QUADRO CONCETTUALE
1. Per una precisazione del concetto di bisogno
“II concetto di bisogno occupa un posto centrale in molte scienze sociali e in molti pensatori”
(Gasparini, 1987, 262). Tale concetto appare particolarmente significativo in un periodo di rapidi
mutamenti, in cui sembrano essere entrati in crisi gli stessi criteri di analisi della realtà umana e
giovanile in particolare. Il concetto di bisogno, trovandosi all’incrocio di varie discipline che si
occupano dell’uomo (sociologiche, psicologiche, antropologiche, filosofiche ed economiche)1, può
costituire un punto di partenza proficuo per l’oggetto della nostra indagine. Tale approccio consente
di mettere al centro il soggetto (ragazzo) e far convergere attorno a lui varie discipline per coglierne
nuove tendenze e nuovi bisogni. D’altra parte per analizzare i bisogni è necessario precisare
preliminarmente che cosa si intenda con tale termine.
1.1. La difficoltà di definire il bisogno
Il bisogno sembra un concetto molto intuitivo ed immediato, anche per l’uso quotidiano che se
ne fa. Tuttavia è difficile determinarne la natura e la specificità a livello teorico. Non aiuta certo alla
sua definizione la molteplicità degli approcci e delle interpretazioni. Per alcuni esso ha origine nella
natura umana, si manifesta come una pulsione e costituisce il punto di partenza obbligato per
qualsiasi riflessione sull’uomo: una forza originaria dell’organismo capace di spiegare tutto il
comportamento umano, senza soluzione di continuità tra aspetti materiali ed immateriali,
individuali e sociali, economici, culturali e politici2. Per altri invece il bisogno non esiste in natura:
è solo un costrutto culturale, elaborato dalle classi dominanti per imporre la propria logica di
dominio sugli altri (popoli o individui)3.
Tra queste posizioni estreme si situa tutta la gamma dei vari approcci che riconoscono al
concetto di bisogno la capacità o meno di dire qualcosa sull’uomo. Di fatto tale concetto è spesso
1 “I bisogni umani sono stati sempre oggetto costante di ricerca da parte delle diverse discipline. […] La filosofia è stata la prima a
cercare di chiarire il concetto di bisogni, privilegiando come origine di essi ora la natura, ora la cultura. Gli economisti hanno cercato
di concepirli come il motivo principale della crescita della società del benessere. Altre tendenze economiche hanno analizzato i
bisogni come manipolati dalla società finalizzata al progresso tecnologico in funzione del profitto, a scapito dei reali interessi
dell'uomo. La psicologia, a sua volta, ne ha cercato l'origine ora nella natura istintuale dell'uomo, ora in quella sociale, attribuendo la
ricerca della sua realizzazione come persona umana alla natura umana aperta. Dalla psicopedagogia emergono anche i bisogni
formativi propri del periodo evolutivo adolescenziale. I ricercatori e i pianificatori sociali, a loro volta, si sono serviti dei contributi
multidisciplinari per la valutazione della condizione di vita delle popolazioni, puntando sui bisogni sia sul polo del disagio, come
«mancanza» di risorse, che sul polo della qualità della vita, come «tensione» verso uno standard accettabile di vita” (Caliman, 1997,
61-62).
2 E’ tipico dell’approccio funzionalista la tendenza a postulare la continuità tra bisogno come espressione dell’organismo e cultura
come risposta al bisogno. In particolare Malinowski “si riferisce a un «organismo umano» o «societario» caratterizzato da una
complessità di variabili che vanno dal livello biologico a quello psicologico a quello sociale a quello culturale. Egli parte da due
assiomi: (1) che ogni cultura deve soddisfare il sistema biologico di bisogni; (2) che la manifestazione culturale è una
«intensificazione strumentale dell'anatomia umana e si riferisce direttamente o indirettamente al soddisfacimento di un bisogno del
corpo» (Malinowski 1971, 77). Le istituzioni sociali rappresentano le risposte culturali indirizzate alla soddisfazione dei bisogni a
livello sociale” (Caliman, 1997, 87-88).
3 Per esempio Braudillard vede i bisogni non tanto «come forza innata, infusa, appetenza spontanea, virtualità antropologica, ma
come funzione indotta negli individui :dalla logica interna del sistema, più esattamente, non come forza consumativa "liberata" dalla
società d'abbondanza, ma piuttosto come forza produttiva richiesta per il funzionamento del sistema stesso, per il suo processo di
riproduzione e di sopravvivenza» (cit. da Gasparini, 1987, 268).
impiegato nelle scienze sociali e dell’uomo, accettandolo per significato intuitivo che esso ha, senza
porsi problemi di definizione teorica.
Risulta invero difficile accertare l’esistenza di questa energia a livello originario 4, per cui,
soprattutto in campo sociologico, si tende ad identificare il bisogno con l’oggetto verso cui si dirige.
Se è vero che bisogno non è rintracciabile allo stato puro, ma solo nelle sue oggettivazioni storiche5
è opportuno non confonderlo con queste. Esso comprende sia uno “stato di bisogno” (la domanda),
sia un “oggetto del bisogno” (la risposta), storicamente e culturalmente determinato6. E’ più facile
che nelle indagini ci si rivolga all’oggetto del bisogno più che allo stato, ma ci dev’essere la
cossapevolezza della duplice natura del bisogno7.
Tenendo conto di tutte queste osservazioni, ci sembra che la definizione più appropriata di bisogno sia
quella data da Gasparini, su una traccia di Chombat de Lauwe: “il bisogno risulta definito come tensione
di un organismo o di un individuo o di un gruppo, orientato a individuare una concreta soluzione
(oggetto, modello culturale, ecc.) che ricostituisca un equilibrio compromesso da una carenza”
(Gasparini, 1987, 268).
Tale definizione va completata con altri elementi che più analiticamente contribuiscono a
identificare il bisogno: “a) i valori, gli ideali, gli stimoli da realizzare e da soddisfare; b) la
tensione dell'individuo e/o del gruppo alle «cose» che realizzano l'equilibrio implicato nei valori e
negli ideali sociali del gruppo; c) le cose e cioè gli oggetti verso cui tende- l'individuo o il gruppo;
d) il riprodursi costante di questa ricerca di un equilibrio, ed infine e) la relatività di questa
tensione per le categorie” (Gasparini, 1987, 267).
Più semplicemente si può anche affermare che “l'esistenza di un bisogno, presuppone: 1) il
verificarsi di una sensazione dolorosa e la tendenza (che può divenire desiderio) verso una
sensazione piacevole; 2) la conoscenza (più o meno determinata) di un mezzo capace di prevenire,
decrescere, eliminare la prima, oppure di provocare, conservare o accrescere la seconda; 3) la
possibilità di procurarsi tale mezzo affrontando un sacrificio” (Fossati, 1957, 702-703).
Per indagare sulle caratteristiche del bisogno, a livello di “stato”, la sociologia si avvale del
contributo di altre discipline, soprattutto della psicologia, della filosofia o dell’economia. Noi ci
avvarremo soprattutto della psicologia per la sua maggior attinenza all’oggetto della nostra
indagine: gli adolescenti.
1.2. I bisogni umani fondamentali
Molteplici sono i bisogni umani, praticamente impossibile identificarli tutti, anche perché, man
mano che l’umanità produce benessere, nuovi bisogni escono dall’indistinto per specificarsi e
chiedere soddisfazione. Per questo vari autori, per ragioni di studio, hanno tentato di identificare i
bisogni umani fondamentali e di elaborarne delle tipologie che aiutino nella classificazione e nello
studio.
4 S.E. Asch afferma che «nessun bisogno fa riferimento o contiene una rappresentazione degli oggetti che lo possono soddisfare...
Quando tale relazione (tra organismo e oggetto) è stata sperimentata ed ha modificato l'organismo lasciandovi una sua traccia, noi
possiamo osservare il passaggio da una condizione di bisogno ad uno stato di motivazione» (Asch, cit. da Gasparini 1987, 263).
5 “Il concetto di bisogno si sviluppa storicamente tra un approccio naturalistico e uno sociologico. In alcuni momenti storici i
bisogni sono stati intesi prevalentemente come aventi origine nella natura umana e in altri nella cultura. Le tendenze si alternano
secondo varie prospettive, di natura filosofica, psicologica, economica e sociologica” (Caliman, 1997, 64).
6 “Non è una chiarificazione dappoco il distinguere la situazione di bisogno dall'oggetto che la soddisfa, poiché, se è la prima che
bisogna rilevare e soddisfare, è con la individuazione dell'oggetto che si può concretamente pensare di soddisfare la situazione di
disagio. È necessario perciò individuare un oggetto esterno che permetta di superare il disagio dello stato di necessità. Tale oggetto
(bisogno-oggetto) dovrà essere congruente al bisogno-stato che deve soddisfare, e cioè dovrà costituire una risposta «adeguata» alla
domanda implicata nello stato di necessità (bisogno-stato). In caso contrario l'oggetto non costituirà un bisogno: «reale», ma indotto e
alienato. Tale bisogno-oggetto può essere materiale, come il cibo, l'alloggio, l'organizzazione dello spazio alloggiativo, ma anche non
materiale; come il perseguimento di certe mete o di certi valori” (Gasparini, 1987, 271).
7 Questa duplice attenzione ai due aspetti del bisogno permette di superare la critica avanzata da quegli studiosi che scorgono nella
teoria dei bisogni solo una costruzione ideologica, fatta per ridurre l’altro alla propria dipendenza.
2
1.2.1. Tipologie dei bisogni
“I bisogni possono distinguersi in varie categorie. Due classificazioni hanno particolare rilievo:
quella che si riferisce alla loro importanza, e quella che si riferisce alla loro manifestazione in
riguardo al tempo. Essi possono essere così distinti in relazione alla loro importanza in : 1) primari
(bisogni la soddisfazione dei quali è indispensabile o quasi indispensabile all'esistenza); 2)
secondari; in relazione al tempo in: 1) occasionali; 2) ricorrenti; 3) presenti; 4) futuri” (Fossati,
1957, 703).
“Secondo Ribot, i bisogni si presentano sotto una duplice forma: o esprimono una mancanza,
un ‘deficit’, o manifestano un eccesso, l'esistenza di qualcosa di superfluo da eliminare. C'è
comunque un punto di convergenza: la conservazione dell'individuo (La psychologie des
sentiments, Parigi 1897, pp. 10-11). G. Dumas distingue due gruppi di bisogni: quelli relativi alla
vita dell'individuo (fame, sete, ecc.), e quelli relativi alla vita della specie (bisogno sessuale,
materno). Tra i primi distingue ancora: bisogni di acquisizione, di evacuazione, di consumo, di
riparazione e di stimolazione (Les besoins, in Nouv. Traité de psych., II, Parigi I932, p. 444). Per
Pradines tre sono le categorie di bisogno, secondo l'evidenza degli oggetti naturali dell'attività di
relazione elementare : b. alimentari, b. sessuale, b. sociale (Traité de psychologie générale, I, Parigi
1946, p. 169). Evidentemente i bisogni si innestano anzitutto sugli istinti, ma esistono anche bisogni
abituali, manifestazioni periodiche di tendenze ‘derivate’ (il b. di tabacco o di alcool); d'altra parte,
poiché la soddisfazione delle tendenze individuali viene di solito regolata dal gruppo a cui
l'individuo appartiene, il bisogno si plasma e si adatta alle esigenze sociali” (Cattonaro, 1957, 702).
Doyal e Gough (1999), dopo un ampio excursus sulle principali teorie dei bisogni e sulle
condizioni di vita in tutti i continenti e culture, affermano che due sono i bisogni fondamentali
dell’uomo: la salute e l’autonomia. Questi solo sarebbero bisogni universali ed oggettivi.
Molto nota è la classificazione dei bisogni fondamentali di Maslow. Anch’egli accetta la
distinzione tra bisogni primari e secondari, così ripartendo i bisogni fondamentali:
a) bisogni primari, fisiologici (o materialisti):
1. bisogno di sostentamento,
2. bisogno di sicurezza;
b) bisogni secondari, sociali e di autorealizzazione (post-materialisti):
3. bisogno di appartenenza e amore,
4. bisogno di stima,
5. bisogni intellettuali ed estetici.
Dato per scontato che i bisogni di base o primari siano più o meno riconoscibili da tutti,
diventa invece più problematico definire i bisogni di più alto livello. Mentre i primi dipendono dalla
biologia o da una psicologia elementare (sicurezza), i secondi sono più propriamente “umani” e
quindi suscettibili del principio di soggettività, o comunque comprensibili solo all’interno di una
certa cultura che li riconosce e ne orienta la soddisfazione8.
Anche altri autori hanno trattato dei bisogni più elevati, sottolineandone l’importanza per il
nostro tempo. Fromm ha sottolineato i bisogni esistenziali che corrispondono a quelli di amore, di
trascendenza, di creatività, di radicamento e di appartenenza, di identità e di individualità, di
sistema di orientamento e di devozione. Frankl, a sua volta, ha sviluppato la riflessione sul bisogno
di significato della vita.
Caliman, dopo avere esaminato vari autori, classifica complessivamente i bisogni nelle
seguenti unità: a) bisogni di base, derivati dalla natura umana biologica, come i bisogni di
mangiare, bere, dormire, ecc.; b) bisogni sociali, prolungamento nell’ambito sociale dei bisogni
fisiologici: alimentazione, abitazione, vestiario, igiene, acqua, energia, sanità, trasporti, educazione,
8 Come aveva già acutamente osservato C. Tullio-Altan (1974), tolti i bisogni più elementari, tutti gli altri sono frutto di una
precomprensione ideologica o filosofica, scientificamente non dimostrabile. Anzi, più si sale nella scala gerarchica meno appare
l’evidenza di un determinato bisogno e più invece emerge la componente soggettiva.
3
lavoro, credenza e appartenenza; c) bisogni post-materiali, che oltrepassano la soglia dei bisogni
fisiologici, materiali e fondamentali, connessi con la realizzazione della persona, la ricerca di
significato, di trascendenza, di una miglior qualità della vita. Per ultimo arrivano i bisogni più
“alti”, prolungamento dei precedenti: d) bisogni esistenziali, di affetto, stima, autorealizzazione, di
senso della vita e trascendenza. Questi bisogni vengono messi a confronto nella tabella sottostante.
Tab. 6.1. Principali categorie dei bisogni
R. Gritti
B. di base
B. di mangiare
B. di bere
B. di respirare
B. di dormire
B. di riprodursi
B. sociali
Abitazione
Vestiario/mobilio
Igiene pubblica
Acqua / Energia
Sanità / Trasporti
Educazione
Lavoro
Appartenenza
A. Maslow
(B. fondamentali)
Altri autori
(E. Fromm;
V. Frankl)
R. Inglehart
L. Gallino
B. fisiologici
B. materiali
B. materiali
B. post-materiali B. post-materiali
B. esistenziali
B. di sicurezza
B. di affetto
Religione
B. di stima
B. di autorealizzazione
B. esistenziali
(E. Fromm)
B. postmateriali
B. di trascendenza
B. di senso della vita
(V. Frankl)
Fonte. Caliman, 1997, 155.
Va comunque riconosciuta una difficoltà oggettiva a determinare tutti i bisogni e a raccoglierli
in tipologie specifiche. Infatti ogni tipologia, o individuazione di bisogni, obbedisce a categorie
scientifiche specifiche, basata su principi indimostrabili, come riconosce lo stesso Caliman: “Una
tipologia dei bisogni si presenta problematica per il fatto che ve ne sono molte a seconda della
prospettiva all'interno della quale essi vengono considerati (filosofica, psicologica, sociologica
ecc.), dalle correnti che ne risultano e dallo scopo al quale esse servono” (Caliman, 1997, 104).
Pertanto le categorie o tipologie di bisogni vanno utilizzate secondo l’utilità pratica e l’impiego
che se ne fa, senza pretendere che esse valgano in assoluto. Soprattutto se si tiene conto che, man
mano che l’umanità progredisce, emergono e acquistano identità bisogni che prima non apparivano.
Infatti i bisogni emergono e si specificano anche in rapporto al sistema sociale. Chombart de Lauwe
che ha analizzato tale problematica, pur distinguendo tra un bisogno che è già obbligo e un bisogno
che è ancora aspirazione, afferma che tale distinzione è relativa. “Il bisogno-obbligo non è
solamente quello primario ma anche il secondario, la cui soddisfazione è una condizione di
sussistenza e quindi necessaria all'individuo o al gruppo per vivere fisicamente e socialmente.
Assicurata questa soddisfazione, le aspirazioni si liberano e si differenziano, con tanta maggiore
rapidità ed estensione quanto più a lungo sono state represse, e le loro potenzialità incidono
talmente nella società così da imporne delle trasformazioni socio-economiche. D'altra parte i
bisogni-aspirazioni, approfondendo la presa sugli individui o sul gruppo o sulla società, riportano a
livelli sempre più elevati la soglia della necessità, trasformandosi così progressivamente in bisogniobbligo” (Gasparini, 1987, 266-267).
In effetti le analisi sociologiche di questi anni confermano la spinta sempre più in alto della
soglia dei bisogni, con la comparsa di nuovi, precedentemente non evidenziati.
4
1.2.2. Caratteristiche del bisogno
In ogni caso, per un primo approccio al tema dei bisogni terremo presente l’impostazione di
Maslow, per due motivi. Innanzitutto perché la sua classificazione ha fornito la base per analisi
sociologiche come quelle condotte da Inglehart. In secondo luogo perché tale autore ha una visione,
come tutto il gruppo di psicologi umanisti (Rogers, Allport, ecc.) cui appartiene, che riconosce
all’uomo un ruolo attivo nella realizzazione di se stesso. Realizzazione che tiene conto sia del dato
biologico che dei condizionamenti sociali, ma non si limita a gestire queste esigenze, tende invece
ad un “oltre”, ad utilizzare tutte le potenzialità dell’individuo per un fine, un progetto su cui
investire per realizzare la propria vita (autorealizzazione). Questo tipo di approccio al bisogno viene
chiamato anche “realista”9.
Secondo tale prospettiva il bisogno ha le seguenti caratteristiche:
a) La soggettività: cioè trova la sua sorgente nel soggetto. Il bisogno implica un soggetto che lo
riconosce e lo prova, anche se non tutti i bisogni sono identificati o percepiti dall'individuo.
Anche la soddisfazione può essere soggettiva, ma all’interno dei beni offerti da un
determinato contesto sociale.
b) La tensione: il bisogno tende verso l’oggetto che lo può soddisfare. Questa tensione, a livello
di bisogni di base, s'impone al soggetto come una necessità, un'esigenza, uno stimolo che
dev’essere appagato (motivo da deficit). In questo caso l'individuo ricerca l’equilibrio
perduto, condizione per la sua sopravvivenza (omeostasi). Lo scopo è quello di ridurre la
tensione. Il soggetto è dominato da un principio di necessità che appare nei bisogni di origine
biologica e, in maniera analoga ma non uguale, in quelli di tipo sociale. Invece per i bisogni
non materiali (bisogni secondari o postmaterialisti), costituiti da fini da conseguire come
quelli esistenziali, di significato, di trascendenza, non si parla più di una ricerca di equilibrio
(omeostasi), ma di tensione verso mete non più dettate dall'organismo, ma dal soggetto, dalla
sua libertà di scelta e di valorizzazione dei fini (motivo di crescita). In questo caso la
tensione non va ridotta, ma va invece continuamente alimentata.
c) La proattività: la spinta alla realizzazione dell’uomo nella sua totalità. La persona ha una
tendenza fornita dalla natura umana: questa è costituita da un'intenzionalità finalizzata a
perseguire obiettivi, fini e valori che la portano alla realizzazione del suo essere. Maslow
intende tale tendenza come `self-actualization' o autorealizzazione.
d) La plasticità: ossia la capacità di adattamento a situazioni molto diverse, sia ambientali che
personali. E’ il continuo, anche se graduale, cambiamento dei bisogni e delle modalità della
loro soddisfazione. Considerando i bisogni umani, si può affermare che non esiste una
connessione tra uno specifico bisogno e una determinata risposta. I bisogni, in quanto storici,
possono essere soddisfatti da una larga modalità di risposte. Inoltre si moltiplicano e
cambiano con la cultura, la quale offre modelli di soluzione, valori, norme e fini diversi e
molteplici.
1.2.3. L’organizzazione gerarchica e dinamica dei bisogni
Il bisogno, secondo Maslow, è animato da un principio progressivo e gerarchico. In quanto
elemento naturale, il bisogno manifesta un dinamismo finalizzato a fornire all'organismo umano le
risorse per la sopravvivenza. Da questo dinamismo emerge una organizzazione che dà più
9 Si può rinvenire all’interno della storia delle teorie sui bisogni tre tipi di approcci: oggettivista, soggettivista e realista.
L’approccio oggettivista tende a far dipendere i bisogni dalla componente biologica (positivismo e funzionalismo), quello
soggettivista o socializzante intende i bisogni come un prodotto dei rapporti umani, elaborati nell’interazione sociale (interazionismo
e etnometodologia), quello invece “realista” tenta di accogliere e mettere insieme i contributi dell’approccio oggettivista con quelli
dell’approccio soggettivista (cfr. Caliman, 1997, 101)..
5
importanza ai bisogni immediatamente necessari alla vita, come quelli di aria, di cibo, di acqua, di
calore, ecc., o alla specie (riproduzione).
L'appagamento di questi lo mette in condizione di avvertire un'altra serie di bisogni; il primo
dei quali, gerarchicamente superiore, Maslow chiama “bisogno di sicurezza”, intesa come stabilità e
dipendenza da un protettore efficiente. Tale sicurezza porta alla libertà dalla paura, dall'ansia e
implica la garanzia della legge, delle norme di vita sociale e dell'ordine. In termini meno
psicologici, questo tipo di “bisogno” è strettamente legato e soddisfatto dall'organizzazione e dal
funzionamento del sistema sociale.
Quando nella società si manifestano le condizioni che assicurano la soddisfazione del bisogno
di sicurezza, questa viene data per scontata; gli uomini cominciano allora ad avvertire una nuova
serie di bisogni, esclusivamente umani, quali il bisogno di partecipazione alla vita comune, di
amore; di stima e di autorealizzazione. I valori e le norme producono veri sistemi di significato che
diventano il riferimento per il perseguimento dei bisogni. La gerarchia che scatta dall'assunzione di
un sistema di significato è il prodotto delle norme sociali interiorizzate e dei valori condivisi da una
società e questi valori e norme diventano il riferimento per i nuovi bisogni.
L'articolazione della gerarchia dei bisogni descritta da Maslow è presente anche in Malinowski
e in Marx, seppure in termini più impliciti. Così ai bisogni di base corrispondono gli “imperativi
primari di base” di Malinowski e i “bisogni fisici” di Marx, al bisogno di sicurezza corrispondono
gli “imperativi derivati” di Malinowski e una certa accezione dei “bisogni sociali” di Marx, ed infine
ai metabisogni corrispondono gli “imperativi integrativi” di Malinowski e il “bisogno ricco” di
Marx.
L'organizzazione gerarchica e dinamica dei bisogni viene spesso contestata; per alcuni studiosi
resta ignoto il principio di questa strutturazione, per altri queste classificazioni sono a-empiriche,
non possono essere provate e non si mostrano produttive; oppure sono una funzione indotta
nell'individuo dalla logica interna del sistema o della produzione e consumo a servizio della
differenza sociale. Tuttavia le prove empiriche offerte dalle ricerche di Inglehart, che in trent’anni
hanno ormai monitorato circa l’80% della popolazione mondiale10, danno a questa teoria un
notevole valore anche se manca di fondamento teoretico.
1.3. I bisogni formativi
Un’altra tipologia possibile dei bisogni è quella dei “bisogni formativi”, particolarmente
utile quando si tratta dell’età evolutiva. All’interno dei bisogni formativi si possono riconoscere
quelli oggetto dell’educazione intenzionale e quelli più collegati al processo di socializzazione.
I primi sono frutto di una “serie di azioni e di interventi voluti e specifici, predisposti
secondo un certo ordine metodico e posti da chi ha compiti e responsabilità educative,
individualmente e/o collettivamente, in vista di favorire e promuovere il processo formativo e
propriamente educativo dell'educando” (Nanni, 1984, 31). Questi sono bisogni rivolti alla
preparazione del soggetto alle competenze e ai compiti della vita adulta attraverso le vie specifiche
della scolarizzazione e della formazione professionale.
I secondi sono collegati alla dimensione socializzante, cioè a “tutte quelle influenze
educative sulla personalità in sviluppo che sortiscono, senza piano né scopo volutamente educativo,
dalle forse socio-culturali, politiche , economiche o dall’ambiente” (Nanni, 1984, 31). Tali
interventi hanno attinenza con “il senso di appartenenza culturale e gruppale, le relazioni di
fidanzamento, le relazioni con i soggetti e i gruppi sul territorio ecc. Essi riguardano soprattutto il
bisogno di appartenenza, di sentirsi membro effettivo e inserito nel proprio gruppo” (Caliman,
1997, 154-155).
10
Cfr. il sito web dell’Università del Michigan dove Inglehart insegna: http://wvs.isr.umich.edu/index.html del 24. 05.2003.
6
I bisogni formativi possono essere assimilati al concetto di “compiti di sviluppo”. Tale
nozione, mutuata dalla teoria di Havighurst, sta ad indicare la serie di problemi che l'individuo si
trova progressivamente ad affrontare, la cui mancata risoluzione comporta gravi difficoltà per lo
sviluppo successivo.
Questa suddivisione dello sviluppo in tappe sembra potersi accordare anche con la tensione
alla autorealizzazione prevista da Maslow. Infatti, possiamo considerare ogni tappa della vita un
momento di autorealizzazione particolare, con una propria maturità da raggiungere. La tensione
all’autorelizzazione (e quindi il bisogno di…) si manifesterebbe perciò sia all’interno di ogni fase,
sia come tensione finale, che è possibile raggiungere così solo in età avanzata (o forse mai, visto il
carattere ideale che ha questa tappa nella prospettiva maslowiana).
1.3.1. La teoria degli stadi di sviluppo
Il concetto di compiti di sviluppo di Havingurst prende a sua volta le mosse dalla teoria
degli stadi psicosociali di Erik H. Erikson, il quale ipotizza che ogni età abbia un compito
particolare da svolgere in base al livello della sua evoluzione psicofisica e della sua interazione con
l’ambiente11. Secondo Erikson, infatti, ogni stadio di vita dell’uomo è caratterizzato da un dilemma
cruciale (o compito), che dev’essere risolto per passare a quello successivo. Sottostante a questa
concezione c’è il convincimento che esista un momento favorevole o “critico” per apprendere
determinati comportamenti e superare gli ostacoli, altrimenti non è più possibile o diventa molto più
difficile farlo. In quel periodo della vita l’individuo percepisce l’urgenza di rispondere al compito
specifico (che quindi si configura come un bisogno) ed ha in sé l’energia per risolverlo. Se il
soggetto riesce a trovare la soluzione giusta ha raggiunto la maturità specifica del momento ed è
pronto ad affrontare con successo i compiti delle età successive. Se invece non è riuscito a
risolverlo, esso gli rimarrà come compito insoluto, che richiederà di essere affrontato in un
momento successivo. Ma questo con maggior fatica, impegno e coraggio.
John C. Coleman, con la sua “teoria focale” ha rivisto la teoria degli stadi di Erikson e l’ha
modificata in tre punti:
“In primo luogo, la soluzione di un problema non è considerata come una conditio sine qua
non per passare a quello successivo. […] In secondo luogo la teoria non assume l’esistenza
di confini precisi fra gli stadi, e perciò i problemi non sono indicati necessariamente ad
un’età o livello di sviluppo particolari. Infine non c’è nulla di immutabile nella sequenza
ipotizzata. Nella nostra cultura, sembra più probabile che gli individui affrontino certi
problemi nelle prime fasi dell’adolescenza e ulteriori problemi in altre fasi, ma la teoria
focale non postula una sequenza fissa” (Coleman 1983, 234);
La teoria di Coleman sembra recepire meglio le possibilità di adattamento delle persone,
soprattutto adolescenti, e offrire maggiori strumenti per recuperare persone che hanno fallito in un
compito di sviluppo particolare.
In ogni caso la suddivisione in tappe di sviluppo sembra un concetto ormai acquisito per
psicologia evolutiva. Si può forse discutere su qualche punto particolare, come ha fatto Coleman, o
sull’età in cui questi compiti emergono, ma l’evoluzione è costante e continua, anche se nella vita
11 Scala dei compiti o momenti critici di ogni età, con l’indicazione dell’elemento che costituisce l’energia di base fornita dalla
natura per affrontare positivamente il compito
1.
Infanzia: Fiducia di fondo vs. sfiducia di fondo. Energia di base: speranza;
2.
Prima fanciullezza: Autonomia vs. dubbio e vergogna. Energia di base: volontà:
3.
Età del gioco: Iniziativa vs. senso di colpa. Energia di base: finalità;
4.
Età scolare: Industriosità vs. senso di inferiorità. Energia di base: competenza;
5.
Adolescenza: Identità vs. confusione d’identità. Energia di base: fedeltà;
6.
Giovinezza: Intimità vs. isolamento. Energia di base: amore;
7.
Età adulta: Generatività vs. stagnazione. Energia di base: cura;
8.
Età senile: Integrità vs. disperazione e disprezzo. Energia di base: saggezza (cfr. Erikson 1984, 56-57).
7
dell’individuo possono alternarsi momenti critici, o turbolenti, a momenti di tranquillità. Inoltre
queste tappe vanno commisurate al grado di sviluppo specifico di ogni persona. Ogni fase ricapitola
la precedente e su di essa si innesta per svilupparsi ulteriormente. Talmente che qualcuno ha
prospettato un andamento a spirale (Deconchy, 1966; cfr. Arto 1990, 104).
Anche la teoria del “ciclo vitale” assume in sostanza questo concetto.
1.3.2. Il bisogno di identità
Il compito di sviluppo o la difficoltà più grande che l’adolescente deve affrontare è quello di
definire la propria identità. Questo concetto, pur nella varietà di definizioni e nei problemi teorici
che pone, ha assunto un ruolo di mediazione tra individuo e società e risulta funzionale per
collegare esigenze personali, soprattutto di sviluppo e meccanismi sociali.
Il concetto di identità è impiegato da varie discipline ed è stato elaborato secondo diversi
approcci teorici: di conseguenza ha assunto una molteplicità di significati, non sempre coerenti tra
loro. Nonostante questa varietà, secondo Tessarin (1987, 970), si può arrivare ad un certo accordo
sul significato del termine.
Genericamente si può definire l'identità come l'aspetto centrale della «coscienza di sé »,
come rappresentazione e consapevolezza della specificità del proprio essere individuale e sociale.
“L'identità è l'appropriazione e la definizione, da parte del soggetto, delle caratteristiche specifiche
della propria personalità e della collocazione del sé in rapporto agli altri nell'ambiente sociale; è in
sostanza il sistema di rappresentazioni in base al quale l'individuo sente di esistere come persona, si
sente accettato e riconosciuto come tale dagli altri, dal suo gruppo e dalla sua cultura di
appartenenza” (Tessarin, 1987, 970).
Quindi il termine “identità” esprime allo stesso tempo sia il concetto di uguaglianza (una
cosa identica all’altra) sia quello di diversità (l’unicità della persona e quindi la sua diversità). Il
processo di costruzione dell’identità avviene passando attraverso due tappe: la prima, in accordo
con il primo dei due significati del termine, si basa sull’identificazione con l’altro, la seconda sulla
differenziazione dall’altro. La prima fase porta ad avere un modello di riferimento, ossia l’ideale
dell’Io, la seconda consente di aderire o di differenziarsi da questo modello ideale. E’ un processo
di cambiamento continuo che inizia fin dalla nascita, che ha i suoi periodi più importanti e delicati
nel primo anno di vita e nell’adolescenza, ma che continua per tutta la vita.
