Effetti Quantistici onde elettromagnetiche 2008

Effetti Quantistici delle interazioni quantistiche tra onde elettromagnetiche e materia
Effetto fotoelettrico
Prima semplice versione
1
INTRODUZIONE
Anteprima della sezione
Effetto fotoelettrico Fenomeno che si manifesta con l'emissione di particelle
elettricamente cariche da parte di un corpo esposto a onde luminose o a
radiazioni elettromagnetiche di varia frequenza. Con il termine effetto
fotoelettrico si indicano, in generale, diversi tipi di interazioni correlate. Nel
cosiddetto effetto fotoelettrico esterno gli elettroni vengono emessi dalla
superficie di un conduttore metallico (o da un gas) in seguito all'assorbimento
dell'energia trasportata dalla luce incidente sulla superficie stessa. L'effetto è
sfruttato nella cellula fotoelettrica, in cui gli elettroni emessi da uno dei due poli
della cellula, il fotocatodo, migrano verso l'altro polo, l'anodo, per effetto di un
campo elettrico applicato. Si definisce invece effetto fotoelettrico interno quel
fenomeno in cui gli elettroni liberati dalla radiazione restano all’interno del
materiale, disponibili alla conduzione.
2 LA SCOPERTA E LA SPIEGAZIONE DI EINSTEIN
Anteprima della sezione
La scoperta dell'effetto fotoelettrico ebbe un ruolo fondamentale nella crisi della
fisica classica, che riconosceva alla radiazione elettromagnetica un
comportamento prettamente ondulatorio, e nello sviluppo della meccanica
quantistica, che introduce il concetto di dualismo onda-particella. L’effetto
fotoelettrico era noto dal 1880: si sapeva che la luce poteva far emettere
elettroni ad una superficie metallica, producendo una debole corrente. La teoria
ondulatoria classica prevedeva però che, all'aumentare dell'intensità della luce
incidente, aumentasse l'energia degli elettroni emessi. Nel 1902, il fisico
tedesco Philipp Lenard mostrò invece che l'energia posseduta dai fotoelettroni
non dipendeva dall’intensità di illuminazione, ma unicamente dalla frequenza
(o, equivalentemente, dalla lunghezza d'onda) della radiazione incidente.
L’intensità della radiazione, al contrario, determinava l’intensità della corrente,
ovvero il numero di elettroni strappati alla superficie metallica. Il risultato
sperimentale era inspiegabile ammettendo che la natura della luce fosse
unicamente ondulatoria.
Nel 1905 Albert Einstein spiegò l'effetto fotoelettrico con l'ipotesi che i raggi
luminosi trasportassero particelle, chiamate fotoni, la cui energia è
direttamente proporzionale alla frequenza dell’onda corrispondente. Secondo la
teoria formulata da Einstein, incidendo sulla superficie di un corpo metallico, i
fotoni cedono parte della propria energia agli elettroni liberi del conduttore,
provocandone l'emissione. In questa ipotesi, l'energia dell'elettrone liberato
dipende solo dall'energia del fotone, mentre l’intensità della radiazione è
direttamente correlata al numero di fotoni trasportati dall’onda, e dunque può
influire sul numero di elettroni estratti dal metallo, ma non sulla loro energia.
3
ALTRI TIPI DI EFFETTO FOTOELETTRICO
Anteprima della sezione
Il termine effetto fotoelettrico può indicare altri tre processi: la fotoionizzazione,
la fotoconduzione e l'effetto fotovoltaico, gli ultimi due esempi di effetto
fotoelettrico interno. La fotoionizzazione consiste nella ionizzazione di un gas da
parte di luce o di altra radiazione elettromagnetica: i fotoni, se dotati di energia
sufficiente, liberano uno o più elettroni appartenenti ai livelli energetici esterni
degli atomi del gas. Nella fotoconduzione, gli elettroni facenti parte del reticolo
cristallino di un solido assorbono energia dai fotoni incidenti e divengono
elettroni di conduzione. L'effetto fotovoltaico si manifesta invece con la
formazione di coppie elettrone-lacuna quando un fascio di fotoni colpisce la
superficie di un materiale semiconduttore. In alcuni tipi di transistor
quest'ultimo effetto viene sfruttato per provocare una differenza di potenziale in
corrispondenza della giunzione tra due diversi semiconduttori.
Seconda versione
L'effetto fotoelettrico rappresenta l'emissione di cariche elettriche negative da una superficie,
solitamente metallica, quando questa viene colpita da una radiazione elettromagnetica.
Tale effetto, oggetto di studi da parte di molti fisici, è stato fondamentale per comprendere la natura
quantistica della luce.
Indice
[nascondi]



1 Storia
2 L'esperimento di Lenard
3 Emissione di raggi catodici tramite esposizione di corpi
solidi



4 Perché con elettroni legati
5 Bibliografia
6 Altri progetti
Storia
La scoperta dell'effetto fotoelettrico va fatta risalire alla seconda metà del XIX secolo e ai tentativi
di spiegare la conduzione nei liquidi e nei gas.
Nel 1880 Hertz, riprendendo e sviluppando gli studi di Schuster sulla scarica dei conduttori
elettrizzati stimolata da una scintilla elettrica nelle vicinanze, si accorse che tale fenomeno è più
intenso se gli elettrodi vengono illuminati con luce ultravioletta.
Nello stesso anno Eilhard Ernst Gustav Wiedemann e Hermann Ebert stabilirono che la sede
dell'azione di scarica è l'elettrodo negativo e Wilhem Hallwachs trovò che la dispersione delle
cariche elettriche negative è accelerata se i conduttori vengono illuminati con luce ultravioletta.
Nei primi mesi del 1888 il fisico italiano Augusto Righi, nel tentativo di spiegare i fenomeni
osservati, scoprì un fatto nuovo: una lastra metallica conduttrice investita da una radiazione UV si
carica positivamente. Righi introdusse, per primo, il termine fotoelettrico per descrivere il
fenomeno.
Hallwachs, che aveva sospettato ma non accertato il fenomeno qualche mese prima di Righi, dopo
qualche mese dimostrava, indipendentemente dall'italiano, che non si trattava di trasporto, ma di
vera e propria produzione di elettricità.
Sulla priorità della scoperta tra i due scienziati si accese una disputa, riportata sulle pagine de Il
Nuovo Cimento. La comunità scientifica tagliò corto e risolse la controversia chiamando il
fenomeno effetto Hertz-Hallwachs.
Fu poi Einstein nel 1905 a darne l'interpretazione corretta, per la quale ricevette il Premio Nobel per
la fisica nel 1921.
L'esperimento di Lenard
Apparato sperimentale di Lenard
L'effetto fotoelettrico fu rivelato da Hertz nel 1887 nell'esperimento che egli fece per generare e
rivelare onde elettromagnetiche; in quell'esperimento, Hertz usò uno spinterometro in un circuito
accordato per generare onde e un altro circuito simile per rivelarle. Nel 1900 Lenard studiò tale
effetto, trovando che la luce incidente su una superficie metallica ne fa uscire elettroni, la cui
energia non dipende dall'intensità della luce. I suoi risultati furono pubblicati sul vol. 8 di Annalen
der Physik.
Quando la luce colpisce una superficie metallica pulita (il catodo C) vengono emessi elettroni. Se
alcuni di questi colpiscono l'anodo A, si misura della corrente nel circuito esterno. Il numero di
elettroni emessi che raggiungono l'anodo può essere aumentato o diminuito rendendo l'anodo
positivo o negativo rispetto al catodo.
Detta V la differenza di potenziale tra A e C, si può vedere che solo da un certo potenziale in poi
(detto potenziale d'arresto) la corrente inizia a circolare, aumentando fino a raggiungere un valore
massimo, che rimane costante. Questo massimo valore è, come scoprì Lenard, direttamente
proporzionale all'intensità della luce incidente. Il potenziale d'arresto è legato all'energia cinetica
massima degli elettroni emessi dalla relazione
dove me è la massa dell'elettrone, v la sua velocità, e la sua carica.
Ora, la relazione che lega le due grandezze è proprio quella indicata perché se V è negativo, gli
elettroni vengono respinti dall'anodo, tranne se l'energia cinetica consente loro, comunque, di
arrivare su quest'ultimo. D'altra parte si notò che il potenziale d'arresto non dipendeva dall'intensità
della luce incidente, sorprendendo lo sperimentatore, che si aspettava il contrario. Infatti,
classicamente, il campo elettrico portato dalla radiazione avrebbe dovuto mettere in vibrazione gli
elettroni dello strato superficiale fino a strapparli al metallo. Usciti, la loro energia cinetica sarebbe
dovuta essere proporzionale all'intensità della luce incidente e non alla sua frequenza, come
sembrava sperimentalmente.
Emissione di raggi catodici tramite esposizione di corpi solidi
Einstein, nel lavoro del 1905 che gli fruttò il Premio Nobel per la fisica nel 1922, fornisce una
spiegazione dei fatti sperimentali partendo dal principio che la radiazione incidente possiede energia
quantizzata. Infatti i fotoni che arrivano sul metallo cedono energia agli elettroni dello strato
superficiale del solido; gli elettroni acquisiscono così l'energia necessaria per rompere il legame: in
questo senso l'ipotesi più semplice è che il quantone cede all'elettrone tutta l'energia in suo
possesso. A questo punto l'elettrone spenderà energia per arrivare in superficie e per abbandonare il
solido: da qui si può capire che saranno gli elettroni eccitati più vicini alla superficie ad avere la
massima velocità normale alla stessa. Per questi, posto P il lavoro (che varia da sostanza a sostanza)
utile all'elettrone per uscire, si avrà che l'energia cinetica è pari a:
A questo punto detta ε la carica dell'elettrone e Π il potenziale positivo del corpo e tale da impedire
perdita di elettricità allo stesso (il potenziale di arresto), si può scrivere:
oppure, con i simboli consueti
e V0= h ν - P
che diventa
Π È = R β ν - P'
dove E è la carica di un grammo-equivalente' di uno ione monovalente e P il potenziale di questa
quantità.
Ponendo, poi, E = 9,6 · 103, Π · 10-8 rappresenterà il potenziale in volt del corpo in caso di
irradiazione nel vuoto.
Ora, ponendo P' = 0, ν = 1,03·1015 (limite dello spettro solare dalla parte ultravioletta), β =
4,866·10-11, si ottiene Π·107 = 4,3V: il risultato trovato è così in accordo, per quanto riguarda gli
ordini di grandezza, con quanto trovato da Lenard.
Si può concludere che:
1. l'energia degli elettroni uscenti sarà indipendente dall'intensità della luce emettente e anzi
dipenderà dalla sua frequenza;
2. sarà il numero di elettroni uscenti a dipendere dall'intensità della radiazione.
I risultati matematici cambiano se si rifiuta l'ipotesi di partenza (energia trasmessa totalmente)
Π E + P' ≤ R β ν
che diventa
Π E + P' ≥ R β ν
per la fotoluminescenza, che è il processo inverso.
Se poi la formula è corretta, Π(ν) riportata sugli assi cartesiani risulterà una retta con pendenza
indipendente dalla sostanza. Nel 1916 Millikan esegue la verifica sperimentale di tale fatto,
misurando il potenziale d'arresto e trovando che questo è una retta di ν con pendenza h/e, come
previsto.
Perché con elettroni legati
Quando un fotone colpisce la superficie del metallo, questi viene assorbito mentre l'elettrone sfugge
alla superficie stessa del metallo. È interessante, ora, toccare con mano quali sono i motivi per cui
un fotone non può essere assorbito da un elettrone libero.
Per l'energia dell'elettrone si può scrivere:
da cui si ottiene il modulo dell'impulso dell'elettrone:
dove ħ è la costante di Planck, ω è detta pulsazione ed è pari a 2·π per la frequenza dell'onda
incidente.
Oltre questa bisogna tener conto anche della conservazione del momento:
pγ = pe
dove pγ è l'impulso del fotone.
Il sistema è incompatibile, in quanto si hanno due equazioni e un'incognita (l'impulso dell'elettrone).
Supponendo, però, di poterlo comunque risolvere, bisogna ricordare che:
dove c è la velocità della luce. Eguagliando le varie equazioni si ottiene:
da cui
h ω = 2 me c2
ovvero l'elettrone riceve un impulso pari a tre volte la sua massa (in energia); infatti la
conservazione dell'energia può essere scritta come:
dove l'energia finale (quella dell'elettrone) è scritta in modo relativistico.
Sempre utilizzando equazioni relativistiche, si può vedere ancora meglio come il processo di
assorbimento della radiazione sia impossibile con un elettrone libero. Si possono scrivere i quadriimpulsi iniziale e finale
Per la conservazione dei quadri-impulsi e per l'invarianza delle loro norme si ottiene
me2c4 - pγc2 = Ee2 - pγ2c2 da cui me2c4 = Ee2
ovvero l'energia totale dell'elettrone è rimasta invariata: come dire che il fotone è scomparso e
l'elettrone non ne ha risentito.
DISPOSITIVI FOTOELETTRICI
Nei dispositivi fotoelettrici, una radiazione elettromagnetica incidente su di essi, produce fenomeni
elettrici noti come effetti fotoelettrici. L'effetto fotoelettrico può manifestarsi nei seguenti modi:
1) EFFETTO FOTOELETTRICO ESTERNO

Effetto fotoemittente: emissione di elettroni da parte di una superficie metallica o
semiconduttrice; l'effetto fotoemittente trova applicazione nei tubi a vuoto;
2) EFFETTO FOTOELETTRICO INTERNO
L’effetto fotoelettrico è detto interno se un elettrone assorbendo un fotone subisce un cambiamento
di stato energetico senza uscire dal corpo e rendendo, per esempio, conduttore il corpo che
inizialmente non lo era. Gli elettroni staccati, per effetto fotoelettrico, dagli atomi di un corpo solido
o liquido, possono restare all'interno di questo invece di venire emessi attraverso la superficie: si
parla allora di effetto fotoelettrico interno. L'esperienza suggerisce che nei metalli che mostrano
effetto fotoelettrico, gli elettroni emessi verso l'esterno sono soltanto una piccola parte di quelli
staccati dagli atomi, gli altri rimanendo all'interno. Tuttavia è difficile mettere in evidenza gli
elettroni prodotti per effetto fotoelettrico interno, essendo essi assai pochi in paragone ai
numerosissimi elettroni liberi già esistenti nel metallo. L'effetto fotoelettrico interno può
manifestarsi nei seguenti modi:
 Effetto fotovoltaico.
 Effetto fotocoduttivo variazione della conducibilità elettrica di un semiconduttore; i
dispositivi che sfruttano l’effetto fotoconduttivo sono le cellule fotoconduttrici;
 Effetto fotoelettrico di giunzione: variazione della corrente che percorre una giunzione, fra
le due zone di un semiconduttore drogate rispettivamente p ed n, polarizzata inversamente; i
dispositivi sfruttano l'effetto fotoelettrico di giunzione sono i fotodiodi; generazione di
impulsi di corrente di valanga in una giunzione polarizzata inversamente oltre il valore di
breakdown, questo tipo di funzionamento è tipico dei fotodiodi SPAD.
L’effetto fotoelettrico è di grande importanza pratica: su di esso si basa gran parte dei sensori
utilizzati in radiometria e spettroscopia come i fotomoltiplicatori e i fotodiodi, i quali sono
impiegati per generare una corrente elettrica proporzionale alla potenza della radiazione
incidente.
