Effetti Quantistici delle interazioni quantistiche tra onde elettromagnetiche e materia Effetto fotoelettrico Prima semplice versione 1 INTRODUZIONE Anteprima della sezione Effetto fotoelettrico Fenomeno che si manifesta con l'emissione di particelle elettricamente cariche da parte di un corpo esposto a onde luminose o a radiazioni elettromagnetiche di varia frequenza. Con il termine effetto fotoelettrico si indicano, in generale, diversi tipi di interazioni correlate. Nel cosiddetto effetto fotoelettrico esterno gli elettroni vengono emessi dalla superficie di un conduttore metallico (o da un gas) in seguito all'assorbimento dell'energia trasportata dalla luce incidente sulla superficie stessa. L'effetto è sfruttato nella cellula fotoelettrica, in cui gli elettroni emessi da uno dei due poli della cellula, il fotocatodo, migrano verso l'altro polo, l'anodo, per effetto di un campo elettrico applicato. Si definisce invece effetto fotoelettrico interno quel fenomeno in cui gli elettroni liberati dalla radiazione restano all’interno del materiale, disponibili alla conduzione. 2 LA SCOPERTA E LA SPIEGAZIONE DI EINSTEIN Anteprima della sezione La scoperta dell'effetto fotoelettrico ebbe un ruolo fondamentale nella crisi della fisica classica, che riconosceva alla radiazione elettromagnetica un comportamento prettamente ondulatorio, e nello sviluppo della meccanica quantistica, che introduce il concetto di dualismo onda-particella. L’effetto fotoelettrico era noto dal 1880: si sapeva che la luce poteva far emettere elettroni ad una superficie metallica, producendo una debole corrente. La teoria ondulatoria classica prevedeva però che, all'aumentare dell'intensità della luce incidente, aumentasse l'energia degli elettroni emessi. Nel 1902, il fisico tedesco Philipp Lenard mostrò invece che l'energia posseduta dai fotoelettroni non dipendeva dall’intensità di illuminazione, ma unicamente dalla frequenza (o, equivalentemente, dalla lunghezza d'onda) della radiazione incidente. L’intensità della radiazione, al contrario, determinava l’intensità della corrente, ovvero il numero di elettroni strappati alla superficie metallica. Il risultato sperimentale era inspiegabile ammettendo che la natura della luce fosse unicamente ondulatoria. Nel 1905 Albert Einstein spiegò l'effetto fotoelettrico con l'ipotesi che i raggi luminosi trasportassero particelle, chiamate fotoni, la cui energia è direttamente proporzionale alla frequenza dell’onda corrispondente. Secondo la teoria formulata da Einstein, incidendo sulla superficie di un corpo metallico, i fotoni cedono parte della propria energia agli elettroni liberi del conduttore, provocandone l'emissione. In questa ipotesi, l'energia dell'elettrone liberato dipende solo dall'energia del fotone, mentre l’intensità della radiazione è direttamente correlata al numero di fotoni trasportati dall’onda, e dunque può influire sul numero di elettroni estratti dal metallo, ma non sulla loro energia. 3 ALTRI TIPI DI EFFETTO FOTOELETTRICO Anteprima della sezione Il termine effetto fotoelettrico può indicare altri tre processi: la fotoionizzazione, la fotoconduzione e l'effetto fotovoltaico, gli ultimi due esempi di effetto fotoelettrico interno. La fotoionizzazione consiste nella ionizzazione di un gas da parte di luce o di altra radiazione elettromagnetica: i fotoni, se dotati di energia sufficiente, liberano uno o più elettroni appartenenti ai livelli energetici esterni degli atomi del gas. Nella fotoconduzione, gli elettroni facenti parte del reticolo cristallino di un solido assorbono energia dai fotoni incidenti e divengono elettroni di conduzione. L'effetto fotovoltaico si manifesta invece con la formazione di coppie elettrone-lacuna quando un fascio di fotoni colpisce la superficie di un materiale semiconduttore. In alcuni tipi di transistor quest'ultimo effetto viene sfruttato per provocare una differenza di potenziale in corrispondenza della giunzione tra due diversi semiconduttori. Seconda versione L'effetto fotoelettrico rappresenta l'emissione di cariche elettriche negative da una superficie, solitamente metallica, quando questa viene colpita da una radiazione elettromagnetica. Tale effetto, oggetto di studi da parte di molti fisici, è stato fondamentale per comprendere la natura quantistica della luce. Indice [nascondi] 1 Storia 2 L'esperimento di Lenard 3 Emissione di raggi catodici tramite esposizione di corpi solidi 4 Perché con elettroni legati 5 Bibliografia 6 Altri progetti Storia La scoperta dell'effetto fotoelettrico va fatta risalire alla seconda metà del XIX secolo e ai tentativi di spiegare la conduzione nei liquidi e nei gas. Nel 1880 Hertz, riprendendo e sviluppando gli studi di Schuster sulla scarica dei conduttori elettrizzati stimolata da una scintilla elettrica nelle vicinanze, si accorse che tale fenomeno è più intenso se gli elettrodi vengono illuminati con luce ultravioletta. Nello stesso anno Eilhard Ernst Gustav Wiedemann e Hermann Ebert stabilirono che la sede dell'azione di scarica è l'elettrodo negativo e Wilhem Hallwachs trovò che la dispersione delle cariche elettriche negative è accelerata se i conduttori vengono illuminati con luce ultravioletta. Nei primi mesi del 1888 il fisico italiano Augusto Righi, nel tentativo di spiegare i fenomeni osservati, scoprì un fatto nuovo: una lastra metallica conduttrice investita da una radiazione UV si carica positivamente. Righi introdusse, per primo, il termine fotoelettrico per descrivere il fenomeno. Hallwachs, che aveva sospettato ma non accertato il fenomeno qualche mese prima di Righi, dopo qualche mese dimostrava, indipendentemente dall'italiano, che non si trattava di trasporto, ma di vera e propria produzione di elettricità. Sulla priorità della scoperta tra i due scienziati si accese una disputa, riportata sulle pagine de Il Nuovo Cimento. La comunità scientifica tagliò corto e risolse la controversia chiamando il fenomeno effetto Hertz-Hallwachs. Fu poi Einstein nel 1905 a darne l'interpretazione corretta, per la quale ricevette il Premio Nobel per la fisica nel 1921. L'esperimento di Lenard Apparato sperimentale di Lenard L'effetto fotoelettrico fu rivelato da Hertz nel 1887 nell'esperimento che egli fece per generare e rivelare onde elettromagnetiche; in quell'esperimento, Hertz usò uno spinterometro in un circuito accordato per generare onde e un altro circuito simile per rivelarle. Nel 1900 Lenard studiò tale effetto, trovando che la luce incidente su una superficie metallica ne fa uscire elettroni, la cui energia non dipende dall'intensità della luce. I suoi risultati furono pubblicati sul vol. 8 di Annalen der Physik. Quando la luce colpisce una superficie metallica pulita (il catodo C) vengono emessi elettroni. Se alcuni di questi colpiscono l'anodo A, si misura della corrente nel circuito esterno. Il numero di elettroni emessi che raggiungono l'anodo può essere aumentato o diminuito rendendo l'anodo positivo o negativo rispetto al catodo. Detta V la differenza di potenziale tra A e C, si può vedere che solo da un certo potenziale in poi (detto potenziale d'arresto) la corrente inizia a circolare, aumentando fino a raggiungere un valore massimo, che rimane costante. Questo massimo valore è, come scoprì Lenard, direttamente proporzionale all'intensità della luce incidente. Il potenziale d'arresto è legato all'energia cinetica massima degli elettroni emessi dalla relazione dove me è la massa dell'elettrone, v la sua velocità, e la sua carica. Ora, la relazione che lega le due grandezze è proprio quella indicata perché se V è negativo, gli elettroni vengono respinti dall'anodo, tranne se l'energia cinetica consente loro, comunque, di arrivare su quest'ultimo. D'altra parte si notò che il potenziale d'arresto non dipendeva dall'intensità della luce incidente, sorprendendo lo sperimentatore, che si aspettava il contrario. Infatti, classicamente, il campo elettrico portato dalla radiazione avrebbe dovuto mettere in vibrazione gli elettroni dello strato superficiale fino a strapparli al metallo. Usciti, la loro energia cinetica sarebbe dovuta essere proporzionale all'intensità della luce incidente e non alla sua frequenza, come sembrava sperimentalmente. Emissione di raggi catodici tramite esposizione di corpi solidi Einstein, nel lavoro del 1905 che gli fruttò il Premio Nobel per la fisica nel 1922, fornisce una spiegazione dei fatti sperimentali partendo dal principio che la radiazione incidente possiede energia quantizzata. Infatti i fotoni che arrivano sul metallo cedono energia agli elettroni dello strato superficiale del solido; gli elettroni acquisiscono così l'energia necessaria per rompere il legame: in questo senso l'ipotesi più semplice è che il quantone cede all'elettrone tutta l'energia in suo possesso. A questo punto l'elettrone spenderà energia per arrivare in superficie e per abbandonare il solido: da qui si può capire che saranno gli elettroni eccitati più vicini alla superficie ad avere la massima velocità normale alla stessa. Per questi, posto P il lavoro (che varia da sostanza a sostanza) utile all'elettrone per uscire, si avrà che l'energia cinetica è pari a: A questo punto detta ε la carica dell'elettrone e Π il potenziale positivo del corpo e tale da impedire perdita di elettricità allo stesso (il potenziale di arresto), si può scrivere: oppure, con i simboli consueti e V0= h ν - P che diventa Π È = R β ν - P' dove E è la carica di un grammo-equivalente' di uno ione monovalente e P il potenziale di questa quantità. Ponendo, poi, E = 9,6 · 103, Π · 10-8 rappresenterà il potenziale in volt del corpo in caso di irradiazione nel vuoto. Ora, ponendo P' = 0, ν = 1,03·1015 (limite dello spettro solare dalla parte ultravioletta), β = 4,866·10-11, si ottiene Π·107 = 4,3V: il risultato trovato è così in accordo, per quanto riguarda gli ordini di grandezza, con quanto trovato da Lenard. Si può concludere che: 1. l'energia degli elettroni uscenti sarà indipendente dall'intensità della luce emettente e anzi dipenderà dalla sua frequenza; 2. sarà il numero di elettroni uscenti a dipendere dall'intensità della radiazione. I risultati matematici cambiano se si rifiuta l'ipotesi di partenza (energia trasmessa totalmente) Π E + P' ≤ R β ν che diventa Π E + P' ≥ R β ν per la fotoluminescenza, che è il processo inverso. Se poi la formula è corretta, Π(ν) riportata sugli assi cartesiani risulterà una retta con pendenza indipendente dalla sostanza. Nel 1916 Millikan esegue la verifica sperimentale di tale fatto, misurando il potenziale d'arresto e trovando che questo è una retta di ν con pendenza h/e, come previsto. Perché con elettroni legati Quando un fotone colpisce la superficie del metallo, questi viene assorbito mentre l'elettrone sfugge alla superficie stessa del metallo. È interessante, ora, toccare con mano quali sono i motivi per cui un fotone non può essere assorbito da un elettrone libero. Per l'energia dell'elettrone si può scrivere: da cui si ottiene il modulo dell'impulso dell'elettrone: dove ħ è la costante di Planck, ω è detta pulsazione ed è pari a 2·π per la frequenza dell'onda incidente. Oltre questa bisogna tener conto anche della conservazione del momento: pγ = pe dove pγ è l'impulso del fotone. Il sistema è incompatibile, in quanto si hanno due equazioni e un'incognita (l'impulso dell'elettrone). Supponendo, però, di poterlo comunque risolvere, bisogna ricordare che: dove c è la velocità della luce. Eguagliando le varie equazioni si ottiene: da cui h ω = 2 me c2 ovvero l'elettrone riceve un impulso pari a tre volte la sua massa (in energia); infatti la conservazione dell'energia può essere scritta come: dove l'energia finale (quella dell'elettrone) è scritta in modo relativistico. Sempre utilizzando equazioni relativistiche, si può vedere ancora meglio come il processo di assorbimento della radiazione sia impossibile con un elettrone libero. Si possono scrivere i quadriimpulsi iniziale e finale Per la conservazione dei quadri-impulsi e per l'invarianza delle loro norme si ottiene me2c4 - pγc2 = Ee2 - pγ2c2 da cui me2c4 = Ee2 ovvero l'energia totale dell'elettrone è rimasta invariata: come dire che il fotone è scomparso e l'elettrone non ne ha risentito. DISPOSITIVI FOTOELETTRICI Nei dispositivi fotoelettrici, una radiazione elettromagnetica incidente su di essi, produce fenomeni elettrici noti come effetti fotoelettrici. L'effetto fotoelettrico può manifestarsi nei seguenti modi: 1) EFFETTO FOTOELETTRICO ESTERNO Effetto fotoemittente: emissione di elettroni da parte di una superficie metallica o semiconduttrice; l'effetto fotoemittente trova applicazione nei tubi a vuoto; 2) EFFETTO FOTOELETTRICO INTERNO L’effetto fotoelettrico è detto interno se un elettrone assorbendo un fotone subisce un cambiamento di stato energetico senza uscire dal corpo e rendendo, per esempio, conduttore il corpo che inizialmente non lo era. Gli elettroni staccati, per effetto fotoelettrico, dagli atomi di un corpo solido o liquido, possono restare all'interno di questo invece di venire emessi attraverso la superficie: si parla allora di effetto fotoelettrico interno. L'esperienza suggerisce che nei metalli che mostrano effetto fotoelettrico, gli elettroni emessi verso l'esterno sono soltanto una piccola parte di quelli staccati dagli atomi, gli altri rimanendo all'interno. Tuttavia è difficile mettere in evidenza gli elettroni prodotti per effetto fotoelettrico interno, essendo essi assai pochi in paragone ai numerosissimi elettroni liberi già esistenti nel metallo. L'effetto fotoelettrico interno può manifestarsi nei seguenti modi: Effetto fotovoltaico. Effetto fotocoduttivo variazione della conducibilità elettrica di un semiconduttore; i dispositivi che sfruttano l’effetto fotoconduttivo sono le cellule fotoconduttrici; Effetto fotoelettrico di giunzione: variazione della corrente che percorre una giunzione, fra le due zone di un semiconduttore drogate rispettivamente p ed n, polarizzata inversamente; i dispositivi sfruttano l'effetto fotoelettrico di giunzione sono i fotodiodi; generazione di impulsi di corrente di valanga in una giunzione polarizzata inversamente oltre il valore di breakdown, questo tipo di funzionamento è tipico dei fotodiodi SPAD. L’effetto fotoelettrico è di grande importanza pratica: su di esso si basa gran parte dei sensori utilizzati in radiometria e spettroscopia come i fotomoltiplicatori e i fotodiodi, i quali sono impiegati per generare una corrente elettrica proporzionale alla potenza della radiazione incidente. EFFETTO FOTOELETTRICO ESTERNO (EFFETTO FOTOEMITTENTE) La scoperta da parte di Planck (1900) riguardante