In campo psicologico è soprattutto alla psicologia dell'Io e a lavoro di Eric H. Erikson che si
deve una delle migliori formulazioni del concetto. I tratti fondamentali dell'identità, secondo
Erikson, sono il senso di continuità, coerenza e solidarietà con i valori del gruppo di appartenenza.
L'identità sarebbe dunque una struttura stabile e permanente che viene acquisita dall'individuo
attraverso l'integrazione di tutte le identificazioni infantili.
Secondo lui, l'identità che il ragazzo aveva costruito prima dell’adolescenza era ancora
"provvisoria", legata prevalentemente alle identificazione e proiezioni infantili. Nell'adolescenza
egli deve approdare ad una identità "finale" in cui siano integrati armonicamente in un complesso
unico e possibilmente coerente “dati costituzionali, esigenze libidiniche idiosincratiche, capacità
preferite, identificazioni significative, difese efficaci, sublimazioni ben riuscite e ruoli consistenti”
(Erikson, 1974, 192).
Nel frattempo il soggetto si trova in una stato confusionale per il fatto che non è più l'essere
che era prima e non sa ancora quello che sarà in seguito. E la "crisi d’identità"12.
Questa situazione di incertezza e confusione crea nell'adolescente una situazione di stallo, di
incapacità ad orientarsi e a decidere, che viene denominata "moratoria psicosociale": un momento
in cui l'individuo sospende le decisioni e la stessa società diventa più tollerante e comprensiva nei
12 Per Erikson il termine “crisi” non ha una connotazione negativa, é solo una situazione di passaggio, "una svolta necessaria, un
momento cruciale in cui lo sviluppo deve procedere in un senso o nell'altro" (Erikson, 1974, 16)
8
suoi riguardi13. Egli è impegnato su vari fronti: in una ricapitolazione delle identificazioni
precedenti, nell'affrontare eventuali compiti di sviluppo non risolti a suo tempo, nell'esplorare le sue
capacità e potenzialità e nell'acquisire nuove competenze, nel cercare nuovi e significativi modelli
al di fuori della cerchia familiare e nell'individuare i ruoli ed il posto che gli spetta nella società. Per
far questo, secondo la prospettiva di Erikson, dovrebbe venirgli incontro la società che attraverso
un'ideologia14 lo dovrebbe aiutare a costruirsi un'identità culturale, per permettergli di dar senso e
coerenza alle sue azioni. Inoltre dovrebbe offrirgli un posto in società, attraverso un lavoro ed il
riconoscimento delle sue capacità e della sua originalità attraverso cui assumere un suo ruolo e
godere di un proprio status15.
1.3.3. I bisogni adolescenziali
La condizione adolescenziale e giovanile richiede la soddisfazione di particolari bisogni, che
riguardano soprattutto la formazione della personalità, l'integrazione nella società e nel gruppo dei
pari, il contatto con persone significative di riferimento, ecc.
Fra i principali bisogni vi sono: l'affrontare i cambiamenti fisici, il gestire le relazioni con i
pari dello stesso sesso o di sesso opposto, il richiedere maggiore autonomia e indipendenza, il
relazionarsi alle istituzioni sociali, lo scegliere un sistema di valori, il costruire il concetto di sé, il
rapportarsi ad una prospettiva temporale più ampia (cfr. Palmonari, Pombeni, Kirchler, 1989). Tali
bisogni o compiti possono differire da cultura a cultura ed anche all'interno della stessa cultura vi
possono essere delle priorità diverse. Havighurst fece anche una lista di tali compiti, che però
risentiva del momento storico e della situazione ambientale in cui venne elaborata. In effetti il
problema di stabilire quando comincia e finisce l’adolescenza (o le altre fasi della vita), quali sono i
compiti cui essa deve rispondere è uno dei problemi più dibattuti nel settore. Quel che appare ormai
sempre più evidente è il peso delle coordinate storico-culturali nel determinare questa fase dell’età
che appare sempre più “come una categoria di tipo sociale e culturale che semplicemente biologico”
(Tonolo, 1999, 31). In ogni caso, un prestigioso studioso italiano della materia (Pamonari, 1993) ha
indicato i limiti di quest’età “fra gli 11 e i 18 anni” (p. 43). Ma da una ricerca successiva risulta che
la definizione dell’identità in Italia arriva molto più probabilmente verso i 22-23 anni (Tonolo,
1993).
Pertanto, secondo vari autori i bisogni o compiti di sviluppo o bisogni fondamentali possono
essere:
A. Secondo Palmonari:
13 - "La moratoria é un periodo di attesa concesso a chi non é pronto a far fronte ad un obbligo o imposto a qualcuno che deve
prender tempo. Moratoria psicosociale vuol dire dunque un indugio nell'assumere impegni da adulto; ma non è soltanto un indugio.
E' un periodo caratterizzato da una permissività selettiva da parte della società e da una provocante leggerezza da parte dei giovani;
eppure molto spesso implica un impegno profondo, sia pure frequentemente transitorio, da parte dei giovani ed una conferma
dell'impegno, più o meno ufficiale, da parte della società" (Erikson 1974, 185).
14 - Per Erikson ideologia non ha un significato politico, bensì è "un fatto ed un bisogno psicologico, collegato a fenomeni politici,
ma non da essi spiegato" (Erikson 1974, 249). Essa rappresenta l'insieme degli ideali, dei valori, delle tradizioni e delle istituzioni
tipiche di una società. Potremmo forse più propriamente chiamarla, per rimanere più legati alla terminologia sociologica, cultura.
15 - Per status si intende "una posizione in un sistema sociale che implica aspettative reciproche di azione rispetto a coloro che
occupano altre posizioni nella stessa struttura". I criteri di attribuzione dello status sono il sesso, l'età, la parentela; inoltre altri fattori
sociali come la differenza nelle abilità degli individui, la diversità nelle difficoltà inerenti ad un compito, la diversità d'importanza dei
vari tipi di lavoro.... "Ogni individuo in qualsiasi momento della sua vita occupa più di uno status. Alcuni di questi status rimarranno
sostanzialmente immutabili (razza, sesso, religione, posizione nella famiglia, ecc.). altri invece cambieranno secondo le circostanze.
[...]. Qualunque sia il numero e la qualità delle posizioni che un individuo occupa nella società egli in qualsiasi fase della sua vita
occupa sempre uno status o posizione generale, distintiva nella comunità o nella società, che da E. T. Hiller è stato chiamato statuschiave" (Bartoli 1987, 2057-2060).
"Un ruolo rappresenta lo stato dinamico dello status. L'individuo socialmente è assegnato ad uno status che egli occupa in
relazione ad altri status. Quando egli usa i diritti e doveri che costituiscono lo status, egli svolge un ruolo" (Linton cit. da Bartoli
1987, 2060).
9
1) compiti di sviluppo in rapporto con l’esperienza della pubertà ed il risveglio della
pulsioni sessuali;
2) compiti di sviluppo in rapporto con l’allargamento degli interessi personali e sociali e
con l’acquisizione del pensiero ipotetico deduttivo;
3) compiti di sviluppo in rapporto con la problematica dell’identità (o della
riorganizzazione del concetto di sé)” (Palmonari, 1993, 61).
B. Secondo Milanesi, a livello psico-sociologico, l’adolescente ha bisogno di:
1) formazione di una propria identità personale;
2) il raggiungimento progressivo dell'autonomia;
3) la capacità di assumersi responsabilità e di autoprogettarsi il futuro;
4) il bisogno di relazioni interpersonali e sociali soddisfacenti;
5) l'assunzione progressiva di ruoli sociali attivi (Milanesi, 1984, 47-48).
C. Secondo Zani tre sono le aree problematiche in cui l’adolescente è chiamato a confrontarsi: area
personale (autonomia), relazionale (stabilire relazioni di coppia, rapporti di gruppo), sociale
(terminare esperienza scolastica/inserirsi nel mondo del lavoro). “Esistono bisogni che si
possono considerare in diretta conseguenza dei processi evolutivi” (Zani, 1999, 39). Questi
riguardano i “cambiamenti a livello fisico, lo sviluppo di nuove abilità cognitive, una nuova
consapevolezza delle capacità personali, modificazioni nel rapporto coi genitori, una
accresciuta importanza delle relazioni con i coetanei, oppure anche l’improvviso verificarsi
di un evento critico” (Zani, 1999, 39-40). Tenuto conto di questi mutamenti o situazioni, ella
suggerisce di tener conto di alcuni bisogni “sovraordinati” che rispondono alle principali
sfide che l’adolescente deve affrontare:
1) bisogno di sostegno adattivo familiare (senso di appartenenza): tale sostegno favorisce
l’autonomia personale perché offre sicurezza, simpatia e sostegno;
2) bisogno di uno sviluppo di sé efficace (self efficacy), che vuol dire riuscire a fronteggiare
efficacemente un compito. Tale competenza comprende lo sviluppo di un’identità
positiva, senso di autostima e senso di continuità temporale;
3) bisogno di relazioni significative con i coetanei: affiliazione nei gruppi formali o
informali che diventano un riferimento normativo e comparativo per valutare in modo
autonomo, al di fuori del controllo degli adulti, il proprio comportamento e le proprie
scelte. Il gruppo diventa laboratorio di sperimentazione sociale e strumento di sostegno
affettivo;
4) bisogno di sicurezza personale;
5) bisogni affettivo-sentimentali (rapporti di coppia) che, oltre a rispondere ai bisogni
affettivi e sessuali, offrono un sostegno emotivo e favoriscono la maturazione personale
verso l’assunzione di compiti adulti (cfr. Zani, 1999, 40-43).
D. Caliman individua i seguenti bisogni:
1) bisogno di partecipazione e di valutazione positiva, che comporta lo sviluppo della
socialità e della percezione di sé nelle opinioni altrui;
2) bisogno di sicurezza (o di riduzione dell'incertezza), riscontrabile nella selezione che
l'adolescente fa di determinate persone significative che gli servono di sostegno;
3) bisogno di comprensione (di essere accettato e capito);
4) bisogno di indipendenza, che si manifesta in un ambivalente movimento di
avvicinamento-allontanamento dalla famiglia e dalla figura paterna, nell'intento di
acquistarsi un'identità personale;
5) bisogno di conoscenza, di esplorare l'ambiente e le situazioni nuove per misurare le
proprie capacità e situarsi nel mondo;
6) bisogno di significatività o di trovare un senso nella vita, assumendo e vivendo in
coerenza determinati valori condivisi con il gruppo e con la società;
10
7) bisogno di amore, che comporta l'investimento affettivo e, in parte, l'interesse
sessuale(Caliman, 1987, 86)..
1.4. I bisogni nel loro emergere storico
Visto il carattere storico ed evolutivo dei bisogni, nell’individuazione dei bisogni, oltre che
dalle teorie, ci lasceremo guidare anche da un criterio empirico, utilizzando i risultati delle ricerche
per evidenziare i bisogni emergenti in questo particolare momento storico. Questo senza esimerci
dal compito di valutare questi risultati secondo alcuni criteri di giudizio che superino il puro dato
statistico e cerchino di avanzare modelli di spiegazione più generali.
1.4.1. Una premessa metodologica: rapporto tra bisogni e cultura
Il bisogno è composto, come abbiamo visto da uno stato di tensione (bisogno-stato) e da un
oggetto verso cui tende (bisogno-oggetto) che ne rappresenta la soddisfazione. E’ impossibile dal
punto di vista sociologico indagare direttamente sul bisogno-stato. Qualsiasi domanda, anche
quando venisse formulata direttamente chiedendo alla persona “di che cosa hai bisogno” non potrà
che rilevare l’oggetto del bisogno, cioè quanto la persona percepisce come funzionale alla sua
vita16. Così dicasi di altre domande simili: “cosa ti manca?”, “cosa potrebbe fare il governo per
migliorare la condizione di questo paese?”, ecc.
All’interno di una cultura i bisogni si manifestano come “valori”, cioè come oggetti (materiali o
immateriali) di desiderio e quindi perseguiti come “bene”17.
I bisogni quindi starebbero alla base sia del comportamento che dei valori e quindi della cultura.
La cultura, infatti, può essere anche definita come “il modo con cui l’uomo soddisfa i propri
bisogni”(Malinowski 1962, cit. da Piccoli, 2001, 11). Pertanto, partendo dalla teoria dei bisogni è
possibile indagare sia sul tipo di valori e quindi di cultura di una società, come anche sui
comportamento e sul sistema di personalità, ed in definitiva sull’organizzazione sociale. Questo
almeno stando alla teoria dell’azione di Talcott Parsons, secondo il quale “tre sono le categorie base
dell’azione: 1) l’attore; 2) la situazione dell’azione; 3) l’orientamento dell’azione (motivi, valori,
norme, ecc.). Tali categorie servono di base per la costruzione di tre sistemi: il sistema di
personalità, il sociale e il sistema culturale” (Ferrari Occhionero, 1985, 11).
Pertanto il valore risulta il punto di snodo tra natura (i bisogni) e cultura (o storia). Esso è
indicativo sia del bisogno-stato che dell’oggetto a cui esso tende. Come indicatore del bisognooggetto il valore indica quali sono i bisogni percepiti come più importanti da una data società e
quindi informare sul suo livello di organizzazione in funzione della soddisfazione dei bisogni.
Per risalire al bisogno-stato si fa ricorso a sofisticate operazione statistiche (particolarmente
l’analisi fattoriale) che offrono un’indicazione abbastanza attendibile sul bisogno sottostante.
Tuttavia tale operazione non è priva di incertezze ed ambiguità perché il valore non ha solo un
riferimento al bisogno, ma anche al sistema di credenze18. Pertanto tra bisogno e valore esiste un
16 “A ogni bisogno umano corrisponde un oggetto o un elemento socioculturale (organizzazione, comportamento, bene materiale),
socialmente determinato, che ha il compito di soddisfare quel bisogno” (Piccoli, 2001, 12).
17 Il valore, in sociologia, può essere definito come “il fine perseguito dal gruppo sociale, che appare come legittimo ai soggetti
che lo compongono e al quale essi sono legati emotivamente” (Capraro, 1992, 31)
18 Il valore può avere un contenuto cognitivo o volitivo. Dal punto di vista cognitivo corrisponde ad “un bisogno che riesce a
soddisfare, oppure trova il suo significato in una verità più universale, accettata dal soggetto. Nel primo caso […] è legittimato da una
‘razionalità strumentale’, […] nel secondo caso […] da una ‘razionalità sostanziale’ ” (Capraro, 1992, 31-32).
Dal punto di vista “volitivo”, il valore per il soggetto si presenta come “desiderabile, appetibile e orienta l’azione della persona,
che vuole perseguirlo. E' a questo punto che il valore diventa prescrittivo e normativo per l’agente e acquista una sua esemplarità.
Infatti il soggetto è pronto ad impegnarsi e a sottoporsi ad uno sforzo continuo pur di affermare il valore in cui crede […]”
11
rapporto di reciprocità, ma non biunivoca. A proposito, è rimasto famoso il rapporto istituito da
Weber tra cultura e bisogni: “sono gli interessi e non le idee a dominare immediatamente l’attività
dell'uomo. Ma le concezioni del mondo, create dalle idee, hanno spesso determinato, come chi
aziona uno scambio ferroviario, i binari lungo i quali la dinamica degli interessi ha mosso tale
attività... In base alla concezione del mondo si determinava ‘da che cosa’ e ‘verso quale meta’
l’uomo voleva (e, non dimentichiamolo, poteva) essere ‘redento’ ” (Weber, 1976, 342-343).
“La totalità dei comportamenti umani si ridurrebbe, quindi, a cercare di soddisfare i bisogni […],
che si manifestano sempre uguali e con la stessa intensità dalla comparsa dell'uomo sulla terra;
quello che cambia, nel corso dei secoli e a seconda delle circostanze, non è il bisogno ma il modo di
soddisfarlo, cioè la cultura”(Piccoli, 2001, 12). Questa variazione è ciò che interessa
particolarmente la sociologia. La comparsa di una serie di valori nuovi in una data società indica
l’emergenza di nuovi bisogni, collettivamente percepiti. Per cui assumeremo come “indicatori di
bisogno” quei valori che le varie indagini progressivamente evidenzieranno come tali, con la
consapevolezza dell’ambiguità di tale procedimento. D’altra parte accettare il rischio fa parte dei
procedimenti della scienza che sovente inferisce su una realtà cui non può accedere
immediatamente, dando per scontato che una convergenza di indizi o di giudizi possa costituire una
prova, fino a dimostrazione contraria.
1.4.2. L’evoluzione dei bisogni e dei valori in senso postmaterialista
Ronald Inglehart è stato uno dei sociologi che ha applicato questo metodo alle sue ricerche.
Egli, come altri studiosi, ha provato a tradurre il modello gerarchico dei bisogni di Maslow in uno
strumento di ricerca sociologica a valenza universale. Attraverso questo tipo di indagine è riuscito a
monitorare l’evoluzione dei bisogni attraverso il cambio di valori. Egli ha identificato nell’attuale
andamento culturale, soprattutto nel mondo occidentale e in maniera più evidente nelle fasce
giovanili, un movimento evolutivo verso l’autoespressione, l’autorealizzazione, maggior libertà ed
autonomia personale. Tale impulso spinge a sottrarsi al controllo sociale, all’obbligo di rispettare
norme imposte, di abbandonare gli aspetti formali o i doveri istituzionali, mentre il miglioramento
delle condizioni economiche, una stabile condizione di pace e di sicurezza sociale, l’aumento di
cultura favorisce nelle persone il passaggio dal livello di pura sopravvivenza, dominato dalla paura
e dall’insicurezza, a situazioni in cui è possibile l’autodeterminazione personale, l’autoespressione,
l’autodirezione, la ricerca di una vita più bella, gratificante e significativa (qualità della vita).
Pertanto nei paesi ad economia industriale avanzata, dove per decenni non si è più patito la
fame, anzi c’è stata abbondanza, non c’è stata guerra, né gravi disordini politico-sociali, la
popolazione nata in questi periodi tende a ritenere soddisfatti i propri bisogni di sostentamento e
sicurezza e a rivolgere la propria attenzione a bisogni di tipo superiore, che sono quelli di
appartenenza, stima, autorealizzazione e autoespressione, che coinvolgono soprattutto gli aspetti
intellettuali ed estetici della vita, conforme al modello gerarchico dei bisogni elaborato da Maslow .
A livello politico ciò comporta perdita di importanza dei partiti tradizionali, delle organizzazioni
sindacali, dei grandi apparati burocratici o aziendali, delle istituzioni, del Welfare e dell’intervento
statale in economia e nella società, perdita di fiducia nella scienza e nella tecnologia. Preferenze
per la pace e l’ecologia, per la libertà e l’uguaglianza, per uno sviluppo sostenibile, per i diritti
umani, per i “movimenti delle donne”, per le minoranze oppresse, come i “gay”, o penalizzate,
come gli “handicappati”, ecc.
Nel lavoro la propria realizzazione, intesa come autoespressione, consiste nel “fare ciò che
piace”, sviluppare le proprie doti e potenzialità, essere creativi, fantasiosi e vari, avere buone
“L'azione risulta così motivata sia dagli orientamenti di bisogno (need's orientations), che sono i condizionamenti oggettivi e le
modalità di soluzione sedimentate nel sistema culturale, sia dagli orientamenti di valore (value's orientations), che corrispondono alle
scelte operate dalla persona in base ai valori interiorizzati” (Capraro, 1992, 32).
12
relazioni con gli altri, magari rinunciando anche ad uno stipendio più alto o ad una carriera
migliore. C’è meno attaccamento al lavoro e al successo, vengono meno i caratteri del self-made
man, la determinazione, la disciplina, il sacrificio, il ruolo del lavoro nell’autorealizzazione, ecc.
Così pure cala l’importanza di rispettare l’orario, di risparmiare, di accumulare, ecc.
Riguardo alla famiglia: più libertà sessuale, minori vincoli, meno rigidità, ruoli non rigidi e non
determinati da appartenenze di genere o da posizione generazionale; stabilità e benessere della
famiglia dipendenti soprattutto dalla capacità comunicativa e dalle esigenze affettive, più che dal
rispetto di norme o vincoli sociali.
A livello religioso, prosegue il processo di secolarizzazione, che porta ad interpretare il
mondo con categorie scientifiche e ad abbandonare la visione di un “cosmo sacro”: ciò comporta la
diminuzione della fede organizzata in sistemi coerenti e totalizzanti, la perdita di fiducia nelle
chiese, la scomparsa della pratica religiosa.
Questa cultura tende ad affermarsi progressivamente man mano che le coorti di popolazione
giovanile sostituiscono quelle adulte e anziane, diventando maggioritarie nel paese (generational
replacement). Infatti è di fondamentale importanza il periodo in cui una persona ha ricevuto la sua
socializzazione: il tipo di bisogno che è stato percepito come “il più importante” nel periodo della
socializzazione determina anche il tipo di valori di base di quella persona. Essendo molto difficile
cambiare struttura cognitiva una volta acquisita nell’età “pre-razionale”, di fronte al cambiamento
culturale è probabile che sorgano resistenze, causate dall’incertezza di fronte al nuovo che avanza e
che mette in crisi credenze, valori e norme ritenute valide da sempre. Il disagio allora sarà quello
che si esprime come resistenza al cambiamento o come paura di fronte al nuovo. Questo è percepito
soprattutto da chi è stato socializzato in un’altra cultura e contesto sociale, in cui erano prevalenti i
bisogni materiali e quindi i valori e le norme che si riferivano a quel preciso contesto.
Queste le caratteristiche del tipo postmaterialista, che Inglehart (1998) tende ad accostare
alla cultura post-moderna, pur senza identificarlo.
Anche Carlo Tullio-Altan rileva gli stessi fenomeni, sottolineando in maniera particolare
l’aspetto relazionale e sociale. Per Tullio-Altan è infatti molto importante il bisogno di una nuova
socialità, più autentica e personalizzata, che si esprime attraverso il superamento della concezione
strumentale dell’altro e nell’accoglienza dell’ “alterità”. In ogni caso appare chiaro che in tale
situazione il sacrificio di se stessi, in termini di libertà e di possibilità di autorealizzazione, comincia
a perdere di significato.
Pure Giovanni Grasso sottolinea il fattore interpersonale, come anche le aspirazioni
all’autoespressione e alla partecipazione dei giovani, con la necessità che arretrino vincoli autoritari
e tradizionali. In particolare egli punta l’indice sul particolarismo “familista”, che blocca le persone
sui rapporti di tipo primario, chiusi dentro l’ambito familiare e locale, impedendo una visione più
universale dei rapporti. Il suo contributo specifico riguarda il bisogno di integrazione culturale, sia
sociale che personale. La mancanza di questa integrazione produce sofferenza psichica e sociale,
rendendo instabile tutto il sistema (anomìa). Il conflitto è presente nel sistema culturale, sia esterno
(istituzioni), sia interno (sistema intrapsichico) con effetti di ansia e instabilità.
Queste ricerche confermano la sostanziale validità del modello gerarchico dei bisogni di
Maslow, pur lasciando scoperto qualche elemento problematico, che andremo ad evidenziare.
1.4.3. La decisa affermazione dei bisogni espressivi e relazionali
Da una serie di ricerche condotte in Italia sono emersi, in ordine di importanza, i seguenti
bisogni giovanili:
1.
di relazioni familiari soddisfacenti (domanda di relazioni di tipo affettivo ed emotivo e di
libertà e autonomia);
13
2.
di relazioni amicali (aggregazioni spontanee, richieste di amicizia, di scambiare opinioni
su argomenti di interesse comune, di fare attività sportiva spontanea: bisogno di
sicurezza);
3.
di tempo libero e di consumi (sulla strada, in piazza, ai giardini, nei bar, birrerie,
pizzerie, discoteche; in letture sbrigative, davanti alla TV o con hobbies e passatempi
non impegnativi);
4.
di istruzione (nella scuola e FP in ordine ad acquisire una maggior professionalità, meno
come interesse per la cultura);
5.
di occupazione e di autorealizzazione (conciliando pragmaticamente aspetti espressivi
con quelli strumentali);
6.
di valori e di significati (gli affetti, il successo nella scuola e lavoro, l’impegno);
7.
meno avvertiti i bisogni di tipo impegno solidale e di trascendenza (cfr. Malizia Frisanco - Pieroni, 1997, 18).
Da questi dati è evidente l'emergenza di nuovi bisogni, connessi prevalentemente con la sfera
“espressiva” e relazionale. Tali bisogni sono soprattutto di ordine affettivo (famiglia, amici, amore)
e ludico-espressivo (gioco, divertimento, sport, tempo libero). Mentre i valori che riguardano la
sfera sociale e l’impegno per gli altri (impegno sociale, religioso, politico, patria) sono
costantemente al fondo della scala delle preferenze. Anche dalle indagini che hanno applicato
l’indice Inglehart risulta che l’item “dare maggior poter nelle decisioni politiche” è costantemente
in ribasso.
Viene confermata da questi dati la tendenza all’espressività e ad una socialità più autentica,
come pure sulla caduta del formalismo e dell’accondiscendenza nei confronti dell’autorità. Così
pure vengono confermati i presupposti di base di Inglehart che assegnano un ruolo fondamentale
alla socializzazione nell’evoluzione dei valori collegati ai bisogni e che questi vengono percepiti
secondo una logica di “rational choice”. Ma rispetto alle previsione degli autori del “cambio
culturale” vengono meno le caratteristiche di una partecipazione politica e di una solidarietà
internazionale pur con forme diverse da quelle tradizionali. E’ vero che è cresciuta la partecipazione
ai movimenti come quello dei diritti umani e di difesa delle minoranze oppresse, dell’ecologia, della
pace, così pure dagli anni ’80 è aumentata la partecipazione a forme di volontariato, ma tutti questi
fenomeni sono rimasti circoscritti ad ambiti ristretti. Quando essi sono diventati un movimento
collettivo lo è stato per breve tempo, in occasione di emergenze. Ma, esclusi i promotori, questi
movimenti hanno avuto la consistenza di una fiammata. Pertanto, al di là di una generica sensibilità
su temi come l’ecologia, la pace, i diritti umani, la tolleranza, che può diventare disponibilità alla
mobilitazione in momenti di emergenza, i giovani degli ultimi decenni non hanno dimostrato la
capacità di tradurre i valori in un progetto politico, la crescita di una vera coscienza politica o civile,
né la capacità di coltivare solidarietà “lunghe”19. L’unico tipo di solidarietà che è emerso è quello
del piccolo mondo della quotidianità.
Pertanto i bisogni sembrano concentrarsi prevalentemente attorno alla “socialità ristretta”, oltre
che alle richieste di libertà e autonomia. Prevalgono i valori centrati sull’individuo più che sulla
società, viene privilegiato il polo privatistico dei bisogni, misconoscendone quello pubblico e
sociale.
Ciò pone alcuni interrogativi sull’indice Inglehart, e più in generale, sulla validità del modello
gerarchico di Maslow. Soprattutto viene posto in questione uno degli elementi più qualificanti della
teoria di Maslow: l’automatismo del passaggio ai bisogni superiori e quindi dell’apertura solidale.
Le risposte indicano una tendenza al ripiegamento su solidarietà più brevi rispetto a quello previste.
D’altra parte, chi può determinare quali siano i bisogni una volta superata la soglia della necessità?
19 Alcuni autori hanno salutato le recenti mobilitazioni giovanili per la pace (soprattutto contro l’intervento USA in Iraq) come
una ripresa della partecipazione e della protesta sociale (cfr. I. Diamanti, Gli studenti calabroni riscoprono la politica, in “La
repubblica”, 13.04.2003). A nostro giudizio si dovrà ancora attendere per vedere se veramente tale mobilitazione avrà la costanza e la
capacità di tradursi in un progetto politico. In realtà molte mobilitazioni giovanili degli anni ’80 e ’90 sembrano “riconducibili alla
strategia dell’ «evitamento», descritta da Offe a proposito dei Verdi tedeschi” (Ferrarotti, 1986, 15).
14
1.4.4. Il problema dei “bisogni misti”
Oltre alla difficoltà di determinare una tipologia dei bisogni, dalle ricerche viene messo in
discussione un altro principio maslowiano, che un bisogno affiori quando il precedente è stato
saturato.
Dalle ricerche emerge sempre più la crescita di “bisogni misti” (Sorcioni, 1992). I giovani
sembrano essere, come osservava Ricolfi, “materialisti sul piano dei valori e dei modelli culturali e
postmaterialisti sul piano delle preferenze” (Ricolfi, 1990, 522). A fronte di significative avanzate
dei valori post-materialisti, si segnalano infatti frequenti regressioni a valori e bisogni materiali,
soprattutto in occasione di recessioni economiche, difficoltà occupazionali o momenti di
insicurezza. Questo è un fenomeno previsto da Inglehart, il quale riconosce che lo spostamento dai
valori materialisti a quelli postmaterialisti non elimina il permanere dei bisogni materiali: il
postmaterialista non è un anti-materialista, procede alla soddisfazione di bisogni postmaterialisti
solo dopo aver soddisfatto quelli materiali, ma non vi rinuncia.
Queste regressioni o mescolanze dipendono da vari fattori sociali, cui i giovani si adattano
rapidamente. La non linearità del processo di sviluppo economico ha reso più incerta la
soddisfazione dei bisogni di sopravvivenza. Soprattutto la disoccupazione ha fatto riemergere tra i
giovani l’insicurezza economica, anche se la soddisfazione dei bisogni di base è sostanzialmente
assicurata dalla famiglia e dagli ammortizzatori dello stato sociale. Tuttavia la mancanza di
sicurezza economica influisce sui tempi di maturazione delle responsabilità sociali, della nuzialità e
sui tassi di natalità, cioè sui tempi d’ingresso dei giovani nella vita adulta.
Lo stesso aumento di instabilità sociale ha fatto percepire più fortemente il problema della
sicurezza sociale, con crescita della domande di controllo sulla delinquenza, sui flussi migratori,
sullo spaccio di droga, sull’operato degli amministratori pubblici: in definitiva ciò ha comportato
una ripresa delle politiche di destra.
Ma oltre a queste esigenze, in parte previste a causa del mutare delle situazioni sociali, è la
ripresa di attenzione per i valori materiali, dettati da esigenze di status e ruolo, misurate attraverso il
possesso di beni materiali “status symbol”, che rimette in seria discussione il modello MaslowIngehart. Questo determina un ritorno a bisogni e valori materialisti proprio in nome di quel
progresso che avrebbe dovuto assicurarne il superamento. Ciò costituisce un motivo assolutamente
nuovo e non previsto, che rimette profondamente in discussione la gerarchia finora adottata.
Non che questo voglia dire che la tensione all’autorealizzazione e ad una qualità di vita
migliore sia tramontata. Ma sono gli strumenti ed i percorsi per arrivarci che sono cambiati. Ciò
porta ad un rimescolamento dei motivi e dei valori, con presenza di istanze sociali, esigenze e valori
materiali ed immateriali anche opposti tra loro, “la cui possibile coesistenza anche in uno stesso
individuo tende inevitabilmente a generare gerarchie valoriali instabili, potenzialmente antinomiche
e per loro natura in continua trasformazione” (Sorcioni, 1992, 9). Queste comprendono esigenze di
autoespressione, di difesa della posizione socio-economica (occupazione e reddito) o dell’identità
territoriale. Coesistono simultaneamente spinte verso modelli di società aperta e chiusure verso
l’esterno (rifiuto dell’immigrazione). Un crogiuolo di esigenze ed aspettative, entro il quale possono
manifestarsi pulsioni integrative e spinte disintegrative, e dove i problemi di identità possono
esprimersi in una logica tanto complessa quanto socialmente dolorosa.
Questi fenomeni darebbero luogo a quella “generazione combinatoria” di cui parla Sorcioni, che
testimonierebbero la mancanza di criteri stabili di orientamento e la tendenza a combinare bisogni,
valori e linguaggi a seconda del momento, senza alcun criterio ordinatore, semplicemente guidati
dal piacere o dal gusto del momento.