EFFETTO FOTOELETTRICO ESTERNO (EFFETTO FOTOEMITTENTE)
La scoperta da parte di Planck (1900) riguardante i famosi quanti si trasformò in una scoperta seria,
per i fisici classici, solo quando Albert Einstein tramite lo studio del fenomeno dell’effetto
fotoelettrico riuscì a formulare delle opportune generalizzazioni. Il quanto venne difatti riconosciuto
solo cinque anni dopo la sua scoperta. Einstein scoprì (1905) che attraverso i quanti si riusciva a
spiegare non solo l’energia associata alle radiazioni uscenti dal corpo nero, ma la loro discontinuità
divenne un concetto fondamentale generalizzato a qualsiasi tipo di radiazione esistente. Nel 1887
Hertz aveva casualmente scoperto che illuminando una placca di zinco con delle radiazioni
ultraviolette il metallo si caricava elettricamente. Solo dopo che gli elettroni furono ufficialmente
riconosciuti si capì che questo fenomeno era dovuto all’emissione di elettroni conseguente allo
scontro di radiazioni elettromagnetiche di opportuna frequenza con il metallo in questione.
Generalizzando: quando una superficie metallica viene colpita da radiazioni di frequenza
abbastanza alta essa libera degli elettroni. La spiegazione di questo fenomeno sta nel fatto che
l’energia incidente delle radiazioni si trasforma in energia cinetica degli elettroni colpiti, che in
conseguenza si muovono. Non sempre però essi si staccano dalle proprie orbite, in quanto l’energia
cinetica deve essere superiore alla forza che tiene legati gli elettroni all’atomo. Questo valore
energetico prende il nome di soglia fotoelettrica, e dipende dal tipo di metallo che è stato preso in
esame. L’effetto fotoelettrico è un fenomeno che non si verifica soltanto nei metalli, ma in essi è più
evidente: si verifica ogni qualvolta che un sistema materiale elementare, atomo o molecola o
cristallo, è investito da radiazione elettromagnetica, di energia sufficientemente elevata. Nei gas e
nei vapori monoatomici il fenomeno diventa particolarmente più semplice in quanto può essere
studiato come se si verificasse separatamente su ogni singolo atomo, che è un sistema molto più
semplice, e si riduce alla ionizzazione di quest’ultimo. Per studiare questo fenomeno si può
ricorrere all’uso di una tipica apparecchiatura chiamata cella fotoelettrica.
La luce proveniente da un arco voltaico A, ricca di raggi violetti ed ultravioletti, viene convogliata
su un prisma che per rifrazione le separa in componenti monocromatiche di diversa lunghezza
d’onda. Regolando opportunamente l’inclinazione del prisma si possono ottenere radiazioni di
particolare lunghezza d’onda. Attraverso ad una finestra di quarzo (materiale otticamente
trasparente alle radiazioni ultraviolette), il pennello di determinata frequenza penetra
successivamente in un tubo a vuoto spinto e colpisce una placca P fotoemittente formata da uno
strato metallico, caratterizzato da un piccolo lavoro di estrazione. Gli elettroni emessi dalla placca
per effetto fotoelettrico, vengono successivamente raccolti dal collettore C e di conseguenza
possono originare una corrente misurabile. Al termine di questa apparecchiatura ci sono anche un
sistema potenziometrico e un galvanometro.
Secondo la descrizione classica, basata sulla natura ondulatoria della radiazione luminosa si doveva
avere che:
 gli elettroni emessi possiedono all’uscita della placca un’energia cinetica proporzionale
all’intensità della radiazione luminosa e quindi al quadrato dell’ampiezza del campo
elettrico medio. Questa energia è misurabile applicando una tensione negativa al collettore;
 gli elettroni vengono emessi per qualunque frequenza della luce;
 l’effetto di emissione inizia dopo un tempo abbastanza lungo (dell’ordine del secondo)
perché l’interazione con ciascun elettrone del metallo avviene in un’area molto piccola e
l’energia trasferita è corrispondentemente piccola.
I risultati sperimentali ottenuti dallo studio di questo fenomeno portavano ai seguenti grafici:
// diagramma mostra l'energia dei fotoelettroni emessi in funzione della frequenza della radiazione incidente. Per
frequenze inferiori avo (soglia fotoelettrica) non si ha emissione di elettroni.
// diagramma mostra il numero di elettroni, valutati mediante la corrente che attraversa il galvanometro, in funzione
dell'intensità della luce monocromatica incidente sulla placca fotosensibile
Utilizzando una radiazione di frequenza costante v > vo, la figura mostra come varia, per tre valori dell'intensità della
radiazione incidente, la corrente fotoelettronica in funzione della differenza di potenziale applicata agli elettrodi.
Dallo studio di tali grafici si vede che:
 Si ha emissione fotoelettrica solo se le frequenza della radiazione incidente è superiore ad un
valore di soglia detta soglia fotoelettrica o.
 L’energia cinetica degli elettroni emessi dipende dalla frequenza della radiazione incidente e
non dalla sua intensità.
 Il numero degli elettroni emessi per unità di tempo aumenta all’aumentare dell’intensità
della radiazione elettromagnetica incidente.
 l’ emissione fotoelettrica inizia pressoché immediatamente con l’arrivo della radiazione.
 nell'ipotesi che sia > 0 se la differenza di potenziale V fra l'elettrodo emittente P e
l'elettrodo di raccolta C è nulla, a parte il lavoro di estrazione e certi piccoli effetti
i
I3
I2
I1

Vi
V
deceleranti, gli elettroni giungono in C con tutta l'energia cinetica conferita dai fotoni
incidenti;
 nell'ipotesi che sia > 0 se la differenza di potenziale è diversa da zero ed il collettore C è
collegato al polo positivo come in figura, l'intensità di corrente i segnata dal galvanometro G
dipende dall'intensità/della radiazione incidente e dalla differenza di potenziale V;
mantenendo costante l'intensità I della radiazione incidente, l'intensità di corrente i cresce
all'aumentare di V fino a un certo valore di saturazione;
 nell'ipotesi che sia > 0 se il collettore C è collegato al polo negativo della batteria, in
modo da stabilire nel tubo contenente gli elettrodi un debole controcampo, gli elettroni
tendono a decelerare perdendo una parte della loro energia cinetica. Tenendo fisse la
frequenza > 0 e l'intensità I della radiazione incidente, la corrente fotoelettronica i
diminuisce all'aumentare del potenziale V ritardante fino ad annullarsi per un certo valore
Vi, indicato con il nome di potenziale di arresto. Per un dato materiale della placca P il
potenziale Vi varia linearmente con la frequenza.
In pratica si assiste al fallimento completo della previsione classica, basata sulla natura ondulatoria
della radiazione luminosa. Anche se nel 1900 Planck aveva discusso aspetti simili ora seguiamo la
generalizzazione proposta da Einstein nel 1905 a supporto di queste evidenze sperimentali: la luce
è costituita da “pacchetti di energia”, detti fotoni, con energia data da
hc
E  h 

dove h è la costante detta di Planck e vale 6.6261034 J s e  è la frequenza della radiazione.
L’effetto fotoelettrico, in questa ipotesi, avviene per cessione (immediata) di quanti di energia
dipendenti solo dalla frequenza (interazione elettrone-fotone). L’energia massima acquistata da un
fotoelettrone si può scrivere come
1
mv 2max  h  w0  h     0 
(Equazione di Einstein)
2
con
h
V0    0
wo  h   0  e  V0
e
dove V0 e w0 sono rispettivamente il potenziale e il lavoro d’estrazione” del metallo (energia
per strappare l’elettrone) che non dipendono dall’intensità della radiazione ma solo dalla sua
frequenza, vmax rappresenta la velocità massima con cui vengono espulsi gli elettroni;  rappresenta
la frequenza e  0 rappresenta la frequenza minima (soglia fotoelettrica) che deve possedere la
radiazione per estrarre un elettrone dal metallo. Se il potenziale ritardante al collettore è abbastanza
negativo tale che:
1
e  Vi  mv 2max  h  w0
2
il fotoelettrone non arriva al collettore. Il valore di Vi si chiama potenziale di arresto o potenziale
di interdizione. Tale potenziale è dato da:
w
h
h
h
Vi     0     V0      0 
e
e
e
e
Così la teoria di Einstein prevede una dipendenza lineare tra Vi e  in perfetto accordo con
l’esperienza. La pendenza della curva sperimentale riportata in figura dovrebbe essere h/e.
Misurando sperimentalmente tale pendenza, utilizzando il valore della carica dell’elettrone,
Millikan trovò per la costante di Plance il valore h  6,57  10 34 J  s con un errore di 0,5% circa.
Secondo la teoria dei quanti di Einstein l'intensità della radiazione incidente è proporzionale al
numero dei fotoni da essa trasportati e contribuisce a determinare il numero degli elettroni emessi:
infatti, quanto più numerosi sono, per unità di tempo, i fotoni incidenti, tanto più alta è la
probabilità che presentano gli elettroni di interagire con un quanto di radiazione e superare così la
barriera che si oppone all'uscita dal metallo. I risultati teorici ottenuti con la teoria dei quanti di
Einstein sono in pieno accordo con l’esperienza.
APPLICAZIONI PRATICHE
Notevoli sono le applicazioni pratiche dell'effetto fotoelettrico; fra le più tipiche ricordiamo
l'utilizzazione delle celle fotoelettriche, nella televisione, nel cinema sonoro, nella tecnica
fotografica come fotometri (esposimetri) per regolare l'apertura del diaframma dell'obiettivo, nel
conteggio automatico degli oggetti o delle persone che passano davanti a un opportuno sistema
fotoelettrico, nelle competizioni sportive per azionare mediante un impulso un cronometro o una
macchina fotografica e in generale in tutti quei casi in cui si vuole mettere in evidenza, mediante un
impulso di corrente o di tensione, una variazione anche piccola e veloce di un effetto luminoso.
LA CELLULA FOTOELETTRICA
Cella fotoelettrica
Funzionamento
E' un dispositivo elettronico, detto anche fotocellula, basato sull'effetto fotoelettrico per la
rilevazione della luce e della sua intensità. Quando il catodo K, carico negativamente, viene
illuminato dalla radiazione lumonosa L, emette elettroni, che sono attratti dall'anodo A, carico
positivamente. In questo modo si crea all'interno del circuito, in cui è inserita la cellula fotoelettrica,
una corrente elettrica, la cui intensità è proporzionale all'intensità dell'illuminazione. Se qualcosa
(un oggetto, una persona) si interpone tra la sorgente luminosa e il catodo, quest'ultimo non emette
più elettroni e la corrente si interrompe. La prima cellula fotoelettrica fu costruita da Elster e Geitel
nel 1910
LA CELLA FOTOVOLTAICA
Funzionamento
Dispositivo, detto anche fotopila o batteria solare, in grado di trasformare per effetto fotoelettrico
direttamente l'energia delle radiazioni luminose in energia elettrica.
Nella zona di contatto (giunzione) tra i due semiconduttori esiste un campo elettrico, dovuto alla
diversa natura dei due materiali: quando la zona di contatto è colpita da luce solare, cioè da fotoni,
vengono emessi elettroni (quelli più esterni degli atomi di silicio) che il campo elettrico sospinge
nello strato n; per ogni elettrone che si libera, si forma contemporaneamente una carica positiva che,
sempre a causa del campo elettrico, viene sospinta nello strato p. Collegando con un circuito esterno
i due strati, si avrà una circolazione di elettroni, cioè una corrente elettrica continua, tra n e p. Il
rendimento massimo teorico della trasformazione di energia solare in energia elettrica è del 32%.
Le cellule fotovoltaiche attualmente disponibili hanno un rendimento del 10% circa, ma sono allo
studio celle avanzate con rendimenti molto maggiori. La prima batteria solare fu realizzata nel
1954.
FOTOMOLTIPLICATORI ELETTRONICI
I fotomoltiplicatori elettronici sono dispositivi che rivelano la presenza di un flusso luminoso con
una sensibilità complessiva molto elevata, sfruttando contemporaneamente il fenomeno della
fotoemissione e quello della emissione secondaria. Il principio di funzionamento di un
fotomoltiplicatore è indicato in figura.
La luce incidente su un catodo fotoemissivo (fotocatodo) provvede all'emissione di elettroni in
numero proporzionale al numero dei fotoni incidenti (in media l'emissione di un elettrone può
corrispondere all'incidenza di 1020 fotoni); gli elettroni così emessi sono convogliati (per mezzo
di un opportuno potenziale acceleratore) verso l'elettrodo. Di denominato dinodo. Gli elettroni che
giungono sul dinodo Di cedono la loro energia cinetica provocando l'emissione secondaria di altri
elettroni dal dinodo stesso (ad un elettrone incidente o primario possono corrispondere anche più di
10 elettroni secondari). Gli elettroni secondari emessi dal dinodo Di vengono convogliati e quindi
moltiplicati (sempre per emissione secondaria) dal dinodo successivo e così via fino all'ultimo
elettrodo raccoglitore che è l'anodo. È evidente quindi che da una piccola quantità di luce mediante
il fotomoltiplicatore si può ottenere una apprezzabile intensità di corrente: si può giungere ad una
sensibilità di alcuni ampere/lumen. Il fotocatodo è costituito da un supporto rivestito di uno strato di
materiale fotosensibile come ad esempio l'antimoniuro di cesio. Esistono due diversi tipi di catodi:
quelli opachi e quelli semitrasparenti. Nei primi lo strato fotosensibile è su un supporto metallico
opaco e gli elettroni vengono emessi dalla stessa parte della luce incidente; nei secondi invece il
supporto è trasparente è lo strato fotosensibile è depositato sulla parte opposta a quella su cui deve
giungere la luce. I dinodi (che nel loro insieme costituiscono il sistema moltiplicatore) sono
polarizzati con tensioni crescenti verso l'anodo e la d.d.p. tra due dinodi successivi è dell'ordine dei
100150 V. Essi sono di materiale che presentano spiccatamente il fenomeno dell'emissione
secondaria come l'antimoniuro di cesio, l'ossido di rame-berillio e l'ossido di argento-magnesio.
L'amplificazione complessiva A del sistema di moltiplicazione elettronica, ossia il rapporto tra il
numero di elettroni raccolti dall'anodo e quello degli elettroni emessi dal fotocatodo, dipende dal
rendimento di raccolta e dal coefficiente di emissione secondaria di ogni dinodo. Il rendimento di
raccolta g è il rapporto tra il numero di elettroni incidenti in un dinodo ed il numero di elettroni
emessi dal dinodo precedente;
Variazione dell'amplificazione di corrente e della intensità di corrente buia in funzione della tensione totale tra anodo e
fotocatodo di un fotomoltiplicatore.
