, di De Berardinis. E' in atto una campagna sui social per spingere l'amministrazione comunale di Vallo a dedicargli il nuovo teatro che dovrà essere inaugurato a giorni. Ho mandato il mio contributo per sostenere un'iniziativa che mi sembra doverosa. Ho avuto un privilegio raro e diverso, quello di vedere Leo negli occhi di Perla, tutto questo all'interno di un percorso formativo che mi ha lasciato dentro qualcosa di profondamente familiare. Vede, in un Paese normale, dovrebbe essere normale dedicare almeno un teatro ad un protagonista che ha scritto alcune tra le pagine più importanti della drammaturgia contemporanea. Farebbe bene a noi tutti, perchè non è una questione geografica, ma spirituale. E invece siamo al solito choc che vivono gli italiani quando si rendono conto di essere italiani... 20 aprile 2015 Pirandello & voce Inseguendo il magistero di Carmelo Bene e Leo De Berardinis, Roberto Latini interpreta tutte le voci dei "Giganti della montagna" come fossero una partitura dell'anima di Simona Negrelli Il suo teatro è innanzitutto un omaggio e una dichiarazione d’amore al teatro stesso. Le sue performance sono un metalinguaggio che fanno dell’incontro col pubblico il proprio centro vitale. Per questo I giganti della montagna di Pirandello è un dramma perfetto per Roberto Latini, un manifesto della potenza dell’immaginazione e del ruolo insopprimibile della poesia e dell’arte, nonostante declini culturali ricorrenti e sconfessioni da parte delle masse. Calzante anche per l’attenzione alle diverse tonalità vocali, sottolineata in alcune didascalie del testo. Che Latini prende e smembra, frammenta e assembla per costruire uno spettacolo (visto al teatro Morelli di Cosenza, come penultimo appuntamento dell’interessante stagione curata da Scena Verticale, e prodotto da Fortebraccio Teatro) che è una polifonia in cui le battute di ben quindici personaggi si esprimono nella moltiplicazione delle voci, resa evidente dai quattro microfoni in scena, da parte dell’attoreregista. L’idea originaria era quella di farsi affiancare sul palco da un’altra attrice, ma poi la decisione, forse un po’ azzardata, di proseguire in solitaria. Il risultato è un lavoro incentrato sulle capacità attoriali di Roberto Latini, consacrate, tra l’altro, da un premio Ubu come miglior performer ricevuto nel 2014. Per i suoi studi sulla voce sono stati scomodati più volte Carmelo Bene e Leo De Berardinis, riferimenti imprescindibili per chi, come Latini, usa le corde vocali come fossero uno strumento musicale. Non è un caso che abbia studiato alla scuola di Perla Peragallo che con Bene ha collaborato spesso e con De Berardinis ha lavorato per anni in un vero e proprio sodalizio artistico. Latini si cimenta col dramma incompiuto di Pirandello a dispetto di chi, in passato, sosteneva che, proprio per il fatto di non essere stata portata a termine, l’opera non dovrebbe essere rappresentata. «Sono sempre stato affascinato dal non finito […] per il teatro è qualcosa di ontologico», scrive nelle note di regia. Prima di lui, lo stesso De Berardinis aveva interpretato e diretto I giganti della montagna, anche se il pubblico forse conosce maggiormente la versione più “classica” di Strehler, trasmessa anche dalla Rai. Roberto Latini concentra tutto in se stesso, sfumando il contrasto, presente nel testo, tra la compagnia di attori in bassa fortuna che, al seguito della contessa Ilse, porta in giro il dramma scritto da un grande poeta, suicida dopo il rifiuto della contessaattrice; e il gruppo dei cosiddetti “Scalognati”, formato da personaggi eccentrici che, capitanati dal mago Cotrone, si sono rifugiati in una villa abbandonata, perché infestata dagli spiriti, per sfuggire alla realtà e poter vivere di sogni. Gli attori vengono ospitati dagli scalognati nella villa, nell’intento di allestire lo spettacolo per i giganti, esseri dediti alla vita materiale e al denaro, in occasione di una festa nuziale. Il dramma si interrompe a questo punto, al secondo atto. La morte sopraggiunta inesorabile ha impedito a Pirandello di scriverne il terzo, anche se sappiamo (grazie agli appunti dettati dal premio Nobel al figlio) che si sarebbe dovuto concludere nel peggiore dei modi: i giganti non apprezzano il dramma e fanno strage degli attori. Ma l’immaginazione e la poesia vivono anche senza interpreti, perché «se siamo stati una volta bambini, possiamo esserlo sempre», ammonisce Cotrone alla fine del secondo atto. Per questo l’azione si svolge «al limite, tra favola e realtà». Latini dà forma a questo confine onirico, costruendo una partitura per voci, suoni e immagini. Ai diversi toni, che vanno dallo stile rap alle profondità cavernose fino al birignao, corrispondono maschere e posture, come quelle da commedia dell’arte o da artista di strada sui trampoli, a volte col viso trasfigurato da una calza o in nudo integrale, fino al gran finale, in cui Roberto Latini si erge su tutti, sospeso nel vuoto su un trampolino, che poi sembra un’ara sacrificale quando vi si distende. Voci e movimenti sono accompagnati da suggestive musiche e suoni, composti da Gianluca Misiti, inscritti in una scenografia spettrale e magica, che si avvale di elementi curatissimi (realizzati da Silvano Santinelli) come il campo di grano o il lampadario a gocce e i sipari di velatino che si abbassano e si alzano a illuminare e soffondere la scena. Il fumo, le bolle di sapone e i giochi di luci (dirette da Max Mugnai) fanno il resto. Il risultato è uno spettacolo immaginifico, un po’ cerebrale, in cui gli effetti scenici e lo stupore prevalgono sull’emozione. Le foto sono di Angelo Maggio 22 aprile 2015 Roberto Latini e la paura dei giganti nell’ultimo Pirandello di Giulia Muroni “Io mi chiamo Legione, perché siamo in molti”: il famoso versetto biblico, è una frase proferita dallo spirito demoniaco Legione attraverso il posseduto di Gerasa, abitato da un gruppo, una schiera, una moltitudine di spiriti demoniaci. Si addice all’immagine d’esordio de “I giganti della montagna” di Roberto Latini: su una scena avvolta nel buio l’attore, solo, innesca una polifonia di voci. È una moltitudine. Abbiamo visto “I giganti della montagna” della compagnia Fortebraccio Teatro, ad Avigliana (TO), ultimo appuntamento del cartellone ideato dalla Piccola Compagnia della Magnolia. Roberto Latini si immerge nell’ultimo dramma pirandelliano “I giganti della montagna”. Il testo originale, attraverso una intricata costruzione mitica, mette a confronto un repertorio di immagini arcaiche con un’inquieta interrogazione sulla condizione dell’arte nella società moderna. La vicenda di riferimento è quella di una scalcagnata compagnia teatrale di giro, guidata dalla contessa Ilse che, decisa a portare in scena “La favola del figlio cambiato” e respinta da tutti i teatri, si rifugia in una villa apparentemente abbandonata. In essa, la “Scalogna”, abitano il mago Cotrone e gli Scalognati, creature dalla natura ibrida, latrici di verità profonde sul senso della vita. Il dramma in questione ha per la contessa un valore speciale, testamentario, essendole stato dedicato da un giovane poeta che, innamorato di lei e respinto, si toglie la vita. Ilse mostrerà in conclusione l’opera al pubblico dei “Giganti”, coloro che hanno completamente abdicato alle ragioni dell’interiorità e dello spirito per correlare la loro esistenza solo ad una dimensione gretta e materiale. Il dramma si conclude con l’arrivo dei giganti al galoppo e con le parole di Diamante, una dei teatranti: “ho paura…” . Latini dichiara di approfittare dell’indeterminatezza di questa vicenda, astratta nei suoi dati di luogo e tempo, e di godere della natura incompleta dell’opera, condizione data come ontologica in letteratura e teatro. Propone un lavoro metafisico che, in un trascolorarsi di scena in scena, aziona un flusso continuo di visioni oniriche in cui la luce, a cura di Max Mugnai, è elemento di rilievo. La scena, soggetta a cambiamenti importanti, si apre con Latini seduto su una sedia, attorniato da tre microfoni. Quando la luce, dapprima circonfusa su di lui, si espande, svela un campo dorato di spighe. L’atmosfera rarefatta, oppressa da un manto tenebroso, si apre allo stagliarsi della sagoma dell’attore. Il fascio luminoso invade il suo corpo nudo, mentre altrove lo lambisce. La luce spazia in una gamma fantasmagorica di colori e intensità. Nella seconda parte c’è un momento piuttosto lungo, piuttosto intenso, in cui la scena è disabitata e rimbomba un ritmo elettronico, incalzante. La luce è fredda, brillante e dalle quinte sgorgano rigurgiti di fumo. Fumo che copre il suolo, forma un tappeto, esonda dal palco, invade la platea. Quindi si acquieta, si restringe, scompare. Verso la fine è elemento di spicco un alto trampolino rasente la graticcia, sul quale Latini si abbarbica. La partitura sonora indisciplinata e intrigante, ad opera di Gianluca Misiti, costituisce un ulteriore tassello fondante di questo spettacolo ricchissimo. La voce di Latini viene infatti amplificata, riprodotta, distorta e moltiplicata; giunge ad una schizofrenica pervasività. Il dispiegarsi del suo timbro tocca inclinazioni e distorsioni mutevoli, cangianti. La poetica di Latini rivela una continuità nell’approccio sperimentale e rigoroso ai testi della tradizione letteraria, nell’audacia di una messa in scena sofisticata che azzarda nel suo dipanare procedimenti scenici e letture non banali, mai ammiccanti o