Per il resto viene confermata la lettura di Inglehart, ma con tempi e modalità di attuazione
diversi da quelli previsti. Anche tra i giovani italiani sta emergendo un uomo postmoderno,
caratterizzato dalla ricerca di condizioni di vita qualitativamente più significative, di soddisfazione
immediata dei propri bisogni, alla ricerca i rapporti interpersonali e sociali soddisfacenti. Da uno
stile di vita più gioioso, immediato, spontaneo. Un uomo che non cerca nella politica, nelle mete
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ideali, nei grandi progetti storico-collettivi la sua realizzazione, ma nel quotidiano, nelle relazioni
faccia a faccia, nella costruzione di un mondo vitale carico di senso. Un uomo teso alla difesa
dell’ambiente, della natura, della convivenza pacifica tra tutte le genti. Un uomo contrassegnato
dalla tolleranza, più che dalla affermazione intransigente di principi assoluti.
Un uomo che, probabilmente, è alla ricerca di un senso a tutto quello che fa. Senso che
sovente gli viene garantito dal “fare”, da una giustificazione ex-post, da un senso comune che è
quello dell’ambiente in cui vive. Un senso che, tuttavia, forse non basta e va cercato in una
dimensione più alta. Ma ciò potrà essere raggiunto solo con un atteggiamento adattivo e acritico,
come sembra apparire dai comportamenti giovanili, o dalla stessa forza spontanea della natura come
sembrano suggerire Maslow e Inglehart, oppure è necessrio un impegno cosciente e deliberato,
forse anche organizzato e condiviso, come sosteneva Tullio-Altan? E’ possibile tutto ciò senza una
progettualità giovanile, politica e sociale; senza il coinvolgimento delle istituzioni e delle agenzie
educative?
2. Il disagio e il rischio in rapporto ai bisogni
Il termini “disagio” e “rischio” sono entrati di recente nella letteratura sociologica, in seguito
alle critiche rivolte dalla corrente interazionista sul ruolo dello stigma sociale nella definizione della
devianza. Attraverso questi termini si vuole indicare uno stato non ancora definito di devianza, che,
se affrontato adeguatamente, può evitare di passare da una devianza primaria ad una secondaria e
definitiva20. I due termini sono pressoché intercambiabili e rappresentano, con la loro elevata
indeterminatezza, la logica conclusione di un processo di “normalizzazione della devianza”
(Neresini – Ranci, 1992, 23). L’apparizione di questi termini segna la progressiva dissolvenza
teorica dei termini “devianza” e “marginalità” e di conseguenza il superamento sul piano
interpretativo. Alla loro affermazione ha dato un notevole contributo la situazione di complessità
sociale e di pluralismo etico, che rende difficile determinare le situazioni di reale devianza o
marginalità, che hanno senso solo in situazione di normativa chiara (devianza) o di centro-periferia
(marginalità).
2.1. Disagio e bisogni
Il disagio, è componente intrinseca del bisogno. Infatti il bisogno comporta “uno stato di
insoddisfazione dovuto alla mancanza di ciò che è sentito come necessario alla vita fisica o morale”
(Cattonaro, 1957, 702). Pertanto il disagio, “sottende sempre una concezione di bisogno
insoddisfatto” (Guidicini – Pieretti, 1995, 14). Tale stato di disagio o insoddisfazione spinge a sua
volta il soggetto a cercare l’oggetto o la situazione-fine che ne rappresenta la soddisfazione e quindi
Ricordiamo che secondo la “labeling theory” sono tre i livelli attraverso cui si diventa devianti:
1) Un primo livello è costituito dalle affinità, cioè, delle “pre-condizioni obiettive (a livello biologico, psicologico, culturale) e
soggettive (sentirsi nell'occasione di ‘poter’ deviare) non meccanicisticamente connesse ad un reale atto o comportamento deviante
(Milanesi, 1984, 439).
2) Un secondo livello è costituito dall’affiliazione, cioè, da “comportamenti non conformi alla norma a cui si sono già associati in
maniera dialettica sia alcuni atti di ‘affiliazione’ (cioè di considerazioni positive circa l'ipotesi e la possibilità di diventare un deviante
‘secondario’) sia alcuni atti di stigmatizzazione (cioè di definizioni/significazioni negative degli atti non conformi alla norma)
(Milanesi, 1984, 439-440). È questo livello che indica la situazione di “rischio”, nel senso che esiste la possibilità che la devianza
primaria possa strutturarsi in una devianza secondaria.
3) Un terzo livello, corrispondente alla devianza vera e propria, è invece dato dalla “quantificazione di comportamenti devianti
ormai abituali, rafforzati da una strutturata ‘carriera’ soggettiva nella devianza e da una ripetuta stigmatizzazione di tali
comportamenti (anche da parte di controllori "esterni” e, in certi casi, dalle istituzioni totali). In questo caso il "rischio" di devianza
potrebbe essere considerato come possibilità di strutturazione irreversibile del comportamento deviante, di fissazione entro una
"subcultura deviante", di interiorizzazione profonda dell'identità negativa (o dello stigma) (Milanesi, 1984, 440).
20
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annulli la tensione21. Come tale non costituisce niente di problematico: fa parte dei normali
meccanismi dell’organismo, attraverso cui provvede alla sua sopravvivenza e affermazione nel
mondo.
Il problema sorge quando il disagio diventa uno stato (relativamente) permanente e quindi
genera “frustrazione”22. Ciò è più problematico nel momento in cui vengono sempre più soddisfatti
i bisogni di base. Dai dati emersi, infatti, sulle ricerche in Italia e in Europa, risulta che, pur essendo
soddisfatti molti più bisogni del passato, il disagio tra i giovani è in aumento. Questo non può essere
spiegato semplicemente attraverso la giustificazione che con l’aumento della gamma dei bisogni
aumenta anche la probabilità che qualcuno non arrivi alla soddisfazione di bisogni socialmente
rilevanti23, come anche quella dell’aumento delle aspettative e dei bisogni indotti. Probabilmente ci
sono altre cause e meccanismi che rimettono in questione tutta l’organizzazione sociale e, forse,
anche le teorie sui bisogni.
Le ricerche hanno dimostrato che esiste un tipo di disagio ascrivibile piuttosto alla categoria
della frustrazione dei bisogni primari, ed un altro tipo di bisogno più collegato ad una situazione di
bisogni e/o valori postmateriali. Tale tipo di disagio merita un approfondimento particolare perché
nuovo, nonché quello che tocca la maggioranza dei giovani nei paesi evoluti e che minaccia un
numero sempre maggiore di popolazione.
2.1.1. Il disagio da marginalità o frustrazione dei bisogni materiali
Un primo tipo di disagio si manifesta con i caratteri tipici della povertà classica: situazioni di
emarginazione dovute alla penuria materiale e culturale che spinge a forme di devianza o di
subcultura deviante e marginale come reazione di fronte alla mancanza di beni o diritti
fondamentali per la vita.
In Italia permangono ancora forme di povertà e marginalità oggettive che aggravano il
quadro sociale e contribuiscono a mantener desta la consapevolezza che non tutti sono arrivati a
soddisfare neppure i bisogni più elementari e che l’accesso alle risorse sociali, economiche e
culturali non è veramente aperto a tutti. Permane sempre la figura tradizionale del ragazzo di
periferia, che sta in un quartiere invivibile, che non va a scuola, che non ha opportunità valide di
inserirsi nella vita ed appartiene ad una famiglia incapace di essere una valida guida. A questo si
aggiungono le forme di povertà estrema degli immigrati, che ripropongono temi classici della
sociologia: la povertà e l’emarginazione studiati dalla scuola di Chicago agli inizi del 1900.
Queste situazioni portano a loro volta a forme di devianza, la cui spiegazione può essere
reperita nei manuali di sociologia: la necessità di accedere ai beni necessari alla sopravvivenza di
cui sono privi, il raggiungere con mezzi illeciti i fini che sono propri di tutta la società, la subcultura
deviante di cui è impegnato l’ambiente, ecc.
Così assistiamo ancora la persistenza di vecchie forme di delinquenza minorile (reati contro
il patrimonio, o contro le persone), cui si aggiungono quelle (relativamente) nuove, quali la
prostituzione (soprattutto maschile), la violenza sessuale (nelle versioni etero e omosessuale), la
pedofilia. Un certo tipo di criminalità sembra trovare il suo habitat privilegiato in ghetti popolari, tra
stranieri (spaccio di droga), zingari (furti), oppure italiani delle periferie o zone suburbane. Così
assistiamo ad un aumento di ragazzi denunciati penalmente, soprattutto nel Meridione per
affiliazione alla mafia o altre organizzazione criminali.
A loro volta tali manifestazioni devianti costituiscono una minaccia all’intero ordine sociale
e determinano un abbassamento del livello di sicurezza di tutti i cittadini.
21 “Lo stimolo organico che sta alla base di un bisogno è soltanto un segnale (la vera causa è più profonda) e spinge l'individuo
verso una situazione-fine in cui si annulli la tensione provocata dal senso di insoddisfazione che accompagna lo stimolo stesso”
(Cattonaro, 1957, 702).
22 “L'impedimento alla soddisfazione di un bisogno genera la frustrazione” (Cattonaro, 1957, 702)
23 In una società evoluta e ricca diventa sempre più rilevante il concetto di “deprivazione relativa”.
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2.1.2. I disagio da “benessere”
C’è un altro tipo di disagio che non nasce da situazioni materiali deprivate, da marginalità
sociale e culturale, bensì dall’eccedenza delle opportunità, dall’abbondanza di beni di consumo, dal
centro e non dalla periferia del sistema socio-economico. L’abbondanza produce una situazione di
sofferenza diffusa o disagio, chiamato anche “a-sintomatico”, in cui mancano molti degli indicatori
che una volta definivano il disagio o la marginalità sociale. Questo “disagio diffuso” o “asintomatico” si qualifica con “una molteplicità di elementi insignificanti (se visti singolarmente, per
quanto riguarda la storia dei singoli soggetti) che possono però nel complesso determinare una
condizione ultima di disagio” (Guidicini-Pieretti,1995, 17).
Questa “asintomaticità” del disagio “chiede di “spostare l’interesse sull’informale, sulla
cultura, sullo psichico, sulle microfratture che si rigenerano costantemente dentro al sistema
relazionale” (Guidicini, Pieretti, 1995, 21).
Si tratta del disagio che nasce da determinate situazioni, come la mancata comunicazione
interpersonale, la solitudine e l'isolamento che colpisce i giovani senza appartenenza, gli alienati e i
culturalmente sradicati; l'handicap e il disagio psichico e fisico; la deprivazione culturale;
l'impossibilità e incapacità di certi giovani ad accedere alle istituzioni (famiglia, chiesa,), o alle
opportunità offerte dal sistema economico- sociale e culturale, che possono andare dal tempo libero
(attività sportive, associazionismo, turismo, ecc.) alla cultura (internet e i nuovi linguaggi) alla
partecipazione sociale (partiti, sindacati, associazioni, movimenti, ecc.).
Sovente queste difficoltà hanno un fondamento relazionale. Ciò significa che questa
dimensione psicologica è quella più fortemente correlata alle espressioni del disagio e della
devianza, sia come causa che come effetto.
Molte di queste forme denunciano un profondo stato di disagio psicologico, in cui sono in
gioco sia esigenze di tipo evolutivo della personalità che situazione create dal sistema sociale.
Alcuni giovani, dietro ad un’identità di facciata apparentemente funzionante, nascondono una
notevole fragilità interna. Un certa parte di giovani ha difficoltà di adattamento all’interno della
propria attività primaria (in genere scolastica). Seguono i problemi di lavoro, dovuti alla
disoccupazione o alla fuoriuscita dal lavoro. Ma risalta anche l’assenza di luoghi di aggregazione
destinati ai giovani.
2.1.3. Componente soggettiva ed oggettiva del disagio
Il disagio, come frustrazione dei bisogni, risulta avere una componente soggettiva ed una
oggettiva.
“Soggettivamente il disagio si manifesta “come un insieme di percezioni, emozioni e
sentimenti, valutazioni, bisogni e domande che denotano uno stato generale di insoddisfazione più o
meno profonda nei riguardi delle condizioni obiettive entro le quali il giovane è chiamato a
vivere”(Milanesi, Pieroni, Massella, 1989, 31). Pertanto il disagio rappresenta innanzitutto la
percezione soggettiva, uno stato di insoddisfazione che è, come abbiamo visto, solamente la
segnalazione dell’organismo di un di qualcosa che non va. La situazione diventa patologica nel
momento in cui il soggetto non riesce o non può soddisfare il bisogno. Si ha così la frustrazione del
bisogno che segna un radicamento del problema e dello stato di sofferenza.
Obiettivamente, però tale situazione di disagio è anche opera della società che non fornisce al
soggetto il materiale o gli strumenti per soddisfare il bisogno, o addirittura ne impedisce in qualche
modo la soddisfazione. “Oggettivamente il disagio ha le sue radici nella somma di inadempienze,
ritardi, tradimenti, incomprensioni di cui i giovani sono oggetto e che si sintetizzano nell'incapacità
della società a rispondere alle esigenze di crescita, di autorealizzazione e di inserimento dei
giovani” (Milanesi, Pieroni, Massella, 1989, 31).
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Pertanto, l’adolescente, lasciato da solo a definire bisogni e percorsi per soddisfarli,
sperimenta ben presto il disagio, cioè la distanza tra il desiderio e le reali possibilità di appagarlo.
2.2. Rischio, disagio e bisogno
Anche il termine rischio è stato impiegato come alternativa a quello di “devianza” e viene
collegato al disagio.
Il rischio è un aggravamento della situazione, già pericolante o disagiata, che può evolvere,
per una serie di cause concomitanti (endogene ed esogene), in comportamenti devianti (auto o etero
distruttivi) che possono costituire l’inizio di un percorso deviante.
Anche nel presentare tale termine viene sottolineato il collegamento ai bisogni. Infatti il
rischio viene definito come una serie di “situazioni obiettive e soggettive in cui vengono rese
difficili e, al limite negate, le possibilità e le capacità (personali e di gruppo) di autorealizzazione e
di partecipazione consapevole” (Milanesi, 1984, 47), oppure, “di soddisfazione dei bisogni
fondamentali” (Milanesi, 1984, 422).
Anche il rischio, come il disagio, ha una componente soggettiva: “percepire come
soggettivamente pericolosa una situazione in cui mancano le premesse soggettivamente considerate
necessarie alla soddisfazione di bisogni soggettivamente ritenuti fondamentali” (Milanesi 1984,
426); ed una obiettiva: “essere in una situazione in cui mancano certe premesse obiettivamente
necessarie alla soddisfazione di bisogni obiettivamente fondamentali” (Milanesi, 1984, 425). Le
situazioni di marginalità, povertà, assenza delle istituzioni, mancanza di cultura e/o presenza di
subcultura deviante rendono la soluzione del rischio più probabile.
Questo avviene quando la situazione di malessere, sofferenza diventa insopportabile per il
soggetto il quale tenta di uscire dallo stato di disagio dando delle risposte irrazionali. “L'irrazionalità
consiste nel fatto che le decisioni adottate si rivelano obiettivamente distruttive per l'individuo e per la
società e non avviano assolutamente a soluzione i problemi che la persona ha” (Milanesi, 1984, 32).
Il rischio quindi si realizza quando si adottano comportamenti che non costituiscono una reale
risposta al bisogno sottostante e vanno in senso contrario alla linea dell’autorealizzazione.
Questo tipo di risposta può essere spiegata secondo alcuni modelli psicologici: quando la
frustrazione diventa insopportabile (la capacità di sopportare la frustrazione è molto soggettiva)
diventa quasi inevitabile il passaggio all’atto (acting out), che si verifica soprattutto con
l’esplosione aggressiva, grazie all’energia accumulata nella situazione frustrante 24. Tale atto
24 “K. Lorenz e P. Leyhausen, partendo da alcune osservazioni sul comportamento animale, hanno ipotizzato che la violenza (in
forma di aggressività reciproca) è connessa con l’ansia e l’insicurezza derivanti da una situazione di sovrappopolazione in un’area
limitata, aggravata dalla presenza di sistemi rigidi di controllo e di strutture sociali costrittive, che creano la sensazione di non poter
né evadere, né espandersi, né realizzarsi. Questo modo di lettura che è stato chiamato «ecologico» è ricco di applicazioni alla reale
condizione di molti giovani italiani, obiettivamente «bloccati» nella soddisfazione di molti bisogni anche fondamentali (famiglia,
lavoro, partecipazione) da situazioni di reale penuria delle risorse, di crescente mancanza di spazi, di assurda negazione del bisogno
di espansione” […].
“Analogo discorso va fatto per il contributo offerto dalla psicanalisi. Freud (e in parte anche i successivi suoi discepoli) collega la
violenza all’aggressività, o meglio ad uno sviluppo abnorme e unilaterale dell’aggressività, che è a sua volta una dimensione di base
della personalità. La violenza non sarebbe quindi un comportamento solo o prevalentemente appreso, ma invece largamente derivato
da una distorsione nel rapporto tra gli istinti di base. L’aggressività infatti è descritta da Freud come una manifestazione di un
impulso o istinto di morte, di per sé distruttivo o aggressivo, che si può trasformare in forza positiva e costruttiva solo se
adeguatamente controllata, canalizzata e orientata dall’opposto impulso o istinto di vita, che rappresenta una forte spinta alla ricerca
degli altri, all’amore, alla felicità, all’autoconservazione.
Nella prospettiva freudiana ogni conquista umana individuale o collettiva è sostenuta da una forte carica di aggressività sublimata,
mentre ogni distruzione reca il segno di un’aggressività scatenata, sottratta al controllo della ragione umana. L’equilibrio istintuale è
però sempre instabile e il rischio della violenza attraversa in continuità l’esperienza quotidiana” […].
“Il carattere appreso della violenza è invece sottolineato da Dollard e coll., i quali la mettono in relazione alla situazione di
frustrazione; ma allo stesso tempo negano che vi sia un nesso deterministico tra frustrazione e aggressione violenta, poiché i modi di
adattamento o superamento della frustrazione sono molti. [...] Il fenomeno che stiamo studiando sembra più diffuso nelle società
caratterizzate da un’alta competitività e da processi di rapido cambio sociale, nelle quali la corsa al potere è sollecitata dall’ideologia
del «rendimento ad oltranza» ma allo stesso tempo è preclusa, almeno attraverso le vie legittime, ad ampie minoranze che non sono
dotate degli stessi «punti di partenza» e delle facilitazioni o privilegi di cui godono i detentori del potere. Di qui la violenza come
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aggressivo può essere rivolto verso se stessi (autodistruttività) o contro gli altri (eterodistruttività),
ma sempre con effetti dannosi, che riducono la tensione solo in senso temporaneo, ma non danno
risposta al vero bisogno. Ecco perché si parla di una risposta irrazionale. Inoltre la mancata risposta
diventa causa di una nuova insoddisfazione e quindi di ulteriore tensione ed esplosione violenta,
creando un circolo vizioso di tipo stimolo-risposta errato. L’abitudine a questo tipo di risposta, la
mancanza (o la non conoscenza) di soluzioni adeguate nel proprio ambiente, la subcultura in cui si
trova immerso e i rinforzi positivi verso questo tipo di comportamenti rischia di fare di un semplice
meccanismo una vera situazione patologica ed insanabile.
Il rischio, viene anche definito in base ai comportamenti adottati ed agli esiti cui può condurre.
Ecco alcune tipologie di rischio impiegate in alcune ricerche italiane.
2.2.1. Rischio di devianza
Il rischio di devianza si connette al concetto stesso di devianza. Però, rispetto alla devianza
classica, il rischio di devianza se ne differenzia per una minor strutturazione. Questo per evitare,
secondo la lezione dell’interazionismo simbolico, di stigmatizzare chi infrange occasionalmente la
norma: comportamento che produrrebbero solo una radicalizzazione ed interiorizzazine dell’identità
deviante. Infatti il vero deviante non è colui che ha infranto la norma, ma chi lo ha fatto in maniera
visibile e ne ha ricevuto una sanzione sociale (stigma), per cui il suo status diventa irreversibile.
Pertanto il rischio di devianza è una situazione in cui chi ha infranto una norma “lo ha fatto
solo occasionalmente, o comunque non è ancora entrato nella spirale della stigmatizzazione”
(Milanesi 1984, 439). Il rischio consiste nella probabilità che dalla devianza primaria si possa
passare ad una devianza secondaria, cioè in una serie di “atti di affiliazione e di stigmatizzazione,
tendenti a provare l'accettazione (almeno iniziale) da parte del deviante di una definizione negativa
degli atti compiuti” (Milanesi 1984, 440).
2.2.2. Rischio fisico
Il concetto di rischio fisico, è connesso con lo stato di salute, intesa come “condizione ottimale di
funzionalità bio-fisiologica che permette un armonico sviluppo della personalità complessiva del
giovane” (Milanesi, 1984, 452). La salute è il presupposto fondamentale per le possibilità di
autorealizzazione e partecipazione.
Il rischio per la salute comprende i seguenti livelli progressivi di rischio:
1. esposizione a comportamenti altrui presumibilmente dannosi alla salute (es. fumo);
2. sintomi di salute precaria nel soggetto;
3. malattie pregresse nella storia clinica dei famigliari o del soggetto stesso;
4. comportamenti considerati gravemente dannosi per la salute del soggetto (abitudini
alimentari, uso incontrollato di medicinali, abuso di alcool e stupefacenti, condotte
rischiose, ecc.). Quest’ultimo tipo di rischio si collega con il rischio di devianza.
ultima risorsa degli «esclusi»” (Milanesi, 1977, 30-35 passim).
20
2.2.3. Rischio consumistico
Il rischio consumistico è legato essenzialmente: allo sviluppo del consumo come
conseguenza del miglioramento delle condizioni materiali dell’uomo contemporaneo; alle esigenze
dell’economia basa sull’espansione dei consumi; alla logica dell’apparire che prevale su quella
dell’essere; all’uso massiccio di oggetti status-symbol per definire la propria posizione sociale e
anche la propria identità25.
Tale dinamica si giocherebbe prevalentemente nel tempo libero, interpretato “secondo una
modalità di fruizione che implica un certo pericolo di svuotamento delle opportunità di crescita
personale e sociale” (Milanesi, 1984, 458).
Il tempo libero, secondo Dumazedier (1978), può avere valenze autorealizzative e
promozionali, come anche ludiche o compensative. Ma il tempo libero viene troppo spesso vissuto
come tempo separato dal tempo “occupato”, cioè dal tempo “forte” del vissuto quotidiano (nel caso
dei giovani dal tempo dedicato allo studio, al lavoro, alla famiglia). Si tratta di una separatezza che
implica anche una evidente contrapposizione: non è raro infatti il caso che il tempo libero venga
considerato dai giovani come il tempo "vero", quello in cui è possibile costruire la propria identità.
Da questa dicotomia tra tempi e illusione libertaria nasce il rischio consumista, che “si
configura quando il tempo libero, vissuto nella separatezza e nella contrapposizione rispetto al
tempo totale dell'esperienza quotidiana offre solo (e necessariamente) occasioni di divertimento e
relax che hanno lo scopo di reintegrare e omologare alla società dei consumi, secondo modelli che
sono appunto funzionali ad essa e da essa elaborati”(Milanesi, 1984, 460)
In questo tipo di socializzazione avviene una canalizzazione coatta dei bisogni secondo
modelli consumistici, dove “il giovane è chiamato solo a consumare cultura, gioco, festa, relax e se
fosse possibile anche tutto lo spazio della sua socialità, senza mai essere stimolato a produrre tutto
ciò in forma più costruttiva” (Milanesi, 1984, 461). Inoltre anche molti comportamenti devianti
(tossicodipendenza ed alcoolismo in primo luogo) rispondono alla stessa logica.
2.2.4. Rischio formativo
Questo tipo di rischio si verifica quando “il ragazzo vive il rapporto con le agenzie di
formazione in modo problematico, cioè sulla base di una generalizzata incertezza, sfiducia,
incoerenza di orientamenti” (Milanesi, 1984, 468).
Questa situazione indica uno scollamento con le agenzie di formazione. Questa si risolve in
atteggiamenti negativi verso l’istituzione scolastica (ripetenze, concezione negativa della scuola); o
verso l’istituzione familiare (discrepanze valoriali, mancanza di sostegno, abbandono) o nella
lontananza offerta da altre istituzioni sociali (es. Chiesa, associazionismo, volontariato, offerte
culturali, ecc.), che potrebbero migliorare il rapporto dei giovani con la società e con se stessi.
25 Questo problema è connesso con il fatto che alcuni oggetti, azioni-simbolo son connessi con la definizione di status e di ruolo e
che oggi tali definizioni sono continuamente posti in discussione. Loredana Sciolla accenna alla "moltiplicazione dei criteri di
classificazione [...] ciò significa che uno stesso individuo, in base a certi criteri , può essere collocato in basso in alto e, in base a certi
altri criteri, in basso nella gerarchia di status". Inoltre "se da un lato un individuo non può essere definito in modo univoco a partire
dalla sua collocazione sociale e professionale, dall'altro anche i simboli materiali di status ( il quartiere di residenza, il modo di
vestire, ecc.) sono sottoposti a rapidi mutamenti e comunque non bastano ad eliminare l'insicurezza di status [...]. Più in generale si
potrebbe dire che ogni individuo ed ogni gruppo nella società moderna sono continuamente sottoposti a richieste di identificazione,
ossia a richieste di specificare e definire i propri attributi e i propri confini" (Sciolla 1983a, 61).
21
2.2.5. Rischio sociale
Qualcuno inserisce anche il “rischio sociale” inteso come la scarsità sul territorio di
opportunità per la riuscita: difficile accessibilità all’istruzione, difficoltà nel reperimento del lavoro,
la povertà, scarse opportunità di aggregazione e di strutture di tempo libero “ricco”, la
disgregazione familiare, i conflitti relazionali, il contatto con culture di carattere individualista,
violento, consumista, deviante, ecc.
Tali elementi potrebbero essere configurati anche come situazioni semplicemente di disagio.
Tuttavia i confini tra i due non sono molto marcati e quindi possono appartenere indifferentemente
sia all’uno che all’altro versante. In ogni caso tali situazioni possono costituire sia una situazione di
disagio sia il terreno di cultura della devianza.
Il confronto personale tra quello che viene richiesto al soggetto e le sue reali possibilità,
peraltro fortemente condizionate da questi fattori, genera spesso la sensazione e la coscienza
dell’impossibilità di attingere alle risorse. Non di rado a tale divario si accompagna anche un
sentimento di impotenza che provoca la propria e vera rinuncia a raggiungere la propria maturità
attraverso i mezzi normali e legali. È la condizione di sofferenza o lo stato d’animo al quale viene
ridotto il soggetto a caratterizzare di più la condizione di disagio come impossibilità reale (oggettiva
e soggettiva) di acquisire in modo ottimale ai mezzi per fronteggiare le sfide. Ciò comporta che chi
si trova in tali condizioni tenda ad associarsi in bande o gruppi che praticano il rifiuto sistematico
della legalità, la ricerca di forme di sopravvivenza parassitaria, il rifiuto di ogni forma di
partecipazione sociale e di ogni attività associativa strutturata, attrazione verso certi modelli
consumistici. Tali soluzioni si configurano a loro volta come rischio di devianza
2.3. Bisogni insoddisfatti nelle situazioni di disagio e di rischio
Le situazioni descritte creano uno stato di malessere per i bisogni che non sono soddisafatti o
la cui soddisfazione è negata o resa impossibile da una serie di circostanze concomitanti. Cerchiamo
nel prosieguo di indagare sui principali bisogni negati o frustrati da queste situazioni.
2.3.1. Rischio e trasgressione come bisogni evolutivi?
“La popolazione giovanile si è sempre caratterizzata per una maggior propensione
trasgressiva rispetto alle norme morali e legali della società, ma è negli ultimi anni che il distacco si
è acuito” (Cavalli, de Lillo, 1993, 179).
La trasgressione fa parte del normale processo di crescita: più precisamente, di presa di
distanza dal mondo adulto e dal modello infantile “eterodiretto”. La propria autonomia e la
possibilità di assumersi il proprio posto nella società passa inevitabilmente attraverso la negazione
del passato e delle dipendenze, cui il bambino era vincolato.
Sembra che possano essere ascritte a tale dinamica l’affermazione della propria soggettività,
la rivendicazione di libertà e autonomia, soprattutto la libertà di consumo. A queste categorie vanno
ricondotte la propensione alle trasgressioni in campo sessuale, nei rapporti economici, nell’area
dell’addiction. Le condotte ispirate a questi principi sembrano rispondere fondamentalmente al
bisogno di libertà, di autoespressione, in tutto ciò che si ritiene affare privato, o su cui non è in
gioco una responsabilità più ampia.
Lo stesso dicasi dei comportamenti a rischio come sfidare il pericolo o provare una
situazione pericolosa. In questi casi vale quanto espresso dal rapporto Eurispes: “per un adolescente
affrontare sfide che tendono a superare le sue normali capacità è funzionale all'esigenza di ‘sentirsi
22
adulto’ e permette di lenire le ansie legate ai cambiamenti di questo delicato momento di crescita”
(2002, 140).
Per gli adolescenti la violazione della norma non costituisce un comportamento riprovevole,
bensì un’accettazione della sfida insita in una situazione pericolosa, un modo per affermarsi e
realizzarsi. La propria affermazione nel mondo e la definizione dell’identità passa sovente
attraverso delle prove di coraggio, di sfida, di confronto col limite
2.3.2. Trasgressione e rischio nel segno dell’evoluzione sociale?
In una società del caos i giovani si presentano con comportamenti più spontanei che nel
passato, più liberi ed indipendenti. L’atteggiamento trasgressivo verso le norme viene valutato
diversamente dalle varie scuole di pensiero. C’è chi lo considera come un rifiuto all’integrazione
sociale e quindi frutto di una cattiva socializzazione (struttural-funzionalismo), chi invece un
elemento di innovazione nella società (sociologia critica). A questa corrente può essere ricondotta
anche la posizione di Inglehart: egli considera l’aumento di trasgressione o di tolleranza della
trasgressione, almeno in alcuni campi soprattutto quelli concernenti i rapporti familiari o sessuali e
verso la vita, segno di aumento di libertà ed autoespressione, e quindi di evoluzione della società.
Pertanto tali, o alcune di tale trasgressioni, nella sua ottica vanno valutate come progresso sociale e
manifestazione di bisogni e valori più elevati.
Quindi vanno valutate diversamente le stesse condotte rischiose. Può darsi che uno stesso
comportamento o richiesta, in una data situazione sia domanda alla società di essere più aperta, di
accogliere un valore nuovo. In un’altra situazione può essere invece l’invocazione di maggior cura
ed attenzione per un settore debole della società. Infine la propensione al rischio ed al pericolo può
adeguatemene esplicarsi anche in attività lecite come gli sport estremi (paracadutismo, rafting,
bunjee jumping, free climbing, parapendio, sci estremo, ecc.), nelle quali ci si può affidare ad
istruttori esperti e dove il livello di rischio è contenuto e controllato.
2.3.3. Disagio come difficoltà nella soluzione dei compiti di sviluppo
Il termine “disagio” può anche indicare la difficoltà di trovare una soluzione soddisfacente
per l’identità personale, la marginalità che però non fa troppo problema, la difficoltà di reggere il
gioco della flessibilità, l’ambivalenza delle scelte e dei percorsi, la fragilità e l’insicurezza
personale. Il procedere dell’adolescente, già caratterizzato da accelerazioni e discontinuità, è reso
ancora più difficile dalle attuali condizioni sociali, per cui il disorientamento, il malessere e una
certa devianza sembrano ormai costitutivi del processo di maturazione. Si tende pertanto a
connotare questo periodo come una situazione diffusa di disagio, come un periodo di difficoltà di
adattamento ad una società che, alle normali difficoltà di crescita, pone ulteriori difficoltà
all’inserimento sociale dell’adolescente e del giovane.