i famosi quanti si trasformò in una scoperta seria, per i fisici classici, solo quando Albert Einstein tramite lo studio del fenomeno dell’effetto fotoelettrico riuscì a formulare delle opportune generalizzazioni. Il quanto venne difatti riconosciuto solo cinque anni dopo la sua scoperta. Einstein scoprì (1905) che attraverso i quanti si riusciva a spiegare non solo l’energia associata alle radiazioni uscenti dal corpo nero, ma la loro discontinuità divenne un concetto fondamentale generalizzato a qualsiasi tipo di radiazione esistente. Nel 1887 Hertz aveva casualmente scoperto che illuminando una placca di zinco con delle radiazioni ultraviolette il metallo si caricava elettricamente. Solo dopo che gli elettroni furono ufficialmente riconosciuti si capì che questo fenomeno era dovuto all’emissione di elettroni conseguente allo scontro di radiazioni elettromagnetiche di opportuna frequenza con il metallo in questione. Generalizzando: quando una superficie metallica viene colpita da radiazioni di frequenza abbastanza alta essa libera degli elettroni. La spiegazione di questo fenomeno sta nel fatto che l’energia incidente delle radiazioni si trasforma in energia cinetica degli elettroni colpiti, che in conseguenza si muovono. Non sempre però essi si staccano dalle proprie orbite, in quanto l’energia cinetica deve essere superiore alla forza che tiene legati gli elettroni all’atomo. Questo valore energetico prende il nome di soglia fotoelettrica, e dipende dal tipo di metallo che è stato preso in esame. L’effetto fotoelettrico è un fenomeno che non si verifica soltanto nei metalli, ma in essi è più evidente: si verifica ogni qualvolta che un sistema materiale elementare, atomo o molecola o cristallo, è investito da radiazione elettromagnetica, di energia sufficientemente elevata. Nei gas e nei vapori monoatomici il fenomeno diventa particolarmente più semplice in quanto può essere studiato come se si verificasse separatamente su ogni singolo atomo, che è un sistema molto più semplice, e si riduce alla ionizzazione di quest’ultimo. Per studiare questo fenomeno si può ricorrere all’uso di una tipica apparecchiatura chiamata cella fotoelettrica. La luce proveniente da un arco voltaico A, ricca di raggi violetti ed ultravioletti, viene convogliata su un prisma che per rifrazione le separa in componenti monocromatiche di diversa lunghezza d’onda. Regolando opportunamente l’inclinazione del prisma si possono ottenere radiazioni di particolare lunghezza d’onda. Attraverso ad una finestra di quarzo (materiale otticamente trasparente alle radiazioni ultraviolette), il pennello di determinata frequenza penetra successivamente in un tubo a vuoto spinto e colpisce una placca P fotoemittente formata da uno strato metallico, caratterizzato da un piccolo lavoro di estrazione. Gli elettroni emessi dalla placca per effetto fotoelettrico, vengono successivamente raccolti dal collettore C e di conseguenza possono originare una corrente misurabile. Al termine di questa apparecchiatura ci sono anche un sistema potenziometrico e un galvanometro. Secondo la descrizione classica, basata sulla natura ondulatoria della radiazione luminosa si doveva avere che: gli elettroni emessi possiedono all’uscita della placca un’energia cinetica proporzionale all’intensità della radiazione luminosa e quindi al quadrato dell’ampiezza del campo elettrico medio. Questa energia è misurabile applicando una tensione negativa al collettore; gli elettroni vengono emessi per qualunque frequenza della luce; l’effetto di emissione inizia dopo un tempo abbastanza lungo (dell’ordine del secondo) perché l’interazione con ciascun elettrone del metallo avviene in un’area molto piccola e l’energia trasferita è corrispondentemente piccola. I risultati sperimentali ottenuti dallo studio di questo fenomeno portavano ai seguenti grafici: // diagramma mostra l'energia dei fotoelettroni emessi in funzione della frequenza della radiazione incidente. Per frequenze inferiori avo (soglia fotoelettrica) non si ha emissione di elettroni. // diagramma mostra il numero di elettroni, valutati mediante la corrente che attraversa il galvanometro, in funzione dell'intensità della luce monocromatica incidente sulla placca fotosensibile Utilizzando una radiazione di frequenza costante v > vo, la figura mostra come varia, per tre valori dell'intensità della radiazione incidente, la corrente fotoelettronica in funzione della differenza di potenziale applicata agli elettrodi. Dallo studio di tali grafici si vede che: Si ha emissione fotoelettrica solo se le frequenza della radiazione incidente è superiore ad un valore di soglia detta soglia fotoelettrica o. L’energia cinetica degli elettroni emessi dipende dalla frequenza della radiazione incidente e non dalla sua intensità. Il numero degli elettroni emessi per unità di tempo aumenta all’aumentare dell’intensità della radiazione elettromagnetica incidente. l’ emissione fotoelettrica inizia pressoché immediatamente con l’arrivo della radiazione. nell'ipotesi che sia > 0 se la differenza di potenziale V fra l'elettrodo emittente P e l'elettrodo di raccolta C è nulla, a parte il lavoro di estrazione e certi piccoli effetti i I3 I2 I1 Vi V deceleranti, gli elettroni giungono in C con tutta l'energia cinetica conferita dai fotoni incidenti; nell'ipotesi che sia > 0 se la differenza di potenziale è diversa da zero ed il collettore C è collegato al polo positivo come in figura, l'intensità di corrente i segnata dal galvanometro G dipende dall'intensità/della radiazione incidente e dalla differenza di potenziale V; mantenendo costante l'intensità I della radiazione incidente, l'intensità di corrente i cresce all'aumentare di V fino a un certo valore di saturazione; nell'ipotesi che sia > 0 se il collettore C è collegato al polo negativo della batteria, in modo da stabilire nel tubo contenente gli elettrodi un debole controcampo, gli elettroni tendono a decelerare perdendo una parte della loro energia cinetica. Tenendo fisse la frequenza > 0 e l'intensità I della radiazione incidente, la corrente fotoelettronica i diminuisce all'aumentare del potenziale V ritardante fino ad annullarsi per un certo valore Vi, indicato con il nome di potenziale di arresto. Per un dato materiale della placca P il potenziale Vi varia linearmente con la frequenza. In pratica si assiste al fallimento completo della previsione classica, basata sulla natura ondulatoria della radiazione luminosa. Anche se nel 1900 Planck aveva discusso aspetti simili ora seguiamo la generalizzazione proposta da Einstein nel 1905 a supporto di queste evidenze sperimentali: la luce è costituita da “pacchetti di energia”, detti fotoni, con energia data da hc E h dove h è la costante detta di Planck e vale 6.6261034 J s e è la frequenza della radiazione. L’effetto fotoelettrico, in questa ipotesi, avviene per cessione (immediata) di quanti di energia dipendenti solo dalla frequenza (interazione elettrone-fotone). L’energia massima acquistata da un fotoelettrone si può scrivere come 1 mv 2max h w0 h 0 (Equazione di Einstein) 2 con h V0 0 wo h 0 e V0 e dove V0 e w0 sono rispettivamente il potenziale e il lavoro d’estrazione” del metallo (energia per strappare l’elettrone) che non dipendono dall’intensità della radiazione ma solo dalla sua frequenza, vmax rappresenta la velocità massima con cui vengono espulsi gli elettroni; rappresenta la frequenza e 0 rappresenta la frequenza minima (soglia fotoelettrica) che deve possedere la radiazione per estrarre un elettrone dal metallo. Se il potenziale ritardante al collettore è abbastanza negativo tale che: 1 e Vi mv 2max h w0 2 il fotoelettrone non arriva al collettore. Il valore di Vi si chiama potenziale di arresto o potenziale di interdizione. Tale potenziale è dato da: w h h h Vi 0 V0 0 e e e e Così la teoria di Einstein prevede una dipendenza lineare tra Vi e in perfetto accordo con l’esperienza. La pendenza della curva sperimentale riportata in figura dovrebbe essere h/e. Misurando sperimentalmente tale pendenza, utilizzando il valore della carica dell’elettrone, Millikan trovò per la costante di Plance il valore h 6,57 10 34 J s con un errore di 0,5% circa. Secondo la teoria dei quanti di Einstein l'intensità della radiazione incidente è proporzionale al numero dei fotoni da essa trasportati e contribuisce a determinare il numero degli elettroni emessi: infatti, quanto più numerosi sono, per unità di tempo, i fotoni incidenti, tanto più alta è la probabilità che presentano gli elettroni di interagire con un quanto di radiazione e superare così la barriera che si oppone all'uscita dal metallo. I risultati teorici ottenuti con la teoria dei quanti di Einstein sono in pieno accordo con l’esperienza. APPLICAZIONI PRATICHE Notevoli sono le applicazioni pratiche dell'effetto fotoelettrico; fra le più tipiche ricordiamo l'utilizzazione delle celle fotoelettriche, nella televisione, nel cinema sonoro, nella tecnica fotografica come fotometri (esposimetri) per regolare l'apertura del diaframma dell'obiettivo, nel conteggio automatico degli oggetti o delle persone che passano davanti a un opportuno sistema fotoelettrico, nelle competizioni sportive per azionare mediante un impulso un cronometro o una macchina fotografica e in generale in tutti quei casi in cui si vuole mettere in evidenza, mediante un impulso di corrente o di tensione, una variazione anche piccola e veloce di un effetto luminoso. LA CELLULA FOTOELETTRICA Cella fotoelettrica Funzionamento E' un dispositivo elettronico, detto anche fotocellula, basato sull'effetto fotoelettrico per la rilevazione della luce e della sua intensità. Quando il catodo K, carico negativamente, viene illuminato dalla radiazione lumonosa L, emette elettroni, che sono attratti dall'anodo A, carico positivamente. In questo modo si crea all'interno del circuito, in cui è inserita la cellula fotoelettrica, una corrente elettrica, la cui intensità è proporzionale all'intensità dell'illuminazione. Se qualcosa (un oggetto, una persona) si interpone tra la sorgente luminosa e il catodo, quest'ultimo non emette più elettroni e la corrente si interrompe. La prima cellula fotoelettrica fu costruita da Elster e Geitel nel 1910 LA CELLA FOTOVOLTAICA Funzionamento Dispositivo, detto anche fotopila o batteria solare, in grado di trasformare per effetto fotoelettrico direttamente l'energia delle radiazioni luminose in energia elettrica. Nella zona di contatto (giunzione) tra i due semiconduttori esiste un campo elettrico, dovuto alla diversa natura dei due materiali: quando la zona di contatto è colpita da luce solare, cioè da fotoni, vengono emessi elettroni (quelli più esterni degli atomi di silicio) che il campo elettrico sospinge nello strato n; per ogni elettrone che si libera, si forma contemporaneamente una carica positiva che, sempre a causa del campo elettrico, viene sospinta nello strato p. Collegando con un circuito esterno i due strati, si avrà una circolazione di elettroni, cioè una corrente elettrica continua, tra n e p. Il rendimento massimo teorico della trasformazione di energia solare in energia elettrica è del 32%. Le cellule fotovoltaiche attualmente disponibili hanno un rendimento del 10% circa, ma sono allo studio celle avanzate con rendimenti molto maggiori. La prima batteria solare fu realizzata nel 1954. FOTOMOLTIPLICATORI ELETTRONICI I fotomoltiplicatori elettronici sono dispositivi che rivelano la presenza di un flusso luminoso con una sensibilità complessiva molto elevata, sfruttando contemporaneamente il fenomeno della fotoemissione e quello della emissione secondaria. Il principio di funzionamento di un fotomoltiplicatore è indicato in figura. La luce incidente su un catodo fotoemissivo (fotocatodo) provvede all'emissione di elettroni in numero proporzionale al numero dei fotoni incidenti (in media l'emissione di un elettrone può corrispondere all'incidenza di 1020 fotoni); gli elettroni così emessi sono convogliati (per mezzo di un opportuno potenziale acceleratore) verso l'elettrodo. Di denominato dinodo. Gli elettroni che giungono sul dinodo Di cedono la loro energia cinetica provocando l'emissione secondaria di altri elettroni dal dinodo stesso (ad un elettrone incidente o primario possono corrispondere anche più di 10 elettroni secondari). Gli elettroni secondari emessi dal dinodo Di vengono convogliati e quindi moltiplicati (sempre per emissione secondaria) dal dinodo successivo e così via fino all'ultimo elettrodo raccoglitore che è l'anodo. È evidente quindi che da una piccola quantità di luce mediante il fotomoltiplicatore si può ottenere una apprezzabile intensità di corrente: si può giungere ad una sensibilità di alcuni ampere/lumen. Il fotocatodo è costituito da un supporto rivestito di uno strato di materiale fotosensibile come ad esempio l'antimoniuro di cesio. Esistono due diversi tipi di catodi: quelli opachi e quelli semitrasparenti. Nei primi lo strato fotosensibile è su un supporto metallico opaco e gli elettroni vengono emessi dalla stessa parte della luce incidente; nei secondi invece il supporto è trasparente è lo strato fotosensibile è depositato sulla parte opposta a quella su cui deve giungere la luce. I dinodi (che nel loro insieme costituiscono il sistema moltiplicatore) sono polarizzati con tensioni crescenti verso l'anodo e la d.d.p. tra due dinodi successivi è dell'ordine dei 100150 V. Essi sono di materiale che presentano spiccatamente il fenomeno dell'emissione secondaria come l'antimoniuro di cesio, l'ossido di rame-berillio e l'ossido di argento-magnesio. L'amplificazione complessiva A del sistema di moltiplicazione elettronica, ossia il rapporto tra il numero di elettroni raccolti dall'anodo e quello degli elettroni emessi dal fotocatodo, dipende dal rendimento di raccolta e dal coefficiente di emissione secondaria di ogni dinodo. Il rendimento di raccolta g è il rapporto tra il numero di elettroni incidenti in un dinodo ed il numero di elettroni emessi dal dinodo precedente; Variazione dell'amplificazione di corrente e della intensità di corrente buia in funzione della tensione totale tra anodo e fotocatodo di un fotomoltiplicatore. Il coefficiente di emissione secondaria (in genere minore di 5) è invece il rapporto tra il numero di elettroni secondari emessi da ogni dinodo ed il numero degli elettroni primari su di esso incidenti. Se n è il numero dei dinodi l'amplificazione di corrente A risulta: A g n Ammesso un g medio pari a 4,5 un fotomoltiplicatore con 11 dinodi può dare una amplificazione dell'ordine di 15 10 6 . Le tensioni applicate ai dinodi devono essere stabili nel tempo poiché il