Il coefficiente di emissione secondaria  (in genere minore di 5) è invece il rapporto tra il numero
di elettroni secondari emessi da ogni dinodo ed il numero degli elettroni primari su di esso
incidenti. Se n è il numero dei dinodi l'amplificazione di corrente A risulta:
A  g   
n
Ammesso un g   medio pari a 4,5 un fotomoltiplicatore con 11 dinodi può dare una
amplificazione dell'ordine di 15  10 6 . Le tensioni applicate ai dinodi devono essere stabili nel tempo
poiché il coefficiente di emissione secondaria  varia molto con la tensione, il che porterebbe ad un
funzionamento irregolare del fotomoltiplicatore. Occorre inoltre tener presente che anche in assenza
di luce l'anodo del fotomoltiplicatore raccoglie una piccola intensità di corrente I0 (corrente buia}
che conviene sia la più piccola possibile nei confronti della intensità di corrente dovuta al flusso
luminoso. In figura è indicato come variano l'amplificazione A e la corrente buia I0 in funzione
della tensione V totale applicata tra anodo e fotocatodo in un fotomoltiplicatore a 11 dinodi: la zona
di miglior funzionamento è quella corrispondente alla maggior distanza, tra le due curve. Nei
riguardi del circuito esterno il fotomoltiplicatore deve essere considerato un generatore di corrente
LINK UTILE:
http://www.bo.cnr.it/settimana2005/posters/ISOF/isof1.pdf
Effetto fotoelettrico
Contenuto dell'incontro avvenuto con gli studenti di quinta del Liceo Scientifico "Tito Lucrezio Caro" di
Cittadella (PD) - febbraio 2002 - L.M. Gratton
Introduzione.
Verso la seconda metà del XIX secolo c’era la convinzione che la meccanica "classica"
(Newton e sviluppi successivi), l’elettromagnetismo (sostanzialmente riassunto dalle
equazioni di Maxwell) e la termodinamica (Carnot, Joule e altri) dovessero permettere di
inquadrare tutti i fenomeni naturali anche quelli ancora di difficile interpretazione.
Tuttavia negli ultimi anni del secolo, e nei primi di quello successivo, vennero fatte nuove
scoperte che in alcun modo potevano essere inquadrate nei modelli precedenti. Questi
fenomeni riguardavano il mondo dell’ infinitamente piccolo. Fenomeni connessi con la
struttura intima della materia e su come le parti più piccole della materia interagiscano e
scambino energia tra di loro. La stessa esistenza e stabilità degli atomi non era spiegabile
nei termini della fisica classica.
Queste scoperte portarono allo sviluppo di una "nuova" fisica che cambiò in maniera
radicale il modo di descrivere i fenomeni naturali. I fisici dovettero "inventare" non solo
nuovi concetti ma anche un opportuno formalismo matematico che permettesse di
schematizzare la realtà fisica. Del resto anche Newton dovette inventare il calcolo
differenziale per poter sviluppare compiutamente le sue teorie. E’ anche a causa di questo
complesso formalismo matematico che la Meccanica Quantistica (la "nuova" fisica) risulta
di difficile comprensione per i non "addetti ai lavori".
La "potenza" dei metodi della meccanica quantistica sta non solo nel riuscire ad
inquadrare in modo organico praticamente tutte le conoscenze attuali e nell’essere riuscita
a prevedere numerosi fenomeni, poi puntualmente osservati, ma anche nell’aver
inquadrato, come caso limite, le varie teorie della "fisica classica".
In un primo momento i fisici cercarono dei modelli "ad hoc" per le varie classi di fenomeni.
Non si trattava di un ritorno all’aristotelismo, ma di un tentativo di descrivere in un modo
completamente nuovo ciò che si osservava sperimentalmente. Tutti questi modelli
sviluppati "ad hoc", avevano però un punto fondamentale in comune: l’energia doveva
essere "quantizzata". In pratica i vari sistemi fisici possono scambiare energia soltanto in
quantità ben definite: a pacchetti o "quanti". Il quanto elementare di energia è legato ad
una costante universale la costante h, che oggi chiamiamo costante di Planck e che vale
6.6261810-34 J s. Planck fu il primo ad introdurla per spiegare lo spettro di corpo nero.
Solo in un secondo momento, a partire dagli anni 20 del XX secolo si cominciò a
sviluppare una teoria organica che portò alla moderna meccanica quantistica. Non è lo
scopo di questa discussione parlare della meccanica quantistica ma non si può non
sottolineare che la nuova fisica dà una visione probabilistica della realtà microscopica in
contrasto con la visione deterministica del mondo macroscopico dato dalla fisica classica.
Gli stessi concetti di realtà fisica e di misura delle grandezze fisiche hanno subito un
mutamento radicale. Quando si studia o si osserva il mondo microscopico non possono
essere utilizzati gli stessi concetti e metodi di descrizione che si usano per lo studio del
mondo macroscopico.
La situazione all’inizio del XX secolo: cinque problemi per la fisica classica.





Lo spettro di corpo nero.
L’effetto fotoelettrico.
La struttura atomica.
Gli spettri atomici. Le serie spettrali (Balmer, Paschen …)
Il calore specifico dei solidi.
Questi problemi furono affrontati e trovarono una spiegazione in termini della così detta
"vecchia teoria quantistica".
Lo spettro di corpo nero fu uno dei punti di partenza per lo sviluppo della nuova fisica. Fu
Planck (1858-1947) che per primo sviluppò un modello soddisfacente per la sua
comprensione.
Einstein (1879-1955) sviluppò le teorie per l’effetto fotoelettrico e il calore specifico dei
solidi.
I modelli atomici che permettevano di dedurre anche la natura delle righe spettrali furono
dovuti al lavoro di vari fisici in particolare al lavoro di Niels Bohr (1885-1962). che prese
come base il lavoro di Ernest Rutherford (1871-1937).
In questa discussione ci occuperemo un po’ più approfonditamente dell’effetto
fotoelettrico. Tuttavia conviene partire da qualche considerazione sullo spettro di corpo
nero per vedere perché sia necessario introdurre una quantizzazione dell’energia per
interpretare ciò che gli esperimenti mostrano.
Il corpo nero è un modello ideale tuttavia può essere sperimentalmente simulato da una
cavità in equilibrio termodinamico (sostanzialmente che abbia una temperatura
omogenea). E’ sperimentalmente noto che un corpo "caldo" emette (e assorbe) radiazione
secondo uno spettro continuo. Più è alta la temperatura del corpo maggiore risulta
l’intensità della radiazione emessa. Non solo, se la temperatura è sufficientemente alta la
radiazione diventa visibile all’occhio (filamento di una lampadina). Se la temperatura del
corpo è abbastanza elevata anche la forma dello spettro si avvicina a quella che si ottiene
da un piccolo foro praticato in una cavità a temperatura uniforme (uguale alla temperatura
del corpo).
Il corpo nero rappresenta pertanto il modello limite che emette e assorbe radiazione a tutte
le energie secondo uno spettro continuo di forma ben determinata che dipende solo dalla
sua temperatura.
La cosa particolarmente interessante (che era stata anche osservata sperimentalmente) è
che la forma dello spettro di corpo nero dipende solamente dalla temperatura e non dalla
natura del materiale di cui è fatta la cavità.
I fisici del XIX secolo erano dell’opinione che la forma e le varie caratteristiche dello
spettro dovessero essere calcolabili, a partire da considerazioni termodinamiche, in base
alle leggi dell’elettromagnetismo.
Il problema che si trovarono ad affrontare è il seguente: calcolare il numero di modi in cui
si può distribuire l’energia in una cavità. Se ci rifacciamo all’esempio unidimensionale di
una corda vibrante tra due estremi (una corda da chitarra per intenderci), sappiamo che le
lunghezze d’onda permesse sono determinate dalla lunghezza della corda. In particolare
se indichiamo con L la lunghezza della corda il primo modo (modo fondamentale o prima
armonica) avrà una lunghezza d’onda =2L., il secondo modo 2=L; in generale gli infiniti
modi possibili saranno del genere n=2L/n. Il caso tridimensionale è più complesso ma i
ragionamenti da fare sono simili.
La termodinamica stabilisce (principio di equipartizione dell’energia) che l’energia del
corpo nero si deve distribuire equamente su tutti i possibili modi. Il principio di
equipartizione stabilisce che ad ogni grado di libertà (ogni modo possibile) compete,
all’equilibrio termodinamico, un’energia data da:
Dove k è la costante di Boltzman (k=1.38110-23 JK-1) e T e la temperatura assoluta. Nel
caso delle onde elettromagnetiche il fattore 1/2 non c’è a causa delle due possibili
polarizzazioni.
La fisica classica permette di calcolare il numero dn di modi compresi in ogni intervallo d
compreso tra una qualunque lunghezza d’onda  e +d. Lo spettro osservato
sperimentalmente dovrebbe allora essere descritto dal grafico kTdn in funzione di . Va
notato che già nel caso di una corda vibrante il numero dn di modi cresce al diminuire di ,
tale crescita è ancora maggiore nel caso tridimensionale.
Il calcolo in tre dimensioni del numero dn di modi compresi tra  e +d fornisce.
Dove con V si è indicato il volume della cavità.
Per ottenere la densità di energia per unità di volume della cavità compresa tra le
lunghezze d’onda  e +d, basta dividere per V e moltiplicare per l’energia
corrispondente kT.
Il risultato descrive bene lo spettro di corpo nero a grandi lunghezze d’onda ma diverge
per valori piccoli di . Tale comportamento ha preso il ben noto nome di "catastrofe
ultravioletta".
L’apporto fondamentale di Planck alla fisica fu nel comprendere che le energie possibili
per i vari modi all’interno della cavità non hanno una distribuzione continua come previsto
dalla fisica classica ma possono assumere solo valori discreti. In particolare l’energia di
un’onda stazionaria di lunghezza d’onda fondamentale  (frequenza = c/ può
assumere solo dei valori discreti multipli di una quantità elementare data da:
Dove h è la costante universale di Planck. Le energie possibili sono pertanto date da =
nh. Si noti che per grandi lunghezze d’onda il quanto di energia  diventa molto piccolo
(limite classico: i valori possibili per l’energia diventano "quasi" continui).
Sotto questa ipotesi l’energia media per modo viene a differire sostanzialmente da quella
prevista classicamente (kT) in quanto viene a diminuire al decrescere della lunghezza
d’onda.
Con questo risultato moltiplicato per il numero di modi precedentemente calcolato si
ottiene un modello teorico che è in ottimo accordo con i dati sperimentali. Da esso si
ricavano come casi limite anche le espressioni trovate da Rayleigh-Jeans (per le grandi
lunghezze d’onda: limite classico), la legge di Wien, per lo spostamento del massimo dello
spettro di corpo nero, e la legge di Stefan-Boltzman che fornisce l’energia emessa da un
corpo nero ad una data temperatura.
Effetto fotoelettrico.
L’esperienza mostra che sotto certe condizioni un metallo colpito da un fascio di luce
emette elettroni.
Cosa è spiegabile dalla fisica classica, almeno approssimativamente.
1. Quando la luce colpisce una sostanza vengono emessi elettroni (effetto
fotoelettrico) perché il campo elettrico associato alla radiazione elettromagnetica
accelera gli elettroni facendo loro acquistare l’energia sufficiente ad abbandonare la
superficie del metallo.
2. Il numero degli elettroni emessi aumenta con l'intensità della luce incidente.
Ma ci sono altre osservazioni non interpretabili in termini della fisica classica.
1. L'energia cinetica con cui vengono emessi gli elettroni (misurabile facilmente) non
dipende dall'intensità della radiazione ma dipende linearmente dalla frequenza.
2. Aumentando l'intensità della luce si aumenta il numero di elettroni emessi ma non la
loro energia cinetica.
3. Esiste una frequenza di soglia 0 che può andare dall'infrarosso, per certi sali di
cesio, all'ultravioletto, per il platino, al di sotto della quale non si osserva emissione
di elettroni; per i metalli alcalini 0 è centrato nel visibile.
4. Il ritardo osservabile tra l’arrivo dell’onda elettromagnetica e l’emissione
dell’elettrone è inferiore a 10-9s.
Inoltre esiste fotoemissione di elettroni anche per i gas e la corrente di elettroni
emessi dipende dall’angolo di incidenza della radiazione incidente e dalla sua
polarizzazione. Quest’ultimo fatto non è interpretabile nella "vecchia teoria
quantistica".
Interpretazione di Einstein.
In un fascio di luce monocromatica l'energia si propaga in quanti di luce h dove  è la
frequenza dell'onda e h è una costante universale (già introdotta da Planck per
interpretare lo spettro di radiazione del corpo nero).
dove
L'elettrone del metallo può"assorbire" il quanto di luce. Se l'energia con cui è legato
quest'elettrone è W0 e se h  W0 l'elettrone può venire espulso dal metallo.
L'energia cinetica dell'elettrone espulso sarà:
W0 è evidentemente una energia caratteristica di ogni materiale; essa prende il nome di
potenziale di estrazione: W0 è il lavoro che bisogna fare per "strappare l'elettrone dalla
sostanza".
Questa relazione spiega la dipendenza lineare dell'energia cinetica dalla frequenza della
luce incidente.
Sfruttando la relazione ricavata da Einstein si può di misurare la costante e di Planck h.
La misura fu effettuata da Millikan.
Per la misura dell'effetto fotoelettrico Einstein e Millikan ricevettero il premio Nobel per la
fisica nel 1921 e nel 1923 rispettivamente..
Esperimento
Quando il catodo emettitore viene colpito da luce di opportuna frequenza (lunghezza
d’onda), vengono emessi elettroni.
Se il potenziale dell'elettrodo (anodo) è zero (VA=0) una parte di questi elettroni possono
raggiungere l'anodo ed il galvanometro indicherà passaggio di corrente elettrica (purché
h sia maggiore uguale di W0). Si può supporre , per la relazione di Einstein, che tutti gli
elettroni abbiano la stessa energia cinetica (ciò è vero a meno di effetti termici).
Se il potenziale dell'anodo è maggiore di zero (VA>0) un maggior numero di elettroni
saranno raccolti dall'elettrodo e la corrente crescerà al crescere del potenziale finché, per
VA sufficientemente elevato, tutti gli elettroni emessi raggiungeranno l'elettrodo
(condizione di saturazione).
Se il potenziale dell'anodo è minore di zero (VA<0) gli elettroni vengono frenati dal
potenziale negativo –VA. Per un certo valore del potenziale negativo applicato all’elettrodo
la corrente di fotoelettroni si annulla; il valore di 0 per la corrente lo si ottiene quando:
In questa relazione e è la carica dell’elettrone (e=1.6x10-19Coulomb).
Quindi se -eVAEcin nessun elettrone può raggiungere l’elettrodo.
Pertanto si può scrivere la seguente relazione
Dove si è postoV0=-VA* e VA* rappresenta il valore del potenziale di anodo VA per il quale
la corrente di fotoelettroni si annulla.
Questa è una relazione lineare tra V0 e .
Registrando vari valori del potenziale dell'anodo V0, per cui la corrente si annulla, al
variare della frequenza  dei fotoni incidenti, si può costruire una retta la cui pendenza è
e la cui intercetta è
W0/e per i metalli alcalini vale circa 1V e pertanto può essere misurata nel visibile (h nel
visibile vale circa 1 eVolt).
Di seguito un esempio di dati raccolti, utilizzando una lampada a vapori di mercurio:
Frequenza (Hz)
Potenziale di frenamento (V)
5,19E+14
0,710±0,005
5,49E+14
0,835±0,005
6,88E+14
1,422±0,005
7,41E+14
1,624±0,005
8,22E+14
1,947±0,005
Con i dati raccolti, si ottiene il seguente grafico dal quale si ricava, con il metodo dei
minimi quadrati pesati, la retta che interpola meglio i dati.