Nel recepire queste difficoltà tipiche della società a sviluppo avanzato, che si manifestano in
maniera patologica proprio nel periodo della preadolescenza e adolescenza, il disagio viene, a volte,
definito anche come “la manifestazione presso le nuove generazioni delle difficoltà di assolvere ai
compiti evolutivi che vengono loro richiesti dal contesto sociale per il conseguimento dell’identità
personale e per l’acquisizione delle abilità necessarie ad una soddisfacente gestione delle relazioni
quotidiane” (Neresini - Ranci, 1992, 31).
Le difficoltà più evidenti alla definizione dell'identità giovanile dipendono da difficoltà ed
incertezza delle prospettive lavorative, prolungamento della permanenza nelle strutture formative e
conseguente allungamento dei tempi dell'inserimento nella vita attiva, scarsa trasparenza e
23
prevedibilità del modello sociale, proliferazione di centri di potere e di modelli culturali,
autoreferenzialità dei sistemi ed incompatibilità tra loro, moltiplicazione dei coinvolgimenti di
ruolo, compresenza a varie formazioni sociali, pressioni ed aspettative diverse ed incongruenti.
Le difficoltà dell'adolescente sembrano legate non tanto all'urgenza di dover affrontare
queste situazioni, quanto al doversi confrontare con più compiti simultaneamente in condizioni
strutturali e relazionali non sempre supportanti e gratificanti. La spinta al consumismo e al possesso
di beni materiali, la mobilità sociale e la presenza sempre più massiccia di immigrati nel nostro
paese hanno dato vita a nuove tipologie di disadattamento e di devianza giovanile. Un'attenzione
particolare è stata rivolta a vari tipi di violenza, ma anche ad anomalie nelle condotte alimentari,
soprattutto per la tossicodipendenza, a situazioni di rischio estremo o alla rinuncia alla vita.
I disturbi delle condotte alimentari, in età adolescenziale, sembrano indicare che le difficoltà
ad accettare le trasformazioni del proprio corpo e le sensazioni ad esse connesse inducano delle
fobie e dei problemi nuovi. Il confronto del proprio corpo con quello degli altri costituisce a
quest’età un elemento importante e problematico nella costruzione dell’identità personale.
Le fughe (dalla famiglia o dalla vita) rappresentano una reazione tipicamente adolescenziale,
finalizzata all'evasione e all'evitamento delle difficoltà, acuite nel corso dell'adolescenza dalle
trasformazioni psico-fisiologiche, dal bisogno di agire, da capacità cognitive ed emozionali ancora
immature. Tali difficoltà spesso impediscono all'adolescente di intravedere vie d'uscita diverse da
quella della fuga. “Basta un contrasto con i genitori, un’incomprensione o un fallimento scolastico,
una reale o presunta ingiustizia patita in una condizione esistenziale di gravi tensioni e di
frustrazioni profonde a spingere ad una fuga da casa nell’illusione di diminuire l’angoscia e di
trovare vie d’uscita da una situazione che si percepisce come insopportabile” (EURISPES, 2002,
148).
I bisogni che sembrano emergere da certe forme di divertimento, come quello in discoteca
sono quelli di appartenenza, di compagnia, uniti a quello dell’eccitazione, dello sballo e della
soluzione dei problemi attraverso la fuga in stati di alterazione della coscienza. Esso sembra far
intravedere l’esistenza di un sistema di valori della vita come ricerca del piacere, dell’avventura,
dell’eccitazione e della novità (Labos 1994). Ma anche problemi di personalità e di identità.
La prospettiva interazionista e costruttivista ha evidenziato che tali comportamenti
problematici svolgono delle precise funzioni nel processo di adattamento tra l'individuo e l'ambiente
e sono il risultato di un'azione orientata ad uno scopo, in relazione ai compiti di sviluppo ed alle
opportunità offerte dal contesto.
Le funzioni specifiche assolte dai comportamenti a rischio si possono ricondurre a due aree
specifiche che riguardano lo sviluppo dell'identità e la partecipazione sociale. Queste due categorie
generali si declinano in funzioni specifiche definite: "adultità", trasgressione, affermazione e
sperimentazione del sé, fuga dalla realtà e ricerca di una risoluzione emotiva immediata,
costruzione di un legame sociale e di gruppo con i coetanei.
Dato il progressivo rinvio dell'ingresso nell'età adulta che caratterizza le società occidentali;
spesso il ragazzo assume comportamenti che vengono ritenuti significativi dello status sociale
adulto come ad esempio il fumo di sigaretta o il consumo di alcool. La definizione della propria
identità sovente viene cercata in attività di natura prevalentemente simbolica. Vi è il bisogno, per
chi non ha alcuna prospettiva di essere un “eroe-positivo”, di assumere un’identità negativa, che dà
l’impressione di contare, di non essere “nessuno”.
2.3.4. Disagio da bisogni insoddisfatti
Alcuni dei comportamenti trasgressivi e rischiosi sovente denunciano non solo la ricerca di
una via autonoma di realizzazione, ma anche un disagio dovuto a bisogni non soddisfatti a tempo
debito: “scarsa autostima, disagio psicologico (immaturità affettiva e cognitiva, inquietudine, ecc.),
24
vissuti abbandonici, incapacità di riconoscere l'autorità genitoriale, fallimenti scolastici o difficoltà
in ambito lavorativo” (EURISPES, 2002, 148).
Infatti, se è vero che la trasgressività è una caratteristica universale dell'adolescenza, “è
difficile capire fino a che punto può essere considerata espressione di un desiderio di crescita e di
maggiore autonomia e quando, invece, è segnale di un disagio individuale, familiare o sociale"
(Maggiolini e Riva, 1999). Le forme di autodistruttività come l’anoressia, la bulimia, il consumo di
droghe, le fughe da casa i suicidi o tentati suicidi sembrano rappresentare un richiamo su di sé ed un
tentativo di risolvere in maniera “drammatica” i propri problemi. Sovente le radici del malessere
stanno anche nelle situazioni familiari, ed in particolare, nell’atteggiamento di genitori troppo
impegnati nel lavoro alla ricerca sempre più intensa del benessere, ma poco attenti ai figli, ad un
sano ed equilibrato sviluppo della loro personalità.
“Si fugge per saggiare se il genitore o i genitori hanno reale interesse per il loro ragazzo e
nel contempo per costringerli - con l’unico modo che si ritiene possa essere utile - a ricostruire un
rapporto e a dimostrare che lo si considera un valore.in situazioni familiari caratterizzate da elevata
conflittualità e disgregazione, relazioni affettivamente deprivate e rifiutanti, rigidità o assenza di
modelli educativi, comunicazione scarsa o inesistente, abuso di alcool o droghe, disturbi
psichiatrici, difficoltà economiche o estrema povertà, situazioni di abuso fisico, sessuale,
psicologico. Possono essere all'origine dell'allontanamento volontario di un adolescente anche un
eccessivo controllo esercitato dai genitori sui figli o aspettative elevate dei primi, unitamente ad uno
stile educativo autoritario” (EURISPES, 2002, 148).
Sono, però, numerose le situazioni di cosiddetta "emergenza", agita nella fuga, che nascono
da un profondo stato di disagio psicologico e nelle quali è possibile rintracciare non solo uno stato
di immaturità emotiva, ma chiari disturbi psicopatologici o quadri di personalità antisociale.
Molti casi di suicidio o tentato suicidio hanno alle spalle significative perdite/separazioni,
genitori con problemi di alcolismo o con disturbi psichici, esperienze di vittimizzazione violenta
(fisiche, molestie o abusi sessuali, psicologiche), isolamento. Compaiono tra i fattori di rischio
anche disturbi psichiatrici, disordini della condotta ed altre forme di disagio psichico (instabilità
emozionale, comportamenti autodistruttivi, incapacità di controllo degli impulsi, scarsa tolleranza
allo stress, scarse capacità di risoluzione dei problemi, credenze rigide o irrazionali, ecc.).
Forme di violenza, cosiddetta “espressiva” o “simbolica” hanno come scopo principale
quella di manifestare un disagio, di esprimere, con forme altamente spettacolari, il proprio
malessere. Sembra che il comune denominatore sia una certa difficoltà a riconoscersi ed integrarsi
in questa società. Perciò si esprimerebbero con rabbia distruttrice contro tutto ciò che simboleggia
una civiltà da cui si sentono attratti e respinti insieme. In effetti queste manifestazioni diventano più
evidenti nelle grandi concentrazioni urbane e si esprimono contro i simboli del centro
(metropolitana, vetrine, automobili). Si tratta, infatti, di ragazzi che si esprimono simbolicamente
ma non attraverso i canali tradizionali riconosciuti e condivisi dagli adulti (la parola e la scrittura),
né con la musica, il ballo o i graffiti. Il loro linguaggio è quello concreto dell'azione.
2.3.5. Conclusione: bisogni dimenticati, ma non solo
Queste note indicano che effettivamente il disagio (ed il rischio) trovano una motivazione dalla
frustrazione dei bisogni. Bisogni non tanto sul piano materiale (tolte le situazioni di povertà ed
emarginazione) ma soprattutto sul piano dei bisogni immateriali (o postmaterialisti). Il bisogno più
sovente frustrato sembra essere quello di tipo affettivo (abbandoni, carenze di cure parentali,
difficoltà relazionali, ecc.), ma anche per carenze sul piano formativo, che indica nei processi di
socializzazione la componente più rilevante di tutta la vicenda. Vogliamo approfondire tale discorso
partendo alcuni fenomeni di tipo macro-strutturale per arrivare ai processi di socializzazione.
25
2.4. Fattori macrosociali del disagio e rischio
Al primo posto vengono fattori di tipo strutturale (soprattutto disoccupazione); di seguito
quelli di tipo psicologico: l’insoddisfazione per i rapporti familiari, per la gestione del tempo libero
ed infine il rapporto con il rischio, cioè la ricerca del rischio per le sensazioni forti che esso
produce. Tali situazioni appaiono in stretta relazione con la tendenza alla sottovalutazione della
salute e con l’insoddisfazione personale nei confronti della propria condizione di salute psico-fisica
o della propria vita (Iard 2002).
2.4.1. Gli effetti della società post-industriale e globalizzata
In Europa ed in Italia, in particolare, dagli anni ‘70 sta avvenendo un ampio processo di
trasformazione dell’economia e della società che va sotto il termine di “post-industriale”26. Questa
rivoluzione comporta non solo un cambio nel modo di produrre e distribuire le merci, ma anche nei
valori e nell’organizzazione della società.
A livello industriale si va verso la “deverticalizzazione” dei grandi stabilimenti, con
l’attribuzione all’esterno (piccole imprese) di parte del ciclo produttivo. Altro elemento specifico di
tale economia è la rivoluzione microelettronica ed informatica. Il modello produttivo che si impone
è quello della “Toyota”, che rende obsoleta l’organizzazione “fordista” o “taylorista” del lavoro. I
termini vincenti sono: “flessibilità”, “creatività”, “qualità”, superando le logiche disumanizzanti
della catena di montaggio.La nuova industrializzazione comporta la dislocazione degli stabilimenti
in aree più convenienti per il costo della manodopera. Nascono i fenomeni della “delocalizzazione”
delle industrie e della “globalizzazione” del mercato.
La terziarizzazione dell’economia si estende sempre più. L’intreccio tra terziario e cultura
comporta una razionalizzazione dei comportamenti ed una ristrutturazione dei processi decisionali,
un allargamento delle capacità conoscitive. Cresce la domanda di qualità nella produzione. La
scienza e la tecnologia hanno un ruolo sempre più rilevante nei processi produttivi. A ciò si
aggiunge l’apertura internazionale del mercato italiano.
Il modello di vita occidentale viene diffuso capillarmente in tutti i continenti, creando
un’omogeneizzazione della cultura e dei consumi, funzionale alla grande distribuzione, ma con
effetti distruttivi sulle culture locali e disgregativi sul tessuto sociale. Questo provoca forti
movimenti migratori verso le grandi città del terzo mondo e i paesi ricchi dell’occidente con
reazioni xenofobe nei paesi europei o più evoluti, e reazioni fondamentaliste, a forte contenuto
religioso, soprattutto (ma non solo) nei paesi di religione islamica.
2.4.1.1. Effetti sull’occupazione giovanile
La crescente razionalizzazione del sistema produttivo, cioè l’applicazione sistematica
dell’elettronica e dell’automazione ed una più rigida divisione del lavoro, sia all’interno di un
sistema produttivo, sia all’interno dei rapporti internazionali tra diversi sistemi, provocano la
26 - "Grosso modo - scrive Domenico De Masi - [i tratti essenziali della società post-industriale] consistono in una prevalenza
degli addetti al settore terziario, rispetto ai lavoratori dell'industria e dell'agricoltura; in un declino dei modelli di vita improntati alla
fabbrica e alla grande industria; in un emergere di valori e culture centrate sul tempo libero; in un ruolo centrale della conoscenza
teorica, della pianificazione sociale, della ricerca scientifica, della produzione di idee della istruzione; in un declino della lotta di
classe polarizzata, sostituita da una pluralità di conflitti e di movimenti, anche per la presenza di nuovi soggetti sociali; in un
prevalere di attributi caratteriali narcisistici che soppiantano o integrano quelli edipici nella struttura delle personalità individuali"
(De Masi 1985, 46).
L'evoluzione verso questo nuovo tipo di società "è stata resa possibile dalla rivoluzione microelettronica e si è imposta per il ruolo
che son venute ad assumere la variabile demografica nonché la variabile energetica" (Terranova 1988, 62). Il mercato dei beni
simbolici diventa strategico. La scienza costituisce fattore di produzione e fondamento del potere. La lotta per il potere diventa lotta
per il controllo dei mezzi di produzione di significato.
26
polarizzazione della società in due tronconi non comunicanti.
Da una parte la società produttiva, il polo “forte” del sistema, caratterizzato da crescenti tassi di
sviluppo e sempre più autonomo nei suoi processi di integrazione; dall’altra la società riproduttiva,
la cui caratteristica sarebbe quella di provvedere solo alla ricostruzione delle condizioni materiali e
sociali della propria sopravvivenza e alla soddisfazione dei bisogni più urgenti. Caratterizzerebbero
questa società economie di pura assistenza e puro autoconsumo, integrate da spezzoni di attività
produttiva funzionale, legati alla società produttiva da una logica di interdipendenza asimmetrica e,
allo stesso tempo, precaria, instabile e frammentaria.
Un effetto di questa rivoluzione è la riduzione dell’occupazionale. La rivoluzione
microelettronica e informatica, la “deverticalizzazione” e la “delocalizzazione” consentono di
ridurre notevolmente la manodopera o di avvalersi di manodopera a basso costo. La nuova fase
espansiva crea lavoro in attività interstiziali, nascono nuove piccole attività fortemente precarie, si
diffonde il lavoro occasionale, interstiziale, part-time. Tutto ciò permette di sfuggire più facilmente
al controllo dei sindacati e degli ispettori del lavoro, con aumento del lavoro nero, sottopagato,
senza protezione sociale. Nei due decenni di fine millennio aumentano significativamente in Italia
gli incidenti e i morti sul lavoro.
Aumenta la divaricazione tra società produttiva e società riproduttiva, con tendenza a legittimare
l’alto livello di selettività che l’innovazione tecnologica è in grado di introdurre in tutte le forme di
vita associata.
I giovani sono coloro che più scontano gli effetti di queste trasformazioni strutturali. Infatti,
in situazioni di emergenza, i giovani, insieme alle donne e ai lavoratori anziani, rappresentano la
“quota debole” del mercato del lavoro, cui si fa ricorso solo dopo aver esaurito le scorte della
“quota forte” (maschi, delle classi centrali di età, che garantiscono una certa stabilità e
qualificazione). Ai giovani e alle donne si apre di norma il settore dei lavori precari, non garantiti,
del lavoro nero, del lavoro a domicilio... Si tratta di occupazioni che non permettono al giovane
un’emancipazione e autonomia di vita. Inoltre, è forte il rischio di disoccupazione intellettuale,
perché ai giovani si aprono più possibilità di lavoro in occupazioni di livello inferiore rispetto a
quelle cui potrebbero aspirare col titolo di studi conseguito. Tuttavia la richiesta di lavoro
qualificato alla lunga premia più l’elemento giovane che quello anziano. Ma per rispondere
adeguatamente a tale esigenza bisogna che la scuola si adegui alla nuova domanda professionale,
cosa in cui la scuola italiana non ha mai brillato. In ogni caso le incertezze nel mondo del lavoro
rendono molto più precaria la situazione giovanile e la fase di socializzazione costringendo i
soggetti a ripiegamenti adattivi.
L’espulsione dei giovani dal sistema produttivo o la loro marginalizzazione in attesa di una
cooptazione, costringe a disancorare la definizione dell’identità da uno dei suoi referenti principali:
il lavoro. In compenso la precarietà lavorativa e la lunga permanenza nelle strutture formative
trasferisce nel tempo libero e nei valori espressivi molte delle attese di realizzazione che prima
erano investite sulla professione e sui valori ad essa afferenti.
Infine le difficoltà di transizione tra scuola e lavoro rendono anche precario e aleatorio il
rapporto con la scuola che non riesce a garantire quell’ingresso nella vita sociale adulta che ne
giustificava l’esistenza. Infine l’incertezza e la precarietà lavorativa rende tutto più relativo e fa
perdere fiducia nelle istituzioni e nella società, oltre che in se stessi, riducendo significativamente il
livello di autostima.
2.4.1.2. Consumismo e nuovi bisogni
Per poter reggere all’aumento di produzione è necessario inventare sempre nuovi bisogni
che possono essere soddisfatti solo da prodotti sempre più sofisticati. La spinta ai consumi viene
incrementata dalla pubblicità e dall’opera suadente dei mass-media.
La ricerca Labos (1994) indica come fattore principale del disagio giovanile un preciso
sistema di valori , quello della vita intesa come ricerca del piacere, dell’avventura, dell’eccitazione
e della novità. “Questo sistema di valori è presente in giovani che danno una estrema importanza
27
alla vita eccitante, stimolante, variegata e con molte novità, al piacere, alla gratificazione dei
desideri e al godimento attraverso il sesso e il cibo, all’audacia, all’avventura e anche alla creatività
(Labos, 1994, 26). E’ un sistema di valori che spinge i giovani che lo hanno assunto verso la ricerca
del senso della vita, o perlomeno dell’appagamento della loro sete di vita, all’esterno di sé, nelle
cose materiali e immateriali che li circondano (Labos, 1994, 26).
Gli autori sostengono che questo sistema di valori “è portatore di rischio di disagio per la
vita del giovane” (Labos, 1994, 26). Infatti dall’eccessiva valorizzazione dell’eccitazione, del
piacere e dell’avventura consegue una continua ricerca di nuove forme, luoghi, attività e persone
attraverso cui soddisfare il proprio desiderio.
L’assunzione di rischio è vissuta dai giovani come caratteristica intrinseca di molti ruoli, da
quello professionale (o scolastico) a quelli relazionali ed affettivi. Mal si addice alla loro età il
calcolo, la preparazione, l’attesa, la previsione a lungo termine.
Questa ricerca può condurre a esperienze limite e ad accettare proposte e occasioni di
consumo di sostanze stupefacenti o psicotrope, di azioni rischiose per la propria e l’altrui vita, di
azioni trasgressive o devianti(Labos 1994, 26-27).
Ciò si verifica specialmente se questa cultura “non è limitata, circoscritta da altri sistemi di
valori antagonistici” (Labos 1994, 27).
L’eccessiva accentuazione dell’affermazione individuale, quasi narcisistica, che molto
spesso appare dominante nell’attuale cultura sociale, unita a quella che spinge a ricercare il piacere
e l’eccitazione come fonte di felicità esistenziale, è uno dei fattori di distruttività che può avviare
giovani incapaci di difendersi da queste provocazioni ad esperienze rischiose e devianti. Tale
atteggiamento viene sostenuto anche a livello sociale e culturale. Oggi, infatti, si sta imponendo un
nuovo modello interpretativo - di ispirazione anglosassone e tedesca - che considera il rischio in
un’accezione positiva; saper rischiare è, ad esempio, una condizione essenziale per il successo in
una società sempre più competitiva e sempre meno garantita. La diversa percezione del rischio
segnala lo spostamento di prospettiva da un orientamento verso traguardi di sicurezza ad obiettivi
nei quali trova spazio il mettersi in gioco e il non accontentarsi. L'etica del successo sembra avere,
in altre parole, contagiato larghe masse di giovani che appaiono consapevoli che il saper rischiare
faccia parte delle abilità che la società attuale richiede a chi vuole farsi strada nella vita.
Quando gli stessi giovani incontrano invece la proposta di una realizzazione di sé più
profonda, legata allo sviluppo dell’interiorità e della solidarietà, essi si aprono a una realizzazione di
sé che li porta lontani dalle secche del disagio e valorizza la loro capacità di trasformazione
evolutiva della condizione umana .
L'accettazione consapevole del pericolo può essere sostenuta solo in concomitanza con un
secondo assunto esistenziale, che appare largamente condiviso dai giovani: ogni comportamento per
essere desiderato deve essere revocabile; si possono anche compiere scelte rischiose nella
convinzione però che non siano irreversibili. Ma a volte il rischio diventa un boomerang, che si
ritorce contro chi l’ha scagliato: una vita troncata diventa l’impossibilità di fare ulteriori esperienze;
gli effetti di certe scelte si scontano per tutta la vita.
2.4.1.3. Permanenza di povertà e bisogni materiali
Nonostante l’indubbia crescita economica della società italiana in questi trent’anni, e la
situazione generale di benessere, permangono sacche di reale marginalità (talora addirittura di tipo
residuale) che non consentono il soddisfacimento di bisogni materiali secondo lo standard medio
del contesto in cui si vive. Non pochi giovani si percepiscono in situazione di disagio perché si
ritengono insoddisfatti rispetto a bisogni che essi valutano come fondamentali ed essenziali ad una
“sopravvivenza adeguata” (deprivazione relativa27).
Se consideriamo la condizione di marginalità come esclusione dalla società produttiva e
27 “La sensazione di povertà relativa, […] ha una componente soggettiva e può comportare, più della povertà economica,
insoddisfazione, senso di disagio e rischio di devianza” (Caliman, 1997, 114). Il concetto è stato elaborato per primo da Runciman.
28
confinamento in quella riproduttiva, dobbiamo ritenere che questa condizione ha caratteri di relativa
permanenza solo per gruppi ben identificabili di giovani, mentre per la generalità è da considerarsi
solo un rischio diffuso ma transitorio che coincide con la dipendenza forzata e prolungata.
Basta ricordare la marginalità (e la correlativa povertà economica e/o culturale morale e
psicologica) che viene dalla disoccupazione, dall’emigrazione, dalla devianza, dalla «diversità»
socialmente inaccettabile, dalle diverse forme di analfabetismo elettronico, ecc.
In questa società troverebbero posto, accanto alle povertà tradizionali, diversi gruppi, ceti, strati
in nuova povertà (proletariato marginale, lavoratori dipendenti non qualificati, strati in via di
mobilità discendente, handicappati fisici e psichici, ecc. Il nuovo povero è in realtà l’escluso dalla
capacità di esercitare il controllo (cioè di conoscere ed utilizzare) sulle nuove conoscenze tecnicoscientifiche. In questo senso la nuova povertà si identifica quasi totalmente con la marginalità
economica e sociale e si esprime non solo in termini economici ma anche culturali e psicologici.
Pertanto il Wefare State è diventato paradossalmente un fattore di produzione e di strutturazione
di povertà
da una parte, elevando la soglia dei bisogni la cui soddisfazione definisce la qualità della vita,
contribuisce ad allargare l'area dei poveri, cioè di coloro che non sono in grado di soddisfare
autonomamente tali bisogni; dall'altra, esaltando il principio dell'assistenzialismo favorisce il
permanere dei poveri nella loro condizione di sostanziale dipendenza. Si costituisce così una
categoria i nuovi poveri che viene definita in base alla frustrazione di bisogni socialmente indotti
(Caliman, 1997).
L’avvento dello stato sociale ha contribuito notevolmente a migliorare le condizioni sociali della
popolazione povera nei paesi europei, ma ne ha anche ampliato le aspettative. Molti oggi si
attendono dallo stato la soddisfazione dei propri bisogni percepiti come inderogabili, divenuti
quindi dei diritti. La moltiplicazione delle situazioni, la polisemia dei significati, l’aumento delle
aspettative ha prodotto “nuove povertà” che si riferiscono a situazioni e bisogni molto diversi.
Così le vecchie povertà, possono corrispondere alla mancata soddisfazione di bisogni primari, come
l’alimentazione, l’abitazione, la salute, la sicurezza, o a problemi sociali ad essi connessi come la
disoccupazione, l’emigrazione, la delinquenza, l’alcoolismo, la violenza, ecc.
Mentre invece con il termine nuove povertà si intende la frustrazione di bisogni di tipo
secondario, bisogni emergenti o meta-bisogni, in cui entrano elementi che hanno a che fare con la
cultura, la psiche, lo spirito, ecc. Di qui la nascita di un disagio diffuso dai contorni assai incerti.
In particolare sembra rilevante, entro queste forme di marginalità/povertà giovanile, il
fenomeno non infrequente della interiorizzazione della cultura della marginalità, cioè
dell’accettazione più o meno consapevole della marginalità e della povertà come destino
insuperabile e come condanna sociale. Facilitata da ideologie varie di segno nichilista, tale
interiorizzazione preoccupa per le gravi conseguenze che essa può produrre a livello di identità
individuale e collettiva, anche se il fenomeno non può dirsi di massa.
Queste condizioni “emarginanti” o “deprivanti” costituiscono altrettante occasioni di rischio.
Cioè, è più facile che chi si trova in queste condizioni assuma, di fronte alle difficoltà della vita e
alla frustrazione dei bisogni fondamentali, dei comportamenti “devianti”, che mediati dalla
subcultura deviante del suo ambiente (famiglia, luogo di residenza, gruppo o banda, ecc.) e
stigmatizzati dalla società perbene, favoriscono in lui un percorso di scostamento dai
comportamenti “normali” e di interiorizzazione di una identità negativa che lo porterà a diventare
effettivamente deviante (devianza secondaria).
“Occorre concludere che in pratica la transizione verso la società post-industriale ha lasciato
indietro un certo numero di bisogni primari/materiali insoddisfatti, almeno per una certa parte della
popolazione giovanile. […Si può ipotizzare che] “il passaggio verso la società postindustriale
cumula insoddisfazione di certi bisogni materiali (in una parte della popolazione giovanile) con
l’insoddisfazione generalizzata dei nuovi bisogni (in tutta la popolazione giovanile)” (Milanesi,
1986, 133).
29
che le diverse radici delle nuove povertà giovanili spesso si intersecano e si sovrappongono dando
origine a situazioni in cui povertà oggettiva e soggettiva, marginalità e dipendenza, diversità e
alienazione si trovano variamente combinate e formano tipologie inedite e perciò quasi inesplorate.
2.4.2. 5.1. La complessità sociale
Dagli anni ‘70 divenne sempre più frequente da parte dei sociologi l’applicazione della
categoria della complessità28 nell’analisi della società. Con questo termine si sottolinea la forte
differenziazione funzionale dei vari sistemi tra di loro e dei singoli sottosistemi al loro interno e la
moltiplicazione delle relazioni tra loro29. Pertanto la complessità non è una caratteristica delle cose
o delle persone, piuttosto una modalità di descrizione di situazioni o problemi caratterizzati da
numerose interdipendenze relazionali. Di questa configurazione della società c'è poi chi sottolinea
di più la moltiplicazione delle possibilità, la crescita di opportunità, dell'organizzazione, ma non
manca chi fa notare la progressiva ingovernabilità dei sistemi, la mancanza di un centro
organizzatore, la crescita di entropia e la moltiplicazione di codici incommensurabili30.
Si registra, infatti, la frammentazione della realtà sociale ed la pluralizzazione dei centri di potere
e dei sistemi di riferimento e di significato, con conseguenti effetti disgregatori sul tessuto sociale.
Questo comporta per gli individui un aumento di opportunità ed una diminuzione del controllo
sociale. Mentre ciò accresce le possibilità per il singolo, aumenta anche il carico di responsabilità
personale e la probabilità che non riesca a far fronte alle richieste della società 31. Perciò tale assetto
della società pone notevoli problemi di integrazione e quindi di adattamento e di identità32.
Quest'ultimo inconveniente tocca in maniera particolare i giovani, che non hanno ancora raggiunto
un'identità stabile.
Gli effetti della complessità sul sociale sono particolarmente evidenti nella metropoli, che della
civiltà attuale è un po’ l’emblema33. In essa si coglie con evidenza l’aumento di opportunità, ma
28 - "Nella tradizione sociologica (da Durkheim a Simmel a Parsons) quando si parla di complessità del sistema sociale in
riferimento alle moderne società industriali si istituiscono fondamentalmente due tipi di correlazioni. La prima riguarda il numero e
la varietà degli elementi del sistema, la seconda il numero delle relazioni di interdipendenza tra questi stessi elementi. [...] E'
quest'ultima - la densità dinamica e morale della società - la caratteristica saliente in senso sociologico che si sviluppa solo con la
differenziazione e con l'affermarsi della logica della divisione del lavoro" (Sciolla 1983, 45).
Bisogna però riconoscere che sovente tale situazione viene percepita per le difficoltà che comporta. in effetti, il concetto di
"società complessa" ha cominciato a diffondersi con la crisi socio-economica degli inizi degli anni '80, nel momento in cui
"l'attenzione non va più alla dinamica di sviluppo delle nostre società, ma all'arresto di questa dinamica, agli imprevisti effetti disgregatori: ingovernabilità, instabilità, differenziazione e disarticolazione dei processi produttivi, dilatazione dei settori distributivi e
dell'amministrazione, espansione dell'interventismo statale, disgregazione e moltiplicazione dei gruppi sociali, circolarità tra
aspettative e frustrazioni collettive" (Montesperelli 1984, 25).
29 - Secondo Pier Paolo Donati (1985) quattro sarebbero le accezioni relative al termine "complessità" applicato alla società:
1) Complicazione, cioè "crescita quanto-qualitativa di elementi, relazioni e interazioni in un sistema sociale dato" (p. 6).
2) Moltiplicazione di codici incommensurabili, "derivante dall'operare di più e diverse logiche fra loro incompatibili, o,
incommensurabili" (p. 6).
3) Variety pool, cioè "una situazione che consente di mantenere sempre aperte un numero sempre maggiore di possibilità
alternative (più di quante possano essere effettivamente realizzate in un dato momento)" (p. 7).
4) Entropia, "ordine (sociale) probabilistico (casuale), anziché normato, fondato sulla variabilità (differenza)" (p. 7).
30 - "Col termine di società complessa si intende descrivere una realtà composta da tendenze ambivalenti, che risultano tra loro
incompatibili e irriducibili; una realtà in cui uno stato di integrazione precaria orienta, ma meglio sarebbe dire costringe a scelte
parziali e di medio termine, caratterizzate da scarsa capacità previsiva, e il cui esito sociale appare nel segno della non risolubilità"
(Garelli 1991, 540).
31 - "A livello dei soggetti la complessità assume il carattere di differenziazione sociale. Nel tempo presente gli individui e i gruppi
sociali hanno a disposizione possibilità, occasioni, opportunità di scelta e di orientamento, di un livello e di una quantità
inimmaginabili nel recente passato" (Garelli 1991, 540).
32 - "Il principio di differenziazione e di complessificazione dei rapporti sociali così inteso definisce anche il quadro sociale entro
cui si opera una radicale trasformazione del rapporto individuo/società. Il principio di individuazione, la possibilità stessa da parte
dell'individuo di costruirsi un'immagine di sé ricca di contenuto e fortemente individualizzata, di non essere più assorbito dal gruppo,
identificato in esso, sorge solo in un contesto sociale in cui molte e diversificate siano le forze in gioco" (Sciolla 1983, 45).