accondiscendenti. Questo riesce però a non tradursi nel compiacimento di un’astrattezza autoriferita, perché i livelli di analisi cui si presta sono molteplici e non manca quello più immediato: la potenza emotiva. La forza delle immagini generate scatena un effetto lisergico potente. Spettacolo prezioso, regala un’esperienza sensoriale e emotiva. Latini si avviluppa in un rapporto materico con il testo: ne assapora con bramosia alcune parti e, nel mentre, trita, stravolge e ribalta altre. Da questo scontro esplosivo con “I giganti della montagna” affiora un esito meraviglioso, sulla vita e sull’arte, la realtà e la finzione, la verità e la parvenza, calato in un ambiente alchemico, in continuo movimento. Abbiamo fatto qualche domanda a Roberto Latini su questo lavoro: https://www.youtube.com/watch?v=9NVS8-kZTAQ 25 aprile 2015 29 febbraio 2016 Roberto Latini | I giganti della montagna di Mattia Giovanni Grazioli © Simone Cecchetti Dal 17 la 28 febbraio prende corpo sul palco del Teatro India il mondo immaginario di Roberto Latini ne I giganti della montagna di Pirandello. Il testo è l’ultimo dei capolavori pirandelliani, non completo a causa della morte dell’autore: rarefatto ed evocativo nella stesura originale, assume in questa rappresentazione un carattere onirico. Il testo, nella messa in scena del regista, è smembrato, privato della sua trama orizzontale e ricomposto intorno alle false verità proposte dalla sua mente. La vicenda racconta di una compagnia di attori che dopo numerose peregrinazioni, compiute al fine di portare in scena il proprio spettacolo La favola del figlio cambiato, giungono in un luogo fuori dallo spazio e dal tempo. Qui incontrano il Mago Cotrone il quale li introduce al mondo degli spiriti e delle magie che circonda la cosi detta Villa degli Scalognati. Gli attori, scontenti della malasorte che insegue la loro missione artistica, esprimono i loro drammi ai personaggi che abitano il posto. Nulla di tutto ciò è percepibile, se non a tratti, nella versione di Latini. Le parole e i monologhi di Pirandello non si perdono ma vengono tolte dalla bocca dei personaggi, svuotati di ogni carattere, e reinterpretate secondo uno schema o un senso sconosciuto a Pirandello. La compagnia della contessa e il Mago Cotrone sono avvolti da una nuova magia: la fantasia di Roberto Latini. © Simone Cecchetti Le musiche incalzanti di Gianluca Misiti definiscono chiaramente il ritmo dello spettacolo con un rock elettronico che smuove immagini e sensazioni e, insieme al disegno luci di Max Mugnai, agli effetti speciali e al video di Barbara Weigel, trasportano il pubblico in una dimensione onirica. Alla parte tecnica, sono dedicati lunghi momenti, a volte intere scene. Al centro di un affiatato gruppo di artisti professionisti questo attore sensazionale si distingue in abilità tecniche ed emotive di altissimo livello: richiama la commedia dell’arte nell’uso della maschera, definisce i personaggi attraverso i cambi vocali e dona il suo corpo fino alla nudità. Roberto Latini è uno scienziato del teatro, uno sperimentatore ardito, uno stregone che dona l’incanto di sé stesso. I giganti della montagna, nella sua versione, non è un semplice studio di Pirandello, ma un lavoro sull’immaginazione e sulla capacità di rendere concreto ciò che è astratto nella mente del regista. La fantasia è vita di tutti i giorni, si alterna con i sogni ed è motore di emozioni. 27 febbraio 2016 NOI, SPETTATORI-FANTASMA DI UN TEATRO MORIBONDO NE “I GIGANTI DELLA MONTAGNA” DI ROBERTO LATINI di Renata Savo “Il teatro è immaginazione”. Senza giri di parole, con una didascalia che campeggia su un telo in PVC, Roberto Latini invita lo spettatore a compiere uno sforzo di adesione alla sua poetica: il teatro è immaginazione. Chi ha visto l’”Ubu Roi” di Alfred Jarry recentemente andato in scena al Teatro Vascello, di certo si sentirà mosso a leggere i “I giganti della montagna”, ispirato all’opera incompiuta di Luigi Pirandello, come una sua naturale evoluzione: in entrambi i casi pare infatti di trovarsi di fronte a spettacoli che denunciano, con un linguaggio delicatissimo, la crisi attraversata dal mondo teatrale in questo preciso momento storico. Che il teatro avesse bisogno di immaginazione non è un novità: palchi nudi, nella storia del teatro, ce ne sono stati tanti. Pensiamo anche solo a Shakespeare: lo studioso Masolino D’Amico aveva coniato l’espressione di «scenografia verbale» per designare la presenza dei connotati di tempo e spazio all’interno della parola del testo. Quello che però Roberto Latini ci offre è una scena realizzata a metà: l’incompiutezza dell’opera di Pirandello ha ispirato l’incompiutezza della mise en scene e la possibilità di allacciare alla meta-teatralità pirandelliana una riflessione più profonda. Il testo viene ridotto a brandelli, ripetuto, l’attore corpo-voce rimasto solo decide di essere uno e tanti insieme grazie all’uso di microfoni. La scenografia diventa una parziale scrittura proiettata sullo sfondo, la rappresentazione di un cielo azzurro un «CIELO AZZURRO» verbale, dietro un campo di grano materialmente presente e che pian piano appare sempre più nitido sotto i fari accesi. La regia sottolinea, così, la forza della parola, come se l’attore, identificandosi con la voce proveniente dall’aldilà dell’autore, chiamasse all’azione lo spettatore e invocasse il suo “sesto senso” affinché l’opera possa dirsi compiuta almeno nella sua mente. Da qui, l’immaginazione. Oppure, se si preferisce, l’immagine-azione. Il soggetto pirandelliano narra un pellegrinaggio di una compagnia verso la una Villa detta "la Scalogna", abitata da personaggi inquietanti. Latini trasforma il testo in un canto d’autore accompagnato dalla partitura sonora, energica e trascinante, di Gianluca Misiti, vincitore – meritatissimo – del Premio Ubu 2015 come Miglior progetto sonoro proprio per questo spettacolo. La scena comunica in tutta la sua essenza evocativa il paradosso tra interno ed esterno. Un lampadario che si sposta lateralmente, un campo di grano, il rombo di tuoni. Dove sono i fantasmi del testo di Pirandello? Non sul palcoscenico. Lo spazio, privato a un certo punto persino dell’unica presenza umana, viene abitato solo da musica e nebbia. “Non siamo noi”, la didascalia leggibile sul palcoscenico, rende chiara la possibilità di identificare chi è in platea come il vero “fantasma”, dell’opera e del mondo teatrale. È una lettura – velatamente – politica, quella di Latini. In tempo di crisi culturale ed economica, il teatro ha bisogno più che mai di immaginazione: senza attori - come pagarli? - senza spettatori, l’invito non vuole essere alla rassegnazione, ma al compimento dell’immagine-azione. Se l’”Ubu Roi” era una festa dalla duplice anima, allegra e malinconica come l’inno alla vita di un teatro moribondo, qui Latini sembra dichiararne ufficialmente la morte e celebrare il suo rito funebre. Il finale, memorabile, traduce la riflessione meta-teatrale in una metafora icastica che evoca il taglio artistico di Lucio Fontana. Sulla scena cade sonoramente “Una furtiva lagrima”. In alto, in mezzo ai teli di un sipario che si sta chiudendo, tagliato in due tra la realtà e quello che si può soltanto immaginare, giace l’Attore. “Ah, cielo! Si può! Si, può morir! Di più non chiedo, non chiedo. Si può morir! Si può morir d'amor.” 28 febbraio 2016 Sogno, paura, visione, immaginazione nei “I giganti della montagna” di Vincenzo Sansone ROMA – In una lettera ai famigliari, datata 4 dicembre 1887, Luigi Pirandello scriveva: «Oh, il teatro drammatico! Io lo conquisterò. Io non posso penetrarvi senza provare una viva emozione, senza provare una sensazione strana, un eccitamento del sangue per tutte le vene. Quell’aria pesante chi vi si respira, m’ubriaca: e sempre a metà della rappresentazione io mi sento preso dalla febbre, e brucio. È la vecchia passione chi mi vi trascina, e non vi entro mai solo, ma sempre accompagnato dai fantasmi della mia mente, persone che si agitano in un centro d’azione, non ancora fermato, uomini e donne da dramma e da commedia, viventi nel mio cervello, e che vorrebbero d’un subito saltare sul palcoscenico». Il futuro drammaturgo, ancora studente, traccia con estrema chiarezza quello che sarà il suo percorso nel teatro italiano e che approderà all’ultima opera rimasta incompiuta, I giganti della montagna, che si pone come sintesi e riaffermazione dei propositi che il giovane Luigi aveva in mente all’inizio della sua carriera. AlTeatro India di Roma è andato in scena una versione del dramma ideato da Roberto Latini e dalla sua CompagniaFortebraccio Teatro, che si riaggancia pienamente alle parole del giovane autore siciliano e fa emergere l’essenza dell’ultimo suo capolavoro. Appartenente alla cosiddetta fase surrealista, la vicenda del gruppo di attori, guidati dalla contessa Ilse, che giunge nella villa di Cotrone, chiamata La Scalogna, per mettere in scena La favola del figlio cambiato (scritta anch’essa da Pirandello), diventa un pretesto per esplorare e far emergere il suo mondo onirico, fatto di sogni ma anche di paure, un mondo che parla dell’arte e si interroga su se stessa. Roberto Latini ha maestosamente afferrato l’onirismo dell’opera pirandelliana, le paure dello scrittore, questa profonda riflessione analitica dell’incompiutezza dell’opera e la maestria della sua regia, esaltandola come grande stimolo per il teatro: «Non aggiungerò parole alla trama, ma