coefficiente di emissione secondaria varia molto con la tensione, il che porterebbe ad un funzionamento irregolare del fotomoltiplicatore. Occorre inoltre tener presente che anche in assenza di luce l'anodo del fotomoltiplicatore raccoglie una piccola intensità di corrente I0 (corrente buia} che conviene sia la più piccola possibile nei confronti della intensità di corrente dovuta al flusso luminoso. In figura è indicato come variano l'amplificazione A e la corrente buia I0 in funzione della tensione V totale applicata tra anodo e fotocatodo in un fotomoltiplicatore a 11 dinodi: la zona di miglior funzionamento è quella corrispondente alla maggior distanza, tra le due curve. Nei riguardi del circuito esterno il fotomoltiplicatore deve essere considerato un generatore di corrente LINK UTILE: http://www.bo.cnr.it/settimana2005/posters/ISOF/isof1.pdf Effetto fotoelettrico Contenuto dell'incontro avvenuto con gli studenti di quinta del Liceo Scientifico "Tito Lucrezio Caro" di Cittadella (PD) - febbraio 2002 - L.M. Gratton Introduzione. Verso la seconda metà del XIX secolo c’era la convinzione che la meccanica "classica" (Newton e sviluppi successivi), l’elettromagnetismo (sostanzialmente riassunto dalle equazioni di Maxwell) e la termodinamica (Carnot, Joule e altri) dovessero permettere di inquadrare tutti i fenomeni naturali anche quelli ancora di difficile interpretazione. Tuttavia negli ultimi anni del secolo, e nei primi di quello successivo, vennero fatte nuove scoperte che in alcun modo potevano essere inquadrate nei modelli precedenti. Questi fenomeni riguardavano il mondo dell’ infinitamente piccolo. Fenomeni connessi con la struttura intima della materia e su come le parti più piccole della materia interagiscano e scambino energia tra di loro. La stessa esistenza e stabilità degli atomi non era spiegabile nei termini della fisica classica. Queste scoperte portarono allo sviluppo di una "nuova" fisica che cambiò in maniera radicale il modo di descrivere i fenomeni naturali. I fisici dovettero "inventare" non solo nuovi concetti ma anche un opportuno formalismo matematico che permettesse di schematizzare la realtà fisica. Del resto anche Newton dovette inventare il calcolo differenziale per poter sviluppare compiutamente le sue teorie. E’ anche a causa di questo complesso formalismo matematico che la Meccanica Quantistica (la "nuova" fisica) risulta di difficile comprensione per i non "addetti ai lavori". La "potenza" dei metodi della meccanica quantistica sta non solo nel riuscire ad inquadrare in modo organico praticamente tutte le conoscenze attuali e nell’essere riuscita a prevedere numerosi fenomeni, poi puntualmente osservati, ma anche nell’aver inquadrato, come caso limite, le varie teorie della "fisica classica". In un primo momento i fisici cercarono dei modelli "ad hoc" per le varie classi di fenomeni. Non si trattava di un ritorno all’aristotelismo, ma di un tentativo di descrivere in un modo completamente nuovo ciò che si osservava sperimentalmente. Tutti questi modelli sviluppati "ad hoc", avevano però un punto fondamentale in comune: l’energia doveva essere "quantizzata". In pratica i vari sistemi fisici possono scambiare energia soltanto in quantità ben definite: a pacchetti o "quanti". Il quanto elementare di energia è legato ad una costante universale la costante h, che oggi chiamiamo costante di Planck e che vale 6.6261810-34 J s. Planck fu il primo ad introdurla per spiegare lo spettro di corpo nero. Solo in un secondo momento, a partire dagli anni 20 del XX secolo si cominciò a sviluppare una teoria organica che portò alla moderna meccanica quantistica. Non è lo scopo di questa discussione parlare della meccanica quantistica ma non si può non sottolineare che la nuova fisica dà una visione probabilistica della realtà microscopica in contrasto con la visione deterministica del mondo macroscopico dato dalla fisica classica. Gli stessi concetti di realtà fisica e di misura delle grandezze fisiche hanno subito un mutamento radicale. Quando si studia o si osserva il mondo microscopico non possono essere utilizzati gli stessi concetti e metodi di descrizione che si usano per lo studio del mondo macroscopico. La situazione all’inizio del XX secolo: cinque problemi per la fisica classica. Lo spettro di corpo nero. L’effetto fotoelettrico. La struttura atomica. Gli spettri atomici. Le serie spettrali (Balmer, Paschen …) Il calore specifico dei solidi. Questi problemi furono affrontati e trovarono una spiegazione in termini della così detta "vecchia teoria quantistica". Lo spettro di corpo nero fu uno dei punti di partenza per lo sviluppo della nuova fisica. Fu Planck (1858-1947) che per primo sviluppò un modello soddisfacente per la sua comprensione. Einstein (1879-1955) sviluppò le teorie per l’effetto fotoelettrico e il calore specifico dei solidi. I modelli atomici che permettevano di dedurre anche la natura delle righe spettrali furono dovuti al lavoro di vari fisici in particolare al lavoro di Niels Bohr (1885-1962). che prese come base il lavoro di Ernest Rutherford (1871-1937). In questa discussione ci occuperemo un po’ più approfonditamente dell’effetto fotoelettrico. Tuttavia conviene partire da qualche considerazione sullo spettro di corpo nero per vedere perché sia necessario introdurre una quantizzazione dell’energia per interpretare ciò che gli esperimenti mostrano. Il corpo nero è un modello ideale tuttavia può essere sperimentalmente simulato da una cavità in equilibrio termodinamico (sostanzialmente che abbia una temperatura omogenea). E’ sperimentalmente noto che un corpo "caldo" emette (e assorbe) radiazione secondo uno spettro continuo. Più è alta la temperatura del corpo maggiore risulta l’intensità della radiazione emessa. Non solo, se la temperatura è sufficientemente alta la radiazione diventa visibile all’occhio (filamento di una lampadina). Se la temperatura del corpo è abbastanza elevata anche la forma dello spettro si avvicina a quella che si ottiene da un piccolo foro praticato in una cavità a temperatura uniforme (uguale alla temperatura del corpo). Il corpo nero rappresenta pertanto il modello limite che emette e assorbe radiazione a tutte le energie secondo uno spettro continuo di forma ben determinata che dipende solo dalla sua temperatura. La cosa particolarmente interessante (che era stata anche osservata sperimentalmente) è che la forma dello spettro di corpo nero dipende solamente dalla temperatura e non dalla natura del materiale di cui è fatta la cavità. I fisici del XIX secolo erano dell’opinione che la forma e le varie caratteristiche dello spettro dovessero essere calcolabili, a partire da considerazioni termodinamiche, in base alle leggi dell’elettromagnetismo. Il problema che si trovarono ad affrontare è il seguente: calcolare il numero di modi in cui si può distribuire l’energia in una cavità. Se ci rifacciamo all’esempio unidimensionale di una corda vibrante tra due estremi (una corda da chitarra per intenderci), sappiamo che le lunghezze d’onda permesse sono determinate dalla lunghezza della corda. In particolare se indichiamo con L la lunghezza della corda il primo modo (modo fondamentale o prima armonica) avrà una lunghezza d’onda =2L., il secondo modo 2=L; in generale gli infiniti modi possibili saranno del genere n=2L/n. Il caso tridimensionale è più complesso ma i ragionamenti da fare sono simili. La termodinamica stabilisce (principio di equipartizione dell’energia) che l’energia del corpo nero si deve distribuire equamente su tutti i possibili modi. Il principio di equipartizione stabilisce che ad ogni grado di libertà (ogni modo possibile) compete, all’equilibrio termodinamico, un’energia data da: Dove k è la costante di Boltzman (k=1.38110-23 JK-1) e T e la temperatura assoluta. Nel caso delle onde elettromagnetiche il fattore 1/2 non c’è a causa delle due possibili polarizzazioni. La fisica classica permette di calcolare il numero dn di modi compresi in ogni intervallo d compreso tra una qualunque lunghezza d’onda e +d. Lo spettro osservato sperimentalmente dovrebbe allora essere descritto dal grafico kTdn in funzione di . Va notato che già nel caso di una corda vibrante il numero dn di modi cresce al diminuire di , tale crescita è ancora maggiore nel caso tridimensionale. Il calcolo in tre dimensioni del numero dn di modi compresi tra e +d fornisce. Dove con V si è indicato il volume della cavità. Per ottenere la densità di energia per unità di volume della cavità compresa tra le lunghezze d’onda e +d, basta dividere per V e moltiplicare per l’energia corrispondente kT. Il risultato descrive bene lo spettro di corpo nero a grandi lunghezze d’onda ma diverge per valori piccoli di . Tale comportamento ha preso il ben noto nome di "catastrofe ultravioletta". L’apporto fondamentale di Planck alla fisica fu nel comprendere che le energie possibili per i vari modi all’interno della cavità non hanno una distribuzione continua come previsto dalla fisica classica ma possono assumere solo valori discreti. In particolare l’energia di un’onda stazionaria di lunghezza d’onda fondamentale (frequenza = c/ può assumere solo dei valori discreti multipli di una quantità elementare data da: Dove h è la costante universale di Planck. Le energie possibili sono pertanto date da = nh. Si noti che per grandi lunghezze d’onda il quanto di energia diventa molto piccolo (limite classico: i valori possibili per l’energia diventano "quasi" continui). Sotto questa ipotesi l’energia media per modo viene a differire sostanzialmente da quella prevista classicamente (kT) in quanto viene a diminuire al decrescere della lunghezza d’onda. Con questo risultato moltiplicato per il numero di modi precedentemente calcolato si ottiene un modello teorico che è in ottimo accordo con i dati sperimentali. Da esso si ricavano come casi limite anche le espressioni trovate da Rayleigh-Jeans (per le grandi lunghezze d’onda: limite classico), la legge di Wien, per lo spostamento del massimo dello spettro di corpo nero, e la legge di Stefan-Boltzman che fornisce l’energia emessa da un corpo nero ad una data temperatura. Effetto fotoelettrico. L’esperienza mostra che sotto certe condizioni un metallo colpito da un fascio di luce emette elettroni. Cosa è spiegabile dalla fisica classica, almeno approssimativamente. 1. Quando la luce colpisce una sostanza vengono emessi elettroni (effetto fotoelettrico) perché il campo elettrico associato alla radiazione elettromagnetica accelera gli elettroni facendo loro acquistare l’energia sufficiente ad abbandonare la superficie del metallo. 2. Il numero degli elettroni emessi aumenta con l'intensità della luce incidente. Ma ci sono altre osservazioni non interpretabili in termini della fisica classica. 1. L'energia cinetica con cui vengono emessi gli elettroni (misurabile facilmente) non dipende dall'intensità della radiazione ma dipende linearmente dalla frequenza. 2. Aumentando l'intensità della luce si aumenta il numero di elettroni emessi ma non la loro energia cinetica. 3. Esiste una frequenza di soglia 0 che può andare dall'infrarosso, per certi sali di cesio, all'ultravioletto, per il platino, al di sotto della quale non si osserva emissione di elettroni; per i metalli alcalini 0 è centrato nel visibile. 4. Il ritardo osservabile tra l’arrivo dell’onda elettromagnetica e l’emissione dell’elettrone è inferiore a 10-9s. Inoltre esiste fotoemissione di elettroni anche per i gas e la corrente di elettroni emessi dipende dall’angolo di incidenza della radiazione incidente e dalla sua polarizzazione. Quest’ultimo fatto non è interpretabile nella "vecchia teoria quantistica". Interpretazione di Einstein. In un fascio di luce monocromatica l'energia si propaga in quanti di luce h dove è la frequenza dell'onda e h è una costante universale (già introdotta da Planck per interpretare lo spettro di radiazione del corpo nero). dove L'elettrone del metallo può"assorbire" il quanto di luce. Se l'energia con cui è legato quest'elettrone è W0 e se h W0 l'elettrone può venire espulso dal metallo. L'energia cinetica dell'elettrone espulso sarà: W0 è evidentemente una energia caratteristica di ogni materiale; essa prende il nome di potenziale di estrazione: W0 è il lavoro che bisogna fare per "strappare l'elettrone dalla sostanza". Questa relazione spiega la dipendenza lineare dell'energia cinetica dalla frequenza della luce incidente. Sfruttando la relazione ricavata da Einstein si può di misurare la costante e di Planck h. La misura fu effettuata da Millikan. Per la misura dell'effetto fotoelettrico Einstein e Millikan ricevettero il premio Nobel per la fisica nel 1921 e nel 1923 rispettivamente.. Esperimento Quando il catodo emettitore viene colpito da luce di opportuna frequenza (lunghezza d’onda), vengono emessi elettroni. Se il potenziale dell'elettrodo (anodo) è zero (VA=0) una parte di questi elettroni possono raggiungere l'anodo ed il galvanometro indicherà passaggio di corrente elettrica (purché h sia maggiore uguale di W0). Si può supporre , per la relazione di Einstein, che tutti gli elettroni abbiano la stessa energia cinetica (ciò è vero a meno di effetti termici). Se il potenziale dell'anodo è maggiore di zero (VA>0) un maggior numero di elettroni saranno raccolti dall'elettrodo e la corrente crescerà al crescere del potenziale finché, per VA sufficientemente elevato, tutti gli elettroni emessi raggiungeranno l'elettrodo (condizione di saturazione). Se il potenziale dell'anodo è minore di zero (VA<0) gli elettroni vengono frenati dal potenziale negativo –VA. Per un certo valore del potenziale negativo applicato all’elettrodo la corrente di fotoelettroni si annulla; il valore di 0 per la corrente lo si ottiene quando: In questa relazione e è la carica dell’elettrone (e=1.6x10-19Coulomb). Quindi se -eVAEcin nessun elettrone può raggiungere l’elettrodo. Pertanto si può scrivere la seguente relazione Dove si è postoV0=-VA* e VA* rappresenta il valore del potenziale di anodo VA per il quale la corrente di fotoelettroni si annulla. Questa è una relazione lineare tra V0 e . Registrando vari valori del potenziale dell'anodo V0, per cui la corrente si annulla, al variare della frequenza dei fotoni incidenti, si può costruire una retta la cui pendenza è e la cui intercetta è W0/e per i metalli alcalini vale circa 1V e pertanto può essere misurata nel visibile (h nel visibile vale circa 1 eVolt). Di seguito un esempio di dati raccolti, utilizzando una lampada a vapori di mercurio: Frequenza (Hz) Potenziale di frenamento (V) 5,19E+14 0,710±0,005 5,49E+14 0,835±0,005 6,88E+14 1,422±0,005 7,41E+14 