33 Per urbanesimo si intende la «tendenziale concentrazione della popolazione di una società nelle sue città, specie nelle più
grandi, a causa dei flussi migratori provenienti dalle campagne e dai borghi rurali» (Gallino 1988, 718). Ma esso designa anche il
modo di vita, i modelli di cultura, le forme di interazione sociale che tendono a diffondersi con l’urbanizzazione non soltanto nelle
città, ma anche nelle campagne. Questo è stato prodotto dai vantaggi che la garante città offre: maggior facilità di comunicazione,
30
anche l’effetto disgregatore sul tessuto sociale. Così, per esempio, nelle città a forte concentrazione
demografica si sviluppano diverse patologie sociali individuabili nel forte aumento dei tassi di
criminalità, nella crisi delle infrastrutture cittadine, nella difficoltà di organizzazione territoriale e
delle abitazioni, dei trasporti e dei servizi.
La città rappresenta il massimo della concentrazione demografica in un territorio, e quindi il
massimo delle opportunità di comunicazione, ma è anche il posto dove si è più sviluppato il
problema dell’incomunicabilità tra le persone. Questo è facilmente comprensibile se analizziamo la
teoria della complessità applicata alla condizione umana. Mentre in un qualsiasi sistema l’aumento
delle opportunità costituisce un arricchimento, per l’essere umano questo vale fino ad un certo
livello di soglia, dopo di che esso costituisce una fonte di disturbo e di confusione. L’essere umano
(o sistema psichico individuale, come lo chiama Luhmann) oltre una certa soglia non riesce a
gestire tutti i rapporti e le relazione con cui viene in contatto, ma deve necessariamente selezionarne
alcuni e scartarne altri, procedendo probabilmente con criteri irrazionali e soggettivi, più che
razionali ed oggettivi34. Ecco allora che la socialità dell’uomo (= disposizione a stabilire un
rapporto con l’altro), viene sottoposta a due forze opposte che lo lacerano nell’intimo: quello di
aprirsi all’altro, di dargli ospitalità, di comunicare, e, viceversa, quello di difendersi dall’altro, di
difendere la propria privacy, di non comunicare o comunicare solo molto superficialmente. Con
tante opportunità di rapporto ci si ignora, oppure si verifica il meccanismo, descritto dal sociologo
americano Goffman (1967, 1971), della “disattenzione civile”, con cui si segnala all’altro che si è
percepita la sua presenza ma si evita qualsiasi gesto che possa essere interpretato come troppo
invadente, come quando tra passanti ci si scambia un’occhiata ma poi si distolgono gli occhi quando
si arriva vicino.
2.4.2.1. Complessità e frammentazione dei sistemi valoriali
Il tema degli effetti della complessità sulle persone e sul sistema culturale è stato per la
prima volta preso in considerazione, tra le opere che abbiamo analizzato, dai promotori (De Moor e
Kerkhofs) della prima ricerca EWSSG, che si chiedevano in via preliminare “in che misura la
cultura europea è ancora fondata su dei valori di base che formano un insieme coerente” (in
Stoetzel, 1984, 7). Gli autori italiani della medesima ricerca prendevano le distanze dalle
preoccupazioni che questa sembrava contenere. Per essi una riformulazione dei valori era
inevitabile dati i mutamenti che stavano avvenendo nella società35. Ma non per questo ritenevano
aumento di opportunità lavorative e di offerta di beni e di servizi, maggior mobilità sociale, ma anche da una mitizzazione della
metropoli come centri del progresso e mecca di tutte le opportunità, nonché dalla secolare lotta contro le campagne ed il loro modello
di vita (ibid.).
34 Luhmann concepisce la "complessità" come una relazione tra sistema ed ambiente che si traduce in "più possibilità sovrabbondanza - eccedenza di opportunità". Per evitare che la complessità ambientale metta in pericolo la loro stessa esistenza i
sistemi dovrebbero provvedere ad una "riduzione" della complessità ambientale. Il meccanismo più efficace di cui dispone un
sistema, secondo la logica del modello cibernetico, per fronteggiare l'aumento di complessità esterna ambientale consisterebbe in una
"progressiva differenziazione interna in vari sottosistemi funzionalmente specificati" (Cesareo 1987, 75). Ma non si potrebbe mai
raggiungere un livello di equilibrio, perché lo sviluppo evolutivo comporta un sempre maggior aumento di possibilità e quindi di
complessità. All'aumento di complessità ambientale i sistemi si adatteranno funzionalmente attraverso una progressiva
differenziazione interna. Ciò vuol dire che avremo un continuo aumento di complessità, pur conservando una notevole flessibilità dei
sistemi.
Ma non così succederà per il "sistema psichico individuale" (cioè l'essere umano), che non riuscirà a "gestire i problemi derivanti
dalla eccedenza di complessità per tre ordini di motivi. In primo luogo perché la dimensione prevalente dell'agire del singolo è
essenzialmente espressiva, cioè affettiva ed emotiva", mentre per i sistemi è strumentale ("razionalità finalizzata al raggiungimento di
uno scopo"). "In secondo luogo , il criterio cognitivo prevalente nel sistema sociale semplice è costituito dalla concretezza, nel senso
che l'individuo concepisce se stesso e gli altri oggetti sociali come infungibili, cioè tendenzialmente non sostituibili; nel sistema
complesso invece prevale il criterio dell’astrattezza, cioè diventa relativamente irrilevante la personalità degli altri attori, così come
egualmente irrilevante è la conoscenza e la consapevolezza psichica da parte del singolo attore del risultato del proprio agire. In terzo
luogo, l'individuo, dovendo fronteggiare un ambiente mutevole e minaccioso, e disponendo di una scarsa capacità selettiva per le
ragioni precedenti, basa la propria strategia di azione sulla riduzione della complessità tramite la costruzione di rigidità-versus
tendenzialmente stabili e sul conseguimento di una struttura psichica altrettanto tendenzialmente immutabile; Il sistema sociale
complesso possiede invece un'elevata capacità selettiva e adotta la strategia della generalizzazione delle aspettative, in base alla
quale [...] diventano indifferenti o meglio non vincolanti determinate possibilità di azione, e il grado di prescrittività diminuisce col
decrescere e diversificarsi delle aspettative medesime" (Cesareo 1987, 78-79).
35 “La crisi dei sistemi di valori finisce con l’essere il correlato dall’evoluzione dei sistemi di organizzazione, produzione e
31
che si dovesse parlare di “crisi di valori”: “un progressivo disgregarsi della rete di valori condivisi e
convissuti, costituenti il tessuto connettivo della società locale, costituisce un elemento ricorrente
dell’analisi” (Calvaruso, Abbruzzese, 1985, 3). Pertanto, quella che sembrava la crisi dei valori, era
solo il segnale di una trasformazione della scala delle priorità valoriali, che, di fronte alla perdita di
un mondo arcaico, assume l’aspetto di una tragedia.
Più che altro essi rilevano che i valori si stavano progressivamente limitando all’interno di
segmenti circoscritti della vita quotidiana. Mentre prevaleva il pragmatismo che, dalla sfera
economico-produttiva, tendeva ad invadere progressivamente tutti gli altri settori della vita sociale.
Si definisce così il quadro di una società pragmatica, disincantata, burocratico-razionale,
dinanzi alla quale si contrappone l’immagine di una società perduta, arcaico-rurale, densa di
relazioni umane primarie e di valori condivisi e convissuti.
Perciò, più che di crisi e conseguente mutamento dei valori, sarebbe più opportuno parlare di
“una crisi dei criteri di orientamento e dei percorsi-guida che fino ad oggi hanno reso possibile una
gerarchia tra i valori” (Calvaruso - Abbruzzese, 1985, 198-199). Tuttavia “la crisi dei criteri
direttivi” non significa “crisi dei valori tout court”. Tuttavia un certo relativismo s’impone. Il
dichiarare che “non esistono più regole per definire chiaramente che cosa è bene e che cosa è male”,
ma che “tutto dipende dalle circostanze”, implica la scomparsa dei valori o l’accettazione della
complessità sociale? (Calvaruso - Abbruzzese, 1985, 5).
Certamente un mutamento è in atto, ma ciò riguarda soprattutto le norme sociali. Un mutamento di
norme comportamentali non implica un mutamento del valore tout-court, del quale queste norme
non sono che l’esplicitazione fenomenica. Molto più spesso si assiste ad una reinterpretazione del
valore che non implica il suo sovvertimento, ma semplicemente la modifica del suo campo di
applicazione, cioè l’arco di norme comportamentali e di asserti valutativi che di solito vi sono
correlati. Alcune norme perdono così il proprio senso, o meglio la loro legittimazione, senza che
questo implichi una sparizione del valore in sé (Calvaruso - Abbruzzese, 1985, 198).
Invece la “crisi dei criteri di orientamento”, che sono gli stessi “che permettono lo stabilirsi di una
gerarchia tra i valori e con essa l’affermarsi di una scala di priorità” (ibid., 199), chiama in causa le
istituzioni che sono preposte “alla loro diffusione e alla loro costante legittimazione” (ibidem). Tali
istituzioni, per la specializzazione e per lo spostamento all’interno del sistema sociale e simbolico,
contribuiscono a definire la gerarchia dei valori e, a loro volta, a complessificare ulteriormente la
situazione .
Si creano così dei momenti di incertezza collettiva. Ma, più che parlare di crisi dei valori, secondo i
nostri autori, è più corretto parlare:
- di mutamento dei criteri di riferimento che presiedono al comportamento e alle scelte delle
istituzioni in quanto tali: l’evoluzione del riferimento pragmatico nei partiti, nelle istituzioni di
rappresentanza parlamentare ed in altre realtà sociali, sono quindi il primo elemento scatenante di
un processo di progressivo «scolorimento» della gerarchia dei valori;
- di ambiguità crescente tra riferimento etico e riferimento pragmatico in istituzioni, come la Chiesa
e la Famiglia, che sono state, per secoli, il principale centro di elaborazione e diffusione dei principi
che regolano la gerarchia dei valori;
- di una diminuita funzione etica delle istituzioni in quanto tali, sempre più percepite e giudicate in
base alla loro operatività concreta e sempre meno «ascoltate» come centri capaci di porre un ordine
all’interno del politeismo dei valori, stabilendovi una gerarchia di priorità;
comunicazione. Il mutamento dei valori, il declino della loro omogeneità interna, si pone così come il risultato di un duplice
processo. Da un lato è infatti definibile un processo di differenziazione sociale direttamente conseguente alla velocità dei mutamenti
tecnologici e delle organizzazioni produttive: diverse formazioni sociali finiscono con il coesistere l’una accanto all’altra, all’interno
della stessa società, creando reti di valori tra loro eterogenei, non riducibili ad una cultura unitaria. Dall’altro lato è invece possibile
individuare un processo che possiamo definire di impermeabilità istituzionale: le istituzioni economiche, politiche, amministrative
sono, o sembrano, sempre di più indifferenti e impenetrabili rispetto a qualsiasi sistema di valori in quanto sempre più dominate dal
processo di razionalizzazione, cioè dal primato della razionalità rispetto ai fini come unico valore ammissibile (Calvaruso Abbruzzese, 1985, 3).
32
- di conseguente e progressivo riorientamento dei comportamenti individuali che ricominciano a
cercare all’interno di loro stessi, della rete di relazioni informali, della tradizione locale, i criteri di
orientamento, dato che nessuna istituzione sembra più fornirli in modo credibile;
- di progressiva perdita di peso degli insiemi normativi che continuano ad essere diffusi dalle
istituzioni stesse, e che tuttavia perdono la loro capacità di affermarsi, in quanto non più sostenuti
da un riferimento etico presente nell’istituzione e collettivamente avvertito all’esterno di essa
(Calvaruso, Abbruzzese, 1985, 200).
I valori quindi non sono in crisi in quanto tali, piuttosto sono in crisi i criteri che ne permettono la
gerarchizzazione, in quanto le istituzioni preposte a tale compito sono state costrette a
complessificare la propria logica interna e quindi a rendere di fatto meno intensa la loro funzione di
riproduzione e diffusione dei criteri di priorità.
Se a ciò si aggiungono gli sconvolgimenti strutturali presenti nella società civile, dovuti
all’incertezza economica e alla ridefinizione dei profili professionali si può avere un’idea
abbastanza definita di quanto sia ampia la crisi dei centri di orientamento che non coinvolgono
solamente il “che fare” ma anche il “cosa credere”.
A tutto ciò gli intervistati rispondono rivelando una gerarchia dei valori autodiretta, che prende
corpo e significato all’interno delle dinamiche della vita quotidiana, più che essere recepita dall’una
o l’altra istituzione. Ciò comporta una situazione di anomia strutturale, con tentativi di definire
soggettivamente scale di priorità e pesi valoriali dei sistemi di riferimento. Non stupisce allora il
rintracciare, sotto la coltre di mutamenti così complessi, il recupero di valori quali la famiglia, la
comunità locale, la presa di posizione politica, le reti relazionali di base. Mentre al vertice della
scala dei valori si ripropongono: l’onestà, il rispetto e la tolleranza, la fedeltà coniugale, il lavoro
utile e costruttivo.
La novità cruciale è che questi valori si riaffermano «dal basso», cioè dal cuore della società civile.
Non hanno, o almeno non danno ad intendere di avere, istituzioni patrocinanti. Anzi le istituzioni
sono guardate con un disincanto evidente (Calvaruso, Abbruzzese, 1985, 202).
Anche il bisogno religioso si configurerà sempre meno come bisogno di appartenenza e sempre più
come bisogno di senso, in ciò dando ragione delle risposte in cui c’è ancora in molti europei il senso
di ricerca di significati, di interiorità, di una spiritualità, non necessariamente legata a un credo o
chiesa ufficiale. Il bisogno di senso diventa perciò il bisogno percepito con maggior urgenza in un
momento di transizione difficile, dove l’integrazione dei bisogni e la coerenza dei valori diventa
problematica.
Ma se questo è la situazione generale, che ne sarà di chi si sta aprendo alla vita proprio in questo
momento.
Inizia un periodo tormentato. Infatti nessuno, quanto
Questo ridispiegamento della scala dei valori induce gli autori, rielaborando elementi positivi e
negativi che emergono dal mondo giovanile, ad una riflessione conclusiva che riproduciamo nei
passaggi principali:
Il primo elemento emergente è costituito dall’alto livello di integrazione dei giovani intervistati; non
appaiono infatti sostanziali dissonanze con le risposte fornite dalle altre classi di età. Le esigenze di
protagonismo e di identità si esprimono all’interno di un consenso di fondo nei confronti della
struttura sociale, percepita come qualcosa da migliorare e rinforzare, più che da abbattere.
[…]
Eppure i punti di riferimento sembrano mancare, le istituzioni non riscuotono molta fiducia, ad
eccezione di alcune. […] Il consenso resta così privo di referenti determinati, il sistema è
riconosciuto come legittimo, ma tra le istituzioni che ne rappresentano i centri funzionali vitali, ben
poche meritano fiducia allo stato attuale.
La religiosità, la vocazione civile, il rispetto e la tolleranza delle idee altrui, il primato
dell’uguaglianza sulla libertà, quindi della regola comunemente accettata sull’individualismo,
restano pertanto privi dei loro referenti istituzionali. Il rispetto per i valori non si traduce in una
fiducia alle istituzioni né tantomeno in una sottomissione acritica.
33
[…]
2.4.2.2. frammentazione personale
Come risultato della differenziazione e pluralizzazione si ha la frammentazione che coinvolge sia il
tessuto sociale che quello valoriale con il venir meno del consenso su molti valori della tradizione
culturale, ed infine quello personale, con particolari effetti su chi è in situazione di mutamento
biografico. Inoltre tali le spinte particolaristiche provocano effetti sconvolgenti sul quadro politico.
Infatti la complessità genera processi di segmentazione, di frantumazione della struttura sociale e
nei comportamenti individuali, di difficoltà oggettive ad elaborare un progetto personale e a
perseguire una propria identità.
2.4.3. 5.2. La neutralità morale della società postmoderna
A questo quadro, fornito dalla sempre maggior complessificazione della società, vanno ad
aggiungersi i cambiamenti avvenuti sul piano culturale: la crisi delle “grandi narrazioni”,
l’emergenza di un pensiero nichilista, il pluralismo ideologico che si sono tradotti, in pratica, in una
specie di “neutralità morale”. Questi fenomeni vengono genericamente ricondotti al quadro della
società postmoderna.
Con questo termine, inventato dall’architettura ma ben presto sposato anche dalla filosofia e
sociologia, si vuole dare un volto alle accelerazioni che ha assunto negli ultimi anni la modernità.
Ciò ha fatto pensare di trovarsi di fronte ad un altro tipo di civiltà, affatto diversa da quella che l’ha
preceduta. Pur sottolineando tutti di “vivere in un periodo di marcata diversità rispetto al passato”
(Giddens, 1994, 53), questo periodo storico viene diversamente interpretato. C’è chi pensa la
modernità un periodo non ancora concluso, per cui la interpreta come un progetto incompiuto
(Habermas), una modernità radicale (Giddens e Luhmann), una modernità esplosa (Touraine)36.
Altri invece intendono con il termine “postmodernità” una rottura radicale rispetto al passato. Gli
elementi assolutamente nuovi sono per esempio: “l’assenza di una descrizione unitaria del mondo,
di una razionalità valida per tutti, di un concetto di giustizia condiviso, ma anche la riscoperta dei
limiti delle azioni umane, la tolleranza della diversità, il rifiuto di basarsi esclusivamente su valori
materialistici” (Ungaro, 2001, 20). Alla forza delle ideologie o delle “grandi narrazioni” che
avevano caratterizzato la “modernità”, succede ora un atteggiamento più rinunciatario e insicuro. E’
di questi tempi “la scoperta che nulla è dato conoscere con certezza, dal momento che tutti i
precedenti fondamenti dell’epistemologia si sono rivelati inattendibili; il fatto che la storia è priva
di ogni teleologia e che di conseguenza non si può difendere plausibilmente alcuna versione di
progresso; e infine la nascita di un nuovo programma sociale e politico in cui assumono crescente
importanza le preoccupazione ecologiche e forse i nuovi movimenti sociali in genere” (Giddens,
1994, 53). Prende così corpo una forma mentale che tende a mettere radicalmente in dubbio la
stessa possibilità di un fondamento non illusorio per le convinzioni che hanno finora guidato la
cultura moderna. È in questione la validità del ragionamento umano37, i valori e le convenzioni
sociali e soprattutto l'idea stessa di uomo e di società38.
36 Con tali termini si indica che il progetto illuministico non è stato portato adeguatamente a termine, oppure che è stato talmente
estremizzato da comportare più conseguenze dannose del previsto (libertà che diventa licenza, scienza che si diventa anti-umana,
ecc.) (cfr. Ungaro, 2001, 16).
37 Il pensiero postmoderno, comprende tutte quelle filosofie e posizioni teoriche che, fin dalla fine del secolo scorso, hanno
espresso una forte critica alla ragione, intesa come "capacità progettuale di una soggettività che si dispiega verso un orizzonte di fini
di cui ritiene di possedere la chiave" (Villani 1985, 5-6; cit. da Ardigò 1988, 1). Esso reagisce ad un'impostazione classica della
razionalità, non riconoscendole più la validità di cui aveva goduto fino ad allora, ponendo con ciò in crisi i fondamenti stessi su cui
poggiava, particolarmente quello epistemologico e quello ontologico. Nello stesso tempo rinuncia, per principio, a cercare un proprio
fondamento, in quanto ritiene che la ragione umana non sia, di per sé in grado di raggiungere la verità e di trovare un fondamento ad
una forma di pensiero che non sia ideologica.
38 "L'idea forza della modernità è il progresso, inteso come orientamento a un modello di vita e di azione, come aspirazione ai
34
Il tipo di pensiero a cui si fa riferimento ora è piuttosto quello di Nietszche o di Heidegger, di
Gadamer, di Derida, di Lyotard. Sul versante scientifico si fa riferimento al “principio di
indeterminazione” di Eisenberg.
2.4.3.1. I riflessi sociali del pensiero postmoderno
La relativizzazione del pensiero classico occidentale e lo scetticismo sui suoi atteggiamenti
mentali ha comportato degli innegabili vantaggi: una maggior flessibilità e differenziazione nella
società; il declino delle ideologie totalizzanti; la diminuzione di individui dalla personalità
autoritaria e l'accresciuta tolleranza ed accettazione delle "diversità" etniche, sociali e religiose; la
tendenza alla parità tra uomo e donna nella famiglia e nel lavoro; l'accresciuta sensibilità verso i
diritti di tutti i cittadini, e in particolare delle categorie più deboli (anziani, bambini, portatori di
handicap); l'indebolimento del formalismo sociale e della deferenza verso l'autorità politica e
sociale.
Però esso ha rappresentato anche la distruzione di tutto ciò che era collegato al passato più
che la effettiva costruzione di una nuova razionalità. Ciò ha voluto dire crisi delle agenzie di
socializzazione tradizionali39; egemonia ideologica dell’ "individualismo radicale" e svuotamento di
valore del lavoro, dell'amore e del matrimonio, della comunità democratica40. Crisi dei valori e delle
concezioni base su cui aveva costruito finora il consenso e le motivazioni all’azione.
Insieme ne è venuta quella "cultura del narcisismo", ispirata alla rigida dissociazione tra sfera
privata e sfera pubblica; perdita di potere e di funzione sociale dell'intellettuale; perdita di
credibilità intellettuale della nozione stessa di soggetto umano, e quindi della possibilità di definire
una identità qualsiasi. Crisi di senso e di orientamento generale.
La condizione dell’uomo moderno è quella della “homeless mind”, di una “mente senza fissa
dimora”, cioè di trovarsi sradicato in patria, errabondo, inquieto, senza un punto fisso, un punto di
riferimento sicuro. Questa cultura è il segno della profonda crisi che sta attraversando la società
attuale. Per questo il sociologo De Rita ha stimgatizzato questi come: “anni di soggettività senza
interiorità”, in cui l’ “esaltazione della persona singola [...] si è trasformata nella soggettività più
becera, nel consumo culturale più orrendo, nel trattenimento di peggior qualità” (cit. da Cotroneo
1989, 85).
2.4.3.2. La ripercussione del vuoto culturale sui processi di socializzazione
“chi è posto in una fase di mutamento biografico e contestuale, ha altrettanto bisogno di
priorità tra i valori e di sentire le proprie scelte rafforzate dalle convinzioni collettive di una
valori ultimi, fondati sulla capacità dell'uomo di esercitare la ragione per un'opera di chiarificazione, di illuminazione (di qui il nome
di illuminismo come tratto qualificante la modernità) nei confronti del mondo e di se stesso. Ora - come hanno puntualizzato, sia pur
da angolazioni contrapposte, J. F. Lyotard e J. Habermas -, ciò che definisce l'essenza della condizione postmoderna è proprio la
negazione della capacità umana di chiarificazione: questa condizione si impernia sul disconoscimento dei valori ultimi, in grado
appunto di chiarire, cioè di fondare, giustificare, legittimare un qualsiasi ordinamento della società (fosse anche rivoluzionario o
riformatore), di motivare e orientare comportamenti, di conferire un senso unitario e quindi un'effettiva intelligibilità alla vita umana
e alla società" (Vaccarini 1990, 128-129).
39 "Famiglia e scuola hanno perduto la capacità di trasmettere immagini del mondo , modelli di azione e un senso profondo del
legame con gli altri, fattori questi che danno significato, intensità ed autenticità all'esistenza" (Vaccarini 1990, 121).
40 "R. Bellah chiarisce che la modernità è stata promossa da una concezione, rispettivamente, del lavoro, dell'amore e del
matrimonio e della comunità democratica, che è contrassegnata dall'interdipendenza e dalla sintesi tra sfera privata e sfera pubblica,
tra individuo e collettività. [...] Il risultato di questa integrazione tra sfera privata e sfera sociale è la prospettiva di formare delle
personalità dotate di carattere e di capacità autonome e responsabili delle proprie azioni. Ora, l'«io» ribalta la suddetta concezione
propria della modernità postulando la dissociazione tra sfera privata e sfera pubblica, tra individuo e collettività, e valorizzando in
modo esclusivo la sfera individuale e privata a scapito della sfera sociale e pubblica. Secondo questa ideologia individualistica l'«io»
è completamente libero da vincoli, e peculiarmente da vincoli dettati da un fine morale e stabile. La base teorica di questa libertà è
l'assunto che non esiste alcun criterio oggettivo di discernimento del vero dal falso, del bene dal male; pertanto sono soltanto i nostri
sentimenti a poter fungere da guida morale delle nostre azioni. L'«io» si trova dunque atomizzato, e indotto a scavarsi una nicchia in
cui cercare l'auto-espressione e adottare un proprio stile di vita. All'interno di questa nicchia l'«io» è illimitatamente libero; per
contro, tutto ciò che è all'esterno di questa nicchia gli è fondamentalmente indifferente. Ma, a ben vedere, l'indifferenza permea l'«io»
anche nella sua nicchia privata: infatti la nozione di un «io» assolutamente libero conduce all'esperienza di un «io» assolutamente
vuoto. Cioè ad una identità destrutturata e frammentata" (Vaccarini 1990, 122-123).
35
comunità. Per nessuno, come per chi è costretto a interrogarsi sul senso e lo scopo della vita, il
silenzio etico delle istituzioni fa altrettanto paura” (Calvaruso, Abbruzzese, 1985, 203).
Il venir meno da parte della società di capacità di orientamento, di offrire punti di riferimento
sicuri rende più difficile all’adolescente una soluzione efficace dei suoi problemi. In un momento in
cui ha estremamente bisogno di aiuto da parte della società, perché in preda a nuove pulsioni e in
allontanamento dalla famiglia, la latitanza “normativa” della società provoca in lui disorientamento.
È probabile che, in questo stato, assuma direzioni di sviluppo non funzionali alla sua piena
realizzazione, o comunque che la sua crescita segua “un’incerta traiettoria” (Bobba -Nicoli, 1987).
Da più parti infatti si parla di una sindrome di caduta di senso, fenomeno che sembra colpire
molti giovani, con sintomi di perdita dell’autostima, sentimenti di inutilità, venir meno del
protagonismo, interiorizzazione dell’emarginazione come modello totalizzante di comportamento,
con esiti di autoemarginazione in subculture separate. Ci si trova probabilmente di nuovo davanti ad
una situazione anomica come quella indicata da Durkheim, allorché registrava il passaggio da una
società rurale e tradizionale ad una urbana e moderna.
E’ stata soprattutto la ricerca di Donati e Colozzi (1997) a mettere il dito su questa piaga.
I risultati della ricerca […] dicono che le odierne generazioni giovanili debbono crescere come generazione - in risposta a difficoltà peculiari, decisamente diverse da quelle delle altre
generazioni passate e compresenti, che assumono una valenza etica di mondo vitale diversa dal
passato (Donati – Colozzi, 1997, 24-25).
La novità consiste nel dover “fare delle scelte etiche in una vita quotidiana che non ha più
paletti da nessuna parte” (Donati – Colozzi, 1997, 25).
E ciò perché la società “viene percepita come sempre più anomica (priva di regole), a-morale
(in-differente alle scelte etiche), quando non immorale (cioè corrotta). Con un termine di Zigmunt
Bauman [1993, trad. it. 1996], una società adiaforica, che riduce le scelte etiche a questioni
tecniche, ossia è indifferente al problema del bene e del male” (Donati – Colozzi, 1997, 25).
Pertanto questi giovani devono affrontare la “difficoltà di vivere in una società eticamente
neutra, che, cioè, non fa scelte etiche, non le indica, ma dice a ciascuno: la scelta d'azione è
personale, tu devi fare la tua, dato che non c'è regola sociale comune, e le opzioni non sono più
confrontabili, anzi non fanno più differenza” (Donati – Colozzi, 1997, 25).
Così si crea il paradosso: ognuno può seguire la propria regola, come se la regola potesse
essere un fatto soggettivo, quando invece è sorta per “regolare” i rapporti intersoggettivi.
“Vivere in una società così fatta può essere esaltante, ma non è certo facile. Essa non aiuta a
prendere decisioni. Decide di non decidere, cioè decide di non avere norme morali in comune, ma
invia un messaggio paradossale: segui la regola che ti sei dato. Come se ciascuno potesse seguire la
sua regola privata. Una siffatta cultura può risultare comoda e può ridurre i conflitti, ma non serve
per crescere” (Donati – Colozzi, 1997, 25).
I giovani devono da soli, senza esperienza e senza indicazioni, decidere quale via seguire, cosa è
importante o no, cosa porta alla vita e cosa alla morte. Addirittura devono scegliere quando invece
la società non sceglie. Questa sarebbe, secondo gli autori, la causa vera della profonda sofferenza
giovanile.
“Il giovane percepisce, con un senso più acuto di quanto non avvenga negli adulti e negli
anziani, che sta a lui/lei scegliere, e che dalla sua scelta - non da altri - dipende il fatto di vivere o di
morire. In questo sentimento della vitalità della decisione etica sta il fatto nuovo di essere o non
essere generazione” (Donati – Colozzi, 1997, 25).
In conclusione, il messaggio che si ricava dalla ricerca è questo: crescere in una società
eticamente neutra significa non avere punti di riferimento per le proprie scelte, se non nel privato
della famiglia e del proprio «io», finché reggono.
Crescere in una società che sceglie di essere eticamente indifferente rende le cose più
difficili, non certo più facili, per i giovani, e tremendamente più rischiose per essi, cosicché rimane
tutta da dimostrare la tesi oggi dominante secondo cui la vita dei giovani è tanto migliore quanto più
ampie sono le loro possibilità di scegliere fra questo e quello, laddove nessuna di tali scelte possa
36
essere intesa come avente un valore ultimo, non negoziabile. Potrebbe essere vero esattamente il
contrario. Come dimostra il fatto che il senso generazionale dei giovani, con l'annessa capacità di
costruire il futuro, aumenta laddove vengono fatte precise scelte etiche, che rinunciano a qualcosa,
in quanto selezionano certe possibilità a scapito di altre, mentre il senso della generazionalità crolla
laddove si sceglie di vivere secondo compromessi, negoziazioni e opportunismi che conseguono al
pensare le scelte come sempre reversibili (Donati – Colozzi, 1997, 33-34).
In effetti, le cose sono facilitate lì dove ci sono dei punti di riferimento, che aiutano ed
indirizzano verso scelte con un preciso codice etico. I giovani mostrano un miglior senso di
“generazionalità”, sentono maggior fiducia nel futuro e dimostrano una certa progettualità quando
aderiscono ad un credo religioso e/o hanno ricevono hanno ricevuto una trasmissione sapiente da
parte della famiglia.
Se mancano tali sostegni, il peso e l’aleatorietà delle scelte lasciate al singolo diventa
talmente opprimente che il giovane non ne regge il peso e la sua capacità generazionale (e quindi
anche la sua identità e capacità progettuale) si dissolve.
Alcuni indicatori […] dicono che gruppi consistenti di giovani hanno già attraversato il
confine oltre il quale vi è la perdita radicale di senso generazionale, e si stanno dissolvendo come
soggetti del loro futuro (Donati – Colozzi, 1997, 31).
2.5. La crisi dei modelli di socializzazione e delle istituzione educative
I grandi quadri sociali appena descritti mettono profondamente in crisi alcuni dei processi di
socializzazione così come si erano andati a delineare nella prima società moderna ed industriale. La
messa in crisi di tali processi crea situazioni oggettive e soggettive di disagio che possono esplodere
in forme violente o distruttive. Vediamo brevemente come sono cambiati i sistemi di
socializzazione rispetto anche solo a cinquant’anni fa.
2.5.1. La socializzazione secondo il modello struttural-funzionalsita
I costrutti teorici di molti degli psicologi che abbiamo analizzato, come Maslow ed Erikson, aveva
senso in una società centrata ed integrata, com’era la società fino agli anni ’50-60 e com’era stata
descritta dallo struttural-funzionalismo ed in particolare da Talcott Parsons.