voglio dire di altre possibilità che vorrei assecondare. La più importante è rispetto al fascino del “non finito”, “non concluso”; all’attrazione che ho sempre avuto per i testi cosiddetti “incompiuti”. Sono così giusti rispetto al teatro: l’incompiutezza è per la letteratura, per il teatro è qualcosa di ontologico. Trovo perfetto per Pirandello e per il Novecento che il lascito ultimo di un autore – così fondamentale per il contemporaneo sia senza conclusione. Senza definizione. Senza punto e senza il sipario di quando c’è scritto – cala la tela. Voglio rimanere il più possibile nell’indefinito, accogliere il movimento interno al testo e portarlo sul ciglio di un finale sospeso tra il senso e l’impossibilità della sua rappresentazione». È dal finale incompiuto che scaturisce l’inizio dello spettacolo di Roberto Latini, quel “Ho paura” pronunciato da Diamante, che accompagna lo spettatore, prima di immergerlo in una strana atmosfera, nebulosa, evanescente, stranamente illuminata, che grazie alla sequenza di velatini che scendono sul palcoscenico diventa ancora più impalpabile; un’atmosfera resa ancora più straniante da un lampadario che oscilla sulla scena, e resa ancora più misteriosa da una vegetazione arida, fatta di spighe di grano che creano la profondità dello spazio e i suoi livelli. In questo habitat si muove il protagonista (e regista) , gigante tra i giganti, unico attore in scena, che “interpreta” tutti i personaggi, che presta il suo corpo all’incessante fluire e defluire dei fantasmi pirandelliani. Latini è uno sciamano, evoca di volta in volta gli spiriti dei personaggi del dramma che si appropriano di lui e si lasciano intravedere agli spettatori. Il suo corpo è lì, pronto a far emergere dalla sua interiorità le voci di tutti i personaggi, quei fantasmi che vivono nella sua mente. Sono voci che si fanno materiche, che escono dal corpo e rimbombano nell’atmosfera; voci in falsetto, voci dal timbro basso, voci naturali, voci strozzate, voci che vengono scandite a ritmo di rap, voci amplificate dai microfoni che permettono all’attore di lavorare su una drammaturgia vocale, voci che si intersecano ai suoni del tappeto sonoro, creato da Gianluca Misiti e alle didascalie dei velatini, creando una narrazione multilivello. Sono le voci della compagnia, di Ilse e del Conte, degli Scalognati e di Cotrone, voci che si rincorrono, si sovrappongono, cercano di emergere singolarmente, ma alla fine devono cedere il passo alla propria fragilità, a quel “Non ho paura” iniziale che come un comandamento guida tutta la messa in scena. La peculiarità e la grandezza di Roberto Latini risiede nell’avere colto a pieno l’essenza drammaturgica del testo , tramutandola in evocazioni visive e sonore, in cui l’habitat scuro, schiarito a tratti da luci di taglio, coperto da densi fumi o da una pioggia di bolle si interseca ai suoni ambientali (lampi, pioggia, corvi) e agli echi dei fantasmi, asciugando la messa in scena e mantenendo intatta la drammaturgia. Se come performer carica su di sé tutti i personaggi, come regista impersona perfettamente il ruolo di Cotrone. Il mago, infatti, a un certo punto della vicenda si rivolge a Ilse dicendo: «Siamo qua come agli orli della vita, Contessa. Gli orli, a un comando, si distaccano, entra l’invisibile: vaporano i fantasmi. È cosa naturale. Avviene, ciò che di solito nel sogno. Io lo faccio avvenire anche nella veglia. Ecco tutto. I sogni, la musica, la preghiera, l’amore… Tutto l’infinito che è negli uomini, lei lo troverà dentro e intorno a questa villa». In questa versione dei I giganti, si evidenzia il potere di rimuovere quegli orli che tante regie contemporanee scontate e banali, continuano a immettere nel dramma pirandelliano. Non ha fatto un miracolo, ha semplicemente fatto teatro, ha materializzato i sogni e le paure degli spettatori davanti ai loro occhi. E così come per Ilse e la sua compagnia non ci sarà nessuna rappresentazione, allo stesso modo succede per la regia di Latini, che alla rappresentazione contrappone l’immaginazione, che nasce dalla parola e a essa ritorna, una parola che non spiega ma che evoca. D’altronde sarebbe impossibile rappresentare: I giganti non lo permetterebbero! Unica nota dolente è stata la scomodità del Teatro India, che non consente di godere appieno dell’ottimo teatro che propone a causa dei suoi deficit strutturali, primo fra tutti la non perfetta visibilità del palcoscenico dalle fila più alte e la sua scarsa insonorizzazione, che ha consentito di fondere il diluvio verificatosi a Roma con il tappeto sonoro di Misiti. I Giganti della Montagna di Luigi Pirandello adattamento e regia Roberto Latini con Roberto Latini musiche e suoni Gianluca Misiti luci Max Mugnai video Barbara Weigel elementi di scena Silvano Santinelli, Luca Baldini assistenti alla regia Lorenzo Berti, Alessandro Porcu direzione tecnica Max Mugnai movimenti di scena Marco Mencacci, Federico Lepri foto Simone Cecchetti produzione Fortebraccio Teatro in collaborazione con Armunia Festival Costa degli Etruschi Festival Orizzonti . Fondazione Orizzonti d’Arte Emilia Romagna Teatro Fondazione Roberto Latini vincitore del Premio della Critica 2015 (ANCT) per I giganti della montagna Gianluca Misiti vincitore del Premio Ubu 2015 come Miglior progetto sonoro o musiche originali Spettacolo finalista al Premio Ubu 2015 come Spettacolo dell’anno Roberto Latini finalista al Premio Ubu 2015 come Miglior attore o performer Visto al Teatro India di Roma il 25/02/2016 27 febbraio 2016 I giganti della montagna - Teatro India (Roma) di Pietro Dattola Premio della Critica 2015 (ANCT), Premio Ubu 2015 come Miglior progetto sonoro o musiche originali, Spettacolo finalista al Premio Ubu 2015 come Spettacolo dell'anno e Roberto Latinifinalista, sempre ai Premi Ubu 2015, come Miglior attore o performer: queste le credenziali de "I giganti della montagna", in scena al Teatro India dal 17 al 28 febbraio. Cento minuti, decine di personaggi e un uomo solo in scena: immaginazione e... paura. I GIGANTI DELLA MONTAGNA di Luigi Pirandello adattamento e regia Roberto Latini musiche e suoni Gianluca Misiti luci Max Mugnai con Roberto Latini video Barbara Weigel elementi di scena Silvano Santinelli, Luca Baldini assistenza alla regia Lorenzo Berti, Alessandro Porcu direzione tecnica Max Mugnai movimenti di scena Marco Mencacci, Federico Lepri organizzazione Nicole Arbelli foto Simone Cecchetti, Futura Tittaferrante produzione Fortebraccio Teatro in collaborazione con Armunia Festival Costa degli Etruschi, Festival Orizzonti / Fondazione Orizzonti d'arte, Emilia Romagna Teatro Fondazione con il contributo di MiBACT, Regione Emilia Romagna È perfetto - nota condivisibilmente Roberto Latini - che il lascito ultimo di Pirandello sia incompiuto, senza definizione. Come noto, infatti, de "I giganti della montagna" abbiamo il primo e il secondo atto, mentre il terzo ci è rimasto solo sotto forma di appunti e di testimonianze del figlio. Con questo testo, scritto nell'arco di diversi anni, nel quale confluiscono molti degli stilemi e dei temi pirandelliani (il complesso antefatto, i rimandi ad altri testi, propri o altrui, lo scontro tra una realtà materiale e una realtà "altra", in questo caso i "fantasmi", cosa è vero e cosa non lo è) l'autore siciliano intendeva completare la sua trilogia sui miti, composta dal mito della religione ("Lazzaro"), quello sociale ("La nuova colonia") e quello dell'arte ("I giganti della montagna", per l'appunto). La vicenda è quella di una compagnia di attori che giunge alla villa detta "la Scalogna", occupata da un gruppo di paria sociali, i quali non sono estranei ad atti creativi assimilabili a quelli artistici. La compagnia, sovvenzionata con sempre meno mezzi dal Conte, è guidata dalla moglie di questi, Ilse (o la Contessa), un'attrice che ha dedicato la sua vita a far rivivere un poeta morto a causa dell'amore da lei non corrisposto tramite la continua messa in scena dell'opera che egli aveva scritto espressamente per lei. Nonostante - o meglio, proprio per - la poeticità del testo, la compagnia è andata incontro a insuccessi e rifiuti ed è ormai ridotta ai minimi termini. Gli Scalognati, reietti della società che mancano di mezzi di sussistenza e che sembrano vivere di - e per - l'immaginazione, sono guidati da Cotrone, un "mago" in grado, nelle immediate vicinanze della villa, di generare dal nulla immagini e fantasmi e "inventare verità". Di ciò egli fornisce diverse dimostrazioni, tra cui l'apparizione di alcuni personaggi dello spettacolo portato in giro dalla compagnia (le donne de "La favola del figlio cambiato"). Poiché la compagnia è carente tanto in mezzi quanto in personale, egli esorta la Contessa e il suo gruppo a fermarsi per sempre alla villa, dove il dramma potrà compiersi senza soffrire limiti. Tuttavia Ilse non intende venir meno alla missione autoassegnatasi: lo spettacolo deve essere realizzato per un pubblico. Cotrone suggerisce allora di allestirlo per i giganti della montagna, quel popolo di individui tanto imponenti quanto rozzi che abita, lavora e trasforma la terra circostante. Il testo scritto da Pirandello termina con un personaggio della compagnia che, udendo il frastuono provocato dai giganti a cavallo, dichiara: "Ho paura." Del terzo atto sappiamo che i giganti accettano l'offerta, ma vorrebbero solo dei lazzi. Ilse insiste per mettere in scena lo spettacolo, il quale non viene