Utilizzando i valori ricavati con il metodo dei minimi quadrati, moltiplicando per il valore
tabulato di e (1,602E-19 C), si ottiene
h=(6,56±0,03)E-34 J s
tale valore, tenuto conto anche del fatto che l'errore sul potenziale di frenamento è
sottostimato, è in buon accordo con quello tabulato:
6,626E-34 J s
Effetto Compton
Lo scattering Compton avviene su elettroni
liberi non legati al nucleo, contrariamente
all'effetto fotoelettrico. Tuttavia se l'energia
del fotone è alta rispetto all'energia di
legame, questa si può trascurare in modo da
considerare gli elettroni come liberi.
Nell'interazione, il fotone di energia h
trasferisce ad un elettrone, che si suppone
fermo, parte della sua energia e del suo
impulso. Come risultato si avrà un fotone
diffuso ad un angolo  con un energia h', e l'elettrone deflesso ad un angolo  con
energia cinetica T.
Applicando la legge di conservazione dell'energia e della quantità di moto si ottiene
l'energia del fotone diffuso:
La sezione d'urto totale per effetto Compton è data da:
dove = h/mec² , re e me sono raggio e massa dell'elettrone.
Tale sezione d'urto si può decomporre in due termini : il primo a è la sezione d'urto
d'assorbimento Compton, che è proporzionale all'energia media trasferita all'elettrone di
rinculo, mentre il secondo s è proporzionale alla frazione di energia totale del fotone
diffuso. Pertanto:
Comp= a+s
Nella figura sottostante si può vedere l'andamento delle sezioni d'urto Comp, a e s per il
piombo.
Come si vede la sezione d'urto complessiva per effetto Compton decresce all'aumentare
dell'energia del fascio.
effetto Compton
approfondimento
 Cos'è
L'effetto Compton è un fenomeno che si manifesta quando un fotone interagisce con un
elettrone, cedendogli energia e deviando dalla sua traiettoria originale.
 Che importanza ha
La spiegazione di questo effetto fornisce una definitiva conferma del concetto di fotone come
quanto di energia. La dimostrazione della spiegazione fu data nel 1923 da Arthur Holly
Compton (1892-1962) che per questo suo lavoro nel 1927 ottenne il premio Nobel per la fisica.
 Realizzazione sperimentale
Compton inviò un fascio monocromatico di raggi X di lunghezza d'onda  su un blocco di grafite
e misurò, per vari angoli di diffusione, l'intensità dei raggi X in funzione della lunghezza
d'onda.
Per quanto il fascio incidente abbia una sola lunghezza d'onda , i raggi X diffusi hanno picchi
d'intensità a due lunghezza d'onda; uno di essi corrisponde alla lunghezza d'onda incidente,
l'altro alla lunghezza d'onda ' che è superiore alla precedente della quantità . Questo ,
chiamato spostamento Compton, varia col variare dell'angolo a cui sono osservati i raggi X
diffusi.
Dispositivo
sperimentale
di Compton.
Raggi X
monocromatici
di lunghezza
d'onda 
incidono su un
blocco di
grafite. Viene
misurata la
distribuzione
dell'intensità
in funzione
della
lunghezza
d'onda dei
raggi X diffusi
a diversi
angoli . Le
lunghezze
d'onda diffuse
si misurano
osservando le
riflessioni di
Bragg
prodotte da
un cristallo; le
intensità si
misurano con
un rivelatore
come una
camera di
ionizzazione.
Risultati sperimentali di
Compton.
La linea verticale a sinistra
corrisponde alla lunghezza d'onda ,
quella a destra a '. Vengono
mostrati i risultati per quattro diversi
angoli di diffusione . Notare che lo
spostamento Compton  per =90°
è di h/m0c=0,242 Å.
[da: D. Halliday, R. Resnick, op. cit.]
 Discussione dell'effetto osservato
La presenza di un'onda diffusa di lunghezza d'onda ' non può essere spiegata se i raggi X
incidenti sono considerati come un'onda elettromagnetica. In questo caso, infatti, l'onda
incidente, di frequenza , fa sì che gli elettroni del blocco su cui avviene la diffusione, oscillino
alla stessa frequenza. Questi elettroni oscillanti, paragonabili alle cariche che si muovono
avanti ed indietro in una minuscola radioantenna, irradiano onde elettromagnetiche della
stessa frequenza . Quindi nella descrizione ondulatoria l'onda diffusa dovrebbe avere le stessa
frequenza e lunghezza d'onda dell'onda incidente.
Compton fu in grado di spiegare i risultati sperimentali da lui ottenuti postulando che il fascio
di raggi X incidente non fosse un'onda, ma un insieme di fotoni di energia E=h e che questi
urtassero gli elettroni liberi nel blocco su cui avviene la diffusione, proprio come se si trattasse
di palle da biliardo. I fotoni di rinculo uscenti dal blocco costituiscono, sotto questo punto di
vista, la radiazione diffusa. Dato che il fotone uscente trasferisce un po' della sua energia
all'elettrone con cui entra in collisione, il fotone diffuso deve avere un'energia minore E';
pertanto dovrà avere una frequenza inferiore ' che implica una lunghezza d'onda più elevata
'. Questa descrizione rende conto almeno qualitativamente dello spostamento di lunghezza
d'onda . Si osservi come questo modello a particelle della diffusione dei raggi X sia diverso
da quello basato sulla descrizione ondulatoria.
Analizziamo quantitativamente una singola collisione fotone-elettrone.
La simulazione proposta rappresenta una collisione fra un fotone ed un elettrone; si fa l'ipotesi
che l'elettrone sia a riposo ed essenzialmente libero, cioè non legato agli atomi del diffusore.
Applichiamo a questa collisione la legge della conservazione dell'energia. Siccome gli elettroni
di rinculo possono avere una velocità v paragonabile a quella della luce dobbiamo usare
l'espressione relativistica dell'energia cinetica dell'elettrone. Sfruttando l'espressione E=h ed il
fatto che il calcolo dell'energia cinetica deve tener presente che la massa varia con la velocità
(ovvero scrivendo l'energia cinetica nella forma Ec=mc2), possiamo scrivere:
h=h'+(m-m0)c2
in cui il secondo termine del secondo membro rappresenta l'espressione relativistica
dell'energia cinetica dell'elettrone di rinculo, dove m è la massa relativistica ed m 0 la massa a
risposo dell'elettrone. Sostituendo c/ a  e c/' a ' si può scrivere:
Applichiamo ora la legge di conservazione della quantità di moto alla collisione. Per prima cosa
ci occorre un'espressione dell'impulso del fotone. Se un oggetto assorbe totalmente un'energia
U da un fascio parallelo di luce che incide su di esso, il fascio luminoso, secondo la teoria
ondulatoria della luce, trasferisce simultaneamente all'oggetto un impulso dato da U/c. Nella
descrizione a fotoni immaginiamo che questo impulso venga trasportato dai singoli fotoni,
ognuno dei quali trasporta un impulso in quantità p=h/c, dove h è l'energia del fotone. Così,
se sostituiamo  a c/, possiamo scrivere:
La conclusione che l'impulso di un fotone sia dato da h/ può anche dedursi dalla teoria della
relatività.
L'espressione relativistica della quantità di moto dell'elettrone è data da:
Per la conservazione della componente x della quantità di moto possiamo scrivere:
e per la componente y:
Nostro immediato scopo è di trovare la variazione di lunghezza d'onda dei fotoni  (cioè ' ), in modo da poterla confrontare ai risultati sperimentali. Nell'esperimento di Compton non fu
esaminato l'elettrone di rinculo. È possibile eliminare due dei cinque parametri (', ) che
compaiono nelle ultime equazioni scritte. Eliminiamo  e  che riguardano soltanto l'elettrone,
riducendo così le equazioni ad un'unica relazione tra i parametri.
Effettuando le operazioni algebriche necessarie, giungeremo a questo semplice risultato:
Così lo spostamento Compton 
dipende solo dall'angolo di
diffusione  e non dalla
lunghezza d'onda iniziale .
Quest'ultima equazione prevede,
entro gli errori, gli spostamenti
Compton osservati
sperimentalmente. Si noti
dall'equazione che  varia da
zero (per =0, che corrisponde
ad una collisione "di striscio") a
2h/m0c (per =180°, che
corrisponde ad una collisione
"frontale" ove il fotone incidente
rimbalza all'indietro).
Rimane da spiegare la presenza del picco per il quale la lunghezza d'onda non varia nella
diffusione. Si può spiegare questo picco come risultante da una collisione fra fotoni ed elettroni
legati a ioni del blocco su cui avviene la diffusione. Nelle collisioni gli elettroni legati si
comportano come quelli liberi, con la differenza che la loro massa efficace è molto maggiore.
Ciò è dovuto al fatto che nella collisione rincula tutto il complesso ionico. La massa efficace M
per un diffusore di carbonio è circa uguale alla massa di un nucleo di carbonio. Dato che
questo nucleo contiene 6 protoni e 6 neutroni, avremo approssimativamente
M=12x1840m0=22.000 m0. Se sostituiamo m0 ad M nell'ultima equazione scritta, vediamo che
lo spostamento Compton per collisioni con elettroni strettamente legati è estremamente
piccolo, tanto da non potersi misurare.
 Bibliografia
Per la stesura di questo testo integrativo sono stati consultati i seguenti libri:

S. Tolansky: Introduzione alla fisica atomica, Edizioni Einaudi, Torino, 1950


D. Halliday, R. Resnick: Fisica, Casa Editrice Ambrosiana, Milano, 1968
R. M. Eiseberg: Foundamentals of modern physics, John Wiley & Sons
Per ulteriori approfondimenti sull'effetto Compton e sulla biografia di Arthur Holly Compton si suggeriscono i seguenti link:


L'effetto Compton dal sito Luce virtuale.net
La biografia di A. H. Compton e la sua memoria per il Premio Nobel direttamente dall'Official Web Site of The Nobel
Foundation
LINKSUtili :
http://www.ct.infn.it/~rivel/Tipi/radiazioni/compton.html
www penfisica.com/fisica_ipertesto/quanti/compton.php
http://www.ba.infn.it/~zito/museo/frame11.html
Effetto Compton
Nel 1923 il fisico americano A. H. Compton (1892 - 1962), premio Nobel per la Fisica nel
1927, confermò sperimentalmente l'interpretazione quantistica e corpuscolare della radiazione
elettromagnetica, dimostrando che
l'urto tra un fotone ed un elettrone libero segue le note leggi di conservazione dell'energia e
della quantità di moto.
Compton bombardò un blocco di grafite con un fascio monocromatico ben collimato di raggi X
di lunghezza d'onda λ e misurò la lunghezza d'onda λ' del fascio diffuso in funzione dell'angolo
di diffusione θ.
I risultati sperimentali dimostrarono che il raggio diffuso aveva sempre una lunghezza d'onda
maggiore (e quindi una frequenza minore) del raggio incidente.
Lo spostamento Compton Δλ = λ' - λ è legato all'angolo di diffusione θ dalla seguente
relazione:
Δλ = h / m0 c (1 - cos θ)
dove h è la costante di Plank, m0 la massa a riposo dell'elettrone e c la velocità
della luce
La lunghezza d'onda della radiazione diffusa può quindi variare
da 0 (corrispondente ad un angolo di diffusione nullo, cioè ad
una radiazione non diffusa) fino ad un massimo di 2 h / m0 c
(corrispondente ad una diffusione di 180°, cioè ad una
radiazione che si riflette all'indietro.
Secondo la teoria classica (leggi di Maxwell) il fascio diffuso
avrebbe dovuto avere la stessa frequenza di quello incidente: gli
elettroni della grafite avrebbero dovuto oscillare con la stessa frequenza dell'onda incidente ed
emettere quindi una radiazione della identica frequenza.
Compton spiegò che il fenomeno poteva essere interpretato pensando alla
radiazione come un flusso di fotoni, ciascuno di energia E = h f , che urtano
elasticamente, come palle da biliardo, contro gli elettroni liberi della grafite.
Un fotone che urta contro un elettrone immobile, gli trasferisce energia e quantità di moto,
cambiando direzione dopo l'urto. Poiché nella collisione parte dell'energia iniziale del fotone
viene ceduta come energia cinetica all'elettrone, per la conservazione dell'energia, il fotone
diffuso deve avere un'energia E' = h f' minore di quella iniziale e quindi una lunghezza d'onda
λ' maggiore di quella iniziale.
Urto fotone - elettrone
Per ricavare teoricamente la relazione dello spostamento Compton è necessario trattare la
collisione tra fotone e elettrone come un urto perfettamente elastico, applicando i principi di
conservazione dell'energia e della quantità di moto.
Poiché l'elettrone può rimbalzare con velocità confrontabili con quella della luce, dovremo
usare le espressioni relativistiche per l'energia e la quantità di moto.
Situazione prima dell'urto
Situazione dopo l'urto
l'elettrone è in quiete all'origine di un riferimento cartesiano, il
fotone incidente viaggia lungo l'asse x.
(m0 è la massa a riposo dell'elettrone)
il fotone è diffuso di un angolo θ, l'elettrone di un
angolo α (rispetto all'asse x).
(m = γ m0 è la massa relativistica dell'elettrone)
energia del sistema: h f + m0 c2
energia del sistema: h f' + γ m0 c2
quantità di moto (asse x): h/λ
quantità di moto (asse x): h/λ' cos θ + γ m0 v cos α
quantità di moto finale (asse y): h/λ' sen θ + γ m0 v
sen α
quantità di moto iniziale (asse y): 0
Conservazione dell'energia:
h f + m0 c2 = h f' + γ m0 c2
h f = h f' + m0 c2 (γ - 1)
h c/λ = h c/λ' + m0 c2 (γ - 1)
Conservazione della quantità di moto (in due dimensioni):
asse x
h/λ = h/λ' cos θ + γ m0 v cos α
asse y
0 = h/λ' sen θ + γ m0 v sen α
Risolvendo le tre equazioni rispetto a λ , λ' e θ si ottiene la relazione di Compton.
FOTOGENERAZIONE e FOTOCONDUCIBILITA’
http://www.elettrotecnica.unina.it/files/lupo/upload/Semiconduttoriorganici.pdf
www.dei.unipd.it/wdyn/?IDfile=3301&IDsezione=3283
www.dii.unina2.it/Utenti/lzeni/Optoelettronica/Opto7.pdf
Raggi x:eff.fotoelettrico,Compton,Prod Coppie
I Raggi X
La scoperta dei raggi X
Fig. 1: Lo scopritore dei raggi X:
Roentgen, primo premio Nobel per la
Fisica nel Novembre 1901. A sinistra nel
riquadro, la radiografia della mano della
I raggi X furono scoperti, per caso, dal Prof.
Signora Roentgen (22 dicembre 1895).
Roentgen, una sera del Novembre 1895.
Roentgen studiava i fenomeni associati al passaggio di corrente elettrica attraverso gas a
pressione estremamente bassa. Stava lavorando in una stanza oscura ed aveva avvolto
accuratamente il tubo di scarica in uno spesso foglio di cartone nero per eliminare
completamente la luce, quando un folgio di carta ricoperto da un lato da una sostanza
fosforescente, posto casualmente su di un tavolo vicino, divenne fluorescente.
Egli spiegò il fenomeno come dovuto all'emissione, dal tubo di scarica, di raggi invisibili che
eccitavano la fluorescenza.
Nello stesso periodo, il Prof. Augusto Righi, all'Università di Bologna, faceva la sua prima
radiografia utilizzando i raggi Roentgen. La cavia era il suo meccanico.
Fig. 2: Radiografia con raggi Roentgen
eseguita dal Prof. Augusto Righi al
Dipartimento di Fisica a Bologna.