Parsons aveva elaborato una teoria che faceva riferimento ad un paradigma “tutto/parte”, nel
senso che l'individuo era considerato parte del tutto società; ciò significava che le caratteristiche
fondamentali della personalità individuale erano delineabili a partire dall’appartenenza sociale. Tale
rapporto era possibile laddove, in un determinato sistema sociale, si registrava una relazione
"organica" tra tre elementi fondamentali: l'individuo, la cultura (i valori) e il sistema sociale. II
concetto di ruolo, espresso nella teoria parsonsiana, è esemplificativo di questa relazione
"organica".
In accordo con il neo-freudismo americano (Erikson, Fromm) da cui Parsons derivava il suo
concetto di personalità, egli sosteneva che il processo di formazione dell'identità avveniva
attraverso 1'interazione sociale non soltanto a livello di socializzazione primaria, ma soprattutto
nelle fasi di socializzazione successive, quando l'individuo viene a contatto con dimensioni sociali e
culturalí di maggiore portata. L'identità matura e normale è per Parsons una struttura stabile che può
subire solo lievi modifiche nel corso della vita dell'individuo. Oggi non esiste più quella società
centrata, organica con una socializzazione che permetteva di interiorizzare ruoli e valori della
società e di strutturare l’identità, come descritto da Erikson. Già solo le difficoltà occupazionali non
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consentono al ragazzo di oggi di trovare quel posto e ruolo che una volta erano assegnati in base al
lavoro. Di conseguenza viene meno la possibilità di farsi un "sé ideale", un progetto per il futuro.
Lo stesso vale per il sistema di valori: mentre in passato, nella società pre-moderna,
l'individuo si muoveva in un sistema sociale in cui lo stesso insieme di simboli e di valori permeava
profondamente i diversi ambiti della sua vita quotidiana, la situazione nella società moderna appare
profondamente mutata e l'individuo, nei diversi ambiti della vita quotidiana, entra in rapporto con
diversi “mondi di significato”, esperienze diverse e talvolta discrepanti tra loro.
Oggi l'ambiente di vita in cui i ragazzi e le ragazze sono inserite è assai meno strutturante,
sia perché è venuta meno un’omogeneità culturale e quindi i messaggi e le proposte di senso nella
vita sono spesso contraddittorie, sia perché l'accelerazione della storia e le continue modifiche della
realtà sociale e dello stesso costume, rendono assai difficile l’orientamento allo stesso adulto.
Le ambiguità culturali non offrono un quadro di riferimento abbastanza sicuro da permettere
all’adolescente di dare un senso alla realtà, di assumere un'ideologia (nel senso eriksoniano). Così,
oltre che dal punto di vista strutturale, esso si trova disorientato anche dal punto di vista culturale,
con l’onere di trovare da solo un senso alla vita, un percorso di formazione e di selezione tra i vari e
innumerevoli stimoli che gli vengono dalla temperie culturale del momento.
La stessa complessità sociale, la difficoltà di rapporti umani rende particolarmente difficile
sentirsi parte di questa società, capirla, trovarvi il proprio posto, come pensava Parsons. Infatti, se
da una parte essa aumenta la possibilità di costruirsi un’identità personale meno legata alle
determinazioni sociali, dall’altra la stessa moltiplicazione dei riferimenti sociali rende più arduo il
compito di definizione dell’identità.
Infatti è di fronte ad una continua crescita della complessità sistemica, alla crescente
pluralizzazione di coinvolgimenti di ruolo, al dilatarsi delle possibilità di scelta per 1'individuo che
si pone il problema dell’identità per l'attore sociale (sia esso individuale o collettivo). Complessità
sociale e differenziazione sono i termini di riferimento per la definizione del problema moderno
dell'identità.
2.5.1.1. La complessità secondo il modello luhmaniano
Abbiamo visto che, nel modello proposto a T. Parsons, la società è “organica”, come la
intendeva anche Durkheim, cioè integrata in se stesso e, attraverso funzioni diverse che si
specificano in “ruoli” e “status”, riesce ad integrare i suoi membri in maniera da consentire sia la
felicità privata che il bene pubblico. Perciò i processi di socializzazione sono orientati ad inserire
“funzionalmente” il soggetto nella società. Le varie parti della società condividono tutti la stessa
finalità, per cui si dà un unico “sistema di fini” (telic system) che presiede tutta la società e che tutti,
attraverso la socializzazione, hanno la possibilità di interiorizzare. Per cui non dovrebbero darsi
discrepanze tra gli obiettivi e i valori della società e quelli dell’individuo (la devianza non è
contemplata nel modello parsonsiano). Attraverso le aspettative e l’agire di ruolo si realizza, nel
modello parsonsiano, l’integrazione tra sistema della personalità e sistema sociale e tale
integrazione è costitutiva del sistema della personalità. L’identità è ciò che permette la
conservazione di tale struttura psichica nel tempo e garantisce la coerenza tra azioni, valori e fini.
Tale convergenza di fini e integrazione di azioni e modelli sociali non è più possibile in una società
senza centro, pluralista, differenziata come l’attuale. Nel recente dibattito sociologico i rapporti cocostitutivi tra sistema di personalità e sistema sociale sono assunti come problematici. Ed in effetti,
il più prestigioso continuatore dello struttural-funzionalismo, N. Luhmann, mette radicalmente in
questione il modello integrativo e co-costitutivo di Parsons.
Stando alla teoria sistemica luhmanniana le attuali società, diversamente dal passato, hanno
raggiunto un maggior livello di complessità in quanto sono differenziate funzionalmente. La
nozione di differenziazione funzionale permette di evidenziare che, nelle attuali società,
tendenzialmente si attenua il peso dei presupposti socio-culturali del modello di personalità
parsonsiano. Differenziazione funzionale significa, infatti, che i sistemi della società sono sempre
più autonomi, specifici e che i loro rapporti non sono più pre-definiti sulla base di un sistema di
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valori. Differenziazione funzionale vuol dire che i sistemi della società (la politica, l’educazione,
l'economia) non condividono più regole unitarie di funzionamento, non sono sottoposti a nessun
ordinamento normativo, morale, culturale ma funzionano in maniera operativamente chiusa
attraverso uno specifico codice binario di comunicazione . Quindi, differenziazione funzionale
significa che il sistema della società esiste indipendentemente da un sistema di valori comuni di
riferimento. L'elevato grado di complessità delle società attuali è possibile, per il sociologo tedesco,
solo se i sistemi possono funzionare indipendentemente da criteri di valore sovraordinati. Se i
sistemi funzionano sempre più indipendentemente da orientamenti normativi comuni, ciò significa,
secondo Luhmann, che viene a mancare quella struttura mediativa tra individuo e società che nel
modello parsonsiano era costituita dal sistema culturale (dei valori) . In questo senso Luhmann con
il concetto di inclusione vuole sottolineare che le società attuali sono sempre meno in grado di
riconoscere quelle appartenenze forti che, nella teoria di Parsons, erano espresse nella centralità del
concetto di ruolo. La tendenziale "inclusione di tutti in tutti i sistemi di funzione" è infatti sempre
più un'inclusione operativa che avviene attraverso i codici specifici di ciascun sistema. L'inclusione
non fornisce più criteri d’identificazione forte e non definisce più un'appartenenza che era, al tempo
stesso, sociale e culturale.
L'appartenenza sociale, pertanto, non è più definibile, in questo quadro, in termini di ruolo,
né di complementarietà di ruoli. Conseguentemente l’individuo è sempre meno spiegabile attraverso
la sua progressiva appartenenza sociale. In un sociale ormai "orbitale" l’individuo, secondo
Luhmann, è un sistema sempre più autonomo, specifico, che funziona attraverso una sua propria
logica “autopoietica” . In questo senso l'individuo (sistema psichico) e la società (sistema sociale)
sono due realtà divergenti, non c'è più co-costituzione tra i due sistemi.
II sistema sociale infatti, per Luhmann, non è fatto da individui, ma da comunicazione ,
l’individuo non è più parte della società. Esso è rilevante per la società solo in quanto partecipa alla
comunicazione (Luhmann 1990; Luhmann-De Giorgi 1992). Pensare l'individuo come ambiente del
sistema sociale permette, tuttavia, secondo Luhmann, di accedere ad un maggiore complessità
dell'uomo nel momento in cui si assume che l’ambiente, in questo caso l’individuo, risulta più
"complesso e più indipendente" rispetto ad una ipotesi che riduce l'uomo a parte della società .
2.5.1.2. La socializzazione secondo il modello luhmanniano
L'approccio luhmanniano in tema di rapporto individuo/società ha inevitabilmente
ripercussioni sul processo di socializzazione. Infatti, la socializzazione comprende, secondo
Luhmann, “sia il comportamento conforme sia quello deviante, il comportamento patologico (ad
esempio nevrotico) come quello sano. Una teoria che incentrasse il concetto di socializzazione sulla
produzione di comportamenti conformi, corrispondenti alle aspettative, non riuscirebbe a spiegare il
sorgere di schemi di comportamento divergenti e sarebbe inoltre incapace di affrontare ad esempio
il fatto evidente che proprio (adattamento confom istico può assumere un carattere nevrotico e che
esistono nessi incrementali fra adattamento e nevrosi" (Luhmann, 1990, 386).
La socializzazione, quindi viene svincolata dal riferimento ad un sistema di valori, ad una
cultura. La socializzazione è possibile quindi partendo dalla possibilità dell'accoppiamento
strutturale tra sistema psichico e sistema sociale ed in questo senso è sempre autosocializzazione.
Non si realizza con la trasmissione di uno schema di senso da un sistema ad altri sistemi; il
suo processo di fondo è invece la riproduzione autoreferenziale del sistema che attua e recepisce la
socializzazione rispetto a se stesso (Luhmann 1984, 87).
Nella socializzazione non c'è alcuna istruzione, alcuna informazione che passa dal sistema
sociale al sistema psichico, le due realtà rimangono autopoietiche. La socializzazione vuol dire
quindi partecipazione alla comunicazione e sviluppo, per il sistema psichico, di orientamenti
cognitivi astratti che permettono alla comunicazione di avere successo. Infatti, secondo Luhmann
“è, in primo luogo, il processo comunicativo stesso a socializzare - non già, beninteso, sanzionando
il comportamento giusto o errato, ma semplicemente con il suo successo in quanto comunicazione”
(Luhmann 1990, 389). Gli esiti socializzativi sono quindi valutabili solo in termini di insuccesso o
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di successo della comunicazione, l'individuo, in questo senso, e rilevante per la teoria dei sistemi
sociali in quanto partecipa alla comunicazione: come attore della comunicazione, come fonte di
informazione o come destinatario della comunicazione. Anche la famiglia, secondo Luhmann, è un
sistema sociale in quanto è fondato sulla comunicazione ed ha una sua specificità legata al fatto che
in famiglia il riferimento della comunicazione è la persona. La persona è però sempre una realtà
comunicativa: è il dicibile (comunicativo) dell’indicibile (sistema psichico).
2.5.2. La socializzazione secondo la fenomenologia sociale
Secondo la scuola fenomenologica, l'identità è un concetto centrale per la comprensione del
processo attraverso cui la realtà “oggettiva” diventa “soggettiva”, entra cioè a far parte della
coscienza degli individui. Il contributo della fenomenologia sociale alla specifica tematica dell'identità del soggetto è il frutto di un'integrazione dell'analisi schutziana della costituzione
intersoggettiva del Sé, centrata sul concetto di mondo della vita quotidiana, con la teoria meadiana
della genesi del Sé.
Riconoscendo l'importanza per la formazione dell'identità dell'interazione faccia a faccia e
dell'interiorizzazione del ruolo dell'altro, Berger e Luckmann (1966) sostengono che l'assunzione
del ruolo dell'altro comporti l'interiorizzazione del suo mondo. Attraverso il processo di
socializzazione, definito come “l'insediamento completo e coerente di un individuo nel mondo
oggettivo di una società o di un suo settore” (Berger – Luckmann, 1966, 181), l'individuo giunge ad
una comprensione non solo dei processi soggettivi dell'altro, ma del mondo in cui vive e quel
mondo diventa il suo. C'è una continua identificazione reciproca per cui, non solo si vive nello stesso mondo, ma si partecipa l'uno dell'esistenza dell'altro.
Attraverso la socializzazione primaria questo mondo di conoscenze “oggettive” viene
interiorizzato dall'individuo, diventando elemento costitutivo della sua identità. Nella
socializzazione primaria viene costruito il primo mondo dell'individuo, da lui interiorizzato, non
come uno dei mondi possibili ma come "il mondo", una realtà data per scontata, che diviene un elemento costitutivo della sua identità. L'elevato grado di identificazione emotiva e l'inevitabilità delle
relazioni del bambino con le persone per lui significative nel corso della socializzazione primaria,
spiegherebbero in buona parte la stabilità dell'identità del soggetto che si forma in) questa prima
fase.
Nel corso della socializzazione secondaria, definita dagli autori come un processo continuo e
mai compiuto, avviene l'interiorizzazione dei sottomondi istituzionali, che possono generare
problemi di coerenza rispetto al mondo-base acquisito nella prima fase della socializzazione. Nei
processi di socializzazione secondaria, caratterizzati da un grado relativamente basso
d’identificazione emotiva e di inevitabilità soggettiva, l'individuo tende ad interiorizzare i diversi
sottomondi, come realtà parziali, come mondi possibili, legati a specifici ruoli.
L'identità dell'individuo tratteggiata ne “La realtà come costruzione sociale”, elemento
chiave della realtà soggettiva, nasce quindi dalla dialettica tra individuo e società: essa è il prodotto
di processi sociali e “una volta cristallizzata, viene mantenuta, modificata o anche rimodellata”
dall'interazione dell'individuo con gli altri; d'altra parte, l'identità si ripercuote a sua volta sulla
struttura sociale, “conservandola, modificandola o anche rimodellandola completamente” (Berger –
Luckmann, 1966, 235). E' soprattutto nella socializzazione secondaria che emerge l'aspetto
dinamico della società come continua produzione umana, e dove intervengono i processi di
modificazione e trasformazione delle strutture.
Una "socializzazione riuscita" comporta, per gli autori, un elevato grado di simmetria tra
realtà oggettiva e identità del soggetto, viceversa ad una socializzazione non riuscita viene attribuito
l'insorgere di asimmetrie tra i due piani della realtà. Nella società tradizionale era molto più facile
che all’identità sociale corrispondesse l’identità individuale, con un senso di riuscita della
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socializzazione. Al contrario, nell'evoluzione della società industriale, caratterizzata da un'elevata
divisione del lavoro ed una complessa distribuzione della conoscenza, diviene incombente il rischio
di una socializzazione sbagliata, cui gli Autori associano conseguenze patologiche o disgreganti
sull'identità dell'individuo.
La società contemporanea è interessata, secondo Berger e Luckmann, da un aumento della
consapevolezza generale da parte dell'individuo della relatività dei molteplici mondi divergenti,
incluso il proprio, che viene soggettivamente percepito come "un mondo" piuttosto che come "il
mondo".
Con l'elaborazione del concetto di "pluralizzazione dei mondi della vita", P. L. Berger, B.
Berger e H. Kellner (1973) hanno ulteriormente sviluppato il problema connesso alla molteplicità
dei mondi di significato, mettendo a fuoco il rapporto tra identità e differenziazione simbolica.
Nelle società tradizionali, secondo gli autori, era la religione che forniva una visione unificante
dell'esistenza, cosi che l'universo simbolico con cui entrava in contatto l'individuo era coerente ed
integrato. I simboli, i significati, facevano si che lavoro, famiglia, partecipazione alla vita pubblica e
politica venissero percepite dagli individui come esperienze tra loro coerenti, che le logiche e i
valori di queste diverse sfere di esperienza fossero congruenti. Nella società moderna, invece, si è
verificata la perdita di questo universo simbolico e, con esso è venuta meno quella visione unitaria e
coerente che caratterizzava l'esistenza dell'individuo premoderno. La secolarizzazione ha
comportato una delegittimazione della spiegazione religiosa del mondo come fondamento comune e
dato scontato.
Così sfera pubblica e sfera privata vengono ora vissute dall'individuo come ordini di
esperienze nettamente separati: la partecipazione alla sfera pubblica dell'esistenza è, infatti, vissuta
come un'esperienza alienante, generatrice di un sentimento di estraneità al quale l'individuo cerca di
sfuggire rifugiandosi nella sfera privata, cercando in essa un "mondo famigliare", un ambito di
significati ordinati e rassicuranti, un "punto fermo" in base al quale dare un senso alla propria vita
ed alle esperienze vissute a contatto con le istituzioni della sfera pubblica.
Ma il tratto caratteristico della società moderna è costituito, in questa prospettiva, dalla
pluralizzazione, dalla frammentazione dell'universo simbolico, anche a livello della sfera privata: lo
stesso rapporto con i famigliari obbliga spesso l'individuo ad entrare in relazione con numerosi e
diversi mondi di significato, rendendo necessario giungere a trattative, compromessi, tra valori,
modelli di comportamento tra loro discrepanti. Questa nuova condizione può generare una profonda
insoddisfazione per la propria vita privata, non più vissuta come un mondo famigliare in cui trovare
conferme ai propri significati, alla propria concezione della vita.
La pluralizzazione, sia della sfera privata che si quella pubblica, è un fenomeno correlato
dagli autori a due processi peculiari della società moderna: l'urbanizzazione e lo sviluppo delle
tecnologie della comunicazione di massa. Ciò che viene essenzialmente sottolineato di questi
processi sono soprattutto le conseguenze sull'esperienza dell'individuo, sul suo modo di esperire la
realtà e di organizzare la conoscenza del mondo sociale e, quindi, sulla sua identità. Assistiamo ad
una progressiva “urbanizzazione della coscienza”, vale a dire ad una diffusione di un modo di
sentire, di vivere la realtà e i rapporti con gli altri, tipico della vita urbana. Diffusione accelerata dai
mass-media.
In questo contesto, l'individuo fa esperienza di una molteplicità di codici e modelli culturali,
con un conseguente indebolimento dell'integrità e della plausibilità del suo "mondo famigliare". La
pluralizzazione si sta radicalizzando al punto da coinvolgere non solo i processi di socializzazione
secondaria, ma anche quelli di socializzazione primaria, incrementando il numero di individui che
non hanno “mai posseduto un ‘mondo famigliare’ integrato e incontestato” (Berger – Berger –
Kellner, 1973, 117), con forti ripercussioni sul processo di formazione dell'identità dei soggetto.
La pluralizzazione, permettendo all'individuo di entrare in relazione con molteplici contesti
sociali e "visioni del mondo", gli consente di immaginarsi protagonista di differenti biografie, di
avere innanzi a sé numerose carriere alternative.
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Su tali presupposti, il passaggio dalla società tradizionale a quella moderna, che Weber
aveva definito come passaggio dal mondo del destino al mondo della scelta, se da un lato ha dato
all'individuo un senso di libertà e autonomia, dall'altro lato ha comportato un suo profondo disagio,
leggibile nel moltiplicarsi delle sue esperienze di sradicamento e di anomia. Il soggetto moderno
gode di una maggiore autonomia, in quanto può decidere della propria vita e della propria identità
senza essere sottoposto a forti vincoli da parte dell'ambiente sociale; d'altra parte, questa stessa
situazione lo espone maggiormente al rischio della frustrazione, dovuta al mancato raggiungimento
degli obiettivi che si era posto, e ad una costante sensazione di incertezza circa gli esiti della propria
azione. La moltiplicazione stessa delle possibilità d'azione, di realizzazione personale tendono,
dunque, a generare ansietà nell'individuo, in quanto è sempre possibile sbagliare, optare per un
corso d'azione troppo o poco ambizioso rispetto alle proprie capacità.
L'identità del soggetto contemporaneo è aperta, nel senso che egli ha una notevole capacità
di trasformarla nelle diverse fasi della sua storia di vita e, cosa più importante, ne è piacevolmente
consapevole, arrivando quasi a vantarsene. La biografia individuale viene infatti vissuta dal
soggetto sia come una «migrazione attraverso diversi mondi sociali, sia come la successiva
realizzazione di un certo numero di possibili identità» (Berger – Berger – Kellner, 1973, 179).
Essa è differenziata, in quanto l'esperienza della pluralizzazione dei mondi della vita porta
ad una relativizzazione della stabilità ed attendibilità degli ambiti istituzionalizzati del vivere associato. La sicurezza e il senso della realtà non vengono più cercati in questi ambiti, ma nella sfera
soggettiva, così che l'esperienza personale diventa il più importante punto prospettico da cui
definire la realtà. Di conseguenza, si verifica un ampliamento tale della dimensione soggettiva mai
sperimentato nel passato.
Inoltre, l'identità contemporanea è peculiarmente riflessiva, in quanto vivere in un ambiente
sociale che sottopone l'individuo ad un continuo mutamento di esperienze e significati lo porta ad
un costante sforzo di riflessione e di definizione di sé; la propria identità viene sottoposta in tal
modo ad una continua auto-osservazione.
Infine, l'identità contemporanea è peculiarmente individuata, in quanto in essa vengono enfatizzati
la libertà e l'autonomia del soggetto nel progettare e modellare la propria esistenza.
Questa enfasi sulla libertà e l'autonomia progettuale del soggetto non impedisce agli autori
di evidenziare, nel contempo, gli aspetti negativi di questa situazione. La mancanza di un universo
simbolico unitario e sovraordinante, origine di una condizione di sempre più profonda "mancanza di
casa" (homeless), viene, infatti, associato dagli autori ad un permanente stato di crisi d’identità del
soggetto, generatore d’ansietà e incertezza. Il carattere "homeless" del soggetto moderno consiste
precisamente nella sua dolorosa incapacità di dare alcunchè per scontato, nella sua rinuncia ad ogni
appoggio incondizionato in una tradizione.
Dal concetto di pluralizzazione dei mondi vitali emerge quindi una definizione dell'identità
come qualcosa di mai raggiunto, mai definito in modo stabile e, quindi, un problema sempre aperto
per il soggetto, un processo che lo accompagna lungo la sua intera esistenza: “L'identità cessa di
essere un fatto acquisito sia soggettivamente sia oggettivamente e diventa l'obiettivo di una ricerca
spesso tormentata e difficile. L'uomo moderno sembra essere destinato inevitabilmente alla ricerca
di se stesso” (ibid., 87).
2.5.3. Autoformazione e soluzioni identitarie nella società postmoderna e complessa
La differenza tra il modello parsonsiano e quello luhnmanhiano è radicale: la realtà dei
sistemi psichici è ambiente per i sistemi sociali e non può essere spiegata in base alla relazione
sociale. La relazione sociale, cioè la comunicazione, spiega autopoieticamente solo se stessa.
L’identità non è più ciò che consente di regolare i rapporti tra società e soggetto, ma solamente la
capacità del soggetto di cogliere tutte le opportunità che la società gli offre per la propria
42
autoformazione. Di ciò che egli sceglie non deve rendere conto che a se stesso. Il criterio con cui si
valuta è quello del “successo/insuccesso”. L’adattamento diviene la categoria di riferimento più
importante.
Fenomeni come la ripresa di attenzione per l'individuo, la relativa assenza di scelte
ideologiche precise, o la stessa natura endemica che la crisi di identità tende ad assumere fra i
giovani, diventano più comprensibili se riferiti al carattere policentrico dei processi di formazione
dell'identità: la condizione dell'individuo moderno è sempre di più la mancanza di basi, la perdita di
riferimenti unitari o, per usare ancora un'espressione di Berger, la sua «homelessness».
Ma questa personalissima ricerca d’identità deve fare i conti con il mutato quadro sociale,
con la frantumazione e moltiplicazione dei riferimenti, con la complessità sociale, che proprio in
questi anni diventa la realtà su cui si focalizzano le analisi dei sociologi. “Oggi la critica
dell'autorità, dell'universo di valori dei padri, non può più assumere quei significati simbolici ed
ideologici che aveva in passato proprio perché non c'è nessuna continuità da interrompere o
identificazione da negare e, spesso, non c'è neppure un'eredità culturale con cui fare i conti. La
definizione di sé diventa dunque, innanzitutto, affermazione dell'irriducibilità dei propri bisogni e
interessi: non più negazione all'interno di. una continuità, ma affermazione di una diversità” (Ricolfi
– Sciolla, 1980, 13-14).
“L’identità viene così ricercata attraverso un tentativo, da parte del soggetto, di
riappropriarsi di se stesso, di definirsi all’interno di una vita che per lui abbia senso. […] Il senso
dell’esistere deve essere cercato dall’individuo in se stesso, come autoriconoscimento e
autodefinizione” (Faccioli, 1983, 155).
La moltiplicazione dei riferimenti rende sempre più insicuro il soggetto singolo, il quale
tenderà a scegliere senza criteri stabili ma semplicemente seguendo l’impulso del momento. Anche
il futuro si presenta sempre più incerto e indecifrabile. Di fronte alla “differenziazione simbolica”,
all’ “eccedenza culturale”, alla “dilatazione dei possibili”, alla “paura del futuro”, “l’identità diventa
una combinatoria, i cui elementi vengono accostati per successivi tentativi e in cui il senso è più il
risultato provvisori di un’attività sperimentale che un disegno chiaramente definito in partenza”
(Faccioli, 1983, 156).
La tendenza sarà quella di non scegliere per non limitare le possibilità in futuro, ma col
rischio di perdere la memoria storica. “Di qui la necessità di trovare nuovi modelli di
identificazione, di ridare un senso alle proprie azioni, di riappropriarsi di qualcosa, senza sapere
esattamente di che cosa”. […] “I tentativi di risolvere il problema dell’identità sembrano
privilegiare la scelta individuale, soggettiva, la rivalutazione di se stessi, la ricerca dei propri
bisogni e l’agire finalizzato alla loro soddisfazione” (Faccioli, 1983, 158).
2.5.3.1. La maschera ed il puzzle
Di fronte ad una società sempre più complessa, mobile, cangiante, l’identità diventa un tema
di ricerca per le nuove generazioni: a volte sofferta, altre volte scanzonata e ludica. Rimane
comunque vero che, se la società complessa aumenta la possibilità di costruirsi un'identità personale
meno legata alle coordinate sociali, dall'altra, la stessa moltiplicazione dei riferimenti sociali, rende
più arduo il compito di definizione dell'identità. Valenze positive e valenze negative si intrecciano
nella società di oggi e chi si affaccia alla vita deve costruire la sua identità tra molte inevitabili
difficoltà.
Montesperelli, utilizzando gli apporti di vari scienziati sociali stranieri, soprattutto
dell’interazionismo simbolico e della fenomenologia sociale, rilegge a metà degli anni ’80 la
situazione italiana, dove trova che il problema dell’identità sia per i giovani un “oggetto di
attenzione deliberata e, a volte, di interrogazione angosciata. Non potendo rispondere
immediatamente alla domanda preliminare «chi sono io?», il soggetto può ripiegare verso un
interrogativo successivo: «in questa società complessa, ricca di possibilità offertemi a cui la mia
identità si apre, quali scelte devo compiere? Quale criterio di discernimento posso utilizzare?». Ma
anche qui il soggetto si ritrova disperso in una giungla di problemi. Una risposta ovvia, a prima
43
vista, potrebbe essere questa: perso ogni criterio assoluto di veridicità, impossibilitato a
identificarmi in pieno con qualche frammento, smarrito il riferimento fondativo alla persona come
centro di un’identità, l’unica soluzione é il calcolo fra costi e benefici per scegliere un’opzione o
un’altra, cioè la massimizzazione delle proprie opportunità di vita secondo un modello utilitaristico”
(Montesperelli, 1984, 47-48).
2.5.3.2. L’identità frammentata
Il soggetto, che si trova a vivere in ambiti di vita assai diversi ed esperisce ruoli diversi e
talora contrastanti, sarà restio a confinare la sua esperienza entro un solo ambito o a considerarne
qualcuno come esclusivo o prevalente. Preferirà il pendolarismo tra diversi ruoli, condizioni e
formazioni sociali, per non precludersi nessuna delle possibilità che il sistema gli offre. Cercherà di
totalizzare il massimo di opportunità evitando di rinchiudersi in appartenenze stabili, definitive,
totalizzanti. Preferirà rimanere disponibile per occasioni migliori, prediligendo appartenenze
parziali, identificazioni momentanee, riferimenti occasionali .
Questo soggetto riuscirà a capitalizzare al massimo le offerte della società odierna. Una
società che rispetto al passato offre innumerevoli vantaggi: “la riduzione dei forti condizionamenti
espressi da un costume fatto spesso solo da pregiudizi; una maggiore spontaneità nei comportamenti
non irreggimentati da autoritarismi familiari e sociali; una migliore conoscenza della vita e del suoi
problemi; la possibilità, nella dialettica del dialogo culturale, di meglio comprendere il senso della
cose e della vita; la maggiore comprensione dei propri diritti personali e di cittadinanza e la ferma
convinzione che essi debbano essere effettivamente goduti e non solo declamati; i maggiori stimoli
e la più diffuse occasioni di partecipazione alla vita sociale e a forme organizzate di solidarietà e
reciprocità costruttiva (si pensi solo al fenomeno del volontariato sociale in cui sono attivamente
impegnati tanti giovani)” (Presidenza del Consiglio, 1997, 15).
In ognuno degli ambiti che il giovane frequenta potrà vivere un'esistenza che ha un senso
autonomo, un modello di realizzazione che non richiederà di essere messo in relazione con quanto
si esperisce in altri ambienti. Le sue scelte risulteranno assai parziali, i criteri di valore non avranno
pretese assolute, bensì verranno riconosciuti validi per il momento e solo per sé.
Ma questo agitarsi per cogliere le migliori opportunità, per essere sempre “in”, per non farsi
sfuggire nulla di importante, impone pesanti costi: quello di non scegliere mai definitivamente, di
sceglier un’identità provvisoria, di indossare una maschera, come già diceva Goffman. Il risultato
sarà un'identità frammentata, fatta di pluriappartenenze, di maschere via via cangianti a seconda
dell'ambiente che si frequenta. Migratore tra “diverse formazioni sociali” e diverse “strutture di
plausibilità” l’uomo contemporaneo non sa più chi è, perché l’immagine di sé che la società gli
rimanda muta continuamente. “Così il soggetto si disperde in tanti frammenti quanti sono gli
incontri cui partecipa” (Montesperelli 1984, 42).
“La sua condizione diventa simile a quella dell’attore che sul palcoscenico della vita indossa
delle maschere che mutano con il mutare della scena. L’identità non è unica ma molteplice, tante
quante sono le maschere che l’individuo adotta” (Montesperelli 1984, 43)
Di conseguenza egli conseguirà una realizzazione a "mosaico", a "puzzle". In tale
condizione si avrà un soggetto debole, poco unitario e coerente, privo di stabilità. In compenso
questo soggetto si rivelerà più flessibile, aperto, convertibile continuamente.
2.5.3.3. L’identità integrista
Di conseguenza alcuni soggetti mettono in atto delle strategie nel tentativo di ridurre la
complessità o comunque di difendersi di fronte alla eccedenza di opportunità e di informazioni che
non riescono a gestire.
Una modalità pratica a cui ci si affida per superare questa tensione, per affrontare questo
conflitto, - evitando così il rischio della dissociazione - può pertanto essere rappresentata dalla
tendenza dei soggetti a ridurre intenzionalmente la complessità dei problemi. [...] E' possibile
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ritrovare un equilibrio personale, una soluzione alle tensioni, riducendo di fatto la portata dei
problemi, considerando le varie questioni soltanto attraverso una prospettiva personale, un'ottica
soggettiva
Al punto estremo, questo tipo di difesa può dar luogo ad identità di tipo integrista: di fronte
al pericolo di dissociazione si cede ad un gruppo o ad un'ideologia la gestione della propria libertà.
Invece di cercare faticosamente la propria identità, si preferisce identificarsi con qualcosa di esterno
che può essere anche una persona, oltre che gruppo o ideologia.
“L’integrismo non è l’unico effetto possibile della frammentazione e del bisogno reattivo di
totalizzazione: è, caso mai, l’esito di una ricerca equivoca di totalizzazione, che ragiona ancora in
termini particolaristici, secondo la logica, appunto, della frammentazione, esasperata e condotta alle
ultime conseguenze anche nel momento in cui se ne tenta inutilmente il superamento” (Milanesi,
1986, 143).