gradito. La reazione dei giganti è tale da comportare la morte di Ilse e di altri membri della compagnia. La paura era giustificata e Cotrone aveva ragione a insistere: la poesia non è di questo mondo, se così si può dire. Pirandello sembra voler sostenere due tesi, una conseguenza dell'altra: la prima è che per quanto ci si sforzi, per quanti siano i mezzi e la convinzione (quelli iniziali del Conte e quella, perdurante, della Contessa, rispettivamente), la materiale realizzazione di un'opera d'arte (rappresentata dalla compagnia) non costituisce che una pallida sembianza dell'opera stessa, che invece può vivere ed essere vissuta pienamente solo con l'immaginazione (rappresentata da Cotrone e dalla villa); la seconda è che - anche per la pochezza dell'opera realizzata rispetto all'opera immaginata - qualsiasi tentativo di rappresentazione poetica è destinato al fallimento. Un episodio che pare aver scosso Pirandello, e al quale è forse riconducibile la paura provata nei confronti dei "giganti", sembra essere stato quello vissuto in un paesino della Sicilia, dove la sua compagnia era stata invitata per mettere in scena i "Sei personaggi in cerca d'autore". Per riempire il teatro, i nobili del paese avevano costretto ad assistervi anche i loro contadini. Il risultato fu che, al termine della rappresentazione, nessuno applaudì e che anzi gli attori dovettero uscire a dire che lo spettacolo era finito. I contadini tuttavia non si mossero se non dopo diverso tempo, quando era chiaro che non sarebbe successo più nulla. Il giorno dopo, durante il tragitto in carrozza verso la stazione, gli attori percepirono una certa ostilità dai locali, come se questi li stessero rimproverando di averli presi in giro, tanto da tirare un sospiro di sollievo una volta messosi in marcia il treno. Immaginazione, dunque, e paura. E questi sono i due temi focalizzati dall'adattamento di Roberto Latini. "Immaginazione!" è la scritta che accoglie gli spettatori in sala, la paura segna la penultima, magistrale immagine dello spettacolo, in cui l'attore, in bilico su un trampolino col sipario chiuso alle spalle, mette il pubblico, i giganti, a parte del terrore che attanaglia l'artista nel momento del dunque, nel momento del confronto con lo spettatore. L'esito, tragico, ispiratamente reso con un vorticoso roteare del trampolino stesso su cui è adagiato il corpo esanime dell'artista incompreso, sembra essere presagito da un'immagine che non appartiene al testo originale e che ricorre tanto nel primo quanto nel secondo atto di questo adattamento, quella del Cristo-spaventapasseri, nel quale ci sembra di rinvenire la figura dell'artista o del poeta, inevitabilmente destinato alla croce, forse alla gogna, comunque al fallimento, almeno in questa vita, in questo mondo. Complici anche un candelabro acceso che segue il performer sul palco o illumina da solo la scena, e le luci, che passano dall'astratto a suggestioni caravaggesche, l'atmosfera - e, dato il tema, non potrebbe essere altrimenti - è sempre tetra, tenebrosa, anche nei momenti più divertenti (ce ne sono!) dello spettacolo, costellato da immagini e soluzioni fulminanti (dalla proiezione di parole al posto degli oggetti che rappresentano - immaginazione, appunto! -, a buona parte del secondo atto, affidato esclusivamente a semplici quanto suggestivi effetti scenici - immaginazione, appunto! -, all'uso di più microfoni ed effetti audio per rendere la concitata scena iniziale - immaginazione... appunto!), il cui unico difetto consiste nel richiedere, per essere comprese, una preventiva conoscenza di un testo che, per quanto noto, di fatto non è poi così conosciuto. Ma non è forse perfetto che proprio un adattamento de "I giganti della montagna" rischi di risultare oscuro e venire frainteso dai giganti seduti in prima fila? 27 aprile 2016 ARSENALE DEL SUBLIME Chi si avvicina ai Giganti della montagna, l’ultima disarmata opera di Pirandello, fa un’esperienza del sacro di Katia Ippaso Chi si avvicina ai Giganti della montagna, l’ultima disarmata opera di Pirandello, fa un’esperienza del sacro. Qui non c’è solo il rovello metafisico, l’angoscia di un uomo (o di una donna) che in tante opere lo scrittore siciliano ha messo in forma. Qui c’è qualcosa di diverso, di terrorizzante. Usando le categorie estetiche di Burke, in questo caso non siamo a contatto con il “bello” ma col “sublime”. E in quanto sublime la parola trascende se stessa, fino a provocare uno sbandamento percettivo e conoscitivo. Tutto questo Roberto Latini deve averlo sentito a un livello così viscerale da crearci sopra un’opera sulfurea, che come le nuvole evocate sul palcoscenico si “addensa”. Per due ore, Latini si fa attraversare da tutti i personaggi, dal mago Cotrone alla contessina Ilse, non per cercare l’esibizione virtuosa ma per andarsi a conficcare in un punto di luce interiore, abitando da solo quella villa “che ogni notte si mette da sé in musica e in sogno”. Nell’arsenale delle apparizioni ricreato da Fortebraccio Teatro, dove la misterica musica di Gianluca Misiti (che gli è valsa un premio Ubu) e la bella composizione luci di Max Mugnai operano in forsennata armonia con la performance di Latini, tutto quello che accade appartiene al regno mercuriale: il passaggio di un lampadario antico, il movimento del vento, la luce azzurrina che si deposita su un campo di grano dorato… “Voglio immaginare tutta l’immaginazione che posso per muovermi dalle parole di Pirandello verso un limite che non conosco” dice Latini. Ed è quello che ogni spettatore è chiamato a fare, oltre i significati (il potere reale dei giganti, la minaccia di sopravvivenza per l’arte): spingere il proprio limite oltre lo specchio, là dove, incontrando il nostro doppio, incontriamo le dramatis personae che abitano il nostro inconscio, i fantasmi di coloro che siamo stati e che un giorno saremo. (visto al teatro India di Roma). 3 maggio 2016 3 maggio 2016 4 maggio 2016 IL DRAMMA “INCOMPIUTO” DEI GIGANTI RINASCE DEFLAGRA NELL’ INTERPRETAZIONE DI LATINI E di Francesca Romana Lino MILANO – Una drammaturgia esplosa, deflagrata e in qualche modo “offesa”, questo “I giganti della montagna” di Luigi Pirandello, che Roberto Latini porta in scena, assumendosene l’onere di adattamento, regia e interpretazione attorale. E’ come uno squadernemento “dentro alla testa”. Della scrittura originaria non restano che brandelli appesi a una struttura onirica e a quadri; stracci rimasti impigliati in rovi spinosi e che però mostrano, a tratti, la tessitura a cui appartenevano. Ancora una volta, il senso non è narrativo. Dopo interminabili stagioni della storia dell’umanità, in cui tramandare, prima, e affabulare, poi, erano parsi i soli modi per resistere all’oblio e allontanare la morte, sempre più va diffondendosi il bisogno di prendere il già esistente, rimasticarlo, farne bolo sostanzioso e poi restituirlo in qualche cosa di altro. Spesso il terminus a quo vien dato per scontato e il confronto è fin da subito con questo qualcosa di già digerito, che diventa altro. La trama dell’incompiuto pirandelliano racconta della compagnia di giro di Ilse. E’ chiamata ad espiare, nella ripetizione tantalica della replica teatrale, il feroce senso di colpa per il suicidio del poeta, autore della pièce scritta per amore della prima attrice, la contessa Ilse, “ilsé” narrante della vicenda, in fondo. Portano in scena “La favola del figlio cambiato”, che, nello strazio del coro delle prefiche, ripercorre la vicende della giovane madre, a cui fu sottratto un bimbo troppo piccolo per poter essersi allontanato da solo. La vicenda si concluderà col lieto fine: il bimbo, cresciuto alla corte, saputo dello scambio, tornerà alla famiglia naturale, pur rinunciando al trono. Il senso della metafora è chiaro: richiamare alla propria natura vocazionale, pur ad onta dei privilegi, a cui si potrebbe dover rinunciare; come fa la contessa, in fondo, perseguendo la sua vocazione attorale; come fa il marito, non di meno, assecondandola, nell’espiare il fio della colpa. Il teatro nel teatro, cifra cara a Pirandello, per parlare di quel ben più variegato teatro che è la vita; e se la compagnia è chiamata a recitare alla presenza dei bizzarri figuri onirici e surreali, che popolano la villa di Scalogna – termine spesso associato alla vita dei “teatranti”, come li chiama lo stesso maestro di Girgenti -, la richiesta di avere un pubblico più ortodosso, li porterà a incontrare i “giganti”. Sono massicci uomini di montagna, nella cui rozzezza, accennata solo dagli schiamazzi clamorosi, riecheggia il detto: “Scarpe grosse e cervello fino”; ma “finezza”, qui non rima con “sensibilità”, “bellezza”, “arte” o “poesia”, ma con quella scaltrezza, che fa di loro creature feroci e quasi bestiali. La stessa abnormità becera di un Polifemo, che, mentre si crede furbo nel tastar la groppa delle pecore, che è costretto a lasciar uscire al pascolo, si lascia gabbare dall’astuto Ulisse, che tutto gli ha portato via, lasciandogli solo la beffa di un nome inutile perfino da pronunciare. Forse questo pubblico, reso grossolano da una pragmatica, che lo ha inebetito, è la platea ideale, a cui la compagnia di Ilse e il benpensante teatro borghese di quei lontani anni “30 ambiscono? E che rapporto ha, tutto ciò, col pubblico di oggi? Qual è l’identikit dello spettatore “ideale” dei nostri giorni e che rapporto ha con quei “giganti” che rovinano giù dalla montagna o che, forse, alla