1,624±0,005 8,22E+14 1,947±0,005 Con i dati raccolti, si ottiene il seguente grafico dal quale si ricava, con il metodo dei minimi quadrati pesati, la retta che interpola meglio i dati. Utilizzando i valori ricavati con il metodo dei minimi quadrati, moltiplicando per il valore tabulato di e (1,602E-19 C), si ottiene h=(6,56±0,03)E-34 J s tale valore, tenuto conto anche del fatto che l'errore sul potenziale di frenamento è sottostimato, è in buon accordo con quello tabulato: 6,626E-34 J s Effetto Compton Lo scattering Compton avviene su elettroni liberi non legati al nucleo, contrariamente all'effetto fotoelettrico. Tuttavia se l'energia del fotone è alta rispetto all'energia di legame, questa si può trascurare in modo da considerare gli elettroni come liberi. Nell'interazione, il fotone di energia h trasferisce ad un elettrone, che si suppone fermo, parte della sua energia e del suo impulso. Come risultato si avrà un fotone diffuso ad un angolo con un energia h', e l'elettrone deflesso ad un angolo con energia cinetica T. Applicando la legge di conservazione dell'energia e della quantità di moto si ottiene l'energia del fotone diffuso: La sezione d'urto totale per effetto Compton è data da: dove = h/mec² , re e me sono raggio e massa dell'elettrone. Tale sezione d'urto si può decomporre in due termini : il primo a è la sezione d'urto d'assorbimento Compton, che è proporzionale all'energia media trasferita all'elettrone di rinculo, mentre il secondo s è proporzionale alla frazione di energia totale del fotone diffuso. Pertanto: Comp= a+s Nella figura sottostante si può vedere l'andamento delle sezioni d'urto Comp, a e s per il piombo. Come si vede la sezione d'urto complessiva per effetto Compton decresce all'aumentare dell'energia del fascio. effetto Compton approfondimento Cos'è L'effetto Compton è un fenomeno che si manifesta quando un fotone interagisce con un elettrone, cedendogli energia e deviando dalla sua traiettoria originale. Che importanza ha La spiegazione di questo effetto fornisce una definitiva conferma del concetto di fotone come quanto di energia. La dimostrazione della spiegazione fu data nel 1923 da Arthur Holly Compton (1892-1962) che per questo suo lavoro nel 1927 ottenne il premio Nobel per la fisica. Realizzazione sperimentale Compton inviò un fascio monocromatico di raggi X di lunghezza d'onda su un blocco di grafite e misurò, per vari angoli di diffusione, l'intensità dei raggi X in funzione della lunghezza d'onda. Per quanto il fascio incidente abbia una sola lunghezza d'onda , i raggi X diffusi hanno picchi d'intensità a due lunghezza d'onda; uno di essi corrisponde alla lunghezza d'onda incidente, l'altro alla lunghezza d'onda ' che è superiore alla precedente della quantità . Questo , chiamato spostamento Compton, varia col variare dell'angolo a cui sono osservati i raggi X diffusi. Dispositivo sperimentale di Compton. Raggi X monocromatici di lunghezza d'onda incidono su un blocco di grafite. Viene misurata la distribuzione dell'intensità in funzione della lunghezza d'onda dei raggi X diffusi a diversi angoli . Le lunghezze d'onda diffuse si misurano osservando le riflessioni di Bragg prodotte da un cristallo; le intensità si misurano con un rivelatore come una camera di ionizzazione. Risultati sperimentali di Compton. La linea verticale a sinistra corrisponde alla lunghezza d'onda , quella a destra a '. Vengono mostrati i risultati per quattro diversi angoli di diffusione . Notare che lo spostamento Compton per =90° è di h/m0c=0,242 Å. [da: D. Halliday, R. Resnick, op. cit.] Discussione dell'effetto osservato La presenza di un'onda diffusa di lunghezza d'onda ' non può essere spiegata se i raggi X incidenti sono considerati come un'onda elettromagnetica. In questo caso, infatti, l'onda incidente, di frequenza , fa sì che gli elettroni del blocco su cui avviene la diffusione, oscillino alla stessa frequenza. Questi elettroni oscillanti, paragonabili alle cariche che si muovono avanti ed indietro in una minuscola radioantenna, irradiano onde elettromagnetiche della stessa frequenza . Quindi nella descrizione ondulatoria l'onda diffusa dovrebbe avere le stessa frequenza e lunghezza d'onda dell'onda incidente. Compton fu in grado di spiegare i risultati sperimentali da lui ottenuti postulando che il fascio di raggi X incidente non fosse un'onda, ma un insieme di fotoni di energia E=h e che questi urtassero gli elettroni liberi nel blocco su cui avviene la diffusione, proprio come se si trattasse di palle da biliardo. I fotoni di rinculo uscenti dal blocco costituiscono, sotto questo punto di vista, la radiazione diffusa. Dato che il fotone uscente trasferisce un po' della sua energia all'elettrone con cui entra in collisione, il fotone diffuso deve avere un'energia minore E'; pertanto dovrà avere una frequenza inferiore ' che implica una lunghezza d'onda più elevata '. Questa descrizione rende conto almeno qualitativamente dello spostamento di lunghezza d'onda . Si osservi come questo modello a particelle della diffusione dei raggi X sia diverso da quello basato sulla descrizione ondulatoria. Analizziamo quantitativamente una singola collisione fotone-elettrone. La simulazione proposta rappresenta una collisione fra un fotone ed un elettrone; si fa l'ipotesi che l'elettrone sia a riposo ed essenzialmente libero, cioè non legato agli atomi del diffusore. Applichiamo a questa collisione la legge della conservazione dell'energia. Siccome gli elettroni di rinculo possono avere una velocità v paragonabile a quella della luce dobbiamo usare l'espressione relativistica dell'energia cinetica dell'elettrone. Sfruttando l'espressione E=h ed il fatto che il calcolo dell'energia cinetica deve tener presente che la massa varia con la velocità (ovvero scrivendo l'energia cinetica nella forma Ec=mc2), possiamo scrivere: h=h'+(m-m0)c2 in cui il secondo termine del secondo membro rappresenta l'espressione relativistica dell'energia cinetica dell'elettrone di rinculo, dove m è la massa relativistica ed m 0 la massa a risposo dell'elettrone. Sostituendo c/ a e c/' a ' si può scrivere: Applichiamo ora la legge di conservazione della quantità di moto alla collisione. Per prima cosa ci occorre un'espressione dell'impulso del fotone. Se un oggetto assorbe totalmente un'energia U da un fascio parallelo di luce che incide su di esso, il fascio luminoso, secondo la teoria ondulatoria della luce, trasferisce simultaneamente all'oggetto un impulso dato da U/c. Nella descrizione a fotoni immaginiamo che questo impulso venga trasportato dai singoli fotoni, ognuno dei quali trasporta un impulso in quantità p=h/c, dove h è l'energia del fotone. Così, se sostituiamo a c/, possiamo scrivere: La conclusione che l'impulso di un fotone sia dato da h/ può anche dedursi dalla teoria della relatività. L'espressione relativistica della quantità di moto dell'elettrone è data da: Per la conservazione della componente x della quantità di moto possiamo scrivere: e per la componente y: Nostro immediato scopo è di trovare la variazione di lunghezza d'onda dei fotoni (cioè ' ), in modo da poterla confrontare ai risultati sperimentali. Nell'esperimento di Compton non fu esaminato l'elettrone di rinculo. È possibile eliminare due dei cinque parametri (', ) che compaiono nelle ultime equazioni scritte. Eliminiamo e che riguardano soltanto l'elettrone, riducendo così le equazioni ad un'unica relazione tra i parametri. Effettuando le operazioni algebriche necessarie, giungeremo a questo semplice risultato: Così lo spostamento Compton dipende solo dall'angolo di diffusione e non dalla lunghezza d'onda iniziale . Quest'ultima equazione prevede, entro gli errori, gli spostamenti Compton osservati sperimentalmente. Si noti dall'equazione che varia da zero (per =0, che corrisponde ad una collisione "di striscio") a 2h/m0c (per =180°, che corrisponde ad una collisione "frontale" ove il fotone incidente rimbalza all'indietro). Rimane da spiegare la presenza del picco per il quale la lunghezza d'onda non varia nella diffusione. Si può spiegare questo picco come risultante da una collisione fra fotoni ed elettroni legati a ioni del blocco su cui avviene la diffusione. Nelle collisioni gli elettroni legati si comportano come quelli liberi, con la differenza che la loro massa efficace è molto maggiore. Ciò è dovuto al fatto che nella collisione rincula tutto il complesso ionico. La massa efficace M per un diffusore di carbonio è circa uguale alla massa di un nucleo di carbonio. Dato che questo nucleo contiene 6 protoni e 6 neutroni, avremo approssimativamente M=12x1840m0=22.000 m0. Se sostituiamo m0 ad M nell'ultima equazione scritta, vediamo che lo spostamento Compton per collisioni con elettroni strettamente legati è estremamente piccolo, tanto da non potersi misurare. Bibliografia Per la stesura di questo testo integrativo sono stati consultati i seguenti libri: S. Tolansky: Introduzione alla fisica atomica, Edizioni Einaudi, Torino, 1950 D. Halliday, R. Resnick: Fisica, Casa Editrice Ambrosiana, Milano, 1968 R. M. Eiseberg: Foundamentals of modern physics, John Wiley & Sons Per ulteriori approfondimenti sull'effetto Compton e sulla biografia di Arthur Holly Compton si suggeriscono i seguenti link: L'effetto Compton dal sito Luce virtuale.net La biografia di A. H. Compton e la sua memoria per il Premio Nobel direttamente dall'Official Web Site of The Nobel Foundation LINKSUtili : http://www.ct.infn.it/~rivel/Tipi/radiazioni/compton.html www penfisica.com/fisica_ipertesto/quanti/compton.php http://www.ba.infn.it/~zito/museo/frame11.html Effetto Compton Nel 1923 il fisico americano A. H. Compton (1892 - 1962), premio Nobel per la Fisica nel 1927, confermò sperimentalmente l'interpretazione quantistica e corpuscolare della radiazione elettromagnetica, dimostrando che l'urto tra un fotone ed un elettrone libero segue le note leggi di conservazione dell'energia e della quantità di moto. Compton bombardò un blocco di grafite con un fascio monocromatico ben collimato di raggi X di lunghezza d'onda λ e misurò la lunghezza d'onda λ' del fascio diffuso in funzione dell'angolo di diffusione θ. I risultati sperimentali dimostrarono che il raggio diffuso aveva sempre una lunghezza d'onda maggiore (e quindi una frequenza minore) del raggio incidente. Lo spostamento Compton Δλ = λ' - λ è legato all'angolo di diffusione θ dalla seguente relazione: Δλ = h / m0 c (1 - cos θ) dove h è la costante di Plank, m0 la massa a riposo dell'elettrone e c la velocità della luce La lunghezza d'onda della radiazione diffusa può quindi variare da 0 (corrispondente ad un angolo di diffusione nullo, cioè ad una radiazione non diffusa) fino ad un massimo di 2 h / m0 c (corrispondente ad una diffusione di 180°, cioè ad una radiazione che si riflette all'indietro. Secondo la teoria classica (leggi di Maxwell) il fascio diffuso avrebbe dovuto avere la stessa frequenza di quello incidente: gli elettroni della grafite avrebbero dovuto oscillare con la stessa frequenza dell'onda incidente ed emettere quindi una radiazione della identica frequenza. Compton spiegò che il fenomeno poteva essere interpretato pensando alla radiazione come un flusso di fotoni, ciascuno di energia E = h f , che urtano elasticamente, come palle da biliardo, contro gli elettroni liberi della grafite. Un fotone che urta contro un elettrone immobile, gli trasferisce energia e quantità di moto, cambiando direzione dopo l'urto. Poiché nella collisione parte dell'energia iniziale del fotone viene ceduta come energia cinetica all'elettrone, per la conservazione dell'energia, il fotone diffuso deve avere un'energia E' = h f' minore di quella iniziale e quindi una lunghezza d'onda λ' maggiore di quella iniziale. Urto fotone - elettrone Per ricavare teoricamente la relazione dello spostamento Compton è necessario trattare la collisione tra fotone e elettrone come un urto perfettamente elastico, applicando i principi di conservazione dell'energia e della quantità di moto. Poiché l'elettrone può rimbalzare con velocità confrontabili con quella della luce, dovremo usare le espressioni relativistiche per l'energia e la quantità di moto. Situazione prima dell'urto Situazione dopo l'urto l'elettrone è in quiete all'origine di un riferimento cartesiano, il fotone incidente viaggia lungo l'asse x. (m0 è la massa a riposo dell'elettrone) il fotone è diffuso di un angolo θ, l'elettrone di un angolo α (rispetto all'asse x). (m = γ m0 è la massa relativistica dell'elettrone) energia del sistema: h f + m0 c2 energia del sistema: h f' + γ m0 c2 quantità di moto (asse x): h/λ quantità di moto (asse x): h/λ' cos θ + γ m0 v cos α quantità di moto finale (asse y): h/λ' sen θ + γ m0 v sen α quantità di moto iniziale (asse y): 0 Conservazione dell'energia: h f + m0 c2 = h f' + γ m0 c2 h f = h f' + m0 c2 (γ - 1) h c/λ = h c/λ' + m0 c2 (γ - 1) Conservazione della quantità di moto (in due dimensioni): asse x h/λ = h/λ' cos θ + γ m0 v cos α asse y 0 = h/λ' sen θ + γ m0 v sen α Risolvendo le tre equazioni rispetto a λ , λ' e θ si ottiene la relazione di Compton. FOTOGENERAZIONE e FOTOCONDUCIBILITA’ http://www.elettrotecnica.unina.it/files/lupo/upload/Semiconduttoriorganici.pdf www.dei.unipd.it/wdyn/?IDfile=3301&IDsezione=3283 www.dii.unina2.it/Utenti/lzeni/Optoelettronica/Opto7.pdf Raggi x:eff.fotoelettrico,Compton,Prod Coppie I Raggi X La scoperta dei raggi X Fig. 1: Lo scopritore dei raggi X: Roentgen, primo premio Nobel per la Fisica nel Novembre 1901. A sinistra nel riquadro, la radiografia della mano della I raggi X furono scoperti, per caso, dal Prof. Signora Roentgen (22 dicembre 1895). Roentgen, una sera del Novembre 1895. Roentgen studiava i fenomeni associati al passaggio di corrente elettrica attraverso gas a pressione estremamente bassa. Stava lavorando in una stanza oscura ed aveva avvolto accuratamente il tubo di scarica in uno spesso foglio di cartone nero per eliminare completamente la luce, quando un folgio di carta ricoperto da un lato da una sostanza fosforescente, posto casualmente su di un tavolo vicino, divenne fluorescente. Egli spiegò il fenomeno come dovuto all'emissione, dal tubo di scarica, di raggi invisibili che eccitavano la fluorescenza. Nello stesso periodo, il Prof. Augusto Righi, all'Università di Bologna, faceva la sua prima radiografia utilizzando i raggi Roentgen. La cavia era il suo meccanico. Fig. 2: Radiografia con raggi Roentgen eseguita dal Prof. Augusto Righi al Dipartimento di Fisica a Bologna. Produzione dei raggi X I raggi X sono radiazioni di natura elettromagnetica con lunghezza d'onda 10-11 m circa. compresa tra 10-8- Quando