Produzione dei raggi X
I raggi X sono radiazioni di natura elettromagnetica con lunghezza d'onda
10-11 m circa.
compresa tra 10-8-
Quando
l'elettrone di
un fascio
interagisce con
il campo
elettrico del
nucleo di un
Fig. 3: Rappresentazione schematica del processo di produzione dei
raggi X.
atomo
(figura 3 a
sinistra),
subisce una
brusca
decelerazione e
perde energia
che viene
emessa sotto
forma di fotoni
. Questo
processo,
chiamato "radiazione di frenamento" o "bremsstrahlung", è responsabile dello spettro continuo
dei raggi X.
Se, invece, l'interazione dell'elettrone incidente avviene con uno degli elettroni più interni
dell'atomo bersaglio (figura 3 a destra), il processo di produzione dei raggi X prende il nome di
"radiazione caratteristica". A seguito di questa interazione, entrambi gli elettroni sono
diffusi fuori dall'atomo, così che nell'orbitale rimane un posto libero o "lacuna".
Successivamente uno degli elettroni più esterni si sposta per colmare la lacuna. È durante
quest'ultimo processo che l'atomo emette radiazione X con un'energia che individua in maniera
esatta il materiale di cui è composto l'atomo bersaglio, da cui il nome "radiazione
caratteristica".
I sistemi più utilizzati per la produzione di fasci di raggi X, sono i tubi a raggi X.
Nella figura 4 sottostante è raffigurato lo spettro energetico dei raggi X prodotti da un tubo
radiogeno con anodo in tungsteno. La parte continua dello spettro rappresenta i raggi X
provenienti dal fenomeno di "bremsstrahlung"; i picchi sono quelli relativi all'emissione di
"radiazione caratteristica".
Fig. 4: Spettro X continuo con righe caratteristiche per un bersaglio di
tungsteno bombardato con elettroni da 100 KeV .
produzione di raggi X
Esistono molti modi di produrre radiazioni X.
In laboratorio, la radiazione viene normalmente prodotta con tubi a
raggi X (tubi di Coolidge), il cui funzionamento è molto semplice.
Un fascio di elettroni (ottenuti da un filamento, con correnti
dell'ordine di alcune decine di milliAmpere) viene accelerato ad elevato
voltaggio (ordine di decine di kilovolts) contro un anodo metallico.
L'energia viene principalmente dissipata come calore e in parte minore
utilizzata per l'emissione di radiazioni X.
Lo spettro prodotto contiene due componenti distinte:

una parte continua dovuta alla decelerazione degli elettroni
(bremsstrahlung)

una parte discontinua dovuta all'estrazione di elettroni
legati del metallo e successiva emissione per rilassamento di
elettroni più esterni
La minima lunghezza d'onda della curva di bremsstrahlung dipende dal
potenziale usato per l'accelerazione degli elettroni
Per esperimenti di cristallo singolo la radiazione impiegata è però
quella prodotta dalle linee caratteristiche di un dato anodo metallico
(componente discontinua). In particolare è impiegata la radiazione K
ossia la radiazione emessa dal rilassamento verso lo strato K di un
elettrone dello strato L. Una sorgente alternativa e di maggiore
efficienza è l'anodo rotante, ossia un sistema in cui l'anodo non sia
fisso, bensì in costante rotazione.
Le energie delle linee caratteristiche (e quindi le lunghezze d'onda
prodotte) dipendono dal materiale impiegato come anodo. Ecco alcune
delle lunghezze d'onda (in Å) maggiormente impiegate nei laboratori a
raggi X per impiego cristallografico:
Anodo
Cu
Mo
Ag
K1
1.540
0.7093
0.5594
K2
1.544
0.7135
0.5638
La suddivisione 1, 2 dipende da effetti relativistici (poiché gli strati
L non sono unici, ma doppi).
Al di là di impieghi in laboratori (universitari) radiazioni X possono
essere prodotte in strutture scientifiche di grande scala, come gli
anelli di Sincrotrone (in cui elettroni accelerati in grandi anelli
producono radiazioni sfrutatte per vari impieghi). Alcuni esempi:
NSLS a Brookhaven (Stati Uniti),
http://nslsweb.nsls.bnl.gov/nsls/default.htm
ELETTRA, Trieste (Italia), www.elettra.trieste.it
ESRF, Grenoble (Francia), http://www.esrf.fr/
I vantaggi dell'uso di radiazione di sincrotrone sono l'enorme brillanza
(molti ordini di grandezza superiore a quella prodotta da comuni tubi a
raggi X), la migliore convergenza e monocromaticità della radiazione e
la flessibilità della lunghezza d'onda prodotta.
www.akisrx.com/htmdue/lafisica_x.htm - 22k
http://fis-san.univ.trieste.it/complementari/didattica/interazioni.pdf
ASSORBIMENTO R.X
http://nfs.unipv.it/nfs/minf/dispense/Fisica/R07-rX%20assorbimentoB.pdf
www.sfismed.univr.it/Didattica/Radiologia/LezioniFisicaSanitaria/04InterazioneXMateria.doc
EFFETTI sul materiale biologico-elementi di radioprotezione
http://xoomer.alice.it/fealtier/Ni/materia0002.htm - 162k
http://www.google.it/search?hl=it&q=RAGGI+x+PRODUZIONE+COPPIE&start=20&sa=N
Raggi Gamma
Gamma (radiazione)
I raggi gamma, come la luce visibile, sono composti da fotoni: particelle infinitesime di luce che
viaggiano sotto forma di onde di energia. I fotoni che compongono i raggi gamma sono identici a
quelli della luce visibile, solo portano energie più elevate. Quando gli scienziati parlano dello
spettro elettromagnetico, si riferiscono all'intera varietà dei livelli di energia raggiungibili dai
fotoni.
Nell'intero spettro di radiazioni, come illustrato nel disegno, la luce visibile ne occupa solo una
frazione, collocata tra la luce infrarossa, di energia minore, e la più energetica luce ultravioletta.
Alle estremità opposte dello spettro, troviamo le onde radio, i fotoni meno energetici e i raggi
gamma, i più energetici.
L'energia trasportata dai fotoni viene misurata nell'unità di misura degli elettronvolt o eV. La luce
visibile è composta da fotoni con energie tra 2 e 3 eV, i raggi gamma sono fotoni con energie tra
100.000 ( 0,1 MeV ) e 1*1012 eV ( 1 TeV ) o superiori.
Queste radiazioni vengono interamente assorbite nell'atmosfera ad altezze tra 9.000 e 40.000 metri.
Per questo l'osservazione è stata compiuta con i palloni sonda e razzi prima ed anche con i satelliti
poi, tra i quali il Compton Gamma Ray Observatory.
Energia e origine dei raggi gamma
I raggi gamma vengono generati dalla cessione di energia da parte del
radionuclide dopo ad esempio l'emissione di un raggio beta oppure di un
raggio alfa. Da dove viene l'energia in più che acquista il nucleo dopo
l'emissione? è forse dovuta al rinculo? è vero che anche il nucleo presenta
degli stati energetici quantizzati come le orbite degli elettroni?
Simona Capparella
12 aprile 2007
La domanda, così come scritta, presenta alcune inesattezze. Vediamo dunque di chiarire la
situazione, e per questo viene comodo partire dal fondo, e cioè dai livelli energetici. Come
giustamente dice la lettrice, anche per i nuclei atomici, come per gli atomi, esistono i livelli
energetici. Ogni nucleo può apparire in diversi stati, ciascuno caratterizzato da una ben definita
energia. La situazione è più complicata per i nuclei che per gli atomi, per le seguenti ragioni:
1. nei nuclei esistono due tipi di particelle, protoni e neutroni, mentre negli atomi i livelli
energetici sono in larga misura determinati dallo stato dei soli elettroni; in conseguenza di
questo, per gli stati nucleari c'è più varietà;
2. mentre per l'atomo sono le forze elettromagnetiche a determinare gli stati energetici, nel
nucleo agisce prevalentemente la cosiddetta interazione nucleare forte, che ha un
comportamento più complesso e produce una serie di livelli più ricca;
3. esiste infine una seconda forza nucleare, detta forza nucleare debole, che permette di
transire da un livello energetico ad un altro seguendo "percorsi" che sarebbero proibiti in
presenza della sola interazione forte.
Premesso tutto questo, da un punto di vista concettuale non c'è molta differenza tra i livelli
energetici atomici ed quelli nucleari.
Arriviamo dunque alla seconda parte della risposta. Ogni livello nucleare è caratterizzato da una
specifica e ben determinata energia. Se esiste un livello con energia più piccola, di principio è
possibile che il nucleo effettui una transizione verso questo livello, rilasciando l'energia in eccesso.
Questa energia può essere emessa in diversi modi, e i principali sono quelli elencati dalla lettrice:
radiazioni alfa, beta e gamma. In tutte e tre i casi si tratta di particelle espulse dal nucleo; i raggi alfa
sono nuclei di elio, i raggi beta sono elettroni o positroni (accompagnati da invisibili neutrini), e i
raggi gamma sono fotoni. Nel primo caso, il nucleo perde una frazione significativa della propria
massa (cambia infatti il numero totale dei protoni e neutroni che lo compongono) mentre negli altri
la perdita di massa è molto piccola (il numero totale di neutroni e protoni non cambia). A volte
questi decadimenti avvengono in sequenza (per esempio un nucleo può subire un decadimento
alpha per poi "risistemarsi" ulteriormente con un decadimento beta o gamma), ma di principio
ciascun processo può avvenire indipendentemente dagli altri.
A questo punto, siamo vicini alla fine della risposta: quando un nucleo decade, non guadagna
energia, ma la perde. Questa energia viene trasportata via dalla particella alfa, o beta, o gamma, ed
era inizialmente "immagazzinata" nello stato energetico in cui si trovava il nucleo. Il nucleo, se mai,
può guadagnare energia cinetica a causa del rinculo che subisce emettendo la particella di
decadimento. Nel caso delle emissioni beta o gamma, questa energia di rinculo è comunque molto
piccola.
Raggi gamma
I raggi gamma (spesso indicati con la lettera greca gamma, γ) sono una forma energetica di radiazione
elettromagnetica prodotta dalla radioattività o da altri processi nucleari o subatomici, come l'annichilazione
elettrone/positrone. I raggi gamma sono più penetranti sia della radiazione alpha sia della radiazione beta,
ma sono meno ionizzanti. I raggi gamma si distinguono dai raggi X per la loro origine: i gamma sono prodotti
da transizioni nucleari o comunque subatomiche, mentre gli X sono prodotti da transizione energetiche
dovute ad elettroni in rapido movimento. Poiché è possibile per alcune transizioni elettroniche superare le
energie di alcune transizioni nucleari, i raggi X più energetici si sovrappongono con i raggi gamma più
deboli.
Processi nucleari
processi di decadimento
radioattivo:






decadimento Alfa
decadimento Beta
raggi gamma
emissione di neutroni
emissione di protoni
fissione spontanea
Nucleosintesi


Cattura di neutroni
o processo R
o processo S
Cattura di protoni:
o processo P
Una schermo per raggi γ richiede una massa notevole. Per ridurre del 50% l'intensità di un raggio gamma
occorrono 1 cm di piombo, 6 cm di cemento o 9 cm di materiale pressato.
I raggi gamma di un fallout nucleare sarebbero i maggiori responsabili di perdite di vite umane
nell'eventualità di una guerra nucleare. Uno schermo appropriato ridurrebbe la perdita di vite di almeno
1000 volte.
I raggi gamma sono meno ionizzanti dei raggi alfa o beta. Nonostante ciò, occorrono schermi più spessi
per la protezione degli esseri umani. I raggi gamma producono effetti simili a quelli dei raggi X come ustioni,
cancri e mutazioni genetiche.
In termini di ionizzazione, la radiazione gamma interagisce con la materia in tre modi principali: l'effetto
fotoelettrico, il Compton scattering e la produzione di coppie elettrone/positrone.
Effetto fotoelettrico: occorre quando un fotone gamma interagisce con un elettrone orbitante attorno ad un
atomo e gli trasferisce tutta la sua energia, col risultato di espellere l'elettrone dall'atomo. L'energia cinetica
del "fotoelettrone" risultante è uguale all'energia del fotone gamma incidente meno l'energia di legame
dell'elettrone. Si pensa che l'effetto fotoelettrico sia il meccanismo principale per l'interazione dei fotoni
gamma e X al di sotto dei 50 KeV (migliaia di elettronvolt), ma che sia molto meno importante ad energie
più alte.
Compton scattering: un fotone gamma incidente espelle un elettrone da un atomo, in modo simile al caso
precedente, ma l'energia addizionale del fotone viene convertita in un nuovo fotone gamma, meno
energetico, con una direzione diversa dal fotone originale. La probabilità del compton scattering diminuisce
con l'aumentare dell'energia del fotone. Si pensa che questo sia il meccanismo principale per l'assorbimento
dei raggi gamma nell'intervallo di energie "medie", tra 100 KeV e 10 MeV (milioni di elettronvolt), dove vanno
a cascare la maggior parte della radiazione gamma prodotta da un'esplosione nucleare. Il meccanismo è
relativamente indipendente dal numero atomico del materiale assorbente.
Produzione di coppie: interagendo con la forza di coulombiana del nucleo, l'energia del fotone incidente è
convertita nella massa di una coppia elettrone/positrone (un positrone è un elettrone carico positivamente).
L'energia eccedente la massa a riposo delle due particelle (1.02 MeV) appare come energia cinetica della
coppia e del nucleo. L'elettrone della coppia, in genere chiamato elettrone secondario, è molto ionizzante. Il
positrone avrà vita breve: si ricombina entro 10-8 secondi con un elettrone libero. L'intera massa delle due
particelle viene quindi convertita in due fotoni gamma con un'energia di 0.51 MeV ciascuno.
I raggi gamma sono spesso prodotti insieme ad altre forme di raziazione come quella alfa e beta. Quando un
nucleo emette una particella α o β, il nucleo risultante si trova a volte in uno stato eccitato. Può passare ad
un livello più stabile emettendo un fotone gamma, nello stesso modo in cui un elettrone può passare ad un
livello più basso emettendo un fotone ottico.
Raggi gamma, raggi X, luce visibile e radiazione ultravioletta sono tutte forme di radiazione elettromagnetica.
L'unica differenza è la frequenza e quindi l'energia dei fotoni. I raggi gamma sono i più energetici.
Ecco un esempio di generazione di ragi gamma:
Prima un nucleo di cobalto-60 decade in un nichel-60 eccitato attraverso il decadimento beta:
60Co
-->
60Ni*
+ e- + νÌ„e
Poi il nichel-60 passa al suo stato di energia minima emettendo un raggio gamma:
60Ni* --> 60Ni + γ
Utilizzi
La natura energetica dei raggi gamma li ha resi utili per la sterilizzazione delle apparecchiature mediche,
perché uccidono facilmente i batteri. Sono inoltre usati per uccidere i batteri nelle confezioni alimentari
perché si conservino più a lungo.
Nonostante possano produrre il cancro, i raggi gamma sono usati per curare alcune forme cancerogene.
Fasci di raggi gamma concentrati vengono mandati contro il cancro da diverse direzioni, per ucciderne le
celle. I fasci sono fatti partire con differenti angoli in modo che si incrocino sull'area interessata,
minimizzando il danno ai tessuti circostanti.
Vedi anche: fisica, astronomia dei raggi gamma, gamma ray burster
Radioattività
Cos’è la Radioattività?