montagna/trampolino verso il cielo ambirebbero di risalire per sfiorare le vette dell’eternità? Non è dato sapere se e quanto simili considerazioni abbiano mosso la scelta di Latini, in questo ambizioso progetto, che qui, al Piccolo Teatro di Milano, non può non evocare il fantasma dell’omonimo allestimento di quel Giorgio Strehler che aveva fortemente voluto il gioiellino a pianta circolare entro cui assistiamo alla rappresentazione. Quel che invece si coglie, in modo netto e quasi palpabile, è tutta la “paura” annunciata, gridata, strozzata, balbettata, amplificata, declinata in una pletora di suoni e sonorità, in cui il protagonista è fine dicitore e maestro modulatore; e lo spettro funebre, che allunga dita tanto silenti quanto inesorabili diventa un brivido raggelante. La messa in scena è suggestiva, onirica, ipnotica e surreale. Gioca con proiezioni di parole, che si rincorrono e svaporano come nubi nel cielo e scrosciano come i lampi verdi con cui gli “scalognati” cercano di allontanare i teatranti. Gioca a mescolare luoghi e tempi – il campo di grano, che dice “esterno”, ma poi il lampadario a goccia di cristallo, che fa tanto salotto buono o sala teatrale d’antan; la luce tersa dell’alba che dice “domani” o quella cobalto della notte, che dice “ieri”, mentre poi la vita si misura in un oggi, che ha il languore sepolcrale del limitar del giorno -; eppure in questo non luogo non manca un officinante, sia Ilse o il “mago” Cotrone, la Sgricia o l’Angelo 101, con tutto il suo carico simbolico, amplificato dalla plasticità mimica e prossemica di Latini, che sembra disporre del suo stesso corpo con quella confidente intimità abbandonica, più tipica della marionetta nelle mani del burattinaio. E mentre si sciorinano tutti i topoi pirandelliani – sogno e realtà, identità e maschera, verità e menzogna, sanità e pazzia, vocazione e ragionevolezza, in cui spesso l’accentuazione dell’uno diventa normalità dell’altra -, assistiamo a una parola che si fa corpo e poi sogno, suono, colore, suggestione; e se anche non dice, apertis verbis, alla nostra mente, ci abbacina il cuore con quella “paura” soffiata, sussurrata ed esplosa, che restituisce tutta l’angoscia di chi è a un soffio dal baratro, come fu l’autore di quest’opera incompiuta. Nulla potrà ritardare il pur centellinato procedere verso la fine di quel trampolino simbolico; nulla potrà salvarlo dall’immagine di quei piedi da salma composta, che scompaiono, risucchiati nella seta leggera di un sipario funebre. Potenti, il gioco delle immagini e i preziosi tecnicismi attorali del demiurgo Roberto Latini. 6 maggio 2016 6 maggio 2016 I GIGANTI DELLA MONTAGNA@PICCOLO TEATRO STUDIO MELATO MILANO di Wanda Castelnuovo Una trama indefinita, sfumata e quasi inesistente che radica in una conturbante vicenda tra realtà e fiaba onirica dalle molteplici interpretazioni possibili: una compagnia teatrale esausta e ridotta alla fame perché la prima attrice si ostina a recitare “La favola del figlio cambiato” - scritta per lei da un poeta suicida per amore non corrisposto - giunge nella villa detta la Scalogna dove abitano strani personaggi e un insolito mago… Non si tratta di un’interpretazione tradizionale de I giganti della montagnadi Luigi Pirandello (Girgenti, ora Agrigento, 1867 - Roma 1936), l’ultima sua opera (composta dall’inizio degli anni ’30 anche se concepita forse prima) rimasta incompiuta alla sua scomparsa. Proprio questa incompletezza la rende enigmatica facendole acquisire un’aura particolare e un fascino misterioso che hanno stimolato la capacità creativa di Roberto Latini (Roma 1970), adattatore, attore e regista molto impegnato nello sviluppare una pratica drammaturgica personale basata sul principio che “La scrittura è corpo in movimento” e non è mai slegata dal corpo-voce dell’attore e dalla musica. Un lavoro non da raccontare, ma sicuramente da vedere per l’incanto arcano che lo attraversa, per le atmosfere cangianti tra sogno e allucinazione, concretezza e illusione, vita e teatro… che coinvolgono, per quei messaggi appena suggeriti che lasciano nella mente appunti da rivedere e svolgere per ritrovarvi segni del grande Pirandello, conoscitore della psiche umana, che si lascia leggere, capire, comprendere e penetrare soprattutto nel composito e sfaccettato mondo delle Novelle, dove si amalgamano mirabilmente umanità profonda, capacità d’introspezione, retaggi di lontane tradizioni, solarità inquieta e soprattutto quella melanconica tristezza che l’assolata terra di Sicilia trasmette ai suoi abitanti oltre a mille altri aspetti della fantastica capacità dell’uomo di leggere l’esistente. Pirandello s’ispira sovente alle proprie novelle per le opere teatrali: in questo caso a Lo stormo e l’Angelo Centuno e ad altre per alcuni personaggi e anche La favola del figlio cambiato - composizione fiabesca musicata da Gian Francesco Malipiero e rappresentata nel 1934 - è scritta da Pirandello che la riprende dalla sua novella Il figlio cambiato. Nella rivisitazione di Latini emergono brandelli di parole della trama pirandelliana e fantasmi dei suoi personaggi, le atmosfere sono ombrose e tendenti al buio se non cupe, quadri surreali con alcuni richiami a Magritte, ma di fronte al campo di grano ricco di floride e solari messi come non pensare a Padron Dio, toccante novella il cui protagonista poverissimo, umile “esattore di Dio”, chiede la carità anche di alcuni chicchi di grano che semina in un campo abbandonatoab immemorabili ripulendolo da erbacce, dissodando quella terra incolta con mezzi di fortuna e godendo della crescita rigogliosa delle numerose spighe finché dopo un lungo ricovero in ospedale tornato al terreno vi troverà una sorpresa… Straordinarie riflessioni di Pirandello sul miracolo della vita e sul flusso vitale continuo dell’esistere e sui suoi perché tante volte sviscerati come per esempio in Canta l’Epistola il cui protagonista difende l’esistenza del ‘suo’ filo d’erba. E così si può continuare a riflettere senza posa grazie a Latini con il suo singolare e affascinante adattamento che si apre e si chiude a mo’ di cerchio con “Io ho paura”, ultima battuta vergata da Pirandello sul copione e pronunciata da uno dei personaggi angosciato di fronte ai rumori squassanti dei Giganti in arrivo: piace interpretare “Paura” come timore che si perda la bella abitudine di pensare con la propria testa, attività, invece, profondamente stimolata dall’intrigante messa in scena del bravissimo regista-attore. 6 maggio 2016 I GIGANTI DELLA MONTAGNA - PICCOLO TEATRO STUDIO MELATO (MILANO) Fortebraccio Teatro, nella persona del premio Ubu Roberto Latini, porta in scena al Piccolo Teatro Studio Melato “I giganti della montagna”, l'ultimo lavoro di Luigi Pirandello, peraltro rimasto incompiuto. di Caterina Paolinelli Lo spettacolo inizia con una parola proiettata a lettere cubitali sul telo: IMMAGINAZIONE. E' senza dubbio il requisito indispensabile per poter compiere insieme a Latini questo coraggioso viaggio. Sì, ci vogliono l'immaginazione e la creatività di una mente che sogna, nel senso onirico del termine, per vedere in una sola persona fisica (solo in due occasioni supportata da un mimo di scena vestito da uccello) tutti i personaggi dell'opera pirandelliana. Quello compiuto da Latini è un miracolo, una magia, il giuoco del teatro nella sua forma più bella e vera e ludica. Un campo di grano dalle spighe dorate sovrastato da video-proiezioni che ci raccontano il cielo e le condizioni atmosferiche attraverso la parola e poi un uomo seduto, circondato da microfoni, che parla... ma non è interessante andare avanti così, spiegando cosa accade, il lettore potrà andare lui stesso a vedere lo spettacolo se vorrà vivere sinceramente questa esperienza. Sì, in questa occasione ogni narrazione appare misera al confronto dell'esserci stati e dell'aver assistito. A tratti si pensa al Terrence Malick di “The Three Of Life” per le immagini di una natura possente e divina che ci circonda, sovrasta, una natura che ci ha preceduti e ci sopravviverà sempre. In altri momenti si cede, avvinti e disarmati dalla capacità mimetica di questo attore in scena dotato di un corpo plastico eccezionale e di capacità vocali impressionanti. E' scuola per qualunque giovane volesse avvicinarsi alla scena, per chiunque avesse anche il più blando desiderio di intraprendere questa via. La via dell'arte. Si perché qui, siamo a teatro è vero, ma molte sono le arti che confluiscono in questo spettacolo a tratti rock, altre volte onirico, fiabesco e narrativo. Le musiche di Gianluca Misiti sono l'altro protagonista in scena. Momenti altissimi di composizione, vibrazioni emotive, suoni campionati dalla meravigliosa perfezione che è il mondo della natura. E, come già accennato sopra, il capolavoro della scenografia. Bellissimo campo di grano, video-proiezioni suggestive e quel lampadario fluttuante che richiama, poetico essenziale dettaglio, il castello dove la compagnia di giro si rifugia e dove tutto ha inizio. “I giganti della montagna” è l'opera-testamento di Luigi Pirandello, rimasta incompiuta. Un lavoro criptico, difficile, come un presagio che l'autore ha avuto sulla sua stessa vita o più semplicemente una condivisione dell'umana condizione che l'autore ha messo nero su bianco, regalandoci un ultimo suo appunto sul senso della sua vita quasi interamente dedicata al teatro e ai teatranti: un mondo fatto di emarginati, angeli, sognatori, demoni, peccatori, poeti. Il