l'elettrone di un fascio interagisce con il campo elettrico del nucleo di un Fig. 3: Rappresentazione schematica del processo di produzione dei raggi X. atomo (figura 3 a sinistra), subisce una brusca decelerazione e perde energia che viene emessa sotto forma di fotoni . Questo processo, chiamato "radiazione di frenamento" o "bremsstrahlung", è responsabile dello spettro continuo dei raggi X. Se, invece, l'interazione dell'elettrone incidente avviene con uno degli elettroni più interni dell'atomo bersaglio (figura 3 a destra), il processo di produzione dei raggi X prende il nome di "radiazione caratteristica". A seguito di questa interazione, entrambi gli elettroni sono diffusi fuori dall'atomo, così che nell'orbitale rimane un posto libero o "lacuna". Successivamente uno degli elettroni più esterni si sposta per colmare la lacuna. È durante quest'ultimo processo che l'atomo emette radiazione X con un'energia che individua in maniera esatta il materiale di cui è composto l'atomo bersaglio, da cui il nome "radiazione caratteristica". I sistemi più utilizzati per la produzione di fasci di raggi X, sono i tubi a raggi X. Nella figura 4 sottostante è raffigurato lo spettro energetico dei raggi X prodotti da un tubo radiogeno con anodo in tungsteno. La parte continua dello spettro rappresenta i raggi X provenienti dal fenomeno di "bremsstrahlung"; i picchi sono quelli relativi all'emissione di "radiazione caratteristica". Fig. 4: Spettro X continuo con righe caratteristiche per un bersaglio di tungsteno bombardato con elettroni da 100 KeV . produzione di raggi X Esistono molti modi di produrre radiazioni X. In laboratorio, la radiazione viene normalmente prodotta con tubi a raggi X (tubi di Coolidge), il cui funzionamento è molto semplice. Un fascio di elettroni (ottenuti da un filamento, con correnti dell'ordine di alcune decine di milliAmpere) viene accelerato ad elevato voltaggio (ordine di decine di kilovolts) contro un anodo metallico. L'energia viene principalmente dissipata come calore e in parte minore utilizzata per l'emissione di radiazioni X. Lo spettro prodotto contiene due componenti distinte: una parte continua dovuta alla decelerazione degli elettroni (bremsstrahlung) una parte discontinua dovuta all'estrazione di elettroni legati del metallo e successiva emissione per rilassamento di elettroni più esterni La minima lunghezza d'onda della curva di bremsstrahlung dipende dal potenziale usato per l'accelerazione degli elettroni Per esperimenti di cristallo singolo la radiazione impiegata è però quella prodotta dalle linee caratteristiche di un dato anodo metallico (componente discontinua). In particolare è impiegata la radiazione K ossia la radiazione emessa dal rilassamento verso lo strato K di un elettrone dello strato L. Una sorgente alternativa e di maggiore efficienza è l'anodo rotante, ossia un sistema in cui l'anodo non sia fisso, bensì in costante rotazione. Le energie delle linee caratteristiche (e quindi le lunghezze d'onda prodotte) dipendono dal materiale impiegato come anodo. Ecco alcune delle lunghezze d'onda (in Å) maggiormente impiegate nei laboratori a raggi X per impiego cristallografico: Anodo Cu Mo Ag K1 1.540 0.7093 0.5594 K2 1.544 0.7135 0.5638 La suddivisione 1, 2 dipende da effetti relativistici (poiché gli strati L non sono unici, ma doppi). Al di là di impieghi in laboratori (universitari) radiazioni X possono essere prodotte in strutture scientifiche di grande scala, come gli anelli di Sincrotrone (in cui elettroni accelerati in grandi anelli producono radiazioni sfrutatte per vari impieghi). Alcuni esempi: NSLS a Brookhaven (Stati Uniti), http://nslsweb.nsls.bnl.gov/nsls/default.htm ELETTRA, Trieste (Italia), www.elettra.trieste.it ESRF, Grenoble (Francia), http://www.esrf.fr/ I vantaggi dell'uso di radiazione di sincrotrone sono l'enorme brillanza (molti ordini di grandezza superiore a quella prodotta da comuni tubi a raggi X), la migliore convergenza e monocromaticità della radiazione e la flessibilità della lunghezza d'onda prodotta. www.akisrx.com/htmdue/lafisica_x.htm - 22k http://fis-san.univ.trieste.it/complementari/didattica/interazioni.pdf ASSORBIMENTO R.X http://nfs.unipv.it/nfs/minf/dispense/Fisica/R07-rX%20assorbimentoB.pdf www.sfismed.univr.it/Didattica/Radiologia/LezioniFisicaSanitaria/04InterazioneXMateria.doc EFFETTI sul materiale biologico-elementi di radioprotezione http://xoomer.alice.it/fealtier/Ni/materia0002.htm - 162k http://www.google.it/search?hl=it&q=RAGGI+x+PRODUZIONE+COPPIE&start=20&sa=N Raggi Gamma Gamma (radiazione) I raggi gamma, come la luce visibile, sono composti da fotoni: particelle infinitesime di luce che viaggiano sotto forma di onde di energia. I fotoni che compongono i raggi gamma sono identici a quelli della luce visibile, solo portano energie più elevate. Quando gli scienziati parlano dello spettro elettromagnetico, si riferiscono all'intera varietà dei livelli di energia raggiungibili dai fotoni. Nell'intero spettro di radiazioni, come illustrato nel disegno, la luce visibile ne occupa solo una frazione, collocata tra la luce infrarossa, di energia minore, e la più energetica luce ultravioletta. Alle estremità opposte dello spettro, troviamo le onde radio, i fotoni meno energetici e i raggi gamma, i più energetici. L'energia trasportata dai fotoni viene misurata nell'unità di misura degli elettronvolt o eV. La luce visibile è composta da fotoni con energie tra 2 e 3 eV, i raggi gamma sono fotoni con energie tra 100.000 ( 0,1 MeV ) e 1*1012 eV ( 1 TeV ) o superiori. Queste radiazioni vengono interamente assorbite nell'atmosfera ad altezze tra 9.000 e 40.000 metri. Per questo l'osservazione è stata compiuta con i palloni sonda e razzi prima ed anche con i satelliti poi, tra i quali il Compton Gamma Ray Observatory. Energia e origine dei raggi gamma I raggi gamma vengono generati dalla cessione di energia da parte del radionuclide dopo ad esempio l'emissione di un raggio beta oppure di un raggio alfa. Da dove viene l'energia in più che acquista il nucleo dopo l'emissione? è forse dovuta al rinculo? è vero che anche il nucleo presenta degli stati energetici quantizzati come le orbite degli elettroni? Simona Capparella 12 aprile 2007 La domanda, così come scritta, presenta alcune inesattezze. Vediamo dunque di chiarire la situazione, e per questo viene comodo partire dal fondo, e cioè dai livelli energetici. Come giustamente dice la lettrice, anche per i nuclei atomici, come per gli atomi, esistono i livelli energetici. Ogni nucleo può apparire in diversi stati, ciascuno caratterizzato da una ben definita energia. La situazione è più complicata per i nuclei che per gli atomi, per le seguenti ragioni: 1. nei nuclei esistono due tipi di particelle, protoni e neutroni, mentre negli atomi i livelli energetici sono in larga misura determinati dallo stato dei soli elettroni; in conseguenza di questo, per gli stati nucleari c'è più varietà; 2. mentre per l'atomo sono le forze elettromagnetiche a determinare gli stati energetici, nel nucleo agisce prevalentemente la cosiddetta interazione nucleare forte, che ha un comportamento più complesso e produce una serie di livelli più ricca; 3. esiste infine una seconda forza nucleare, detta forza nucleare debole, che permette di transire da un livello energetico ad un altro seguendo "percorsi" che sarebbero proibiti in presenza della sola interazione forte. Premesso tutto questo, da un punto di vista concettuale non c'è molta differenza tra i livelli energetici atomici ed quelli nucleari. Arriviamo dunque alla seconda parte della risposta. Ogni livello nucleare è caratterizzato da una specifica e ben determinata energia. Se esiste un livello con energia più piccola, di principio è possibile che il nucleo effettui una transizione verso questo livello, rilasciando l'energia in eccesso. Questa energia può essere emessa in diversi modi, e i principali sono quelli elencati dalla lettrice: radiazioni alfa, beta e gamma. In tutte e tre i casi si tratta di particelle espulse dal nucleo; i raggi alfa sono nuclei di elio, i raggi beta sono elettroni o positroni (accompagnati da invisibili neutrini), e i raggi gamma sono fotoni. Nel primo caso, il nucleo perde una frazione significativa della propria massa (cambia infatti il numero totale dei protoni e neutroni che lo compongono) mentre negli altri la perdita di massa è molto piccola (il numero totale di neutroni e protoni non cambia). A volte questi decadimenti avvengono in sequenza (per esempio un nucleo può subire un decadimento alpha per poi "risistemarsi" ulteriormente con un decadimento beta o gamma), ma di principio ciascun processo può avvenire indipendentemente dagli altri. A questo punto, siamo vicini alla fine della risposta: quando un nucleo decade, non guadagna energia, ma la perde. Questa energia viene trasportata via dalla particella alfa, o beta, o gamma, ed era inizialmente "immagazzinata" nello stato energetico in cui si trovava il nucleo. Il nucleo, se mai, può guadagnare energia cinetica a causa del rinculo che subisce emettendo la particella di decadimento. Nel caso delle emissioni beta o gamma, questa energia di rinculo è comunque molto piccola. Raggi gamma I raggi gamma (spesso indicati con la lettera greca gamma, γ) sono una forma energetica di radiazione elettromagnetica prodotta dalla radioattività o da altri processi nucleari o subatomici, come l'annichilazione elettrone/positrone. I raggi gamma sono più penetranti sia della radiazione alpha sia della radiazione beta, ma sono meno ionizzanti. I raggi gamma si distinguono dai raggi X per la loro origine: i gamma sono prodotti da transizioni nucleari o comunque subatomiche, mentre gli X sono prodotti da transizione energetiche dovute ad elettroni in rapido movimento. Poiché è possibile per alcune transizioni elettroniche superare le energie di alcune transizioni nucleari, i raggi X più energetici si sovrappongono con i raggi gamma più deboli. Processi nucleari processi di decadimento radioattivo: decadimento Alfa decadimento Beta raggi gamma emissione di neutroni emissione di protoni fissione spontanea Nucleosintesi Cattura di neutroni o processo R o processo S Cattura di protoni: o processo P Una schermo per raggi γ richiede una massa notevole. Per ridurre del 50% l'intensità di un raggio gamma occorrono 1 cm di piombo, 6 cm di cemento o 9 cm di materiale pressato. I raggi gamma di un fallout nucleare sarebbero i maggiori responsabili di perdite di vite umane nell'eventualità di una guerra nucleare. Uno schermo appropriato ridurrebbe la perdita di vite di almeno 1000 volte. I raggi gamma sono meno ionizzanti dei raggi alfa o beta. Nonostante ciò, occorrono schermi più spessi per la protezione degli esseri umani. I raggi gamma producono effetti simili a quelli dei raggi X come ustioni, cancri e mutazioni genetiche. In termini di ionizzazione, la radiazione gamma interagisce con la materia in tre modi principali: l'effetto fotoelettrico, il Compton scattering e la produzione di coppie elettrone/positrone. Effetto fotoelettrico: occorre quando un fotone gamma interagisce con un elettrone orbitante attorno ad un atomo e gli trasferisce tutta la sua energia, col risultato di espellere l'elettrone dall'atomo. L'energia cinetica del "fotoelettrone" risultante è uguale all'energia del fotone gamma incidente meno l'energia di legame dell'elettrone. Si pensa che l'effetto fotoelettrico sia il meccanismo principale per l'interazione dei fotoni gamma e X al di sotto dei 50 KeV (migliaia di elettronvolt), ma che sia molto meno importante ad energie più alte. Compton scattering: un fotone gamma incidente espelle un elettrone da un atomo, in modo simile al caso precedente, ma l'energia addizionale del fotone viene convertita in un nuovo fotone gamma, meno energetico, con una direzione diversa dal fotone originale. La probabilità del compton scattering diminuisce con l'aumentare dell'energia del fotone. Si pensa che questo sia il meccanismo principale per l'assorbimento dei raggi gamma nell'intervallo di energie "medie", tra 100 KeV e 10 MeV (milioni di elettronvolt), dove vanno a cascare la maggior parte della radiazione gamma prodotta da un'esplosione nucleare. Il meccanismo è relativamente indipendente dal numero atomico del materiale assorbente. Produzione di coppie: interagendo con la forza di coulombiana del nucleo, l'energia del fotone incidente è convertita nella massa di una coppia elettrone/positrone (un positrone è un elettrone carico positivamente). L'energia eccedente la massa a riposo delle due particelle (1.02 MeV) appare come energia cinetica della coppia e del nucleo. L'elettrone della coppia, in genere chiamato elettrone secondario, è molto ionizzante. Il positrone avrà vita breve: si ricombina entro 10-8 secondi con un elettrone libero. L'intera massa delle due particelle viene quindi convertita in due fotoni gamma con un'energia di 0.51 MeV ciascuno. I raggi gamma sono spesso prodotti insieme ad altre forme di raziazione come quella alfa e beta. Quando un nucleo emette una particella α o β, il nucleo risultante si trova a volte in uno stato eccitato. Può passare ad un livello più stabile emettendo un fotone gamma, nello stesso modo in cui un elettrone può passare ad un livello più basso emettendo un fotone ottico. Raggi gamma, raggi X, luce visibile e radiazione ultravioletta sono tutte forme di radiazione elettromagnetica. L'unica differenza è la frequenza e quindi l'energia dei fotoni. I raggi gamma sono i più energetici. Ecco un esempio di generazione di ragi gamma: Prima un nucleo di cobalto-60 decade in un nichel-60 eccitato attraverso il decadimento beta: 60Co --> 60Ni* + e- + νÌ„e Poi il nichel-60 passa al suo stato di energia minima emettendo un raggio gamma: 60Ni* --> 60Ni + γ Utilizzi La natura energetica dei raggi gamma li ha resi utili per la sterilizzazione delle apparecchiature mediche, perché uccidono facilmente i batteri. Sono inoltre usati per uccidere i batteri nelle confezioni alimentari perché si conservino più a lungo. Nonostante possano produrre il cancro, i raggi gamma sono usati per curare alcune forme cancerogene. Fasci di raggi gamma concentrati vengono mandati contro il cancro da diverse direzioni, per ucciderne le celle. I fasci sono fatti partire con differenti angoli in modo che si incrocino sull'area interessata, minimizzando il danno ai tessuti circostanti. Vedi anche: fisica, astronomia dei raggi gamma, gamma ray burster Radioattività Cos’è la Radioattività? La radioattività è il fenomeno per cui alcuni nuclei, non stabili, si trasformano in altri emettendo particelle. La radioattività non