2.5.3.4. Presentismo e assenza di progettualità
Un altro esito possibile di questa frammentazione e predita di riferimenti per la costruzione
della propria identità è la sindrome da presentismo con effetti di perdita della capacità progettuale.
Si è scoperto fin dagli anni ‘80 nelle giovani generazioni una loro ridefinizione nei confronti
del tempo, storico e sociale, con evidente enfatizzazione della dimensione del presente e perdita di
spessore storico e di capacità progettuale. Ne è conseguito un marcato soggettivismo nell’uso e il
modo di intendere il tempo. “L’importante non é ciò che si fa [...] ma come interiormente ci si
sente, come si vive il tempo: in altre parole, se il rapporto con se stessi é positivo, anche quello con
il tempo necessariamente lo sarà” (Leccardi, 1985, 506).
Questo fenomeno sarebbe la conseguenza, secondo la ricerca “Il tempo dei giovani”
(Cavalli, 1985), di varie concause, più o meno riconducibili ad un quadro sociale assai complesso
ed in rapida trasformazione che allontana sempre più dal rapporto con il passato e con le radici
storiche del proprio gruppo sociale. La perdita della memoria storica sarebbe causata dalle
accelerazioni continue al cambiamento, dai meccanismi della storia sempre meno intelligibili, dalla
lontananza della politica, dall’avvento della società di massa, dall’influenza dei mass-media con
effetti di “semplificazione, manicheizzazione, attualizzazione”. Ma anche dalla obsolescenza della
filosofie della storia e particolarmente dalla crisi del mito del progresso e della concezione del
tempo della società moderna
Infine la scarsa prevedibilità del futuro, più incerto, minaccioso, senza prospettive
contribuirebbe alla perdita della capacità progettuale. Sarebbero gli stessi meccanismi sociali
caratterizzati da poca chiarezza e scarsa prevedibilità ad alimentare in maniera determinante tale
fenomeno. Così il presente diventava l’unica dimensione sperimentabile. Ci si concentra su l
presente per esorcizzare l’ansia che il futuro riserva e per l’impossibilità di stabilire una continuità
logica tra passato presente e futuro .
In questa condizione non si può più comprendere il mondo, la realtà che ci circonda. La
mancanza di progettualità rende tutto privo di senso. Mancando una direzione, un fine, tutto diventa
relativo, occasionale. L’unico criterio di valore diventa l’attualità . Questo consente un maggior
spazio di libertà ed autonomia, la possibilità di soggettivizzazione dei percorsi di realizzazione, la
continua ridefinizione delle scelte e dei valori. Tuttavia, senza un progetto, l’esistenza rischia di
ridursi ad una serie di eventi senza collegamento e senza senso. Ne consegue frammentazione del
tempo psichico, segmentazione del vissuto individuale, disturbi alla percezione del tempo, difficoltà
per la soluzione della crisi di identità.
L’incapacità di strutturare il tempo e di stabilire dei nessi causali tra le proprie azioni mette
in discussione lo stesso concetto di identità e di responsabilità, così come tradizionalmente inteso.
Il tipo di identità che si va affermando sembra meno forte, meno determinato di quello del passato.
Ama definirsi più in base a quello che è (o appare) che per quello che fa. Concentra la sua
realizzazione nella soddisfazione dei bisogni immediati. Pensa più a godere la vita senza
preoccuparsi troppo del futuro, delle conseguenze delle sue scelte attuali.
45
Come effetto di questa incapacità di strutturazione temporale viene segnalato in più ricerche
l’aumento del livello di noia tra i giovani, soprattutto nell’uso del tempo libero. La grande
disponibilità di tempo unita alla incapacità di programmarlo non produce maggiore felicità o
autorealizzazione se non si sa come impiegarlo.
2.5.4. Effetti devianti ed emarginanti di questo tipo di socializzazione
Guidicini e Pieretti (1995), partendo dall’analisi della società complessa compiuta da
Luhmann, ne traggono la conclusione che diventa impossibile per il soggetto uno sviluppo
armonico ed integrato come lo era nel passato. “Nelle attuali società è difficile pensare ad uno
sviluppo a tappe della personalità, tale per cui tra i tempi esterni (tempi sociali) e i tempi interni
(tempi psichici) si registri una corrispondenza relativamente precisa. La personalità si sviluppava, in
questo senso, solo con l'interiorizzazione dei valori sottesi ai ruoli sociali che l’individuo
progressivamente si trovava ad occupare” (Castrignano, 1995, 114).
Ora invece tempi interni (psichici) e tempi esterni (sociali) sono tendenzialmente sempre più
inconciliabili. La realtà psichica sta diventando sempre più una realtà autonoma e specifica non
riconducibile a categorizzazioni sociali. Nelle attuali società complesse l’individuo-giovane è
costretto a crescere sempre più "da solo", senza il supporto dei filtri simbolico-culturali del sociale.
Ciò avverrebbe, peraltro, tanto più aumentano le chances, le opportunità di azione (la tendenziale
inclusione di tutti i tutti i sistemi di funzione). In questo senso complessità sociale significa che
aumentano le chances per i giovani, le possibilità di vita ma al tempo stesso tali chances non
costituiscono più ambiti forti di identificazione e di appartenenza.
In un'ottica "socializzativa-integrativa" il disagio era legato ad una “deviazione” nel processo di
socializzazione o ad una mancata o parziale interiorizzazione dei valori dominanti della collettività.
Il disagio era ricondotto ad una fase precisa dello sviluppo della personalità (l’adolescenza) e
teminava con il passaggio all’età adulta. Cioè il disagio aveva un inizio e una fine, proprio perché
era possibile pensare ad uno sviluppo a tappe della personalità, tale per cui c’era corrispondenza tra
tempi interni (psichici) e tempi esterni (sociali). Il disagio, in quanto devianza, era sempre un
disagio socialmente sintomatico, riconducibile a definiti comportamenti sociali o a veri e propri stili
di vita. In questo senso il disagio aveva "cause" sociali e "rimedi" sociali. Si trattava cioè di
correggere le deviazioni nel processo di socializzazione o, laddove questo non fosse possibile, di
"assistere socialmente" l’individuo in condizioni di disagio, tentando di ricostruire le motivazioni al
comportamento di ruolo attraverso l'offerta di opportunità (formative e lavorative) che si supponeva
potessero funzionare come contesti di identificazione e favorire un corso "normale" di sviluppo
della personalità.
Seguendo invece il filone di analisi luhmaniana, che tende ad evidenziare la crescente
distonia tra "tempi sociali" e "tempi psichici", tale approccio al disagio sembra entrare in crisi nelle
attuali società complesse. La complessità sociale significa che i sistemi sociali non sono più in
grado di fornire una gerarchia di valori, sufficientemente forti, che possano "istruire" la psiche
dell'individuo. Le società complesse implicano, infatti, una frammentazione dei percorsi di senso,
una relativizzazione delle appartenenze che sono sempre meno costitutive dell'identità del giovane.
Pertanto si può sostenere che il sociale complesso è sempre meno in grado di supportare
significativamente i bisogni di identificazione individuale.
“In questo senso tra tempi interni (psichici) e tempi esterni (sociali) c'è sempre meno quella
corrispondenza che permetteva di pensare ad uno sviluppo "a tappe" del sistema della personalità.
L'individuo è sempre più psichico e sempre meno sociale” (Castrignano 1995, 116).
Ma se è vero che esiste questa frattura, se è vero cioè che (individuo è sempre più lontano dalla
società, che individuo e società funzionano per logiche diverse, differenziate, ecc.., è vero anche che
il disagio giovanile (che peraltro assume forme non riconducibili a quelle del passato, anche se
46
recente) non può più essere interpretato come veniva interpretato in una realtà sociale in cui sistema
psichico e sistema sociale erano co-costitutivi.
Rispetto ad un sociale di questo tipo era possibile considerare la condizione di giovane come una
condizione (più o meno prolungata, non è questo che importa) di passaggio. Lo sviluppo
dell'individualità psico-sociale era possibile perché esisteva un sociale dotato di un sistema
condiviso di valori, in cui il processo di definizione dell'identità del giovane appariva correlato a
meccanismi di identificazione solidi ed a precise tappe che sancivano, da un lato, la fine
dell'adolescenza e, dall'altro, l'ingesso nell'età adulta.
In un sociale complesso risulta più difficile pensare a "sviluppi psichici" a partire da condizioni
sociali. Al deficit di identificazione sociale può essere ricondotta la difficoltà, per il giovane ad
individuare, simbolicamente "le tappe che segnano la fine dell'adolescenza, da un lato, e l'ingresso
nell'età adulta dall’altro" (Pieretti 1990, 160). Inoltre il disagio, nelle nostre società, appare non solo
difficilmente circoscrivibile ad un preciso arco temporale (adolescenza o l'adolescenza prolungata)
ma anche alle categorie della malattia e della devianza e al conseguente "ruolo" di malato o di
deviante. Il progressivo distacco tra livello psichico e livello sociale fa sì che sia sempre più
difficile ridurre il disagio a specifici comportamenti sociali (per esempio alle ripetenze e agli
abbandoni scolastici). Infatti, per ricondurre il disagio a cause o motivazioni sociali occorre che il
processo di identificazione, di socializzazione, sia orientato ad un sistema di valori comuni. Un
sistema di valori di riferimento permetteva di individuare le "deviazioni" nel processo di
socializzazione o di identificazione come "causa" del disagio.
II disagio come carenza di integrazione tra la struttura motivazionale dell'individuo e le aspettative
di ruolo sociale è, laddove funzioni l’integrazione in senso parsonsiano, sempre riconducibile al
sistema sociale. Proprio in quanto è possibile stabilire che cosa s'intende per personalità integrata è
possibile riconoscere una personalità non integrata [Parsons et al. (1951) 1962]; ma tale
"riconoscimento" è sempre un "riconoscimento" sociale perché è nella società, nella relazione
sociale che il disagio si manifesta (Castrignano 1995, 117).
Nelle società complesse, invece, il disagio appare sempre meno spiegabile ed inquadrabile
attraverso (appartenenza sociale, attraverso l’integrazione alle aspettative di ruolo, perché gli ambiti
di identificazione, i ruoli, sono sempre ordinabili rispetto ad un simbolico comune di riferimento.
Ed era proprio questo simbolico comune che permetteva di circoscrivere il disagio alla malattia e
alla devianza. Nel sociale attuale sistema psichico e sistema sociale sono sempre più ambiente l'uno
per l'altro.
Conseguentemente rispetto a fenomenologie quali il disagio giovanile emergono due ordini di
problemi: 1) il disagio giovanile in società complesse è sempre meno riconducibile ad un arco
temporale preciso dello sviluppo della personalità (adolescenza); 2) il disagio giovanile in società
complesse è sempre meno rilevabile e spiegabile attraverso gli ambiti di appartenenza sociale (per
es. la scuola, il lavoro, la famiglia) che rimandano a deviazioni nel percorso di socializzazione. In
questo senso il disagio è difficilmente circoscrivibile ai concetti tradizionali di malattia e di
devianza [Parsons (1951) 1965], ma si configura sempre più come profonda sofferenza esistenziale
dell'individuo, spesso socialmente a-sintomatica (Castrignano 1995, 117).
Pertanto è la stessa realtà sociale, sempre più differenziata e complessa la causa del disagio, che, per
ciò stesso diventa “diffuso” o “a-sintomatico”, come dicono gli autori.
Infatti questo tipo di disagio si caratterizza per
·
l’a-sintomaticità, cioè “l’assenza di precisi legami tra quelle che sono le condizioni di
disagio […] e la presenza a monte di meccanismi in quanto cause scatenanti” (Guidicini 1995, 13);
·
la presunzione soggettiva di privazione, quale “risultato di una condizione di
insoddisfazione rispetto ad un qualcosa di cui si era stati privati”; il disagio, infatti
sottende sempre una concezione di bisogno insoddisfatto […]. Di qui il convincimento ultimo di
trovarsi di trovarsi di fronte a soggetti che vivono in una costante situazione di tensione e bisogno di
un qualcosa che dovrebbe soddisfare un’interna pulsione di crescita, di libertà, di autorealizzazione;
la quale trova invece, più spesso, limitazioni oggettive nel sociale. […] Di qui una situazione
47
sempre più spesso sfuggente; se è vero che ad una costante crescita di nuove richieste i giovani
credono di trovare limitazioni sociali sempre meno disposte ad offrire tutto e subito. Quello del
disagio giovanile diventa quindi vieppiù un percorso di difficile soluzione in quanto il rapporto tra
pulsioni da un lato e controlli dall’altro si prospetta sempre più incerto. Ed il raggiungimento di un
teorico equilibrio mera utopia (Guidicini 1995, 14);
·
la crescente labilità nelle scelte: “una minor chiarezza ed una crescente genericità nella
individuazione di ciò che il soggetto considera come fondamentale nel quadro del suo sistema di
riferimenti emotivi” (Guidicini 1995, 14);
·
la caduta di valori simbolici ‘forti’, “riferiti a certi elementi che tradizionalmente venivano
letti dai giovani come centrali nella propria esperienza di vita quotidiana” (Guidicini 1995, 15).
Ecco perché è nato in questi autori “il convincimento […] della sterilità di distinguere il disagio
giovanile in buono e cattivo disagio” (Pieretti 1996, 9), in disagio sintomatico e a-sintomatico.
“Il problema sembra essere invece che i giovani soffrono, e soffrono individualmente, sulla propria
pelle, le difficoltà della loro condizione. Il disagio allora non è più devianza, a volte blanda a volte
violenta, è disagio e basta, è fatica di vivere o meglio paura di vivere” (Pieretti 1996, 10).
Non che la società di oggi non offra ai suoi membri possibilità di sviluppo in tutti i campi.
Anzi, le opportunità crescono con lo sviluppo del sistema globale. Ciò che manca è il senso, la
direzione di tutto ciò. Con la complessificazione della società, la forte differenziazione funzionale
dei vari sistemi tra di loro e dei singoli sottosistemi al loro interno e la moltiplicazione delle
relazioni tra loro, crescono le opportunità, anche di crescita, dell’individuo, ma ne consegue
l’ingovernabilità dei sistemi, la mancanza di un centro organizzatore, la crescita di entropia e la
moltiplicazione di codici incommensurabili. L’esito è una certa frammentazione della realtà sociale
e pluralizzazione dei centri di potere e dei sistemi di riferimento e di significato, con conseguenti
effetti disgregatori sul tessuto sociale. In questa situazione cade la tensione morale collettiva, perché
ogni sistema procede per logiche proprie, con propri criteri di valore, verificabili solo al suo interno
(autoreferenzialità).
I sistemi parziali di azione hanno perso progressivamente la loro capacità di fornire un senso
complessivo all’azione individuale e difficilmente ora, riescono ad essere costitutivi dell’identità
(Pieretti 1996, 20).
Viene meno quel sistema di fini ultimi (Telic System) teorizzato da Talcott-Parsons per cui
la società stessa, nel suo insieme, orientava e sosteneva la costruzione dell’identità individuale. La
crisi della società moderna (società post-moderna) ha comportato la messa in crisi del modello
sociale e culturale che la reggeva. Non sono in discussione solo l’organizzazione, i valori e le
convenzioni sociali, ma l’idea stessa di uomo e di società.
La società nel suo insieme ha perso la capacità di integrare i suoi giovani con i normali
processi di socializzazione, non soltanto sul piano dell’assegnazione di ruoli e compiti, ma
soprattutto nel fornire un senso all’agire collettivo e, di conseguenza, anche a quello individuale.
Non che manchi la socializzazione, ma essa procede per segmenti, ogni agenzia fornisce la “sua”
socializzazione, ma non c’è un sistema unitario e convergente di socializzazione.
Sul piano pratico ciò implica per i giovani, l’assumere, volta per volta, orientamenti diversi in
famiglia, a scuola, sul lavoro, con gli amici, nello sport, nelle vacanze, nel tempo libero, nelle
relazioni sessuali, nei rapporti di coppia. Ognuno di questi ambiti richiede logiche proprie,
peculiari, strategie d’azione divergenti (Pieretti 1996, 11).
Mancando un tessuto sociale coeso e concorde, ricade sul singolo la responsabilità della scelta, ma
con il rischio forte che le sue scelte non dipendano da opzioni di valore, ma dal “modello dell’arco
riflesso (stimolo-risposta), senza alcuna elaborazione psichica” (Pieretti 1996, 15). Un dimensione
morale non c’è, vi è solo
l’estensione generalizzata, come guida per la condotta, del sistema inespresso del calcolo dei costi.
Ma esso assomiglia sempre più a Pulp Fiction.
Pulp Fiction vuol dire una modalità metabolica di affrontare la vita, di ingoiarla e vomitala come se
essa non avesse, e non fosse, un valore in sé. Vi è, nella Pulp Fiction, un frenetico e spasmodico
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dannarsi in progetti a breve il cui senso intimo è fare, agire a qualsiasi costo (rapinare, drogarsi,
arraffare denaro, fare sesso) nell’ottica del consumo sfrenato di beni e situazioni […] nella totale e
aleatoria immanenza di ogni gesto, del tutto fine a se stesso” (Pieretti 1996, 14).
Di qui il disorientamento, la frammentazione psichica, le condotte illogiche, talvolta assurde e
aberranti, ma indicatrici di una sofferenza interna, psichica, esistenziale che solo a volte si traduce
anche in condotte socialmente pericolose.
La struttura psichica di ogni soggetto viene caricata di troppi compiti ed incombenze. Per qualcuno
si tratta solo di un po’ di sofferenza in più, facilmente sopportabile, per altri invece si tratta di un
carico eccessivo, esorbitante le loro possibilità, di fronte a cui non hanno strumenti o risorse per
difendersi. Ecco allora il “break-down”, il crollo che si traduce nella cronicizzazione di una
patologia adolescenziale, che sarebbe stata superata se avesse trovato un contesto sociale più
favorevole.
6.2. La famiglia
La famiglia nucleare manifesta una forte fragilità dal punto di vista educativo in quanto, potendo
contare solo su uno o due ruoli educativi adulti al proprio interno, quando va in crisi uno di essi, o
addirittura entrambi, gli effetti all’interno del processo formativo diventano immediatamente
rilevanti. Normalmente le famiglie i cui figli si trovano in condizioni di disagio sono caratterizzate
da una o più delle seguenti caratteristiche:
svantaggio economico;
·
basso livello di istruzione dei genitori;
·
disoccupazione o occupazione precaria dei genitori;
·
isolamento relazionale nel contesto urbano della famiglia;
·
coppia genitoriale separata o conflittuale;
·
assenza o carenza del ruolo educativo e normativo da parte dei genitori;
·
comunicazione violenta di uno o di entrambi i genitori nei riguardi dei figli.
Il ruolo della famiglia è primario nel provocare forme di disagio nei suoi giovani membri, in quanto
essa svolge due funzioni essenziali per la vita umana: la prima a livello individuale e la seconda a
livello sociale.
La famiglia, infatti, almeno nella sua forma moderna garantisce alle persone il soddisfacimento di
alcuni bisogni primari: il bisogno psicologico di sicurezza, di stare insieme, di soddisfare le
esigenze del sesso, di procreare.
Ma oltre ad essere il luogo della risposta ai bisogni psicologici e biologici tipicamente umani, la
famiglia è anche l’area della riproduzione del sistema sociale sia a livello della conservazione che
della cultura sociale, intesa come insieme dei codici e delle tecniche del vivere. Infatti è all’interno
della famiglia che si realizza il primo e più rilevante stadio dei processi di socializzazione e di
inculturazione, attraverso i quali avviene l’interiorizzazione dei valori sociali e degli stili di vita che
sono tipici di un certo sistema sociale. Ciò significa che all’interno della famiglia si gioca gran parte
della possibilità del nuovo individuo di adattarsi al sistema sociale e di elaborare un progetto di vita
evolutivo o regressivo. Ora, nell’attuale società caratterizzata da una alto livello di complessità e
differenziazione, nonché dalla carenza di un sistema di fini che coordini le attività delle istituzioni e
dei sistemi social con quelle dei soggetti, ricade nella famiglia la maggior parte del compito di
socializzazione e di integrazione. Infatti anche per Luhmann il sistema famiglia è l’unico dove il
sistema psichico individuale può essere persona. Tuttavia tale compito diventa soverchiante rispetto
alle possibilità della famiglia, perché essa stessa è inserita in questa realtà sociale ed importa
complessità, che vuol dire flessibilità ma anche insicurezza e disorientamento. Tali caratteristiche
ridimensionano la capacità educativa e strutturante la personalità e riducono il peso dell’autorità
familiare sul processo di socializzazione.
Giuseppe Bertagna, docente di Pedagogia generale presso l'Università di Bologna, intervenuto nella
seduta del 1 ° febbraio 2000 della Commissione parlamentare sull’infanzia e l’adolescenza, ha
affermato che sovente si parla, a proposti di atti devianti, di ragazzi che provengono da famiglie
normali.
49
Normali, però, sono, secondo Bertagna, anche le famiglie nelle quali il dialogo tra genitori e figli è
sbrigativamente basato sulla soddisfazione dei bisogni e dei desideri, piuttosto che sulla lenta e
faticosa negoziazione ed elaborazione di quest'ultimi, che costringe a motivare i no e i si e ad essere
coerenti con le prescrizioni date, oggi normalmente non esistente. Normali, inoltre, sono anche le
famiglie in cui entrambi i genitori lavorano, stanno fuori casa tutto il giorno e confessano di
cominciare ad avere problemi nel tenere i figli, non tanto e non solo come custodia, ma soprattutto
come stile relazionale ed educativo, fin da quando hanno 3 anni.
Perciò questi genitori "normali" cercano, man mano che il figlio cresce, il cosiddetto aiuto degli
esperti (psicologi, psichiatri, curatori di rubriche di consulenza giornalistica o televisiva) oppure di
servizi istituzionali (dai consultori alla scuola), che non sempre, per vari motivi, riescono a
rispondere in modo adeguato.
La maggiore preoccupazione, però, dice Bertagna, la destano i ragazzi provenienti dalle cosiddette
famiglie normali. Dalle notizie apparse sui giornali emerge una tipologia dei giovani che hanno
commesso questi atti: essi provengono generalmente da famiglie che hanno alle spalle almeno una
separazione o comunque una situazione di disagio; sono molti i genitori che non sospettavano
neanche che i propri figli potessero essere coinvolti in comportamenti trasgressivi o che non
controllano ciò che i loro figli portano a casa o portano via da casa; prevalgono, inoltre, afferma
Bertagna, le scuole nelle quali anche i docenti, che pure hanno redatto progetti antidispersione e
antidisagio finanziati dei relativi provveditorati, non hanno mai raccolto i segni di questo disagio, né
in un testo scritto né in una discussione (Dipartimento di giustizia minorile 2001, 40-41)
Inoltre, la mancanza di un vero dialogo tra genitori e figli, rende impossibile la crescita di questi
ultimi. Questa mancanza di autentico dialogo sarebbe dimostrata anche dalla mancanza di conflitto
interno alla famiglia. Tale mancanza può essere letto, a prima vista, come una cosa positiva, in
realtà, secondo Donati, tale situazione testimonia che non c’è più nulla da comunicare, che non
esiste differenza a livello di valori tra le generazioni, perché, vivendo in una società eticamente
neutra, non c’è più nulla da trasmettere.
Il conflitto fra genitori e figli è scomparso, perché entrambi vivono alla giornata. Non litigano più
solo perché parlano di cose banali. Il clima familiare non è problematico solo perché si rinuncia a
fare delle scelte che costano sacrifici. I genitori educano senza assumere, né chiedere ai figli che si
assumano, precise responsabilità etiche. Vivono nelle ansie e nei timori, ma senza decidere nulla
eticamente. Il conflitto, perciò, diventa latente, e si sposta su un altro terreno, quello di convinzioni
intime che non sono oggetto di comunicazione (Donati, Colozzi 1997, 29).
Ma il fatto che il conflitto diventi latente non è positivo, non aiuta a crescere, non fa maturare la
personalità e, soprattutto, non risolve il conflitto. Così questo conflitto è a sua volta causa di
malessere e disagio.
Scrive il rapporto Censis del 2001:
sul piano dei disagi potenzialmente conflittuali di stampo individuale, spesso giocati all’interno del
contesto familiare, emerge una tensione oggi implosa, ma una volta centrale e largamente esplosa
anche in forme piuttosto eclatanti, che è quella generazionale. […] Oggi […] il conflitto sembra
definitivamente derubricato. […] Anzi, un dato sicuramente emblematico è quello di una quasi
sistematica convergenza di orientamenti sociali e valoriali tra giovani e adulti […]. Ma alla
omologazione delle opinioni fa da contraltare l’autopercezione della distanza rispetto alle
generazioni adulte e anziane […], soprattutto nei linguaggi espressivi e nei luoghi di
socializzazione. Ci si trova così di fronte ad una realtà in cui l’aderenza sostanziale a modelli
valoriali convenzionali convive con la spinta potenziale alla alterità generazionale […]. Per i
genitori l’adesione giovanile a valori ed orientamenti convenzionali ha una funzione
tranquillizzante, così come per i figli l’accettazione di comportamenti codificati è altrettanto
rassicurante e tende ad evitare qualsiasi forma di conflitto, a mimetizzare ciò che si è per far
emergere solo ciò che si ritiene giusto mostrare. Se così fosse, sarebbe allora l’alterità la nuova
dimensione del dissenso. Un dissenso silente, fatto di continue dissociazioni tra ciò che è giusto
50
essere e ciò che si è intimamente e che può diventare potenzialmente dirompente proprio per la
complessità della gestione di questo fragile equilibrio (Censis 2001, 27-29).
Altre ricerche e studi, di tipo prevalentemente psicologico, hanno evidenziato il contributo della
familiare alle situazioni di disagio. I complessi rapporti che si creano a volte all’interno della
famiglia provocano una perturbazione nella crescita del bambino che poi sovente si risolve
nell’assunzione di comportamenti a rischio. “La relazione sull’infanzia ed adolescenza 2000” elenca
una serie di contesti familiari che favorirebbero l’insorgenza delle violenze dei minori (Presidenza
del Consiglio 2001, 161-162).
Questi sarebbero:
·
famiglie che non pongono limiti ai figli;
·
famiglie i cui genitori sono iperprotettivi nei confronti dei figli;
·
famiglie in cui il figlio assume il ruolo di genitore;
·
famiglie in cui il ragazzo è oggetto di conflitti parentali;
·
famiglie in cui i minori sono vittime di maltrattamenti da parte dei genitori;
·
famiglie di tipo incestuoso.
Così pure l’assenza prolungata o ripetuta di entrambi o uno dei genitori, anche solo per motivi di
lavoro, rende più probabile un percorso deviante .
A questo proposito Donati rileva come la perdita del senso generazionale colpisca soprattutto i
giovani di cui
i genitori vivono psicologicamente lontani dai figli, o almeno così i figli li percepiscono. Soprattutto
i padri. In generale, i figli sono attaccatissimi ai genitori, li valorizzano quanto più possono
(soprattutto la madre). Ed è per questo, per l'affetto che li lega, che genitori e figli continuano il
dialogo, non vanno in tilt, non si bloccano. La mancanza di una comunicazione competente, e di
scelte etiche, viene compensata dall'affetto reciproco. Ma fino a quando? (Donati, Colozzi 1997,
31).
Gli studi relativi al clima familiare hanno evidenziato l'incidenza negativa sia di uno stile educativo
permissivo e tollerante, sia di quello coercitivo. In entrambi i casi è probabile l'assunzione da parte
del bambino di condotte aggressive, nel primo caso per l'incapacità a porre adeguati limiti al proprio
comportamento, nel secondo per la tendenza a legittimare l'uso delle stesse modalità
comportamentali esperite nella relazione parentale. Numerosi studiosi sostengono l'utilità di
considerare la combinazione delle dimensioni della coesione e del potere all'interno del sistema
familiare. Nelle famiglie in cui un alto potere gerarchico si associa a una bassa coesione tra i
membri, i figli tenderebbero ad assumere il ruolo del bullo. Al contrario, se è presente un alto grado
di coesione, unitamente al venire meno di una struttura gerarchica che marca la differenziazione dei
ruoli, si produrrebbe un sistema familiare invischiato, tipico delle vittime. Anche altri studi riferiti
alla coesione interna delle famiglie e al rapporto con l'esterno evidenziano una correlazione con la
messa in atto o meno di atteggiamenti da bulli.
Un'altra dimensione significativa inerente al clima familiare è quella che riguarda il sistema di
valori del nucleo. I risultati di altre ricerche indicano che i valori trasmessi dai genitori influenzano
sia il modo in cui il figlio si relaziona con gli altri, sia il modo in cui risolve le difficoltà della vita.
In particolare, i risultati ottenuti verificano che nelle famiglie dei bulli, diversamente da quanto si
verifica in quelle delle vittime, le strategie utilizzate per affrontare le difficoltà sono fondate
sull'individualismo e l'egoismo (Presidenza del Consiglio 2001, 159).alcuni studiosi parlano di una
omologazione, avvenuta negli anni ottanta, fra i sistemi di valori delle due generazioni (giovani e
adulti) che ha in qualche modo "affievolito" lo spirito di contestazione verso la società adulta che
aveva caratterizzato i ragazzi cresciuti in epoche precedenti. Dall'impossibilità di contrapporsi agli
adulti deriverebbe una particolare forma di disagio che, proprio per la sua natura, appare di difficile
gestione (Dipartimento di giustizia minorile 2001, 155).
6.3. La scuola
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La dispersione scolastica è uno dei problemi non ancora risolti dalla scuola italiana, nonostante tutti
gli sforzi delle competenti autorità in merito. “La relazione sull’infanzia e l’adolescenza 2000”
riconosce che «il 5% della popolazione italiana non riesce a completare il corso di scuola media» e
che «permane una percentuale ancora piuttosto alta di uscite dal sistema scolastico dopo il primo
anno di scuola secondaria superiore» (Presidenza del Consiglio 2001, 51)
Sovente proprio i giovani che avrebbero un maggior bisogno dell’attività formativa della scuola,
vuoi per gli svantaggi sociali e familiari di cui sono portatori, vuoi per motivi personali, sono quelli
che spesso sono precocemente espulsi da essa o marginalizzati. Molte situazioni di disagio o
carriere devianti hanno alle spalle un’esperienza scolastica negativa. La dispersione scolastica è,
infatti, un fenomeno sociale fortemente correlato con i percorsi del disagio e della devianza
giovanile.
La ricerca Labos ha chiarito l’esistenza del nesso, anche se in modo non deterministico , tra la
dispersione scolastica e le varie forme di disagio o di devianza in cui sfociano alcuni percorsi
esistenziali giovanili.
Non è perciò un caso che nelle storie dei giovani, vittime del disagio, si riscontri una serie frequente
di vicende scolastiche negative. Questo è stato evidenziato anche da altre ricerche. In particolare
una ricerca del CEIS di Roma, condotta da M. Pollo, ha messo in luce l’intreccio che si stabilisce
tra disagio scolastico e tossicodipendenza. In particolare il metodo delle storie di vita ha permesso
di ricostruire la catena causale innescata da incidenti relazionali con insegnanti:
problema relazionale con uno o più insegnanti ® perdita di fiducia in sé e/o negli insegnanti ®
perdita di interesse per lo studio e abulia (Pollo 1999, 226).
6.4. Il gruppo dei pari
Abbiamo già scritto, nel corso della trattazione, del ruolo del gruppo dei pari nella formazione del
disagio e della devianza, soprattutto a riguardo della violenza. Qui richiamiamo solo alcuni dati
fondamentali.
Il gruppo dei pari è in alcuni contesti sociali urbani uno dei luoghi di formazione del disagio in
quanto in queste realtà il sistema di norme che il gruppo, a livello informale, ha elaborato, sono
devianti rispetto a quelle tipiche del contesto sociale più vasto. Infatti, per appartenere al gruppo è
necessario assumere alcuni valori e praticare alcune condotte, definite come devianti o perlomeno
marginalizzanti nella cultura sociale.