La radioattività è il fenomeno per cui alcuni nuclei, non stabili, si trasformano in altri emettendo
particelle. La radioattività non è stata inventata dall'uomo, anzi, al contrario, l'uomo è esposto alla
radioattività fin dal momento della sua apparizione sulla Terra. La radioattività è antica quanto
l’Universo ed è presente ovunque: nelle Stelle, nella Terra e nei nostri stessi corpi.
La scoperta della radioattività avvenne alla fine dell’800 ad opera di Henry Bequerel e dei coniugi
Pierre e Marie Curie (Figura 1), che ricevettero il Premio Nobel per la Fisica per le loro ricerche.
Essi scoprirono che alcuni minerali, contenenti uranio e radio,avevano la proprietà di impressionare
delle lastre fotografiche poste nelle loro vicinanze. Le lastre fotografiche, una volta sviluppate,
presentavano delle macchie scure.
Per questa loro proprietà, elementi come l’uranio, il radio e il polonio (gli ultimi due scoperti
proprio da Pierre e Marie Curie) vennero denominati “attivi” e il fenomeno di emissione di
particelle venne detto radioattività. Da allora sono stati identificati quasi 2500 specie di nuclei
differenti e di essi solo una piccola percentuale, circa 280, sono stabili.
Figura 1: Henry Bequerel e i coniugi Curie.
Atomi, elementi chimici e isotopi
La materia che ci circonda (aria, acqua, terra, oggetti ed esseri viventi) è costituita da atomi, che a
loro volta sono fatti da un nucleo estremamente piccolo, delle dimensioni di un Fermi (1 fm = un
milione di miliardi di volte più piccolo di un metro) e di carica positiva, circondato da una nuvola di
elettroni di carica negativa (Figura 2).
Il nucleo dell’atomo è costituito dai protoni, carichi positivamente, e dai neutroni, che sono invece
privi di carica elettrica e perciò neutri (come dice il loro stesso nome). Il numero di protoni è uguale
al numero di elettroni, così che l'atomo è elettricamente neutro.
Figura 2: Disegno schematico di un atomo.
La struttura dell’atomo (nucleo di protoni e neutroni ed elettroni orbitanti intorno al nucleo) è la
stessa per tutti gli elementi chimici che conosciamo. Quello che cambia da un elemento all’altro è il
numero dei protoni (e quindi degli elettroni) e dei neutroni che l’atomo contiene. Il numero totale di
protoni nel nucleo viene chiamato “numero atomico” e si indica con la lettera Z. Esso determina di
quale elemento chimico si tratta: così ad esempio l'elemento chimico con 8 protoni è l'ossigeno,
quello con 26 protoni è il ferro, quello con 79 protoni è l'oro, quello con 92 protoni è l'uranio e così
via.
La somma del numero dei protoni più il numero dei neutroni viene chiamato “numero di massa” e si
indica con la lettera A. Mentre il numero di protoni di un elemento chimico è fisso (infatti abbiamo
detto che questo numero, Z, caratterizza l’elemento), il numero di neutroni può essere variabile. In
questo caso parliamo di “isotopi” di un elemento chimico. Ad esempio: il ferro presente in natura è
costituito da 4 isotopi, tutti con 26 protoni ma con 28, 30, 31 e 32 neutroni rispettivamente. Gli
isotopi sono identificati dal nome dell'elemento e dal numero di massa, che viene di solito riportato
in alto a sinistra del simbolo dell’elemento chimico, per esempio l’isotopo del Carbonio con numero
di massa 14 si indica con 14C.
In natura esistono circa 90 elementi (dall'idrogeno, il più leggero, all'uranio, il più pesante) e circa
270 isotopi. Oltre agli isotopi da sempre presenti in natura (isotopi naturali) , esistono oggi un gran
numero di isotopi artificiali, cioè prodotti dall'uomo. Esempi di isotopi artificiali sono il cobalto-60
(27 protoni, 33 neutroni), usato in radioterapia e il plutonio-239 (94 protoni, 145 neutroni), usato
come combustibile nelle centrali nucleari.
Cos’è un decadimento radioattivo?
Gli isotopi presenti in natura sono quasi tutti stabili. Tuttavia, alcuni isotopi naturali, e quasi tutti gli
isotopi artificiali, presentano nuclei instabili, a causa di un eccesso di protoni e/o di neutroni. Tale
instabilità provoca la trasformazione spontanea in altri isotopi, e questa trasformazione si
accompagna con l'emissione di particelle. Questi isotopi sono detti isotopi radioattivi, o anche
radioisotopi, o anche radionuclidi.
La trasformazione di un atomo radioattivo porta alla produzione di un altro atomo, che può essere
anch'esso radioattivo oppure stabile. Essa è chiamata disintegrazione o decadimento radioattivo.
Il tempo medio che occorre aspettare per avere tale trasformazione può essere estremamente breve o
estremamente lungo. Esso viene detto “vita media” del radioisotopo e può variare da frazioni di
secondo a miliardi di anni (per esempio, il potassio-40 ha una vita media di 1.8 miliardi di anni). Un
altro tempo caratteristico di un radioisotopo è il “tempo di dimezzamento”, ovvero il tempo
necessario affinché la metà degli atomi radioattivi inizialmente presenti subisca una trasformazione
spontanea.
Esistono tre diversi tipi di decadimenti radioattivi, che si differenziano dal tipo di particella emessa
a seguito del decadimento. Le particelle emesse vengono indicate col nome generico di radiazioni.
Decadimento alfa
Decadimento beta
Decadimento gamma
Decadimento Alfa (): Consideriamo un nucleo con numero atomico Z e numero di massa A. In
seguito ad un decadimento alfa, il nucleo emette una particella a, cioè un nucleo di elio composto da
due protoni e due neutroni, e si trasforma in un nucleo diverso, con numero atomico (Z - 2) e
numero di massa (A – 4). Un esempio è il decadimento dell’uranio-238 in torio-234 (Figura 3). Le
radiazioni alfa, per la loro natura, sono poco penetranti e possono essere completamente bloccate da
un semplice foglio di carta (Figura 4).
Figura 3: Un decadimento alfa.
Figura 4: Il potere penetrante delle diverse radiazioni.
Decadimento Beta (): Il nucleo emette un elettrone e un antineutrino di tipo elettronico (vedi
sezione sui neutrini) e si trasforma in un nucleo con numero atomico (Z + 1) ma stesso numero di
massa A. Un esempio è il decadimento del Cobalto-60 in Nichel-60 (Figura 5). Le radiazioni beta
sono più penetranti di quelle alfa, ma possono essere completamente bloccate da piccoli spessori di
materiali metallici (ad esempio, pochi millimetri di alluminio).
Figura 5: Un decadimento beta con successivo decadimento gamma del nucleo eccitato.
Decadimento Gamma (): Il nucleo non si trasforma ma passa semplicemente in uno stato di energia
inferiore ed emette un fotone. La radiazione gamma accompagna solitamente una radiazione alfa o
una radiazione beta. Infatti, dopo l'emissione alfa o beta, il nucleo è ancora eccitato perché i suoi
protoni e neutroni non hanno ancora raggiunto la nuova situazione di equilibrio: di conseguenza, il
nucleo si libera rapidamente del surplus di energia attraverso l'emissione di una radiazione gamma.
Per esempio il cobalto-60 si trasforma per disintegrazione beta in nichel-60, che raggiunge il suo
stato di equilibrio emettendo una radiazione gamma (Figura 5). Al contrario delle radiazioni alfa e
beta, le radiazioni gamma sono molto penetranti, e per bloccarle occorrono materiali ad elevata
densità come il piombo (Figura 4).
Qual’è l’origine della radioattività?
Come abbiamo detto, gli isotopi radioattivi possono avere origine naturale o artificiale. Tuttavia non
bisogna pensare che la radioattività naturale e quella artificiale siano fenomeni diversi, in quanto il
processo fisico alla base è lo stesso per entrambe.
I radioisotopi naturali hanno avuto origine al centro delle stelle, tramite reazioni nucleari o durante
le esplosioni di Supernovae. Alcuni di questi nuclei, come il potassio-40 (40K), il torio-232 (232Th) e
l’uranio-235/238 (235U / 238U) sono attivi ancora oggi, in quanto il loro tempo di dimezzamento è di
vari miliardi di anni. La misura dell’abbondanza residua di questi isotopi sulla Terra permette di
risalire all’età del nostro pianeta, che è calcolata in 4.5 miliardi di anni.
Altri nuclei radioattivi si sono formati in seguito alle interazioni dei raggi cosmici con alcuni
elementi. Si parla allora di nuclei di origine cosmogenica. Alcuni esempi sono il carbonio-14 (14C),
prodotto dall’interazione dei raggi cosmici con l’azoto dell’atmosfera, il berillio-10 (10Be) e il
cobalto-58 (58Co), che si sviluppa in qualsiasi pezzo di rame esposto ai raggi cosmici.
I nuclei radioattivi artificiali sono stati creati in laboratorio o nei reattori nucleari.
La radioattività in natura
La radioattività è un fenomeno naturale: per questo motivo qualsiasi cosa sulla Terra, inclusi i nostri
corpi, contiene una certa percentuale di elementi radioattivi.
La radioattività nell’aria è dovuta alla presenza del Radon (Rn). Questo elemento viene prodotto dal
decadimento dell’uranio e del torio, che si trovano in moltissimi materiali, soprattutto nelle rocce.
Essendo gassoso, il radon riesce ad “evaporare” diffondendosi nell’aria. In 1 m3 di aria in un
edificio chiuso avvengono in media 30 decadimenti di radon al secondo.
Un altro protagonista della radioattività naturale è il Potassio-40, che è presente nel nostro corpo e
in generale nella materia biologica, nei cibi, nella crosta terrestre e nell’acqua di mare. Per esempio,
in un corpo umano si hanno circa 5000 decadimenti di 40K al secondo. La radioattività, inoltre, è
responsabile del calore interno della Terra.
Come si misura la radioattività?
L'unità di misura della radioattività è il becquerel (Bq). 1 Bq corrisponde a 1 disintegrazione al
secondo. Poiché questa unità di misura è assai piccola, la radioattività si esprime molto spesso in
multipli di Bq: il kilo-becquerel (kBq) = 103 Bq, il Mega-becquerel (MBq) = 106 Bq e il
Gigabecquerel (GBq) = 109 Bq.
L'unità di misura usata in precedenza era il Curie (Ci) definita come la quantità di radioattività
presente in un grammo di radio. Questa unità è immensamente più grande del Bq, perché in un
grammo di radio avvengono 37 miliardi di disintegrazioni al secondo. Perciò:1 Ci = 37 GBq = 37
miliardi di Bq.
Quali sono gli effetti della radioattività?
Le radiazioni prodotte dai radioisotopi interagiscono con la materia con cui vengono a contatto,
trasferendovi energia. Tale apporto di energia, negli organismi viventi, produce una ionizzazione
delle molecole: da qui la definizione di radiazioni ionizzanti. La dose di energia assorbita dalla
materia caratterizza questo trasferimento di energia. Gli effetti possono essere irrilevanti o più o
meno dannosi, a seconda della dose di radiazioni ricevuta e del tipo di radiazioni.
L'unità di misura della dose assorbita dalla materia a seguito dell'esposizione alle radiazioni
ionizzanti é il Gray (Gy). 1 Gy corrisponde a una quantità di energia di 1 Joule (J) assorbita da 1
kilogrammo di materia. Per la misura delle dosi di radiazioni assorbite dall'uomo, o più
precisamente per una misura degli effetti biologici dovuti alla dose di radiazioni assorbita, è stato
introdotto il concetto di equivalente di dose, che tiene conto della dannosità più o meno grande, a
parità di dose, dei vari tipi di radiazioni ionizzanti.
In questo caso, l'unità di misura è il Sievert (Sv). Di uso più comune è il sottomultiplo millisievert
(mSv), pari a un millesimo di Sv. Ad esempio, una radiografia al torace comporta l'assorbimento di
una dose di circa 0,14 mSv. La dose annualmente assorbita da ogni individuo per effetto della
radioattività naturale è in media di 2,4 mSv per anno.
Il limite massimo di dose stabilito dalla legge italiana per le persone è 1 mSv per anno al di sopra
della dose naturale di radiazioni (20 mSv per lavoratori impegnati in attività che prevedono l’uso o
la manipolazione di radioisotopi).
Cos’è la radioattività?
A) Introduzione
Si definisce radioattività la proprietà che hanno gli atomi di alcuni elementi di emettere spontaneamente
radiazioni ionizzanti.
La radioattività non é stata inventata dall'uomo, anzi, al contrario, l'uomo é esposto alla radioattività fin dal
momento della sua apparizione sulla Terra.
Solo recentemente (circa 100 anni fa), con i lavori dello scienziato francese Henry Becquerel, l'uomo ha
scoperto l'esistenza della radioattività.
Fin dalla formazione della Terra, circa cinque miliardi di anni fa, la materia era formata da atomi stabili non
radioattivi e atomi instabili radioattivi. Col trascorrere dei millenni, la maggior parte degli elementi radioattivi,
attraverso il processo di decadimento, hanno cessato di essere tali.
Tuttavia, esistono ancora oggi in natura alcuni isotopi radioattivi, e non é cessato l'apporto esterno di
radioattività prodotto dal bombardamento di raggi cosmici a cui siamo tuttora sottoposti. Ecco perché tutto
quello che ci circonda é "naturalmente" radioattivo.
Dall'alba dei tempi fino ad oggi, gli esseri viventi sono perciò immersi in un vero e proprio bagno di
radioattività:
Un chilogrammo di granito ha una radioattività naturale di circa 1000 Becquerel
Un litro di latte ha una radioattività naturale di circa 80 Becquerel
Un litro di acqua di mare ha una radioattività naturale di circa 10 Becquerel
Un individuo di 70 kg ha una radioattività dell'ordine di 8000 Becquerel, causata dalla presenza, nel corpo
umano, di isotopi radioattivi naturali (in gran parte, potassio-40)
In Italia la dose di radioattività naturale cui é sottoposto annualmente ciascun individuo é pari
approssimativamente alla dose associata ad una radiografia del torace moltiplicata per venti.
B) Atomi
La materia che ci circonda (aria, acqua, terra, oggetti, esseri viventi, eccetera) é costituita da atomi, che a
loro volta consistono in un nucleo estremamente piccolo (dimensione approssimativa: un milione di miliardi
di volte meno di un metro), di carica positiva, circondato da una nuvola di elettroni di carica negativa.
All'interno dell'atomo, il nucleo é costituito da protoni carichi positivamente e da neutroni privi di carica e
perciò neutri (come dice il loro stesso nome).
Negli atomi, il numero di protoni (carichi positivamente) é uguale al numero di elettroni (carichi
negativamente), così che l'atomo é elettricamente neutro.
Il numero totale di protoni nel nucleo (e quindi di elettroni nella nuvola esterna), chiamato numero atomico,
determina di quale elemento chimico si tratta: così ad esempio l'elemento chimico con 8 protoni é l'ossigeno,
quello con 26 protoni é il ferro, quello con 79 protoni é l'oro, quello con 92 protoni é l'uranio.
Come abbiamo visto, nel nucleo, oltre ai protoni, sono presenti anche i neutroni: la somma del numero totale
di protoni più il numero totale di neutroni determina il numero di massa.