è stata inventata dall'uomo, anzi, al contrario, l'uomo è esposto alla radioattività fin dal momento della sua apparizione sulla Terra. La radioattività è antica quanto l’Universo ed è presente ovunque: nelle Stelle, nella Terra e nei nostri stessi corpi. La scoperta della radioattività avvenne alla fine dell’800 ad opera di Henry Bequerel e dei coniugi Pierre e Marie Curie (Figura 1), che ricevettero il Premio Nobel per la Fisica per le loro ricerche. Essi scoprirono che alcuni minerali, contenenti uranio e radio,avevano la proprietà di impressionare delle lastre fotografiche poste nelle loro vicinanze. Le lastre fotografiche, una volta sviluppate, presentavano delle macchie scure. Per questa loro proprietà, elementi come l’uranio, il radio e il polonio (gli ultimi due scoperti proprio da Pierre e Marie Curie) vennero denominati “attivi” e il fenomeno di emissione di particelle venne detto radioattività. Da allora sono stati identificati quasi 2500 specie di nuclei differenti e di essi solo una piccola percentuale, circa 280, sono stabili. Figura 1: Henry Bequerel e i coniugi Curie. Atomi, elementi chimici e isotopi La materia che ci circonda (aria, acqua, terra, oggetti ed esseri viventi) è costituita da atomi, che a loro volta sono fatti da un nucleo estremamente piccolo, delle dimensioni di un Fermi (1 fm = un milione di miliardi di volte più piccolo di un metro) e di carica positiva, circondato da una nuvola di elettroni di carica negativa (Figura 2). Il nucleo dell’atomo è costituito dai protoni, carichi positivamente, e dai neutroni, che sono invece privi di carica elettrica e perciò neutri (come dice il loro stesso nome). Il numero di protoni è uguale al numero di elettroni, così che l'atomo è elettricamente neutro. Figura 2: Disegno schematico di un atomo. La struttura dell’atomo (nucleo di protoni e neutroni ed elettroni orbitanti intorno al nucleo) è la stessa per tutti gli elementi chimici che conosciamo. Quello che cambia da un elemento all’altro è il numero dei protoni (e quindi degli elettroni) e dei neutroni che l’atomo contiene. Il numero totale di protoni nel nucleo viene chiamato “numero atomico” e si indica con la lettera Z. Esso determina di quale elemento chimico si tratta: così ad esempio l'elemento chimico con 8 protoni è l'ossigeno, quello con 26 protoni è il ferro, quello con 79 protoni è l'oro, quello con 92 protoni è l'uranio e così via. La somma del numero dei protoni più il numero dei neutroni viene chiamato “numero di massa” e si indica con la lettera A. Mentre il numero di protoni di un elemento chimico è fisso (infatti abbiamo detto che questo numero, Z, caratterizza l’elemento), il numero di neutroni può essere variabile. In questo caso parliamo di “isotopi” di un elemento chimico. Ad esempio: il ferro presente in natura è costituito da 4 isotopi, tutti con 26 protoni ma con 28, 30, 31 e 32 neutroni rispettivamente. Gli isotopi sono identificati dal nome dell'elemento e dal numero di massa, che viene di solito riportato in alto a sinistra del simbolo dell’elemento chimico, per esempio l’isotopo del Carbonio con numero di massa 14 si indica con 14C. In natura esistono circa 90 elementi (dall'idrogeno, il più leggero, all'uranio, il più pesante) e circa 270 isotopi. Oltre agli isotopi da sempre presenti in natura (isotopi naturali) , esistono oggi un gran numero di isotopi artificiali, cioè prodotti dall'uomo. Esempi di isotopi artificiali sono il cobalto-60 (27 protoni, 33 neutroni), usato in radioterapia e il plutonio-239 (94 protoni, 145 neutroni), usato come combustibile nelle centrali nucleari. Cos’è un decadimento radioattivo? Gli isotopi presenti in natura sono quasi tutti stabili. Tuttavia, alcuni isotopi naturali, e quasi tutti gli isotopi artificiali, presentano nuclei instabili, a causa di un eccesso di protoni e/o di neutroni. Tale instabilità provoca la trasformazione spontanea in altri isotopi, e questa trasformazione si accompagna con l'emissione di particelle. Questi isotopi sono detti isotopi radioattivi, o anche radioisotopi, o anche radionuclidi. La trasformazione di un atomo radioattivo porta alla produzione di un altro atomo, che può essere anch'esso radioattivo oppure stabile. Essa è chiamata disintegrazione o decadimento radioattivo. Il tempo medio che occorre aspettare per avere tale trasformazione può essere estremamente breve o estremamente lungo. Esso viene detto “vita media” del radioisotopo e può variare da frazioni di secondo a miliardi di anni (per esempio, il potassio-40 ha una vita media di 1.8 miliardi di anni). Un altro tempo caratteristico di un radioisotopo è il “tempo di dimezzamento”, ovvero il tempo necessario affinché la metà degli atomi radioattivi inizialmente presenti subisca una trasformazione spontanea. Esistono tre diversi tipi di decadimenti radioattivi, che si differenziano dal tipo di particella emessa a seguito del decadimento. Le particelle emesse vengono indicate col nome generico di radiazioni. Decadimento alfa Decadimento beta Decadimento gamma Decadimento Alfa (): Consideriamo un nucleo con numero atomico Z e numero di massa A. In seguito ad un decadimento alfa, il nucleo emette una particella a, cioè un nucleo di elio composto da due protoni e due neutroni, e si trasforma in un nucleo diverso, con numero atomico (Z - 2) e numero di massa (A – 4). Un esempio è il decadimento dell’uranio-238 in torio-234 (Figura 3). Le radiazioni alfa, per la loro natura, sono poco penetranti e possono essere completamente bloccate da un semplice foglio di carta (Figura 4). Figura 3: Un decadimento alfa. Figura 4: Il potere penetrante delle diverse radiazioni. Decadimento Beta (): Il nucleo emette un elettrone e un antineutrino di tipo elettronico (vedi sezione sui neutrini) e si trasforma in un nucleo con numero atomico (Z + 1) ma stesso numero di massa A. Un esempio è il decadimento del Cobalto-60 in Nichel-60 (Figura 5). Le radiazioni beta sono più penetranti di quelle alfa, ma possono essere completamente bloccate da piccoli spessori di materiali metallici (ad esempio, pochi millimetri di alluminio). Figura 5: Un decadimento beta con successivo decadimento gamma del nucleo eccitato. Decadimento Gamma (): Il nucleo non si trasforma ma passa semplicemente in uno stato di energia inferiore ed emette un fotone. La radiazione gamma accompagna solitamente una radiazione alfa o una radiazione beta. Infatti, dopo l'emissione alfa o beta, il nucleo è ancora eccitato perché i suoi protoni e neutroni non hanno ancora raggiunto la nuova situazione di equilibrio: di conseguenza, il nucleo si libera rapidamente del surplus di energia attraverso l'emissione di una radiazione gamma. Per esempio il cobalto-60 si trasforma per disintegrazione beta in nichel-60, che raggiunge il suo stato di equilibrio emettendo una radiazione gamma (Figura 5). Al contrario delle radiazioni alfa e beta, le radiazioni gamma sono molto penetranti, e per bloccarle occorrono materiali ad elevata densità come il piombo (Figura 4). Qual’è l’origine della radioattività? Come abbiamo detto, gli isotopi radioattivi possono avere origine naturale o artificiale. Tuttavia non bisogna pensare che la radioattività naturale e quella artificiale siano fenomeni diversi, in quanto il processo fisico alla base è lo stesso per entrambe. I radioisotopi naturali hanno avuto origine al centro delle stelle, tramite reazioni nucleari o durante le esplosioni di Supernovae. Alcuni di questi nuclei, come il potassio-40 (40K), il torio-232 (232Th) e l’uranio-235/238 (235U / 238U) sono attivi ancora oggi, in quanto il loro tempo di dimezzamento è di vari miliardi di anni. La misura dell’abbondanza residua di questi isotopi sulla Terra permette di risalire all’età del nostro pianeta, che è calcolata in 4.5 miliardi di anni. Altri nuclei radioattivi si sono formati in seguito alle interazioni dei raggi cosmici con alcuni elementi. Si parla allora di nuclei di origine cosmogenica. Alcuni esempi sono il carbonio-14 (14C), prodotto dall’interazione dei raggi cosmici con l’azoto dell’atmosfera, il berillio-10 (10Be) e il cobalto-58 (58Co), che si sviluppa in qualsiasi pezzo di rame esposto ai raggi cosmici. I nuclei radioattivi artificiali sono stati creati in laboratorio o nei reattori nucleari. La radioattività in natura La radioattività è un fenomeno naturale: per questo motivo qualsiasi cosa sulla Terra, inclusi i nostri corpi, contiene una certa percentuale di elementi radioattivi. La radioattività nell’aria è dovuta alla presenza del Radon (Rn). Questo elemento viene prodotto dal decadimento dell’uranio e del torio, che si trovano in moltissimi materiali, soprattutto nelle rocce. Essendo gassoso, il radon riesce ad “evaporare” diffondendosi nell’aria. In 1 m3 di aria in un edificio chiuso avvengono in media 30 decadimenti di radon al secondo. Un altro protagonista della radioattività naturale è il Potassio-40, che è presente nel nostro corpo e in generale nella materia biologica, nei cibi, nella crosta terrestre e nell’acqua di mare. Per esempio, in un corpo umano si hanno circa 5000 decadimenti di 40K al secondo. La radioattività, inoltre, è responsabile del calore interno della Terra. Come si misura la radioattività? L'unità di misura della radioattività è il becquerel (Bq). 1 Bq corrisponde a 1 disintegrazione al secondo. Poiché questa unità di misura è assai piccola, la radioattività si esprime molto spesso in multipli di Bq: il kilo-becquerel (kBq) = 103 Bq, il Mega-becquerel (MBq) = 106 Bq e il Gigabecquerel (GBq) = 109 Bq. L'unità di misura usata in precedenza era il Curie (Ci) definita come la quantità di radioattività presente in un grammo di radio. Questa unità è immensamente più grande del Bq, perché in un grammo di radio avvengono 37 miliardi di disintegrazioni al secondo. Perciò:1 Ci = 37 GBq = 37 miliardi di Bq. Quali sono gli effetti della radioattività? Le radiazioni prodotte dai radioisotopi interagiscono con la materia con cui vengono a contatto, trasferendovi energia. Tale apporto di energia, negli organismi viventi, produce una ionizzazione delle molecole: da qui la definizione di radiazioni ionizzanti. La dose di energia assorbita dalla materia caratterizza questo trasferimento di energia. Gli effetti possono essere irrilevanti o più o meno dannosi, a seconda della dose di radiazioni ricevuta e del tipo di radiazioni. L'unità di misura della dose assorbita dalla materia a seguito dell'esposizione alle radiazioni ionizzanti é il Gray (Gy). 1 Gy corrisponde a una quantità di energia di 1 Joule (J) assorbita da 1 kilogrammo di materia. Per la misura delle dosi di radiazioni assorbite dall'uomo, o più precisamente per una misura degli effetti biologici dovuti alla dose di radiazioni assorbita, è stato introdotto il concetto di equivalente di dose, che tiene conto della dannosità più o meno grande, a parità di dose, dei vari tipi di radiazioni ionizzanti. In questo caso, l'unità di misura è il Sievert (Sv). Di uso più comune è il sottomultiplo millisievert (mSv), pari a un millesimo di Sv. Ad esempio, una radiografia al torace comporta l'assorbimento di una dose di circa 0,14 mSv. La dose annualmente assorbita da ogni individuo per effetto della radioattività naturale è in media di 2,4 mSv per anno. Il limite massimo di dose stabilito dalla legge italiana per le persone è 1 mSv per anno al di sopra della dose naturale di radiazioni (20 mSv per lavoratori impegnati in attività che prevedono l’uso o la manipolazione di radioisotopi). Cos’è la radioattività? A) Introduzione Si definisce radioattività la proprietà che hanno gli atomi di alcuni elementi di emettere spontaneamente radiazioni ionizzanti. La radioattività non é stata inventata dall'uomo, anzi, al contrario, l'uomo é esposto alla radioattività fin dal momento della sua apparizione sulla Terra. Solo recentemente (circa 100 anni fa), con i lavori dello scienziato francese Henry Becquerel, l'uomo ha scoperto l'esistenza della radioattività. Fin dalla formazione della Terra, circa cinque miliardi di anni fa, la materia era formata da atomi stabili non radioattivi e atomi instabili radioattivi. Col trascorrere dei millenni, la maggior parte degli elementi radioattivi, attraverso il processo di decadimento, hanno cessato di essere tali. Tuttavia, esistono ancora oggi in natura alcuni isotopi radioattivi, e non é cessato l'apporto esterno di radioattività prodotto dal bombardamento di raggi cosmici a cui siamo tuttora sottoposti. Ecco perché tutto quello che ci circonda é "naturalmente" radioattivo. Dall'alba dei tempi fino ad oggi, gli esseri viventi sono perciò immersi in un vero e proprio bagno di radioattività: Un chilogrammo di granito ha una radioattività naturale di circa 1000 Becquerel Un litro di latte ha una radioattività naturale di circa 80 Becquerel Un litro di acqua di mare ha una radioattività naturale di circa 10 Becquerel Un individuo di 70 kg ha una radioattività dell'ordine di 8000 Becquerel, causata dalla presenza, nel corpo umano, di isotopi radioattivi naturali (in gran parte, potassio-40) In Italia la dose di radioattività naturale cui é sottoposto annualmente ciascun individuo é pari approssimativamente alla dose associata ad una radiografia del torace moltiplicata per venti. B) Atomi La materia che ci circonda (aria, acqua, terra, oggetti, esseri viventi, eccetera) é costituita da atomi, che a loro volta consistono in un nucleo estremamente piccolo (dimensione approssimativa: un milione di miliardi di volte meno di un metro), di carica positiva, circondato da una nuvola di elettroni di carica negativa. All'interno dell'atomo, il nucleo é costituito da protoni carichi positivamente e da neutroni privi di carica e perciò neutri (come dice il loro stesso nome). Negli atomi, il numero di protoni (carichi positivamente) é uguale al numero di elettroni (carichi negativamente), così che l'atomo é elettricamente neutro. Il numero totale di protoni nel nucleo (e quindi di elettroni nella nuvola esterna), chiamato numero atomico, determina di quale elemento chimico si tratta: così ad esempio l'elemento chimico con 8 protoni é l'ossigeno, quello con 26 protoni é il ferro, quello con 79 protoni é l'oro, quello con 92 protoni é l'uranio. Come abbiamo visto, nel nucleo, oltre ai protoni, sono presenti anche i neutroni: la somma del numero totale di protoni più il numero totale di neutroni determina il numero di massa. C) Isotopi Un elemento chimico, oltre al numero fisso di protoni che lo caratterizza, può avere un numero variabile di neutroni: in tal caso si identificano diversi isotopi di uno stesso elemento. Ad esempio: il ferro presente in natura é costituito