testo si interrompe con la battuta: “Io ho paura”. Latini sceglie di aprire e chiudere il suo lavoro proprio con queste parole. Si racchiude infatti tutta qui l'umana condizione. Un Pirandello diverso finalmente! Una lettura vera, che passa da parte a parte il testo drammaturgico e come un coltello affilato lo apre in due e ci restituisce l'anima. La nostra e quella dell'autore che per niente vedeva i suoi personaggi con cappellini anni Trenta e pellicciotti di volpe. Ma uomini e donne e uccelli e spaventapasseri e freak cosparsi di terra e sudore. Esseri veri, reali, con problemi concreti e nessun manierismo. Si esce dal teatro rapiti. Affascinati. Carichi di cose che piano piano si dipanano in noi e si comprende perché il teatro è diverso dallo spettacolo e dall'intrattenimento. Vedendo questo lavoro di Roberto Latini e di tutto l'ensemble di Fortebraccio Teatro, ci si avvicina ad un mondo, l'arte, che ha senso esistere e che deve poter esistere perché ci parla di chi siamo noi. A un livello profondo, irrazionale, richiama le molecole della terra e dell'acqua di cui siamo fatti e le fa vibrare. Ci fa arrivare più vicino a noi stessi e a Dio (o all'Universo come dir si voglia). Ci mette di fronte alla nostra condizione di esseri umani: fragili e finiti, in una parola mortali. Sì. La morte. L'ossessione più grande e la più grande delle rimozioni impossibili da rimuovere. Lo spettacolo, anzi questa creazione artistica, è in scena al Piccolo Teatro Studio Melato di Milano fino all’8 maggio. 6 maggio 2016 GIGANTI DELLA MONTAGNA (I) - regia Roberto Latini di Niccolò Lucarelli Roberto Latini in "I giganti della montagna", regia Roberto Latini. Foto Simone Cecchetti MILANO - La verità interiore che si scontra con l'ipocrisia, l'indifferenza, la malvagità e l'ignoranza della massa, in un contesto socio-politico alla deriva, nell'Europa ormai dominata dai totalitarismi. E, di riflesso, la problematica dell'affermazione di se stessi, attraverso un'esistenza vissuta ai margini, combattendo ogni giorno per raccontare il proprio disagio, e conducendo una vita raminga, alla ricerca di un impossibile altrove. Quando, l'unica meta raggiungibile, è il campo di battaglia, come dimostra la vicenda di Ilse, pronta al sacrificio come una moderna Ifigenia. Per queste ragioni, I giganti della montagna s'inserisce in un contesto letterario impegnato, nel solco di romanzi quali Viaggio al termine della notte di Céline, o di Fuoco fatuo di La Rochelle, e costituisce uno dei più splendidi esempi di teatro civile europeo e mondiale, investito di una profonda coscienza critica, e capace di scuotere direttamente le corde più profonde dell'anima del pubblico. Non c'è da stupirsi, quindi, che sia uno dei testi pirandelliani meno rappresentati, scomodo sin dal suo apparire, complesso da allestire per la concettualità che richiede, in definitiva un capolavoro senza troppi diritti di cittadinanza. Riadattando il testo di Pirandello, Roberto Latini ne fa un qualcosa sospeso fra la tragedia greca, l'opera rock, la performance concettuale, e la sperimentazione scenica, attualizzandone la tragica portata. La scenografia è quanto di più teatrale si possa immaginare, perché il suo minimalismo spinge a usare la fantasia, a ricreare davanti ai propri occhi il sole, le stelle, il cielo, il giorno e la notte, e le esistenze malvissute ma affascinanti che vengono raccontate: luci basse, che più che illuminare oscurano, e uno sfondo su cui scorrono parole e immagini di cieli azzurri e cieli notturni, e sul palco, una breve striscia di spighe di grano, simbolo di un Sud atavico e pastorale, ma anche metafora della forza del libero pensiero, che germoglia come le spighe. Infine, una colonna sonora che spazia dal rock progressivo, alla psichedelia, a motivi struggenti dal sapore arabeggiante, per rendere al meglio la durezza della lotta quotidiana per affermare la propria verità interiore. Assumendo su di sé la responsabilità d'interpretare tutti i personaggi (operando però un opportuno sfoltimento, senza pregiudicare il tessuto originale), il regista e attore regala al pubblico un'affascinante, struggente, dolorosa allegoria della forza dell'immaginazione, della creazione artistica (e in particolare del teatro), di rendere libero l'individuo, e fiducioso nella propria onestà intellettuale al punto da permettergli di affrontare le prove più atroci, persino a sfidare la morte in nome della libertà. Il nemico più grande è la paura, una parola chiave che ricorre più volte, anche scenicamente, proiettata sullo schermo che costituisce lo sfondo. La trama è semplice, funzionale a sostenere un'allegoria dalla profonda portata civile: uno strano gruppo di attori girovaghi malvissuti, dopo un lungo cammino giunge a una villa ironicamente chiamata La Scalogna, dove incontrano i suoi strani abitanti, individui che qui si sono rifugiati per sfuggire ai Giganti, misteriosi dominatori di una civiltà ormai in preda alla violenza. Ognuno dei personaggi, racconta la propria storia, legate l'una all'altra dal medesimo sfondo di dolore, dall'urgenza di esprimerlo, in una sorta di autoterapia. Steso attorno al 1933, questo affascinante dramma riflette, ovviamente, il difficilissimo e doloroso clima che aleggiava allora sull'Europa ormai preda dei totalitarismi, e con la guerra civile spagnola che sarebbe scoppiata di lì a poco, così come il secondo conflitto mondiale. Ad atterrire Pirandello, la morsa mortale che si stringe attorno alla libertà individuale, al pensiero critico, alla possibilità della creazione artistica. La pièce è, in primo luogo, l'irrealizzabile tentativo di poter trasferire in una dimensione più accettabile la durezza del momento storico; in questa villa, infatti, grazie ai prodigi del Mago Cotrone, ognuno è libero di raccontare la propria storia, e raccontandola riesce a conoscerla e a comprenderla, comprendendo quindi anche se stesso (non è necessario essere creduti dagli altri, per credere a se stessi). Ma senza la possibilità di far sentire al mondo la propria voce, chiuso per scelta a villa La Scalogna, un luogo sospeso fuori dal tempo e dallo spazio, fra la vita e la morte, affine all'altrettanto misteriosa isola della Tempesta di Shakespeare. L'indefinito è la dimensione di questo dramma, e Latini vi attiene con scrupolo, sia scenico sia drammaturgico. Dal primo punto di vista, grazie alla scenografia, che riproduce un "non luogo"; drammaturgicamente, attraverso la scelta d'interpretare tutti i personaggi, sia maschili sia femminili, uniformandoli nella medesima sofferenza e disillusione che si portano dietro, nonostante le magie di Cotrone. A rompere "l'armonia" della villa, la decisione di Ilse - una delle attrici della compagnia -, di tornare fra i Giganti, portandovi l'arte del teatro, attraverso la quale esprimere il proprio pensiero, la propria idea di verità. Lo scontro è quindi inevitabile, ma Ilse va incontro al proprio destino a testa alta, con la dignità di chi, per citare Malaparte, resta libero anche in una prigione. È lei, con la sua sfida al potere, il personaggio chiave dello spettacolo, la sola che riesca ad avere un'idea compiuta della propria coscienza e del diritto/dovere civile di usarla. Andrà incontro a una fine tragica, già intuita in partenza, ma si sacrifica rivendicando il proprio diritto di esprimersi. E nell'Italia meschina e maledetta del III Millennio, Ilse è la metafora di quella minoranza giovanile che ogni giorno cerca di far sentire la propria voce in una società gerontocratica, composta da miserabili "giganti", imbottiti di tessere di partito, gonfi di privilegi e avidi di accumularne ancora, che di fatto stanno negando a un'intera generazione la possibilità di costruire la propria vita. Questi sono i "giganti" di oggi, oppressori forse persino più odiosi dei dittatori degli anni Trenta, che almeno non si nascondevano dietro l'ipocrisia. Alla chiusura del sipario, il pubblico applaude con buona maniera, eppure un po' spaesato, compresi numerosi colleghi (seduti appena a fianco di chi scrive). Brutto segno, ci sembra, sintomatico di una mancanza di cultura teatrale anche in chi dovrebbe averla per mestiere, in un'epoca soverchiata dall'imperare della televisione, diabolico oggetto che massifica l'opinione e rende incapaci di apprezzare il pensiero libero, autentico, critico, che la drammaturgia ha da offrirci. 