C) Isotopi
Un elemento chimico, oltre al numero fisso di protoni che lo caratterizza, può avere un numero variabile di
neutroni: in tal caso si identificano diversi isotopi di uno stesso elemento.
Ad esempio: il ferro presente in natura é costituito da 4 isotopi, tutti con 26 protoni ma ognuno con 28, 30, 31
e 32 neutroni rispettivamente.
Gli isotopi sono identificati dal nome dell'elemento e dal numero di massa (esempio: ferro-54, ferro-56, ecc.).
In natura esistono circa 90 elementi (dall'idrogeno, il più leggero, all'uranio, il più pesante) e circa 270 isotopi.
Tra gli elementi, una ventina sono costituiti da un unico isotopo (come ad esempio il sodio, il cobalto,
l'arsenico e l'oro), gli altri hanno almeno due isotopi (ad esempio: il cloro ne ha due, lo zinco ne ha cinque, lo
stagno ne ha dieci).
Oltre agli isotopi da sempre presenti in natura (isotopi naturali) , esistono oggi un gran numero di isotopi
artificiali, cioè prodotti dall'uomo. Esempi di isotopi artificiali sono il il cobalto-60 (27 protoni, 33 neutroni),
usato in radioterapia e in gammagrafia, il plutonio-239 (94 protoni, 145 neutroni), usato come combustibile
nelle centrali nucleari.
D) Origine della radioattività
Gli isotopi presenti in natura sono quasi tutti stabili. Tuttavia, alcuni isotopi naturali, e quasi tutti gli isotopi
artificiali, presentano nuclei instabili, a causa di un eccesso di protoni e/o di neutroni. Tale instabilità provoca
la trasformazione spontanea in altri isotopi, e questa trasformazione si accompagna con l'emissione di
radiazioni ionizzanti per cui essi sono chiamati isotopi radioattivi, o anche radioisotopi, o anche radionuclidi.
La trasformazione di un atomo radioattivo porta alla produzione di un altro atomo, che può essere anch'esso
radioattivo oppure stabile. Essa é chiamata disintegrazione o decadimento.
Tale trasformazione, a seconda dei casi, può completarsi in tempi estremamente brevi o estremamente
lunghi. Una misura di tale tempo é data dal tempo di dimezzamento, o tempo di vita media, che esprime il
tempo alla fine del quale la metà degli atomi radioattivi inizialmente presenti ha subito una trasformazione
spontanea.
Ad esempio il radioisotopo artificiale tecnezio-99m ha un tempo di dimezzamento di 6 ore (dopo 6 ore la sua
radioattività si é ridotta della metà); il radioisotopo artificiale iodio-131 ha un tempo di dimezzamento di 8
giorni; il radioisotopo naturale potassio-40 ha un tempo di dimezzamento di 1,3 miliardi di anni.
Dopo dieci tempi di dimezzamento, la radioattività di un radioisotopo é mille volte minore di quella iniziale.
E) Misura della radioattività
Un campione contenente radioisotopi si caratterizza per la sua quantità di radioattività, che viene espressa
con il numero di disintegrazioni nell'unità di tempo di nuclei radioattivi. L'unità di misura é il becquerel, con
simbolo Bq.
1 becquerel = 1 Bq = 1 disintegrazione al secondo.
Poiché questa unità di misura é assai piccola, la radioattività si esprime molto spesso in multipli di becquerel:
kilobecquerel (kBq) = mille Bq
megabecquerel (MBq) = un milione di Bq
gigabecquerel (GBq) = un miliardo di Bq
terabecquerel (TBq) = mille miliardi di Bq
(Allo stesso modo, per esprimere la distanza da Roma a Milano si parla di 560 kilometri, e non di 560 milioni
di millimetri)
L'unità di misura usata in precedenza era il curie, (simbolo: Ci) definita come la quantità di radioattività
presente in un grammo di radio, elemento naturale che si trova assieme all'uranio. Questa unità é
immensamente più grande del Bq, perché in un grammo di radio si producono 37 miliardi di disintegrazioni al
secondo.
Perciò:
1 curie = 1 Ci = 37 GBq = 37 gigabecquerel = 37 miliardi di becquerel.
F) I differenti tipi di radioattività
I differenti tipi di radioattività sono:
• Radioattività alfa
• Radioattività beta
• Radioattività gamma
Ciascun tipo di radioattività ha un proprio "potere penetrante" e "modalità di schermatura"
Radioattività alfa
Atomi nei cui nuclei sono contenute quantità eccessive di protoni e neutroni emettono di solito una
radiazione alfa, costituita da un nucleo di elio (due protoni + due neutroni), e avente due cariche positive.
Tale disintegrazione porta alla formazione di un isotopo di altro elemento chimico, avente numero atomico
diminuito di due unità e numero di massa diminuito di quattro unità.
Esempio: l'uranio 238 (92 protoni + 146 neutroni) emette radioattività alfa trasformandosi in torio-234 (90
protoni + 144 neutroni), con un tempo di dimezzamento di 4,5 miliardi di anni.
Le radiazioni alfa, per la loro natura, sono poco penetranti e possono essere completamente bloccate da un
semplice foglio di carta.
Radioattività beta
Atomi nei cui nuclei sono contenute quantità eccessive di neutroni emettono di solito una radiazione beta,
costituita da un elettrone. In particolare, uno dei neutroni del nucleo si disintegra in un protone e in un
elettrone, che viene emesso. Tale disintegrazione porta alla formazione di un isotopo di altro elemento
chimico, avente numero atomico aumentato di una unità (il protone in più) e numero di massa invariato (il
protone si é sostituito al neutrone).
Esempio: il cobalto-60 (27 protoni + 33 neutroni) emette radioattività beta trasformandosi in nichel-60 (28
protoni + 32 neutroni), con un tempo di dimezzamento di 5,3 anni.
Le radiazioni beta sono più penetranti di quelle alfa, ma possono essere completamente bloccate da piccoli
spessori di materiali metallici (ad esempio, pochi millimetri di alluminio).
Radioattività gamma
La radiazione gamma é una onda elettromagnetica come la luce o i raggi X, ma assai più energetica.
Le radiazioni alfa e beta sono invece di tipo corpuscolare e dotate di carica (positiva le alfa, negativa le
beta).
La radiazione gamma accompagna solitamente una radiazione alfa o una radiazione beta. Infatti, dopo
l'emissione alfa o beta, il nucleo é ancora eccitato perché i suoi protoni e neutroni non hanno ancora
raggiunto la nuova situazione di equilibrio: di conseguenza, il nucleo si libera rapidamente del surplus di
energia attraverso l'emissione di una radiazione gamma.
Esempio: il cobalto-60 si trasforma per disintegrazione beta in nichel-60, che raggiunge il suo stato di
equilibrio emettendo una radiazione gamma.
Al contrario delle radiazioni alfa e beta, le radiazioni gamma sono molto penetranti, e per bloccarle
occorrono rilevanti spessori di materiali ad elevata densità come il piombo.
Effetti della radioattività
A) Il concetto di dose
Le radiazioni prodotte dai radioisotopi interagiscono con la materia con cui vengono a contatto, trasferendovi
energia.
Tale apporto di energia, negli organismi viventi, produce una ionizzazione delle molecole: da qui la
definizione di radiazioni ionizzanti.
La dose di energia assorbita dalla materia caratterizza questo trasferimento di energia.
Gli effetti possono essere irrilevanti o più o meno dannosi, a seconda della dose di radiazioni ricevuta e del
tipo delle radiazioni stesse.
Per meglio chiarire l'importanza della dose assorbita, un esempio noto a tutti é quello delle radiazioni
ultraviolette dei raggi solari, che, per l'uomo, a piccole dosi sono innocue, ma per esposizioni
eccessivamente prolungate possono provocare colpi di sole o bruciature della pelle.
B) La misura della dose
L'unità di misura della dose assorbita dalla materia a seguito dell'esposizione alle radiazioni ionizzanti é il
Gray (simbolo: Gy):
1 Gray (Gy) = 1 joule (J) assorbito da 1 kilogrammo di materia
Per la misura delle dosi di radiazioni assorbite dall'uomo, o più precisamente per una misura degli effetti
biologici dovuti alla dose di radiazioni assorbita, é stato introdotto il concetto di equivalente di dose, che tiene
conto della dannosità più o meno grande, a parità di dose, dei vari tipi di radiazioni ionizzanti.
In questo caso, l'unità di misura é il sievert (simbolo: Sv).
In particolare:
per le radiazioni beta e gamma: 1 Gray => 1 Sievert
per le radiazioni alfa: 1 Gray => 20 Sievert
per i fasci di neutroni: 1 Gray => 3 - 11 Sievert (a seconda dell'energia dei neutroni)
Di uso più comune é il sottomultiplo millisievert (mSv), pari a un millesimo di Sv.
Ad esempio, come riportato nella seguente tabella, una radiografia al torace comporta l'assorbimento di una
dose di circa 0,14 millisievert (mSv).
Alcuni dati dosimetrici relativi ad esami medici con raggi X:
Radiografia del torace 0,14 mSv
Radiografia dell'addome 1,1 mSv
Radiografia del tubo digerente 4,1 ÷ 7,2 mSv
Colecistografia 1,5 mSv
Urografia 3,1 mSv
Mammografia 1,0 mSv
C) L'esposizione dell'uomo alle radiazioni
L'uomo può essere esposto alla radioattività in due modi:
• per esposizione esterna, che avviene quando l'individuo si trova sulla traiettoria delle radiazioni emesse da
una sorgente radioattiva situata all'esterno dell'organismo; si parla, in questo caso, di irradiazione
• per esposizione interna, che si verifica quando la sorgente radioattiva si trova all'interno dell'organismo, a
causa di inalazione per respirazione, e/o ingestione, ovvero per introduzione attraverso una ferita; si parla, in
questo caso, di contaminazione interna
L'esposizione esterna cessa quando l'individuo si allontana dalla sorgente ovvero vengono interposti
opportuni schermi tra sorgente e individuo. Le radiazioni alfa, beta e gamma da esposizione esterna non
fanno diventare radioattiva la materia che le assorbe.
L'esposizione interna cessa quando i radioisotopi respirati o ingeriti o introdotti attraverso ferite sono
completamente rimossi dall'organismo (ad esempio: con l'urina, le feci, ecc.).
D) L'esposizione alle radiazioni naturali
Per poter considerare nella giusta luce gli effetti della radioattività sull'uomo, é necessario anzitutto prendere
in considerazione l'esposizione alle radiazioni naturali. A tale "bagno di radioattività", in cui l'uomo é immerso
fin dalla sua origine, gli organismi viventi si sono da tempo adattati.
La dose annualmente assorbita da ogni individuo della popolazione per effetto della radioattività naturale é
mediamente di 2,4 mSv/anno
(2,4 millisievert/anno)
Sorgente
Esposizione
esterna(mSv/anno)
Esposizione
interna(mSv/anno)
Totale(mSv/anno)
Raggi cosmici
0,36
0,36
Potassio-40
0,15
0,18
0,33
Uranio-238 e radioisotopi
associati
0,10
1,24
1,34
Torio-232 e radioisotopi
associati
0,16
0,18
0,34
Alla radioattività naturale contribuiscono una componente terrestre e una componente extraterrestre.
La componente terrestre é dovuta ai radionuclidi presenti nei materiali della crosta terrestre (rocce, minerali),
come: il potassio-40, l'uranio naturale, il torio e i radionuclidi ad essi associati. Tra questi ultimi, particolare
importanza riveste il radon, prodotto gassoso che offre il maggiore contributo alla radioattività naturale.
La componente extraterrestre é costituita dai raggi cosmici, i cui effetti sono tanto più rilevanti quanto più ci
si allontana dalla superficie terrestre, e quindi dalla protezione dell'atmosfera. Ad esempio, in un volo in
aereo, l'effetto dei raggi cosmici é circa 100 volte maggiore di una zona al livello del mare.
E) Effetti biologici delle radiazioni ionizzanti
Da quando l'uomo ha scoperto la radioattività, le proprietà di vari radioisotopi sono state sfruttate per
impieghi pacifici e purtroppo, talvolta anche a scopi bellici.
Ciò ha determinato, da una parte, lo studio degli effetti sull'uomo di dosi di radiazioni anche elevate, e
dall'altra, lo sviluppo di principi e strumenti per una efficace protezione dalle radiazioni ionizzanti
(radioprotezione).
In termini molto generali, gli effetti delle radiazioni ionizzanti sull'uomo possono distinguersi in effetti
immediati (detti anche deterministici) ed effetti a lungo termine (detti anche stocastici).
Gli effetti immediati sono quelli che, al di sopra di un certo valore di dose, si manifestano indistintamente a
tutti coloro che sono stati irradiati, entro un tempo di solito assai breve (non più di qualche giorno o qualche
settimana), e per cui la gravità dei danni aumenta con l'aumentare della dose.
Nella tabella qui sotto riportata è indicata la stima nell'individuo adulto della soglia di dose per effetti
deterministici:
Soglia di dose
Equivalente di dose
totale
ricevuto in una singola
breve esposizione(Sv)
Equivalente di dose totale
ricevuto per esposizioni
fortemente frazionate o protratte
(Sv)
0,15
3,5
NA ¹
NA
Ovaie
Sterilità
2,5 ÷ 6,0
6,0
Cristallino
Opacità osservabili ²
Deficit visivo
0,5 ÷ 2,0
5,0
5,0
> 8,0
0,5
1,5
NA
NA
Tessuto ed effetto
Testicoli
Sterilità temporanea
Sterilità permanente
Midollo osseo
Depressione
dell'emopoiesi
Aplasia mortale
¹ NA indica "Non Applicabile", in quanto la soglia dipende dall'intensità di dose più che dalla dose totale
² Opacità lenticolari appena osservabili.
Ad esempio: una esposizione superiore a 1 Gray comporta, come conseguenze, vomito e netta
modificazione della formula del sangue; una esposizione superiore a 5 Gray può provocare il decesso per
danno al tessuto emopoietico se il soggetto non è sottoposto a cure adeguate.
I suddetti valori si riferiscono a una esposizione omogenea a tutto il corpo. Nel caso della radioterapia dei
tumori, si arriva a somministrare dosi molto più elevate, anche oltre 40 Gray, ma concentrate limitatamente
ed esclusivamente al tumore da distruggere.
L'esposizione a dosi più o meno elevate di radiazioni ionizzanti può avere effetti a lungo termine che
possono provocare cancro o leucemia. Tali effetti si manifestano in modo aleatorio, che non si può predire in
modo certo per ciascuna persona sottoposta alle radiazioni.
In questi casi, si parla di probabilità di accadimento, che cresce o diminuisce a seconda dell'entità più o
meno rilevante della dose assorbita. La stima di tale probabilità è ricavata dai dati sperimentali
(epidemiologia) ottenuti osservando le conseguenze dell'esposizione alle radiazioni su persone o gruppi di
persone (ad esempio: i giapponesi sopravvissuti alle esplosioni nucleari di Hiroshima e Nagasaki; i lavoratori
e le popolazioni limitrofe esposti alle conseguenze di incidenti in installazioni nucleari).
Si è potuto così stabilire che la probabilità di insorgenza di cancro o leucemia è elevata per alte dosi, mentre
è assai limitata per basse dosi.
Il limite massimo di dose stabilito dalla legge italiana per le persone del pubblico è 1 millisievert (1mSv) /
anno al di sopra della dose naturale di radiazioni.