da 4 isotopi, tutti con 26 protoni ma ognuno con 28, 30, 31 e 32 neutroni rispettivamente. Gli isotopi sono identificati dal nome dell'elemento e dal numero di massa (esempio: ferro-54, ferro-56, ecc.). In natura esistono circa 90 elementi (dall'idrogeno, il più leggero, all'uranio, il più pesante) e circa 270 isotopi. Tra gli elementi, una ventina sono costituiti da un unico isotopo (come ad esempio il sodio, il cobalto, l'arsenico e l'oro), gli altri hanno almeno due isotopi (ad esempio: il cloro ne ha due, lo zinco ne ha cinque, lo stagno ne ha dieci). Oltre agli isotopi da sempre presenti in natura (isotopi naturali) , esistono oggi un gran numero di isotopi artificiali, cioè prodotti dall'uomo. Esempi di isotopi artificiali sono il il cobalto-60 (27 protoni, 33 neutroni), usato in radioterapia e in gammagrafia, il plutonio-239 (94 protoni, 145 neutroni), usato come combustibile nelle centrali nucleari. D) Origine della radioattività Gli isotopi presenti in natura sono quasi tutti stabili. Tuttavia, alcuni isotopi naturali, e quasi tutti gli isotopi artificiali, presentano nuclei instabili, a causa di un eccesso di protoni e/o di neutroni. Tale instabilità provoca la trasformazione spontanea in altri isotopi, e questa trasformazione si accompagna con l'emissione di radiazioni ionizzanti per cui essi sono chiamati isotopi radioattivi, o anche radioisotopi, o anche radionuclidi. La trasformazione di un atomo radioattivo porta alla produzione di un altro atomo, che può essere anch'esso radioattivo oppure stabile. Essa é chiamata disintegrazione o decadimento. Tale trasformazione, a seconda dei casi, può completarsi in tempi estremamente brevi o estremamente lunghi. Una misura di tale tempo é data dal tempo di dimezzamento, o tempo di vita media, che esprime il tempo alla fine del quale la metà degli atomi radioattivi inizialmente presenti ha subito una trasformazione spontanea. Ad esempio il radioisotopo artificiale tecnezio-99m ha un tempo di dimezzamento di 6 ore (dopo 6 ore la sua radioattività si é ridotta della metà); il radioisotopo artificiale iodio-131 ha un tempo di dimezzamento di 8 giorni; il radioisotopo naturale potassio-40 ha un tempo di dimezzamento di 1,3 miliardi di anni. Dopo dieci tempi di dimezzamento, la radioattività di un radioisotopo é mille volte minore di quella iniziale. E) Misura della radioattività Un campione contenente radioisotopi si caratterizza per la sua quantità di radioattività, che viene espressa con il numero di disintegrazioni nell'unità di tempo di nuclei radioattivi. L'unità di misura é il becquerel, con simbolo Bq. 1 becquerel = 1 Bq = 1 disintegrazione al secondo. Poiché questa unità di misura é assai piccola, la radioattività si esprime molto spesso in multipli di becquerel: kilobecquerel (kBq) = mille Bq megabecquerel (MBq) = un milione di Bq gigabecquerel (GBq) = un miliardo di Bq terabecquerel (TBq) = mille miliardi di Bq (Allo stesso modo, per esprimere la distanza da Roma a Milano si parla di 560 kilometri, e non di 560 milioni di millimetri) L'unità di misura usata in precedenza era il curie, (simbolo: Ci) definita come la quantità di radioattività presente in un grammo di radio, elemento naturale che si trova assieme all'uranio. Questa unità é immensamente più grande del Bq, perché in un grammo di radio si producono 37 miliardi di disintegrazioni al secondo. Perciò: 1 curie = 1 Ci = 37 GBq = 37 gigabecquerel = 37 miliardi di becquerel. F) I differenti tipi di radioattività I differenti tipi di radioattività sono: • Radioattività alfa • Radioattività beta • Radioattività gamma Ciascun tipo di radioattività ha un proprio "potere penetrante" e "modalità di schermatura" Radioattività alfa Atomi nei cui nuclei sono contenute quantità eccessive di protoni e neutroni emettono di solito una radiazione alfa, costituita da un nucleo di elio (due protoni + due neutroni), e avente due cariche positive. Tale disintegrazione porta alla formazione di un isotopo di altro elemento chimico, avente numero atomico diminuito di due unità e numero di massa diminuito di quattro unità. Esempio: l'uranio 238 (92 protoni + 146 neutroni) emette radioattività alfa trasformandosi in torio-234 (90 protoni + 144 neutroni), con un tempo di dimezzamento di 4,5 miliardi di anni. Le radiazioni alfa, per la loro natura, sono poco penetranti e possono essere completamente bloccate da un semplice foglio di carta. Radioattività beta Atomi nei cui nuclei sono contenute quantità eccessive di neutroni emettono di solito una radiazione beta, costituita da un elettrone. In particolare, uno dei neutroni del nucleo si disintegra in un protone e in un elettrone, che viene emesso. Tale disintegrazione porta alla formazione di un isotopo di altro elemento chimico, avente numero atomico aumentato di una unità (il protone in più) e numero di massa invariato (il protone si é sostituito al neutrone). Esempio: il cobalto-60 (27 protoni + 33 neutroni) emette radioattività beta trasformandosi in nichel-60 (28 protoni + 32 neutroni), con un tempo di dimezzamento di 5,3 anni. Le radiazioni beta sono più penetranti di quelle alfa, ma possono essere completamente bloccate da piccoli spessori di materiali metallici (ad esempio, pochi millimetri di alluminio). Radioattività gamma La radiazione gamma é una onda elettromagnetica come la luce o i raggi X, ma assai più energetica. Le radiazioni alfa e beta sono invece di tipo corpuscolare e dotate di carica (positiva le alfa, negativa le beta). La radiazione gamma accompagna solitamente una radiazione alfa o una radiazione beta. Infatti, dopo l'emissione alfa o beta, il nucleo é ancora eccitato perché i suoi protoni e neutroni non hanno ancora raggiunto la nuova situazione di equilibrio: di conseguenza, il nucleo si libera rapidamente del surplus di energia attraverso l'emissione di una radiazione gamma. Esempio: il cobalto-60 si trasforma per disintegrazione beta in nichel-60, che raggiunge il suo stato di equilibrio emettendo una radiazione gamma. Al contrario delle radiazioni alfa e beta, le radiazioni gamma sono molto penetranti, e per bloccarle occorrono rilevanti spessori di materiali ad elevata densità come il piombo. Effetti della radioattività A) Il concetto di dose Le radiazioni prodotte dai radioisotopi interagiscono con la materia con cui vengono a contatto, trasferendovi energia. Tale apporto di energia, negli organismi viventi, produce una ionizzazione delle molecole: da qui la definizione di radiazioni ionizzanti. La dose di energia assorbita dalla materia caratterizza questo trasferimento di energia. Gli effetti possono essere irrilevanti o più o meno dannosi, a seconda della dose di radiazioni ricevuta e del tipo delle radiazioni stesse. Per meglio chiarire l'importanza della dose assorbita, un esempio noto a tutti é quello delle radiazioni ultraviolette dei raggi solari, che, per l'uomo, a piccole dosi sono innocue, ma per esposizioni eccessivamente prolungate possono provocare colpi di sole o bruciature della pelle. B) La misura della dose L'unità di misura della dose assorbita dalla materia a seguito dell'esposizione alle radiazioni ionizzanti é il Gray (simbolo: Gy): 1 Gray (Gy) = 1 joule (J) assorbito da 1 kilogrammo di materia Per la misura delle dosi di radiazioni assorbite dall'uomo, o più precisamente per una misura degli effetti biologici dovuti alla dose di radiazioni assorbita, é stato introdotto il concetto di equivalente di dose, che tiene conto della dannosità più o meno grande, a parità di dose, dei vari tipi di radiazioni ionizzanti. In questo caso, l'unità di misura é il sievert (simbolo: Sv). In particolare: per le radiazioni beta e gamma: 1 Gray => 1 Sievert per le radiazioni alfa: 1 Gray => 20 Sievert per i fasci di neutroni: 1 Gray => 3 - 11 Sievert (a seconda dell'energia dei neutroni) Di uso più comune é il sottomultiplo millisievert (mSv), pari a un millesimo di Sv. Ad esempio, come riportato nella seguente tabella, una radiografia al torace comporta l'assorbimento di una dose di circa 0,14 millisievert (mSv). Alcuni dati dosimetrici relativi ad esami medici con raggi X: Radiografia del torace 0,14 mSv Radiografia dell'addome 1,1 mSv Radiografia del tubo digerente 4,1 ÷ 7,2 mSv Colecistografia 1,5 mSv Urografia 3,1 mSv Mammografia 1,0 mSv C) L'esposizione dell'uomo alle radiazioni L'uomo può essere esposto alla radioattività in due modi: • per esposizione esterna, che avviene quando l'individuo si trova sulla traiettoria delle radiazioni emesse da una sorgente radioattiva situata all'esterno dell'organismo; si parla, in questo caso, di irradiazione • per esposizione interna, che si verifica quando la sorgente radioattiva si trova all'interno dell'organismo, a causa di inalazione per respirazione, e/o ingestione, ovvero per introduzione attraverso una ferita; si parla, in questo caso, di contaminazione interna L'esposizione esterna cessa quando l'individuo si allontana dalla sorgente ovvero vengono interposti opportuni schermi tra sorgente e individuo. Le radiazioni alfa, beta e gamma da esposizione esterna non fanno diventare radioattiva la materia che le assorbe. L'esposizione interna cessa quando i radioisotopi respirati o ingeriti o introdotti attraverso ferite sono completamente rimossi dall'organismo (ad esempio: con l'urina, le feci, ecc.). D) L'esposizione alle radiazioni naturali Per poter considerare nella giusta luce gli effetti della radioattività sull'uomo, é necessario anzitutto prendere in considerazione l'esposizione alle radiazioni naturali. A tale "bagno di radioattività", in cui l'uomo é immerso fin dalla sua origine, gli organismi viventi si sono da tempo adattati. La dose annualmente assorbita da ogni individuo della popolazione per effetto della radioattività naturale é mediamente di 2,4 mSv/anno (2,4 millisievert/anno) Sorgente Esposizione esterna(mSv/anno) Esposizione interna(mSv/anno) Totale(mSv/anno) Raggi cosmici 0,36 0,36 Potassio-40 0,15 0,18 0,33 Uranio-238 e radioisotopi associati 0,10 1,24 1,34 Torio-232 e radioisotopi associati 0,16 0,18 0,34 Alla radioattività naturale contribuiscono una componente terrestre e una componente extraterrestre. La componente terrestre é dovuta ai radionuclidi presenti nei materiali della crosta terrestre (rocce, minerali), come: il potassio-40, l'uranio naturale, il torio e i radionuclidi ad essi associati. Tra questi ultimi, particolare importanza riveste il radon, prodotto gassoso che offre il maggiore contributo alla radioattività naturale. La componente extraterrestre é costituita dai raggi cosmici, i cui effetti sono tanto più rilevanti quanto più ci si allontana dalla superficie terrestre, e quindi dalla protezione dell'atmosfera. Ad esempio, in un volo in aereo, l'effetto dei raggi cosmici é circa 100 volte maggiore di una zona al livello del mare. E) Effetti biologici delle radiazioni ionizzanti Da quando l'uomo ha scoperto la radioattività, le proprietà di vari radioisotopi sono state sfruttate per impieghi pacifici e purtroppo, talvolta anche a scopi bellici. Ciò ha determinato, da una parte, lo studio degli effetti sull'uomo di dosi di radiazioni anche elevate, e dall'altra, lo sviluppo di principi e strumenti per una efficace protezione dalle radiazioni ionizzanti (radioprotezione). In termini molto generali, gli effetti delle radiazioni ionizzanti sull'uomo possono distinguersi in effetti immediati (detti anche deterministici) ed effetti a lungo termine (detti anche stocastici). Gli effetti immediati sono quelli che, al di sopra di un certo valore di dose, si manifestano indistintamente a tutti coloro che sono stati irradiati, entro un tempo di solito assai breve (non più di qualche giorno o qualche settimana), e per cui la gravità dei danni aumenta con l'aumentare della dose. Nella tabella qui sotto riportata è indicata la stima nell'individuo adulto della soglia di dose per effetti deterministici: Soglia di dose Equivalente di dose totale ricevuto in una singola breve esposizione(Sv) Equivalente di dose totale ricevuto per esposizioni fortemente frazionate o protratte (Sv) 0,15 3,5 NA ¹ NA Ovaie Sterilità 2,5 ÷ 6,0 6,0 Cristallino Opacità osservabili ² Deficit visivo 0,5 ÷ 2,0 5,0 5,0 > 8,0 0,5 1,5 NA NA Tessuto ed effetto Testicoli Sterilità temporanea Sterilità permanente Midollo osseo Depressione dell'emopoiesi Aplasia mortale ¹ NA indica "Non Applicabile", in quanto la soglia dipende dall'intensità di dose più che dalla dose totale ² Opacità lenticolari appena osservabili. Ad esempio: una esposizione superiore a 1 Gray comporta, come conseguenze, vomito e netta modificazione della formula del sangue; una esposizione superiore a 5 Gray può provocare il decesso per danno al tessuto emopoietico se il soggetto non è sottoposto a cure adeguate. I suddetti valori si riferiscono a una esposizione omogenea a tutto il corpo. Nel caso della radioterapia dei tumori, si arriva a somministrare dosi molto più elevate, anche oltre 40 Gray, ma concentrate limitatamente ed esclusivamente al tumore da distruggere. L'esposizione a dosi più o meno elevate di radiazioni ionizzanti può avere effetti a lungo termine che possono provocare cancro o leucemia. Tali effetti si manifestano in modo aleatorio, che non si può predire in modo certo per ciascuna persona sottoposta alle radiazioni. In questi casi, si parla di probabilità di accadimento, che cresce o diminuisce a seconda dell'entità più o meno rilevante della dose assorbita. La stima di tale probabilità è ricavata dai dati sperimentali (epidemiologia) ottenuti osservando le conseguenze dell'esposizione alle radiazioni su persone o gruppi di persone (ad esempio: i giapponesi sopravvissuti alle esplosioni nucleari di Hiroshima e Nagasaki; i lavoratori e le popolazioni limitrofe esposti alle conseguenze di incidenti in installazioni nucleari). Si è potuto così stabilire che la probabilità di insorgenza di cancro o leucemia è elevata per alte dosi, mentre è assai limitata per basse dosi. Il limite massimo di dose stabilito dalla legge italiana per le persone del pubblico è 1 millisievert (1mSv) / anno al di sopra della dose naturale di radiazioni. Secondo gli studi sugli effetti a lungo termine, questa dose corrisponde ad una probabilità di sviluppo di un cancro o leucemia mortale pari a 1 / 100.000 . F) La radioprotezione Una volta conosciute le conseguenze dannose che l'esposizione alle radiazioni ionizzanti può provocare, è stato necessario provvedere alla predisposizione di adeguate misure di protezione. E' nata così la radioprotezione, ossia un insieme di misure destinate a garantire la protezione dalle radiazioni ionizzanti dei lavoratori, della