9 maggio 2016 ROBERTO LATINI... IL 'GIGANTE DELLA MONTAGNA' di Angela Zinno ----------------- I M M A G I N AZIONE. E' questa la Parola Prima che investe gli spettatori del 'Piccolo - StudioMelato' di Milano, dove è andata in Scena dal 3 all' 8 maggio 2016 la sensibile [In-]versione di Roberto Latini - Fortebraccio Teatro de 'I Giganti della Montagna' di Luigi Pirandello. --------------------------- IMMAGIN A Z I O N E. E' questa la 'chiave' che si trova entrando nella scura e granitica sala semicircolare. IMMAGINAZIONE. Scritta. In Alto. Data. Donata. Offerta. E allora ti siedi e prima che ogni cosa inizi sei già investito di un Dovere. Sei già Parte in Causa. Non c'è margine di Scelta. Sta a te. Roberto Latini prende la sua rincorsa, ripercorrendo all'indietro, di qualche passo, il diametro di questo cerchio testuale apparentemente scomposto e.. inusuale. Carica, carica.. e la Voce si denuda: 'Io Ho Paura'. L'ultimo inciso della Drammaturgia Pirandelliana diviene dunque la sua battuta d'inizio. Motivatamente. Per.. Collettività. Per.. Rotondità. Giusta. Corretta. Di lì il suo Monologo - Dialogo - Terzetto - Quartetto - Quintetto. Un Armonico suonare delle Parole. Parole di un Testo Puro. Lasciato Intatto. Non edulcorato quanto.. portato in superficie. Accompagnato alla Forma, dalla Sostanza, in maniera intermittente. E Significante. E la straordinaria capacità di questo 'Donatore' di portare alla Vita, in Scena, non i personaggi piuttosto.. il loro 'detto', e ancora prima lo 'scritto' di quel 'detto', trasforma lo Spettacolo in un momento denso di Scelte. Coscienti. Due ore di costante attività cerebrale. E.. non te ne accorgi. Perché in qualche modo stai.. Immaginando. Stai Immaginando.. l'Immaginazione. La Scena è profonda. Scura e greve. Un campo di grano che parla col suo fruscio quando è attraversato dalla Forma di quel corpo. Un lampadario, la cui visione è opaca, e che si sposta per permetterti di spostare il punto di vista. Le morbidezze dense dei fumi, delle nebbie. Roberto Latini muove la sua Forma nello Spazio. Diviene Gesto. Non incarna personaggi. Ma ne 'trasporta' le Suggestioni. Attraverso la Voce. Echi. Riverberi. Azioni della Voce. Atti Sonori. E Fisici. Nudità che diviene Trasparenza. Perché il corpo in Coscienza.. non serve. Roberto Latini non recita. Dice. E dice, nel suo linguaggio e con la medesima pregnanza, Gianluca Misiti, creatore della Musica che paradossalmente N O N avvolge lo spettacolo ma piuttosto.. ne è avvolta. Che quindi non accompagna ma è Altra Voce. Possente cassa di risonanza dell'Insieme della Visione che essa stessa produce. Immagini Sonore. Parole di Senso. E il corpo di un attore che è certamente il 'primo spettatore di se stesso' che si sdoppia all'improvviso in un'immagine-specchio di una Maschera lontana. E allora per un attimo guardi gli altri spettatori e ti chiedi se anche loro stiano vedendo la doppia immagine. Ti chiedi se c'è davvero il 'secondo corpo' in scena o se sei tu che lo stai.. immaginando. E passa il testo di Pirandello in un gioco di puzzle alla rovescia, come a togliere i pezzi. Passa così com'è. Atto Scritto. E immediatamente la suggestione che ti coglie già non sta più nella dinamica della Visione. Ma in quella 'Emotiva'. Non raziocinante. Non naturalistica. Si salta un passaggio. [Fortunatamente]. Allora le parole [scritte/dette] di Ilse, del Conte, di Cotrone, degli Scalognati, passate al setaccio della gola e dell'Intuizione di Latini, convergono in un punto unico che non sta più nel perimetro del palcoscenico. Sta esattamente nel raggio d'azione dello Spettatore controparte. Così Latini restituisce. Ed ecco che attraverso il 'detto' del dialogo tra Diamante e Cromo: "[...] ma sai che temo d'avere inghiottito uno spillo [...] me lo sento qua [...]" non sono più le parole ad arrivare per prime. Ne in nessun modo hai possibilità di piantare bandiera per esserti appropriato di una 'interpretazione'. Sei semplicemente e velocissimamente colto dalla agghiacciante suggestione di avere inghiottito uno spillo arrugginito. E istintivamente deglutisci. Perché le parole che 'ascolti'.. provengono direttamente dal gesto della Scrittura. E filtrate attraverso un suono Vocale quasi 'campionato' in tempo reale. Davanti a te. Con te. Ogni parola è ferocemente spogliata di verosimiglianza semantica. Diventa 'altro da se' del testo scritto. Ed ecco perché, sebbene le parole continuino anche ad apparire sullo schermo in forma scritta, [Cielo Azzurro - Nuvole] esse risultano a questo punto quasi 'superflue', nel tentativo ininterrotto di guidare in qualche modo l'immaginazione dell' "Immaginabile". E così Latini, fino alla fine, fino a un attimo prima di 'scomparire' nel suo consueto inchino che letteralmente lo fonde con le Tavole, offre una regia che certamente viene da lontano, pesata, misurata in ogni passo. E poi forse dimenticata. Per fondersi con una Scena, con un'indagine sonora, prossemica e fisica che armonicamente fanno di parole messe su carta negli anni trenta del Novecento.. una nuova Scrittura. E a conclusione di questa sua intrinseca [re-]visione di un testo forse dei più complessi del precedente secolo, ti lascia un'ultima domanda: "ma tu non hai Paura..?" con la quale (a buon o cattivo intenditore) chiude questo cerchio. E mentre scompare roteando su un (immaginario) asse orizzontale.. disteso.. 'esausto' in accezione deleuziana.. resta in silenzio. Ma, a livello Immaginario, della Paura.. lo si sente ridere. E tu ti chiedi davvero se.. hai paura. E comprendi che durante questo viaggio di domande te ne sei poste tante. Quindi.. c'Eri. E lo spettacolo allora lo hai fatto anche tu. Perché il Teatro di Roberto Latini restituisce al Teatro la sua prima 'connotazione'. Il suo primo Senso: lo Scambio. Perché il Teatro di Roberto Latini è veramente e fino in fondo.. un Atto Collettivo. 27 luglio 2016 A GIBELLINA I "GIGANTI" NELL'OCCULTO TEATRALE DI LATINI: VIAGGIO di Guido Valdini Una tempesta di voci, metalliche, flebili, disarticolate, si abbatte come il vento della paura sulla Villa della Scalogna, regno del potere dell'immaginazione e dove il teatro si fa magia, tornando ai limiti irrazionali delle civiltà rituali. È in questa fantasmatica dimensione, buia e lampeggiante, crogiolo di misteri senza soluzione, luogo delle infinite possibilità, che ci trasporta Roberto Latini, attore, regista ed artista completo fra i più interessanti e creativi della scena contemporanea, con la sua rilettura de I giganti della montagna, ultimo ed incompiuto capolavoro pirandelliano, allestito alle Orestiadi di Gibellina, dirette da Claudio Collovà, e accolto dagli insistiti e meritatissimi applausi del numeroso pubblico. E "le voci" sono quelle dello stesso Latini che, solo in scena e nulla in scena, dà vita ad uno spettacolo di grande presa e di notevole spessore drammaturgico, attraversando il lungo e in largo il palcoscenico, tra i diversi microfoni ed una selva arsa di spighe di grano. Nelle sembianze di un fascinoso concerto (il ricordo va subito a Carmelo Bene, ma in una performance estremamente personalizzata) che voci, musiche e suoni (di Gianluca Misti) alternano a momenti di prolungata assenza scenica, solcata solo dalla violenza delle luci (di Max Mugnai), Roberto Latini restituisce il pirandelliano mito moderno dell'arte (quello, appunto, dei Giganti) pressoché nella sua interezza, inscenando tutti i personaggi, dal mago Cotrone, che dialoga col vento e gli spiriti dell'aria, facendone materia onirica, alla Contessa Isle, regina dei commedianti che vorrebbe rappresentare la lacrimevole vicenda de La favola del figlio cambiato; a tutti gli altri, attori e folletti abitatori della Scalogna. Cotrone e la Contessa, l'uno doppio dell'altra, nell'accesso opposto al teatro, come sortilegio o come immedesimazione. Glabro sciamano del gesto ed evocatore d'ombre, Latini affronta il dramma pirandelliano, antitesi delle commedie borghesi, come chiave per esplorare l'occulto teatrale. E dunque, contro quei Giganti che per l'autore agrigentino erano mostri incombenti della tecnologia, volti dell'inumano che si approssimavano, anticipatori dell'omologazione di massa e indifferenti alla cultura, Latini oppone nel finale un'ara elevata dove s'immola l'attore. Mentre un lampadario ottocentesco ondeggia e si odono le note di "Una furtiva lacrima" da L'elisir d'amore di Donizetti, quel vecchio mondo che trapassa non è sostituito se non dal sacrificio del teatro. 21 settembre 2016 ROBERTO LATINI: UN ARSENALE DI APPARIZIONI di Francesca Saturnino Quaquèo: Toh, guarda! L'hanno preso per teatro! Noi facciamo i fantasmi... Milordino: Ci si son divertiti! Diamante: I fantasmi? Che fantasmi? Quaquèo: Ma sì, le apparizioni, per spaventare la gente e tenerla lontana! (I giganti della montagna, Luigi Pirandello) Qualche sera fa, il pubblico di Efestoval, “Festival dei vulcani” di teatro itinerante nei Campi Flegrei diretto dal drammaturgo e attore Mimmo Borrelli, ha avuto modo di assistere a una serata speciale, per una serie di motivi. In primis, per la location: la caratteristica più notevole di questa rassegna – quest’anno alla sua seconda edizione – sta nel fatto che gli spettacoli vanno in scena in luoghi non canonicamente teatrali, spesso sconosciuti, della zona flegrea di cui Borrelli è originario. È il caso di Parco Cerillo, un’area verde panoramicissima sulla collina di Sant’Anna, poco prima di Miseno, “restituita” ai cittadini l’anno scorso dopo un lungo periodo di chiusura e d’incuria; o il Parco Monumentale di Baia, un altro posto incantevole, nel resto dell’anno difficilmente visitabile. Qui, con luna piena sul castello aragonese di Baia, è andato in scena il lavoro di Roberto Latini da I giganti della montagna, ultima opera teatrale di Luigi Pirandello, lasciata incompiuta: forse una delle più controverse e simboliche del drammaturgo siciliano. Una riflessione amara sul teatro, allo stesso tempo una denuncia (scritta in pieno regime fascista) nei confronti del sistema culturale tutto. La trama è semplice, ma scivola spesso nel metateatro, e nella poesia. Una compagnia di giro – come tante, all’epoca, cui il blocco fascista impediva di spostarsi – approda in una villa – luogo onirico e fantastico – dove un mago e altri visionari si sono ritirati a vita privata e isolata. Alla compagnia viene proposto di rappresentare lo spettacolo alla presenza dei giganti, esseri enormi e intrisi di potere che, tutti “apparecchiati a