Secondo gli studi sugli effetti a lungo termine, questa dose corrisponde ad una probabilità di sviluppo di un
cancro o leucemia mortale pari a 1 / 100.000 .
F) La radioprotezione
Una volta conosciute le conseguenze dannose che l'esposizione alle radiazioni ionizzanti può provocare, è
stato necessario provvedere alla predisposizione di adeguate misure di protezione.
E' nata così la radioprotezione, ossia un insieme di misure destinate a garantire la protezione dalle radiazioni
ionizzanti dei lavoratori, della popolazione e dell'ambiente.
Le regole più elementari della radioprotezione sono le seguenti:
- allontanarsi dalla sorgente di radiazioni, in quanto l'intensità delle radiazioni diminuisce con la distanza (ad
esempio: le installazioni nucleari sono circondate da una "zona di rispetto" che impedisce l'insediamento di
attività umane nelle immediate vicinanze);
- interporre uno o più dispositivi di schermatura tra la sorgente e le persone (ad esempio, nelle installazioni
nucleari, la protezione dei lavoratori e dell'ambiente circostante è assicurata da una serie di schermi costituti
da spessori o muri di piombo, di acciaio, di cemento, di materiali speciali);
- ridurre al minimo la durata di esposizione alle radiazioni.
Queste regole sono peraltro simili a quelle da prendere a riferimento per proteggersi dai raggi solari (ad
esempio: l'utilizzazione di creme speciali che fungono da schermo e limitano l'esposizione).
Oltre che da norme elementari di buona pratica, la radioprotezione è regolata da una severa normativa di
legge. Negli Stati dell' Unione Europea, ciascuno Stato Membro è obbligato a inserire nella propria
legislazione le specifiche Direttive Euratom, periodicamente aggiornate secondo i più rigorosi standards
internazionali.
In Italia, la legislazione fondamentale sulla radioprotezione è contenuta nel Decreto Legislativo n. 230 del
1995, recentemente aggiornato ed integrato dal Decreto Legislativo n. 241 del 2000.
I principi ispiratori di tale legge, come di tutte le analoghe leggi dei Paesi dell'Unione Europea, sono i
seguenti:
- Principio della Giustificazione dell'attività (Le attività che comportano rischi di esposizione alle radiazioni
ionizzanti devono essere preventivamente giustificate e periodicamente riconsiderate alla luce dei benefici
che da esse derivano)
- Principio dell'Ottimizzazione della protezione (Le esposizioni alle radiazioni ionizzanti debbono essere
mantenute al livello più basso ragionevolmente ottenibile, tenuto conto dei fattori economici e sociali)
- Principio della Limitazione delle dosi (La somma delle dosi ricevute non deve superare i limiti prescritti)
In relazione a quest'ultimo enunciato, la legge italiana prescrive che non si debbano superare i seguenti
limiti:
Per i "lavoratori esposti" (lavoratori impegnati in attività che prevedono l'uso o la manipolazione di
radioisotopi) al massimo 20 millisievert/anno in più rispetto alla radiazione naturale(pari, come abbiamo visto,
a 2,4 millisievert/anno)
Per tutti gli altri individui della popolazione:
al massimo 1 millisievert/anno in più rispetto alla radiazione naturale (pari, come abbiamo visto, a 2,4
millisievert/anno).
I criteri di radioprotezione che devono essere rispettati oggi per la costruzione di una nuova installazione
nucleare impongono che la dose che tale nuovo insediamento determina per la popolazione circostante
debba essere contenuta entro una piccola frazione rispetto al limite di legge (pari, come già visto, a 1
millisievert/anno in più rispetto alla radiazione naturale).
per altre informazioni sulla radioattività
per conoscere come si effettua il rilevamento e la misurazione della radioattività (cenni normativi e strumenti tecnici e unità di misura)
l' uomo, le radiazioni corpuscolari ed elettromagnetiche, le radiazioni ionizzanti
Le applicazioni della radioattività e delle radiazioni ionizzanti
Isotopi Radioattivi
Di seguito sono elencati gli isotopi radioattivi di interesse per la sanità pubblica. Per ogni elemento troverete
una scheda sintetica contenente informazioni generali e FAQs.
Americio
Cesio
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Cobalto
Iodio
8.11 Kb
6.83 Kb
21.50 Kb
Polonio 210
21.50 Kb
Plutonio
7.50 Kb
Stronzio
7.01 Kb
Uranio
7.03 Kb
Marcatore isotopico
1 INTRODUZIONE
Marcatore isotopico
Isotopo di un atomo, usato per osservare le trasformazioni
macroscopiche o microscopiche di determinate sostanze durante processi biologici, fisici o
chimici. Benché il termine marcatore si riferisca di solito a isotopi radioattivi impiegati per
tracciare l'evoluzione di sostanze non radioattive, in campo scientifico esso viene usato anche
per designare isotopi stabili e caratterizzati da bassa abbondanza relativa, adatti a essere
utilizzati in procedure di marcatura.
Ciò che si misura è l'attività nucleare o l'abbondanza relativa dell'isotopo preso come
riferimento. Per rilevare le radiazioni si usano vari tipi di strumenti quali l'elettroscopio, il
contatore a scintillazione o il contatore Geiger-Müller. Nel caso in cui il marcatore sia un
isotopo stabile, la ricerca può essere condotta mediante uno spettrometro di massa, che
permette di determinare l'abbondanza relativa di tutti gli isotopi presenti nel campione
analizzato. I marcatori sono molto importanti in tutti i settori della ricerca scientifica, in
medicina, nell'agricoltura e nell'industria.
2 APPLICAZIONI IN PROCESSI MACROSCOPICI
I marcatori radioattivi forniscono un metodo di analisi rapida e affidabile della dinamica dei
fluidi, molto più pratico ed efficace, ad esempio, della diretta osservazione di coloranti aggiunti
appropriatamente.
I marcatori radioattivi sono generalmente utilizzati per individuare la superficie di separazione
fra due oli diversi, contenuti nella medesima tubatura, e poterli distinguere e dirigere verso
canali di scorrimento differenti. Si inietta, in corrispondenza del limite fra i due oli, un isotopo
radioattivo emettitore di raggi gamma penetranti; opportuni rivelatori di radiazione, sistemati
nella tubatura, rivelano il passaggio della superficie del marcatore e azionano le valvole atte ad
aprire, per i diversi tipi di olio, condotti differenti.
I marcatori trovano impiego anche nell'industria, in modo particolare per individuare livelli
minimi di usura. Il potere lubrificante di un olio, ad esempio, può essere valutato dopo uso
prolungato in un motore sperimentale, determinando il livello di usura degli anelli dei pistoni e
delle pareti dei cilindri attraverso la misura della quantità di ferro trasferitasi nell'olio. Prove di
questo tipo però sono lunghe e difficoltose, e vengono grandemente semplificate ricorrendo a
tecniche di marcatura. Gli anelli dei pistoni vengono resi radioattivi mediante esposizione a
neutroni in un reattore nucleare: dopo un breve periodo di funzionamento del motore, si
misura la quantità di materiale radioattivo depositatasi dai pistoni nell'olio e sulle pareti dei
cilindri, ottenendo indicazioni sulla qualità del lubrificante, rapidamente e con sforzo limitato.
Marcatori radioattivi possono essere utilizzati anche per controllare la contaminazione dei
coloranti usati nella tintura dei tessuti. Le macchine per tintura sono costituite da numerosi
rulli, ciascuno dotato di un bagno di diverso colore: può accadere che accidentalmente durante
i processi di lavorazione il tessuto trasferisca il colorante da un rullo all'altro, contaminando i
bagni di colore e causando lo spreco di centinaia di metri di tessuto. Per evitare tale
inconveniente, oltre al metodo tradizionale, estremamente costoso, di cambiare
frequentemente i bagni di tintura, è possibile aggiungere un composto radioattivo di fosforo al
colore che più facilmente può provocare la contaminazione degli altri. Il deterioramento dei
bagni successivi è successivamente misurato tramite opportuni rivelatori di radiazione, che
vengono automaticamente immersi nei bagni di tintura, a ritmi prefissati. Quando si rileva una
quantità eccessiva di contaminante, il bagno viene sostituito con uno nuovo.
3
APPLICAZIONI SU SCALA MOLECOLARE E ATOMICA
Numerose sono le funzioni svolte dalla marcatura isotopica nel campo della ricerca: in
biochimica il metodo rende possibile distinguere, nell'ambito dello stesso composto, molecole
che hanno provenienza diversa, pur essendo fra loro simili, e studiare i processi di sintesi e
decomposizione; in biologia, è essenziale per seguire i percorsi di numerose sostanze nutritive
e tossine in fase di analisi.
Nella ricerca botanica e agricola, l'uso di marcatori permette di studiare l'assorbimento delle
sostanze nutritive e di osservare diversi processi metabolici, in particolar modo quelli
riguardanti la fotosintesi.
Nella diagnostica medica, i marcatori sono usati per studiare il funzionamento di organi e
tessuti: ad esempio, per valutare l'assorbimento di ormoni, minerali, vitamine, farmaci e
medicinali. Anche la produzione di ormoni e proteine da parte dei diversi organi può essere
misurata con elevata velocità e accuratezza.
3.1 Applicazioni nella chimica
Le procedure di tracciatura, marcatura e doppia marcatura permettono di seguire i meccanismi
di decomposizione e sintesi delle sostanze presenti nell'organismo, rendendo possibile
l'individuazione della provenienza di ciascun atomo, anche in molecole molto complesse. Un
esempio è fornito dall'analisi del gruppo eme, il componente dell'emoglobina che fornisce
colorazione e capacità di trasporto dell'ossigeno, contenente nella formula chimica
Fe(C32H30N4)(COOH)2 ben 34 atomi di carbonio. Il metodo della doppia marcatura permette di
determinare l'origine di ciascuno di essi, distinguendo fra i due gruppi di provenienza COOH e
CH3 , a loro volta costituenti dell'acido acetico (CH3COOH), il precursore di sintesi.
In chimica organica i marcatori isotopici sono utilizzati prevalentemente per studiare le reazioni
che implicano spostamenti e riarrangiamenti di atomi e di gruppi di atomi. In qualche caso,
tramite le procedure di marcatura e doppia marcatura, è stato possibile comprendere
meccanismi di reazione complessi o non del tutto chiari.
In chimica inorganica, i marcatori hanno permesso lo studio di situazioni in cui non si
verificano reazioni chimiche vere e proprie, ma nelle quali uno stesso elemento si manifesta in
condizioni chimico-fisiche diverse, ad esempio in stati di ossidazione diversi. La tecnica di
marcatura isotopica ha mostrato che si può avere uno scambio fra le due forme, senza che
avvenga una definita reazione chimica: ad esempio, mescolando una soluzione di FeCl 3 con
una di Fe*Cl2 (Fe marcato), si producono in breve tempo Fe*Cl 3 e FeCl2. Questi processi, logica
estensione del principio chimico dell'equilibrio dinamico, sono definiti reazioni di scambio.
4 CRITERI DI SCELTA DEI MARCATORI
La scelta di un isotopo stabile o radioattivo quale marcatore dipende essenzialmente dal tipo di
strumenti di rivelazione a disposizione e dalla concentrazione della sostanza che si vuole
osservare. Se l'elemento in studio possiede un unico isotopo stabile, è necessario ricorrere a
una forma radioattiva; se viceversa gli isotopi radioattivi hanno un tempo di dimezzamento
troppo breve per essere utilizzabili, è opportuno arricchire l'elemento con un isotopo stabile
che in condizioni normali è presente solo in piccole quantità. La tracciatura di isotopi stabili
viene effettuata con uno spettrometro di massa, in grado di fornire le variazioni rispetto al
normale rapporto fra le quantità dei vari isotopi. I marcatori radioattivi, invece, sono osservati
con i rivelatori di particelle.
Esistono sostanze per le quali è possibile scegliere fra l'uso di un isotopo stabile o di uno
radioattivo; è il caso del carbonio, che possiede un isotopo stabile (carbonio 13) e uno
radioattivo (carbonio 14) o dell'idrogeno, che può esistere come deuterio, o idrogeno 2,
stabile, e trizio, o idrogeno 3, radioattivo. Se sono disponibili sia uno spettrometro di massa
che un rivelatore di radiazioni, la scelta generalmente si basa sul cosiddetto fattore di
diluizione, il valore minimo di concentrazione del marcatore che riesce ad essere rivelato. In
genere, per i marcatori radioattivi è sufficiente una concentrazione inferiore rispetto a quella
richiesta per identificare i marcatori stabili, come viene mostrato nella sezione successiva, che
illustra il caso del carbonio.
4.1 Fattore di diluizione: l'esempio del carbonio
Il carbonio 13 rappresenta l'1,108% del carbonio presente in natura, e perciò una variazione
dello 0,001% dell'abbondanza di tale isotopo può essere facilmente individuata; ciò significa
che il carbonio 13 può essere rilevato dopo essere stato diluito da 100.000 a 1 milione di volte
in carbonio 12, e che dunque una molecola di zucchero 'marcata' con carbonio 13 risulterà
visibile in esperimenti che utilizzano un numero di molecole non marcate fra 100.000 e 1
milione, ma non superiore.
Il carbonio 14 è rilevabile in concentrazioni che forniscono circa 25 disintegrazioni per minuto,
in un campione che pesi 1 grammo: sulla base della velocità di disintegrazione del carbonio 14,
che ha tempo di dimezzamento di circa 5760 anni, si calcola che la quantità di carbonio 14
individuabile è di circa 0,04 parti per milione (e permette fattori di diluizione fino a 25
miliardi). Considerazioni analoghe valgono anche per il deuterio e il trizio, per i quali si
ottengono rispettivamente fattori di diluizione limite di 1 milione e di 10 bilioni (miliardi di
miliardi). A questo proposito va ricordato che il deuterio, benchè non radioattivo, danneggia i
tessuti viventi, perché pesa il doppio dell'idrogeno ed è quindi una sostanza organicamente
pericolosa alla stregua dei materiali radioattivi. L'utilizzo di materiale radioattivo è comunque
sottoposto a rigide norme di sicurezza e le quantità che possono essere maneggiate sono
sempre molto limitate.
5 PREPARAZIONE DEI MARCATORI
La disponibilità di marcatori isotopici stabili dipende dall'abbondanza naturale e dalla difficoltà
presentata dal processo di separazione.
Tutti gli
sono in
separati
nel caso
scambio
peso. Il
maggior
strumenti che si basano sul principio di funzionamento dello spettrometro di massa
grado di separare fra loro isotopi differenti; alcuni isotopi possono inoltre essere
mediante diffusione di gas (come nel caso dell'uranio) e distillazione multipla (come
dell'idrogeno). I procedimenti più semplici si eseguono mediante reazioni ripetute con
di isotopi, che hanno come risultato finale la separazione degli isotopi in base al loro
deuterio, il carbonio 13 e l'azoto 15 vengono preparati con questo metodo nella
parte delle applicazioni.
I marcatori radioattivi vengono preparati mediante il bombardamento degli elementi stabili con
neutroni: i neutroni vengono catturati per formare isotopi più pesanti, che successivamente
decadono emettendo particelle beta. Ad esempio, per preparare carbonio 14 si bombarda con
neutroni l'azoto (elemento con numero atomico 7, maggiore di quello del carbonio per
un'unità): il neutrone catturato provoca l'espulsione di un protone, riducendo di un'unità il
numero atomico, ma mantenendo il medesimo numero di massa (14), e generando così
l'isotopo radioattivo di carbonio.