popolazione e dell'ambiente. Le regole più elementari della radioprotezione sono le seguenti: - allontanarsi dalla sorgente di radiazioni, in quanto l'intensità delle radiazioni diminuisce con la distanza (ad esempio: le installazioni nucleari sono circondate da una "zona di rispetto" che impedisce l'insediamento di attività umane nelle immediate vicinanze); - interporre uno o più dispositivi di schermatura tra la sorgente e le persone (ad esempio, nelle installazioni nucleari, la protezione dei lavoratori e dell'ambiente circostante è assicurata da una serie di schermi costituti da spessori o muri di piombo, di acciaio, di cemento, di materiali speciali); - ridurre al minimo la durata di esposizione alle radiazioni. Queste regole sono peraltro simili a quelle da prendere a riferimento per proteggersi dai raggi solari (ad esempio: l'utilizzazione di creme speciali che fungono da schermo e limitano l'esposizione). Oltre che da norme elementari di buona pratica, la radioprotezione è regolata da una severa normativa di legge. Negli Stati dell' Unione Europea, ciascuno Stato Membro è obbligato a inserire nella propria legislazione le specifiche Direttive Euratom, periodicamente aggiornate secondo i più rigorosi standards internazionali. In Italia, la legislazione fondamentale sulla radioprotezione è contenuta nel Decreto Legislativo n. 230 del 1995, recentemente aggiornato ed integrato dal Decreto Legislativo n. 241 del 2000. I principi ispiratori di tale legge, come di tutte le analoghe leggi dei Paesi dell'Unione Europea, sono i seguenti: - Principio della Giustificazione dell'attività (Le attività che comportano rischi di esposizione alle radiazioni ionizzanti devono essere preventivamente giustificate e periodicamente riconsiderate alla luce dei benefici che da esse derivano) - Principio dell'Ottimizzazione della protezione (Le esposizioni alle radiazioni ionizzanti debbono essere mantenute al livello più basso ragionevolmente ottenibile, tenuto conto dei fattori economici e sociali) - Principio della Limitazione delle dosi (La somma delle dosi ricevute non deve superare i limiti prescritti) In relazione a quest'ultimo enunciato, la legge italiana prescrive che non si debbano superare i seguenti limiti: Per i "lavoratori esposti" (lavoratori impegnati in attività che prevedono l'uso o la manipolazione di radioisotopi) al massimo 20 millisievert/anno in più rispetto alla radiazione naturale(pari, come abbiamo visto, a 2,4 millisievert/anno) Per tutti gli altri individui della popolazione: al massimo 1 millisievert/anno in più rispetto alla radiazione naturale (pari, come abbiamo visto, a 2,4 millisievert/anno). I criteri di radioprotezione che devono essere rispettati oggi per la costruzione di una nuova installazione nucleare impongono che la dose che tale nuovo insediamento determina per la popolazione circostante debba essere contenuta entro una piccola frazione rispetto al limite di legge (pari, come già visto, a 1 millisievert/anno in più rispetto alla radiazione naturale). per altre informazioni sulla radioattività per conoscere come si effettua il rilevamento e la misurazione della radioattività (cenni normativi e strumenti tecnici e unità di misura) l' uomo, le radiazioni corpuscolari ed elettromagnetiche, le radiazioni ionizzanti Le applicazioni della radioattività e delle radiazioni ionizzanti Isotopi Radioattivi Di seguito sono elencati gli isotopi radioattivi di interesse per la sanità pubblica. Per ogni elemento troverete una scheda sintetica contenente informazioni generali e FAQs. Americio Cesio 8.53 Kb Cobalto Iodio 8.11 Kb 6.83 Kb 21.50 Kb Polonio 210 21.50 Kb Plutonio 7.50 Kb Stronzio 7.01 Kb Uranio 7.03 Kb Marcatore isotopico 1 INTRODUZIONE Marcatore isotopico Isotopo di un atomo, usato per osservare le trasformazioni macroscopiche o microscopiche di determinate sostanze durante processi biologici, fisici o chimici. Benché il termine marcatore si riferisca di solito a isotopi radioattivi impiegati per tracciare l'evoluzione di sostanze non radioattive, in campo scientifico esso viene usato anche per designare isotopi stabili e caratterizzati da bassa abbondanza relativa, adatti a essere utilizzati in procedure di marcatura. Ciò che si misura è l'attività nucleare o l'abbondanza relativa dell'isotopo preso come riferimento. Per rilevare le radiazioni si usano vari tipi di strumenti quali l'elettroscopio, il contatore a scintillazione o il contatore Geiger-Müller. Nel caso in cui il marcatore sia un isotopo stabile, la ricerca può essere condotta mediante uno spettrometro di massa, che permette di determinare l'abbondanza relativa di tutti gli isotopi presenti nel campione analizzato. I marcatori sono molto importanti in tutti i settori della ricerca scientifica, in medicina, nell'agricoltura e nell'industria. 2 APPLICAZIONI IN PROCESSI MACROSCOPICI I marcatori radioattivi forniscono un metodo di analisi rapida e affidabile della dinamica dei fluidi, molto più pratico ed efficace, ad esempio, della diretta osservazione di coloranti aggiunti appropriatamente. I marcatori radioattivi sono generalmente utilizzati per individuare la superficie di separazione fra due oli diversi, contenuti nella medesima tubatura, e poterli distinguere e dirigere verso canali di scorrimento differenti. Si inietta, in corrispondenza del limite fra i due oli, un isotopo radioattivo emettitore di raggi gamma penetranti; opportuni rivelatori di radiazione, sistemati nella tubatura, rivelano il passaggio della superficie del marcatore e azionano le valvole atte ad aprire, per i diversi tipi di olio, condotti differenti. I marcatori trovano impiego anche nell'industria, in modo particolare per individuare livelli minimi di usura. Il potere lubrificante di un olio, ad esempio, può essere valutato dopo uso prolungato in un motore sperimentale, determinando il livello di usura degli anelli dei pistoni e delle pareti dei cilindri attraverso la misura della quantità di ferro trasferitasi nell'olio. Prove di questo tipo però sono lunghe e difficoltose, e vengono grandemente semplificate ricorrendo a tecniche di marcatura. Gli anelli dei pistoni vengono resi radioattivi mediante esposizione a neutroni in un reattore nucleare: dopo un breve periodo di funzionamento del motore, si misura la quantità di materiale radioattivo depositatasi dai pistoni nell'olio e sulle pareti dei cilindri, ottenendo indicazioni sulla qualità del lubrificante, rapidamente e con sforzo limitato. Marcatori radioattivi possono essere utilizzati anche per controllare la contaminazione dei coloranti usati nella tintura dei tessuti. Le macchine per tintura sono costituite da numerosi rulli, ciascuno dotato di un bagno di diverso colore: può accadere che accidentalmente durante i processi di lavorazione il tessuto trasferisca il colorante da un rullo all'altro, contaminando i bagni di colore e causando lo spreco di centinaia di metri di tessuto. Per evitare tale inconveniente, oltre al metodo tradizionale, estremamente costoso, di cambiare frequentemente i bagni di tintura, è possibile aggiungere un composto radioattivo di fosforo al colore che più facilmente può provocare la contaminazione degli altri. Il deterioramento dei bagni successivi è successivamente misurato tramite opportuni rivelatori di radiazione, che vengono automaticamente immersi nei bagni di tintura, a ritmi prefissati. Quando si rileva una quantità eccessiva di contaminante, il bagno viene sostituito con uno nuovo. 3 APPLICAZIONI SU SCALA MOLECOLARE E ATOMICA Numerose sono le funzioni svolte dalla marcatura isotopica nel campo della ricerca: in biochimica il metodo rende possibile distinguere, nell'ambito dello stesso composto, molecole che hanno provenienza diversa, pur essendo fra loro simili, e studiare i processi di sintesi e decomposizione; in biologia, è essenziale per seguire i percorsi di numerose sostanze nutritive e tossine in fase di analisi. Nella ricerca botanica e agricola, l'uso di marcatori permette di studiare l'assorbimento delle sostanze nutritive e di osservare diversi processi metabolici, in particolar modo quelli riguardanti la fotosintesi. Nella diagnostica medica, i marcatori sono usati per studiare il funzionamento di organi e tessuti: ad esempio, per valutare l'assorbimento di ormoni, minerali, vitamine, farmaci e medicinali. Anche la produzione di ormoni e proteine da parte dei diversi organi può essere misurata con elevata velocità e accuratezza. 3.1 Applicazioni nella chimica Le procedure di tracciatura, marcatura e doppia marcatura permettono di seguire i meccanismi di decomposizione e sintesi delle sostanze presenti nell'organismo, rendendo possibile l'individuazione della provenienza di ciascun atomo, anche in molecole molto complesse. Un esempio è fornito dall'analisi del gruppo eme, il componente dell'emoglobina che fornisce colorazione e capacità di trasporto dell'ossigeno, contenente nella formula chimica Fe(C32H30N4)(COOH)2 ben 34 atomi di carbonio. Il metodo della doppia marcatura permette di determinare l'origine di ciascuno di essi, distinguendo fra i due gruppi di provenienza COOH e CH3 , a loro volta costituenti dell'acido acetico (CH3COOH), il precursore di sintesi. In chimica organica i marcatori isotopici sono utilizzati prevalentemente per studiare le reazioni che implicano spostamenti e riarrangiamenti di atomi e di gruppi di atomi. In qualche caso, tramite le procedure di marcatura e doppia marcatura, è stato possibile comprendere meccanismi di reazione complessi o non del tutto chiari. In chimica inorganica, i marcatori hanno permesso lo studio di situazioni in cui non si verificano reazioni chimiche vere e proprie, ma nelle quali uno stesso elemento si manifesta in condizioni chimico-fisiche diverse, ad esempio in stati di ossidazione diversi. La tecnica di marcatura isotopica ha mostrato che si può avere uno scambio fra le due forme, senza che avvenga una definita reazione chimica: ad esempio, mescolando una soluzione di FeCl 3 con una di Fe*Cl2 (Fe marcato), si producono in breve tempo Fe*Cl 3 e FeCl2. Questi processi, logica estensione del principio chimico dell'equilibrio dinamico, sono definiti reazioni di scambio. 4 CRITERI DI SCELTA DEI MARCATORI La scelta di un isotopo stabile o radioattivo quale marcatore dipende essenzialmente dal tipo di strumenti di rivelazione a disposizione e dalla concentrazione della sostanza che si vuole osservare. Se l'elemento in studio possiede un unico isotopo stabile, è necessario ricorrere a una forma radioattiva; se viceversa gli isotopi radioattivi hanno un tempo di dimezzamento troppo breve per essere utilizzabili, è opportuno arricchire l'elemento con un isotopo stabile che in condizioni normali è presente solo in piccole quantità. La tracciatura di isotopi stabili viene effettuata con uno spettrometro di massa, in grado di fornire le variazioni rispetto al normale rapporto fra le quantità dei vari isotopi. I marcatori radioattivi, invece, sono osservati con i rivelatori di particelle. Esistono sostanze per le quali è possibile scegliere fra l'uso di un isotopo stabile o di uno radioattivo; è il caso del carbonio, che possiede un isotopo stabile (carbonio 13) e uno radioattivo (carbonio 14) o dell'idrogeno, che può esistere come deuterio, o idrogeno 2, stabile, e trizio, o idrogeno 3, radioattivo. Se sono disponibili sia uno spettrometro di massa che un rivelatore di radiazioni, la scelta generalmente si basa sul cosiddetto fattore di diluizione, il valore minimo di concentrazione del marcatore che riesce ad essere rivelato. In genere, per i marcatori radioattivi è sufficiente una concentrazione inferiore rispetto a quella richiesta per identificare i marcatori stabili, come viene mostrato nella sezione successiva, che illustra il caso del carbonio. 4.1 Fattore di diluizione: l'esempio del carbonio Il carbonio 13 rappresenta l'1,108% del carbonio presente in natura, e perciò una variazione dello 0,001% dell'abbondanza di tale isotopo può essere facilmente individuata; ciò significa che il carbonio 13 può essere rilevato dopo essere stato diluito da 100.000 a 1 milione di volte in carbonio 12, e che dunque una molecola di zucchero 'marcata' con carbonio 13 risulterà visibile in esperimenti che utilizzano un numero di molecole non marcate fra 100.000 e 1 milione, ma non superiore. Il carbonio 14 è rilevabile in concentrazioni che forniscono circa 25 disintegrazioni per minuto, in un campione che pesi 1 grammo: sulla base della velocità di disintegrazione del carbonio 14, che ha tempo di dimezzamento di circa 5760 anni, si calcola che la quantità di carbonio 14 individuabile è di circa 0,04 parti per milione (e permette fattori di diluizione fino a 25 miliardi). Considerazioni analoghe valgono anche per il deuterio e il trizio, per i quali si ottengono rispettivamente fattori di diluizione limite di 1 milione e di 10 bilioni (miliardi di miliardi). A questo proposito va ricordato che il deuterio, benchè non radioattivo, danneggia i tessuti viventi, perché pesa il doppio dell'idrogeno ed è quindi una sostanza organicamente pericolosa alla stregua dei materiali radioattivi. L'utilizzo di materiale radioattivo è comunque sottoposto a rigide norme di sicurezza e le quantità che possono essere maneggiate sono sempre molto limitate. 5 PREPARAZIONE DEI MARCATORI La disponibilità di marcatori isotopici stabili dipende dall'abbondanza naturale e dalla difficoltà presentata dal processo di separazione. Tutti gli sono in separati nel caso scambio peso. Il maggior strumenti che si basano sul principio di funzionamento dello spettrometro di massa grado di separare fra loro isotopi differenti; alcuni isotopi possono inoltre essere mediante diffusione di gas (come nel caso dell'uranio) e distillazione multipla (come dell'idrogeno). I procedimenti più semplici si eseguono mediante reazioni ripetute con di isotopi, che hanno come risultato finale la separazione degli isotopi in base al loro deuterio, il carbonio 13 e l'azoto 15 vengono preparati con questo metodo nella parte delle applicazioni. I marcatori radioattivi vengono preparati mediante il bombardamento degli elementi stabili con neutroni: i neutroni vengono catturati per formare isotopi più pesanti, che successivamente decadono emettendo particelle beta. Ad esempio, per preparare carbonio 14 si bombarda con neutroni l'azoto (elemento con numero atomico 7, maggiore di quello del carbonio per un'unità): il neutrone catturato provoca l'espulsione di un protone, riducendo di un'unità il numero atomico, ma mantenendo il medesimo numero di massa (14), e generando così l'isotopo radioattivo di carbonio.