festa”, scenderanno dall’alto della loro montagna. Su questa linea narrativa, Pirandello innesta sconfinamenti poetici, personali e metateatrali incredibilmente vicini alla condizione del teatro – e dell’attore – contemporaneo che Roberto Latini, sperimentatore sopraffino, premio Ubu come miglior attore 2013 con Il servitore dei due padroni diretto da Antonio Latella, incarna e dilata fino alle estreme conseguenze. Questo è il secondo motivo per il quale il pubblico ha assistito a una serata irripetibile, laddove ha avuto voglia e disponibilità – emotiva e intellettiva – di lasciarsi andare. Questo lavoro (una versione cambiata rispetto a quella iniziale che prevedeva anche l’attrice Federica Fracassi) potrebbe altrimenti risultare di difficile fruizione per uno spettatore medio, sia per il suo nucleo denso di significati a più strati, che per le modalità di questa messa in scena che destabilizzano fin dall’inizio. Latini, vestito scuro e un drappo color curcuma come unico oggetto scenico, entra morbido, su un tappeto sonoro di urla di gabbiani. Il palco è vuoto, al centro una sedia con tre microfoni disposti a raggiera. Smonta subito il testo di Pirandello, partendo dal finale, precisamente dalla battuta di Diamante “Io ho paura”, che, ripetuta come un mantra, suona come una vera e propria dichiarazione d’intenti. Poi è il suono: elettrico, folgorante, ritmico. Ecco che l’incipit del testo pirandelliano diventa un pezzo progressive ipnotico che fa esplodere le parole come beat. Latini mastica e sputa dialoghi, monologhi e didascalie in una partitura di suoni campionati, archi, rumori anche naturali – la pioggia, i gabbiani, le cicale – e voci che si moltiplicano e si distorcono nei tre diversi microfoni. Oscilla letteralmente – equilibrista sulla sedia o accartocciato verso terra – tra i personaggi, le nevrosi, i dubbi del dramma pirandelliano. Fa sue – generosamente e intimamente sue – le secrezioni emotive degli attori: di chi per mestiere deve rendere l’immaginazione realtà; e crederci. Portare coraggiosamente e forsennatamente avanti quel gioco della fantasia, fiamma sacra che brucia sotto il fuoco del teatro, guardare oltre quel velo più che simbolico che l’attore porta più volte davanti agli occhi: difendere questo gioco puro dagli imprenditori dello spettacolo/giganti padroni e da "quel pubblico anche colto, istruito che pure lo vede che piango e non se ne commuove; ne prova fastidio", come dice Ilse nel monologo cui Latini imprime una viva contemporaneità. Un personalissimo ritmo che egli trova internamente al testo gli permette di passare, con una notevole padronanza delle diverse voci, dalla dimensione lirica a quella corale, dal realismo allo sconfinamento più totale nel sogno: un vero e proprio “arsenale di apparizioni” in cui Latini si produce senza risparmiarsi. Fino a un finale sospeso che si consuma, lento e onirico, sull’aria Una furtiva lagrima di Donizetti cantata da Enrico Caruso. Il palco vuoto, la sedia messa di spalle al pubblico, al posto del fondale, la luna a picco sul mare. Dopo gli applausi, si resta qualche attimo in silenzio, a riassestarsi dopo i colpi ricevuti in un’ora di teatro con la "T" maiuscola di cui oggi, in un periodo di crisi drasticamente simile a quello in cui fu concepito I giganti della montagna, si sente francamente il bisogno. N.B.: Su I giganti della montagna – Radio edit si veda anche: Alessandro Toppi, Il teatro degli spiriti – Il Pickwick, 9 dicembre 2014 Efestoval I giganti della montagna – Radio Edit di Luigi Pirandello adattamento e regia Roberto Latini musiche e suoni Gianluca Misiti luci e direzione tecnica Max Mugnai realizzazione elementi di scena Silvano Santinelli produzione Fortebraccio Teatro in collaborazione con Armunia Festival Costa degli Etruschi, Festival Orizzonti, Fondazione Orizzonti d’Arte, Emilia Romagna Teatro Fondazione lingua italiano durata 50' Bacoli (NA), Parco Monumentale di Baia, 17 settembre 2016 in scena 17 settembre 2016 (data unica) 04 ottobre 2016 GORSKI DIVOVI: IGRA OD STOTINU GLASOVA JEDNOG ČOVJEKA I giganti della montagna: Gioco di centinaia di voti su un uomo di Vesna Andree Zaimović Roberto Latini, osnivač trupe Fortebraccio Teatro iz Italije, na 56. MESS-u, na pozornici Sarajevskog ratnog teatra, podario nam je osoben prikaz Gorskih divova. Riječ je o tekstu nobelovca Luigija Pirandella, koji je ostao nezavršen uslijed autorove smrti, a prvi put izvedeno posthumno. Roberto Latini, višestruko nagrađivani teatarski autor i performer impresionirao nas je punoćom izvedbe ove monodrame. Njegov talenat i usavršene glumačke vještine čine čvrstu osnovu ove predstavu jednog čovjeka. Osim Latinija, ono što ove Gorske Divove čini uistinu golemim je zvučno i muzičko savršenstvo koje je rezultat suradnje sa kompozitorom Gianlucom Misitijem. Tako smo imali priliku slušati "stotinu glasova" jednog izvođača, kojima je interpretirao Pirandellovu poeziju uvodeći nas u nadrealno. Tome su doprinijele vrhunske postavke svjetla i scene, stvarajući tako kontekst u kojem je Latinijevo umjetničko biće pokazalo najbolje od sebe. Roberto Latini, fondatore della compagnia Fortebraccio Teatro in Italia, al MESS 56, sul palcoscenico del Sarajevo War Theater, ci ha dato una visione peculiare de I giganti della montagna. Si tratta di un’opera del premio Nobel Luigi Pirandello, rimasta incompiuta a causa della sua morte, eseguita postuma per la prima volta. Roberto Latini, premiato autore teatrale ed interprete, ci ha colpito per la pienezza della prestazione del monodramma. Il suo talento e le sue doti di attore formano una solida base di questo one-man show. Oltre a Latini, c’è un suono veramente enorme e la perfezione musicale, risultato della collaborazione con il compositore Gianluca Misiti. Così abbiamo avuto l'opportunità di ascoltare "un centinaio di voci," un artista, che ha interpretato la poesia di Pirandello introducendoci al surreale. Questo è stato possibile grazie alle luci superbi, alle scene, alla creazione di un contesto in cui l'arte Latini viene mostrata al meglio. 12 dicembre 2016 I GIGANTI DELLA MONTAGNA E IL POEMA DELLA CENERE DI LATINI di Francesco Bove L’ultimo dramma di Luigi Pirandello, I giganti della montagna, è una riflessione incompiuta, scritta poco prima di morire, sul rapporto strettissimo tra vita e arte. Non c’è più un vero confine tra persona e personaggio e la strada da percorrere per giungere ad un palcoscenico non è altro che la vita. L’idea dell’Arte come Vita, che ha comunque percorso tutta la poetica di Pirandello, qui si fa, però, più estrema e oscura, percorsa e percossa da infinite paure e da infiniti silenzi. L’ultima frase del copione incompiuto, infatti, è “Io ho paura”, con cui Latini fa iniziare la sua versione “radio edit” de “I giganti della montagna”. A partire da quella frase, comincia a svilupparsi un lavoro potente, visionario, basato su uno straordinario lavoro vocale che Latini ha fatto su se stesso. Una voce che immagina la paura, mutevole, che affonda nelle ferite aperte dei personaggi e che riemerge, improvvisa, prendendo corpo nella scrittura pirandelliana. Una voce in maschera che diventa voce di petto, di testa, che registra tutte le tensioni narrative del testo fino ad acquisire il valore-segno della maschera. Roberto Latini si fa carico del dolore dei personaggi e ripensa il mito pirandelliano, moltiplicandone le inquietudini e trovando un ritmo nel dramma che funge da tessuto connettivo e da partitura sonora. Il performer si fa macchina attoriale, diluisce la propria maschera per attraversare le infinite modulazioni del testo pirandelliano, superare i ruoli e l’eterno dualismo tra immagine e parola. Poi c’è il teatro come pretesto, come rottura della finzione scenica: la trama dei “Giganti” parte proprio da una compagnia di attori girovaghi, capitanata da Ilse, che giunge alla Villa della Scalogna, gestita dal mago Cotrone, dove la vita non è compresa entro i “limiti del naturale e del possibile”. Dapprima Cotrone e gli Scalognati, gli abitanti della villa, cercano di allontanarli con fulmini, tuoni e apparizioni ma, infine, li accolgono invitandoli a recitare il loro dramma ai Giganti della Montagna, signori molto potenti che potrebbero accogliere la loro proposta. Latini si muove, quindi, vestito di nero, su una scena semivuota dominata solo dai microfoni, e fonde il testo con una partitura musicale di musiche, echi, suoni e rumori naturali distorti. Da una parte, c’è l’assenza del dio Teatro, fatto di attori e scene, e, dall’altra parte, c’è la sua presenza, invocata attraverso una dimensione sospesa, eterea fatta solo di voci che si sottraggono alla dittatura del senso e del simbolico. Sembra quasi che Latini sfidi il Derrida conferenziere affrontando il “poema della cenere”, cioè di qualcosa che è scomparso o il suo nome, ormai illeggibile. E “se vi è là cenere, questo vuol dire che – sotto sotto – un po’ di fuoco resta” e quel fuoco è il lavoro di Latini, che stravolge completamente il testo per trasferirlo su una dimensione altra, quella di un Nuovo Teatro, che continua a vivere aprendo al passato ma, al contempo, permettendo al presente di irrompere in scena fino a spezzare ogni frammento di ricordo. Ne “I giganti della montagna – radio edit” c’è integrazione del passato e rottura fino ad una rielaborazione commovente del presente, di un teatro della crisi che sta scontando il fatto di essere nata in un’epoca senza futuro.