In questi gruppi, che in alcuni casi sono vere e proprie bande giovanili, se il giovane non si associa
nell’esecuzione di un atto vandalico, nel consumare sostanze stupefacenti o alcoliche, nel compiere
una bravata o nel compiere un’azione microcriminale, viene stigmatizzato, marginalizzato o
espulso. I gruppi giovanili informali di questo tipo sono, per fortuna, una minoranza; tuttavia per
molti giovani, abitanti di certi quartieri urbani degradati o marginali, sono l’unico luogo
d’aggregazione.
La rilevanza di questi gruppi è ancora più forte in presenza di carenze di relazioni significative dei
giovani con gli adulti nel determinare i percorsi di socializzazione e i progetti di vita dei giovani che
li frequentano.
6.4.1. Il ruolo del gruppo nella componente trasgressiva
Se la trasgressione fa parte dell’esperienza “normale” dell’adolescente, bisogna riconoscere che il
comportamento deviante si manifesta soprattutto in gruppi che fanno della violenza, della
trasgressione, dell’antisocialità il loro codice di comportamento.
Per analizzare questo rapporto, bisogna partire dalla peculiare funzione che ha il gruppo in
adolescenza.
"Nella nostra società urbana-(post)industriale, il gruppo dei coetanei assume durante l'adolescenza
un'importanza che non aveva prima e non conserverà in seguito" (Lutte 1987, 223).
L’importanza del gruppo è data dal bisogno di socialità che si sviluppa fortemente nell'adolescenza,
di indipendenza dagli adulti e dal bisogno di organizzarsi autonomamente in un contesto di società
che emargina di fatto l'adolescente e frustra le sue aspirazioni.
Il gruppo può considerarsi
52
"l'habitat privilegiato degli adolescenti non solo per il fatto che essi vi investono gran parte del loro
tempo, ma soprattutto perché esso rappresenta un'interfaccia significativa tra il soggetto e la società
circostante nel processo di formazione delle opinioni e delle forme di rappresentazione di sé e degli
altri" (Salvini, 1994, 53).
Il gruppo, quindi, è funzionale al momento di transizione dell'adolescente dallo status infantile a
quello adulto. Il gruppo è una specie di zattera che consente il traghettamento da una sponda
all'altra. Inserendosi in un gruppo, l'adolescente trova un'identità collettiva che gli permette di
sapere come orientarsi e quali valori perseguire nella vita, come presentarsi e come agire nei
confronti degli altri.
Nel gruppo l'adolescente può trovare uno spazio in cui può esprimersi con maggiore libertà ed
autonomia e la necessaria sicurezza per superare i compiti di sviluppo connessi a tale fase evolutiva.
Il gruppo adolescenziale fonda un proprio linguaggio e propri valori orientando atteggiamenti e
comportamenti del singolo e l'appartenenza al gruppo, grazie alle regole stabilite, richiede
autentiche dimostrazioni di fedeltà, determinando quei fenomeni di conformismo e di contagio che
caratterizzano i gruppi adolescenziali.
Per questo pur essendo così importante è transitorio. Esso consente di soddisfare il "bisogno di
autonomia, di protagonismo, di sperimentazione, la voglia di fare e rischiare in proprio" (Altieri
1987, 57).
Se il gruppo risulta così importante nel favorire lo sviluppo dell'identità e nell'offrire un ambito
esperienziale significativo per l'adolescente, si è cercato di individuare il ruolo che l'appartenenza
ad esso può svolgere nel favorire o contrastare il coinvolgimento in attività devianti e/o di rilevare i
meccanismi attraverso cui il gruppo struttura comportamenti delinquenziali. D'altra parte, è noto
che le azioni devianti, per lo più, non sono vissute in solitudine, ma la maggior parte dei reati sono
commessi in “coimputazione”: ciò vale in misura maggiore per i comportamenti devianti dei
minorenni tra i quali sono spesso rilevabili comportamenti violenti connotati in termini espressivi
(vandalismo o atti di aggressività).
Si sa che il gruppo elabora un sistema di regole, di valori, ma anche di codici comunicativi come il
linguaggio, il vestito, i luoghi di ritrovo, gli interessi, i gusti musicali, gli atteggiamenti e
comportamenti (Coleman 1983, 140). Tutto questo costituisce la cultura del gruppo e serve come
elemento di differenziazione dagli altri gruppi e soprattutto dagli adulti. Il gruppo diventa un "luogo
di elaborazione di senso" e "mondo vitale" (Colozzi cit. da Baraldi 1989, 302) per molti adolescenti.
Da questo punto di vista si capisce anche il forte senso di lealtà che si sviluppa verso le norme, i
codici, le figure di riferimento del gruppo, fino a configurarsi come "conformismo". Questo può
costituire la base per un comportamento deviante, o comunque trasgressivo?
Diversi studi hanno quindi cercato di indagare i fattori che portano un gruppo di coetanei a
strutturarsi attorno ad attività di tipo deviante e di analizzare il loro ruolo.
Emler e Reicher (2000) ritengono che alcune caratteristiche strutturali del gruppo, in particolare la
compattezza, possono amplificare le tendenze comportamentali dei membri del gruppo, ma non
sono la causa prima di tali dinamiche. Partendo quindi dall'osservazione che il gruppo ha una
particolare importanza nel supportare il processo di crescita degli adolescenti, essi sottolineano che
la gran parte degli atti devianti è realizzata in compagnia di altri "non perché la presenza dei
coetanei sovverta i codici morali, ma più semplicemente perché la gran parte delle azioni degli
adolescenti sono compiute insieme con altri" (Emler, Reicher 2000, 266).
Tali autori considerano la devianza come il risultato di una specifica scelta di gestione della
reputazione e il gruppo di coetanei come uno strumento per tale gestione, tenendo conto del fatto
che, come dimostrano le scienze sociali, non sempre gli individui privilegiano una reputazione
positiva. Laddove il gruppo attribuisce un valore normativo alla devianza è più probabile la
commissione di atti devianti; nel caso di gruppi che invece le attribuiscono un valore
contronormativo, è più probabile che tali atti vengano inibiti. Esisterebbe quindi un rapporto di
interdipendenza tra l'appartenenza ad un gruppo ed il coinvolgimento in atti di devianza:
53
essere membro di un gruppo implica l'adesione alle norme di gruppo sulla devianza e, viceversa, un
determinato livello di coinvolgimento nella devianza dipende dal fatto di appartenere a un gruppo
con particolari norme (Emler, Reicher 2000, 271).
Secondo Baraldi il gruppo è un sistema sociale autonomo, caratterizzato da una particolare forma di
comunicazione al suo interno e verso l'esterno: esso è complementare e, per certi versi, sostitutivo
di altri ambiti di comunicazione interpersonale (famiglia, coppia, amicizia ristretta) e svolge la
funzione di ampliare le possibilità di comunicazione interpersonale. Nel gruppo, che svolge una
funzione di filtro rispetto alla società impersonale, possono infatti nascere rapporti vari e complessi.
La frequentazione, intesa come meccanismo basato sia sul coinvolgimento personale (intimità) sia
sulla superficialità dello stare insieme e del divertirsi, è la caratteristica fondamentale della
comunicazione che si realizza nel gruppo e rappresenta la struttura sociale che ne garantisce la
riproduzione (Baraldi e Battaglia, 1988). La frequentazione si coniuga all'interno del gruppo con
una comunicazione di tipo etnocentrico, basata sulla distinzione tra "un Noi e un Loro". In relazione
a questi due modelli comunicativi, la socializzazione di gruppo da un lato rappresenta un momento
importante per l'apprendimento dell'autonomia personale in contesti sociali allargati, dall'altro
sviluppa il senso di appartenenza. Ma l'aspetto che qui preme mettere in luce è che ciò che
caratterizza i gruppi violenti è un tipo di comunicazione particolare, in cui manca l'orientamento
alla persona, e la comunicazione è impossibile; il gruppo trova quindi nell'uso della violenza lo
strumento per creare un Noi non sostenuto dalla frequentazione.
La devianza del gruppo rispetto all'ambiente sociale ed individuale appare perciò come il risultato
dell'annullamento della frequentazione: violenza e consumo di droghe rappresentano cioè il
surrogato di forme di comunicazione che non riescono ad affermarsi e "il gruppo usa la violenza per
produrre una possibilità di consenso e di confronto in condizioni di comunicazione impossibile"
(Baraldi, 1994, 138).
Il gruppo diventa dunque un riferimento anche dal punto di vista normativo tanto che i
comportamenti e gli atteggiamenti vengono generalmente uniformati a quelli dei coetanei
(Maggiolini, Riva, 1999). Accade però che questo legame di dipendenza impedisca a volte al
singolo di sottrarsi alle proposte del gruppo e di mantenere il proprio punto di vista, con il rischio
dell'esclusione con l'accusa di essere codardo o traditore. Spesso il gruppo sottopone a "prove di
iniziazione" i nuovi arrivati per valutarne la forza e il coraggio - ed eventualmente assegnare loro un
ruolo - e rappresenta anche lo spazio che accoglie l'emergenza dell'agire deviante (Bandini, Gatti,
1987; De Leo, Patrizi, 1999).
Secondo Maggiolini e Riva (1999), anche con riguardo al gruppo come per il singolo, appare
necessario tracciare confini concettuali fra le azioni di trasgressione che assumono una funzione di
crescita per i soggetti e le azioni delinquenziali. Potremmo aggiungere l'opportunità di distinguere
fra i significati espressivi dell'agire deviante e le sue dimensioni più tipicamente strumentali (De
Leo, 1998). Queste ultime, prevalenti nella classica banda dedita abitualmente ad atti delinquenziali
con la finalità di trarre profitto, appaiono più sfumate nei gruppi di giovani presenti nella realtà
italiana, e sollecitano un'analisi capace di considerare le cornici comunicativo relazionali che
sottendono la stessa aggregazione di gruppo.
In ogni caso, nonostante le apparenze, la cultura dei gruppi adolescenziali è molto meno
differenziata da quella dominante di quanto appaia. La cultura e le attività del gruppo sono di
carattere consumistico (Baraldi 1989, 301). Essa si nutre degli stimoli che provengono dal mondo
adulto, particolarmente dai mass-media, anche se viene poi rielaborata autonomamente dal gruppo.
Si dice addirittura che, pur avendo un forte orientamento anti-adulto, il gruppo riveli una specie
invidia dello stato adulto e che il disprezzo che gli adolescenti manifestano verso gli adulti mascheri
una specie di "complesso dell'uva acerba" (Lutte 1963, 614). Le attività dei gruppi adolescenziali
possono essere considerate come attività adulte simboliche (Bloch, Niederhoffer 1958).
Tuttavia, secondo Baraldi (1988; 1989) il gruppo acquista una rilevanza sociologica per il tipo di
interazioni che si instaurano al suo interno: esse sarebbero tese a ridurre il grado di complessità del
sistema sui singoli e a mettere in rilievo la comunicazione "intensa" su quella "estesa", ma poco
54
profonda del sistema sociale. Solo in questo caso il gruppo, in quanto sistema di comunicazione,
costituirebbe un luogo di elaborazione di senso. Tuttavia la diminuzione dei rapporti duali
testimonia la progressiva invadenza della complessità anche sul mondo dei rapporti interpersonali:
l'intensità diminuisce e si preferisce il gruppo dove ci si può volgere "sia a forme intense ed
impegnative che a forme più superficiali e disimpegnate di relazionalità interpersonale" (Baraldi
1989, 302). Consentendo così di giostrare tra consumismo e impegno affettivo.
Quindi il gruppo può agire da facilitatore ma non costituisce la causa della violenza.
Nel gruppo, che svolge una funzione di filtro rispetto alla società impersonale (baraldi),
6.5. I mass media
6.6. L’ambiente urbano
C’è da rilevare che le azioni violente trovano maggior diffusione dove il degrado urbano è più
evidente. L’ambiente urbano, ovvero la qualità urbanistica e, quindi, sociale di un quartiere ha una
qualche influenza sui percorsi di formazione del disagio. Certi moderni quartieri ghetto costruiti in
modo anonimo, lontano dal centro della città, privi di servizi sociali, culturali, ricreativi e
commerciali, dove è stata concentrata una forte percentuale di popolazione marginale o deviante e
dove non esiste alcuna identità storico�culturale, appaiono come uno dei fattori classici nella
produzione del disagio e della devianza giovanile.
6.7. La carenza del lavoro
Nei percorsi del disagio è facile incontrare sia l’inaccessibilità di un lavoro regolare, sia una sequela
di tentativi falliti d’adattamento al lavoro. Il tutto aggravato dalla carenza ormai cronica,
specialmente in alcune aree geografiche, del bene�lavoro per i giovani. Questo fa sì che la
maggioranza dei giovani italiani viva una condizione frustrante d’insoddisfazione per le scarse
opportunità di lavoro offerte dall’ambiente sociale in cui vive. Basti dire che i giovani insoddisfatti
per le opportunità di lavoro sono quasi i tre quarti di quelli che risiedono al Sud e la metà di quelli
che vivono al Nord.
In questo quadro generale deprivato i giovani più svantaggiati o a rischio si smarriscono nei
percorsi dei lavori precari e irregolari o in quelli generati da un’aspettativa irrealistica, che crea una
forbice incolmabile tra le loro reali possibilità e i loro sogni ad occhi aperti, oppure ancora nei
percorsi di quell’ozio assistito almeno da un minimo di benessere che porta a sperimentare le nebbie
del tempo vuoto nel tentativo di dare un senso al proprio esistere.
6.8. Il futuro
Esiste una relazione abbastanza definita tra l’incertezza verso il futuro e alcune esperienze di
disagio. Infatti, l’atteggiamento d’incertezza può essere il sintomo di una certa angoscia o
perlomeno d’insicurezza ansiosa verso il futuro, dovuto alla mancanza di un progetto di futuro
nell’orizzonte esistenziale di molti giovani.
L’insuccesso scolastico e la sua derivata dispersione scolastica possono diventare veri e propri
traumi nel progetto esistenziale del giovane.
I giovani che hanno abbandonato gli studi appaiono in assoluto come i meno ottimisti, seguiti da
vicino da quelli che sono stati bocciati (Labos 1994, 31).
Questo significa che l’incertezza verso il futuro è un altro luogo di produzione del disagio. Oltre a
questi luoghi sociali nella dimensione del disagio, a volte come cause ma altre già come effetti
(anche se non è facile distin-guere con sicurezza quando si tratta di cause e quando si tratta di
effetti), vi sono altri problemi, che emergono dal vissuto dei giovani.
55
2.5.5. Disagio come reazione contro la società
Tuttavia queste manifestazioni sono correlate alla situazione sociale.
Per esempio il problema dell’anoressia è stato certamente gonfiato anche dalla prevalenza del mito
della magrezza e della bellezza, soprattutto femminile.
Così pure il suicidio o tentato suicidio va collegato alla mancanza di un orizzonte di senso e di una
capacità motivazionale da parte del sistema sociale . Per molti giovani poi il rischio della morte
rappresenta il tentativo estremo, o di affermare la propria individualità contro l’anonimato sociale, o
di dichiarare quell’unità mistica con il tutto che la vita opaca del presente non consente di cogliere.
Tutte queste, che son solo alcune delle difficoltà più evidenti, rendono arduo il compito di
definizione dell'identità perché il quadro sociale si presenta poco coerente ed integrato. Ricade
perciò sul singolo il compito di riportare ad unità gli aspetti contrastanti della realtà e scegliere tra i
diversi stimoli quali utilizzare per i suoi scopi. Compito non facile perché l'ampliamento delle
possibilità richiede all'individuo notevoli capacità di valutazione e di scelta. Se non ci si trova di
fronte a persone altamente flessibili e coerenti è probabile che, mancando un quadro di riferimento
stabile e condiviso, le scelte siano fatte in base a criteri utilitaristici, dipendenti da percezioni
momentanee, ma che possono compromettere bisogni più profondi e meno avvertibili .
Manca un’idea sufficientemente chiara di quali possano essere gli esiti del loro impegno attuale.
L’aumento di complessità e di differenziazione sociale, le pressanti e contraddittorie richieste del
mondo produttivo, il vuoto valoriale ed il disorientamento della società rendono sempre più difficile
il processo di identificazione che richiede forme di adattamento plurime.
“Concentrati nelle aree marginali del mercato del lavoro, lavorando in modo occasionale, i giovani
[…] sono costretti a disancorare la definizione dell’identità dal suo principale referente sociale, il
ruolo professionale ricoperto. Il lavoro precario ed occasionale non può dare, infatti, alcuna identità
plausibile (Leccardi 1987, 6).
Le tappe, stesse attraverso le quali si raggiungeva socialmente l’età adulta sono per altro rimaste
sostanzialmente le stesse: la fine del corso formale degli studi, l’acquisizione di un lavoro
potenzialmente stabile, l’abbandono della casa dei genitori per «metter su» una propria dimora, il
matrimonio, la maternità/paternità. Solo che queste tappe non hanno più un riconoscimento sociale
così cogente come nel passato, l’identità non trova da questi indicatori sociali la sua giustificazione
Altre forme invece di disagio sono vissute in maniera più rinunciataria e deleteria: il ricorso alla
droga ed agli psciocofarmaci ed in genere l’abbandono di ogni speranza e desiderio di vita.
“Segno evidente di una incapacità a difendersi, da parte di molti teen-agers, dalle frustrazioni anche
piccole, che il vivere contemporaneo comporta. Micro-traumi ingigantiti dall’età tradizionalmente
delicatissima dell’adolescenza e da un bisogno di sensazioni forti e totalizzanti sempre più difficili
da reperirsi nel tran-tran massificante del quotidiano” (Coriasco 1988, 185).
Altri possibili esiti del fallito tentativo di definire l'identità possono dar luogo a situazioni
veramente patologiche, o comunque di malessere diffuso e senso di disagio. Tra questi possiamo
accennare alla dispersione della prospettiva temporale, perdita di senso e di progettualità, anomia,
caduta della speranza fino alla disperazione e depressione, superficialità e ripiegamenti adattivi di
breve respiro, spesso di tipo consumistico, privatistico, intimistico.
Sembrerebbe quasi che, per effetto delle difficoltà di un inserimento sociale attivo e per i vantaggi
connessi con la sua situazione, l'adolescente tenda a prolungare all'infinito il suo stato di precarietà,
fino a farla diventare essa stessa identità della sua condizione. Di questa condizione i giovani sanno
cogliere tutti i vantaggi e minimizzare gli svantaggi, vivendo tranquillamente il loro ruolo di
consumatori e praticando la deresponsabilizzazione, che permette di difendersi dai tentativi di
omologazione. Vivono con spensieratezza la loro condizione, senza pensare alla preparazione al
futuro.
56
Un’ulteriore ipotesi, negli ultimi anni divenuta molto nota, è quella della forbice che si creerebbe tra
competenze intellettive di vario tipo dei ragazzi e competenze sociali ed emotive. Ci si è accorti,
infatti, che abbiamo costruito dei "mostri intelligenti", capaci di usare tecnologie, che ricevono
un'infinità di informazioni, molto di più che nel passato, ma sempre più fragili dal punto di vista
emotivo e sociale, in termini di comunicazione sociale, di abilità di stare con gli altri, di accorgersi
delle proprie emozioni, di avere empatia.
2.3. Conclusioni
Dopo questo lungo excursus nel “pozzo nero” della realtà giovanile è difficile trarre delle
conclusioni che riescano a dar ragione di quanto emerso. La realtà è così variegata e complessa che
diventa complesso anche ogni discorso ulteriore. Comunque, per volere rimanere nell’ambito che ci
siamo dati in questo lavoro possiamo dire che:
1.
Vengono confermate le tesi di Inglehart sulla crescita dei valori in corrispondenza della
progressiva soddisfazione dei bisogni. Per questo rimandiamo alla conclusione del precedente
capitolo, in quanto le indicazioni che emergono dall’analisi della devianza e del disagio non
differiscono molto da quelle di quel capitolo. Se una novità può apparire da questo sta nella
tendenza alla trasgressione e al rischio: dove i valori di libertà ed autoespressione tendono a non
riconoscere alcun limite, né personale né sociale, e quindi ad affermarsi in maniera perentoria ed
autonoma. In questo essi sono un’ulteriore (a volte tragica) conferma delle ipotesi di Inglehart e una
testimonianza di come i giovani stiamo effettivamente prefigurando con le loro scelte una società
diversa.
2.
Il disagio manifesta però una nuova serie di problemi legati piuttosto alla realizzazione
personale e soprattutto ai compiti di sviluppo e tra questi dell’identità. Tali segnalazioni indicano
quanto il tipo di società che si sta costruendo sia poco rispondente alle necessità e ai bisogni dei
singoli. Sembrano soprattutto prevalere logiche sociali, che, se concedono molta libertà ai singoli,
non garantiscono le condizioni perché ognuno possa giungere a quei traguardi che la società pone
come possibili ed auspicabili per tutti. Così si crea una distanza enorme tra desiderio e possibilità.
In un’età in cui il passaggio dal sogno alla realtà non è ancora stato compiuto, questo può avere
effetti devastanti. Per chi ha capacità individuali e adeguati sostegni sociali (cultura, famiglia, status
sociale, associazionismo, religione, ecc.) le possibilità di crescita si ampliano e ci sono buone
probabilità di una buona riuscita. Per questi l’autorealizzazione diventa effettivamente possibile e
una cosa buona, come già scriveva Buzzi nell’85.
Ma per altri questa autorealizzazione non è possibile per vie sane per sé e per la società. Ecco allora
esplodere il disagio, con manifestazione di violenza distruttiva o autodistruttiva. Queste forme
estreme sono delle invocazioni rivolte alla società perché si fermi e si prenda cura di loro.
Si potrebbe dire che, la società moderna, assolto il compito di rispondere ai bisogni di tipo primario
(biologici e di sicurezza) non sia più in grado di rispondere a bisogni di livello più alto e sia caduta
in una specie di circolo vizioso di risposte materiali quando invece le domande sono di tipo diverso.
Questa difficoltà rimanda ad un modello di sviluppo che ha privilegiato il concetto di “benessere
con la prosperità, vale a dire con il possesso di risorse materiali – denaro, servizi, beni di consumo,
ecc.” (Folgheraiter 1998, 91).
3.3. Sorcioni
Non va dimenticato, infatti, che 19 giovani europei su 100 (contro i 24 dell’87) vivono condizioni di
difficoltà economico-finanziarie. In termini generali, tuttavia, il rapporto 1 a 5 (20% area del
disagio materiale ed 80% area della soddisfazione dei bisogni di sussistenza) non sembra
prefigurare condizioni critiche. L’essenza del disagio giovanile sembra piuttosto interessare, in
modo crescente, la sfera valoriale, fino a manifestarsi, per il momento solo in alcuni contesti
territoriali ed all’interno di specifiche condizioni socio-economiche, come vera e propria crisi di
identità.
57
Il disagio derivante dall’esperienza della complessità, inteso come profonda sensazione di
smarrimento di fronte alla crescente complessità valoriale e sociale delle democrazie europee,
sembra catturare l’essenza vera della realtà esperienziale delle giovani generazioni europee. Sono
noti i fenomeni di xenofobia e di radicalismo nazionalista esplosi in Germania, Francia e Italia che
han visto giovani come protagonisti. Si tratta di tensioni che esprimono in modo esplicito un disagio
latente, legato proprio alla difficoltà di vivere dentro quel conflitto sociale della modernità tipico
delle società aperte ed in particolare delle democrazie europee. Questo fa affermare all’autore che
proprio la crisi di identità valoriale e sociale costituisca il filo rosso che caratterizza le molteplici
forme del radicalismo giovanile. Ciò che appare ormai chiaro, in buona sostanza, è che i livelli di
disagio presenti nel variegato universo giovanile europeo non possano più essere valutati a partire
dal grado di soddisfacimento soltanto dei bisogni materiali ma vadano piuttosto riconsiderati a
partire dal più vasto universo dei bisogni valoriali: dalle esigenze di autoespressione e qualità della
vita fino ai bisogni crescenti di identità che si affacciano prepotentemente tra le grandi tensioni del
corpo sociale ed in particolare dei giovani. Il che, evidentemente, non sta a significare che le grandi
contraddizioni strutturali o i fenomeni di emarginazione non pesino sulla realtà giovanile europea.
Esse tuttavia assumono importanza oltre che per la loro rilevanza materiale anche per la loro
dimensione valoriale (Sorcioni 1992, 7-8).
Così la questione occupazionale o temi legati alla droga e all’Aids trovano un’ampia rinonanza tra i
giovani europei, risonanza che va oltre i problemi personale e testimonia una preoccupazione
globale, che non può non essere fatta risalire a problemi di diritto e di identità.
D’altro canto la nuova dimensione immateriale del disagio giovanile tende a generare nuovi bisogni
di sussistenza spostando verso l’alto la soglia minima di soddisfazione materiale. Anche tra i
giovani si manifesterebbe sempre di più il bisogno di beni di consumo di status. Per cui si crea un
intreccio continuo di bisogni materiali e immateriali, la cui distinzione è problematica.
In altre parole l’allargamento dell’area dei bisogni valoriali non necessariamente implica una
minore attenzione ad esigenze di carattere strettamente materiale. Si potrebbe ipotizzare infatti che i
bisogni materiali non siano più causa delle nuove istanze valoriali ma ne siano piuttosto l’effetto.
Quel che appare evidente, comunque, è il fatto che il disagio valoriale assume carattere inclusivo
rispetto a quello strettamente di carattere materiale (Sorcioni 1992, 8).
Confluiscono, infatti, nella categoria dei bisogni misti esigenze di autoespressione, individualità e
partecipazione insieme ad istanze materiali, quali la difesa della propria posizione socio-economica
(occupazione e reddito) o dell’identità territoriale. Coesistono simultaneamente spinte verso modelli
di società aperta e chiusure verso l’esterno (rifiuto dell’immigrazione). Un crogiuolo di esigenze ed
aspettative, tipico dei processi di transizione, entro il quale possono manifestarsi pulsioni integrative
e spinte disintegrative, e dove i problemi d’identità possono esprimersi in una logica tanto
complessa quanto socialmente dolorosa.
Il bisogno di individualità in opposizione alla cultura di massa, la scomposizione dei principali
riferimenti ideologici, il rifiuto delle tradizionali forme della partecipazione politica, avevano
cominciato a manifestarsi in modo esplicito nelle giovani generazioni già alla fine degli anni ‘70. La
progressiva spoliticizzazione appare sempre di più il sintomo e l’effetto di un processo di
innovazione valoriale di cui i giovani sono stati i principali e più sensibili interpreti ed attori.
Sotto il profilo fenomenologico, superate le logiche di verticalizzazione del conflitto
intergenerazionale degli anni ‘70, il rapporto giovani-adulti è andato via via orizzontalizzandosi: ha
assunto, cioè, sempre più una dimensione micro-conflittuale in cui alla logica della
contrapposizione si è progressivamente sostituita quella della compatibilità, frutto proprio della
scomposizione dei riferimenti valoriali verticalizzanti caratteristici degli anni ‘70.
L’orizzontalizzazione dei riferimenti valoriali sembra, tuttavia, testimoniare che il vuoto lasciato dai
vecchi meccanismi di trasmissione dei valori secondo schemi impositivi (cioè non partecipativi)
non sia stato ancora del tutto colmato. Di qui le difficoltà delle generazioni adulte e più in generale
delle agenzie educative (prima fra tutte la famiglia) ad assumere un ruolo non più autoritario ma
58
autorevole nei confronti delle giovani generazioni. Una difficoltà che spesso ha indotto a sostituire
con la contrattazione degli spazi di autonomia (“la famiglia negoziale”) il naturale ruolo educativo
riducendo, anziché ampliando, gli spazi del confronto generazionale. Si ha la sensazione, in altre
parole, che proprio la relativa incruenza delle trasformazioni valoriali nelle giovani generazioni
abbia finito per trainare il sistema valoriale adulto (Sorcioni 1992, 9).
Il tracciato fenomenologico descritto disegna dunque un realtà giovanile scettica di fronte alle
risposte che il processo di integrazione comunitario è attualmente in grado di fornire alle nuove
domande valoriali e di identità. Le giovani generazioni sembrano vivere una condizione in fieri,
sospesa tra l’accettazione della nuova identità comunitaria e il disagio di fronte alla complessità ed
alle contraddizioni che essa comporta. La preoccupazione più forte sembra più indirizzata alla
qualità dei processi di transizione professionale piuttosto che all’urgenza di assicurarsi una
autosufficienza economica. La debolezza dei contributi educativi rende ancora più incerta
l’adesione dei giovani al processo di integrazione europea.
Questa freddezza al tema dell’integrazione europea contrasta con i dati emersi dalla ricerca che
illustrano la forte disponibilità dei giovani verso la lotta al razzismo e gli aiuti al Terzo Mondo.
Si manifesta, dunque, in questo specifico contesto fenomenologico un’antinomia valoriale che vede
i giovani sensibili ai problemi di integrazione razziale ma scarsamente disponibili a mobilitarsi sui
temi dell’integrazione europea. Se da un lato l’integrazione è percepita come valore in sè dall’altro
la dimensione comunitaria non sembra essere vissuta come il contesto privilegiato per una
affermazione di logiche sociali inclusive (Sorcioni 1992, 15).
Insieme all’interesse verso le realtà del Terzo Mondo, si nota un’accentuata attenzione alle culture
di altri paesi e l’interesse verso la cultura locale. Il tema ambientalista si conferma come uno dei
principali argomenti su cui si coagula l’attenzione dell’universo giovanile. Alta resta la sensibilità
verso i problemi sociali mentre diminuisce visibilmente l’interesse verso lo sport, lo spettacolo e i
movimenti per la pace.
Emerge dunque una propensione verso quelle tematiche legate alle grandi questioni sociali anche se
insieme all’interesse verso le macroproblematiche epocali cresce la sensibilità nei confronti della
dimensione locale delle relazioni sociali. Una tendenza per certi versi antinomica che rappresenta
una esplicita manifestazione del carattere sempre più simultaneamente globale e locale delle
esigenze valoriali (Sorcioni 1992, 14).
L’ulteriore riduzione del già basso interesse verso la politica internazionale e nazionale (ed in parte
anche verso i tradizionali “movimenti”), la bassa adesione dei giovani a partiti politici ed
organizzazioni sindacali, oltre a confermare la scarsa attrattiva delle tradizionali forme della
partecipazione politica, testimonia il disinteresse giovanile verso i tradizionali meccanismi di
generazione delle identità politiche.
Ciò sembrerebbe rafforzare l’idea che le tensioni sul piano dell’identità sociale vengano a porsi,
nella variegata realtà giovanile europea, come effettivo denominatore transnazionale. La bassa
variabilità dei centri di interesse registrata nei diversi stati membri e la trasversalità delle tendenze,
già emersa nella percezione dei problemi e nelle polarizzazioni valoriali, fanno assumere al crollo
generalizzato dell’interesse verso la politica una valenza emblematica quale indicatore della
frantumazione dei riferimenti politico-valoriali tradizionali (Sorcioni 1992, 15).
Un’ulteriore denominatore della condizione giovanile europea, strettamente legato alla struttura dei
riferimenti valoriali, è la percezione dei processi discriminativi.
I più penalizzati agli occhi dei giovani appaiono i portatori di handicap (59%), le persone di colore
(55%), i figli di immigrati (33%). Diminuisce, invece, la percezione della discriminazione verso i
disoccupati (- 4%) e le giovani donne (-1%) a conferma della maggiore sensibilità verso i problemi
dell’integrazione del “diverso” rispetto ai processi discriminativi più specificamente legati a
problematiche di carattere socio economiche.
Emerge dunque dal confronto transnazionale una sostanziale convergenza dei codici di valutazione
dei fenomeni di discriminazione, convergenza che pare rafforzare l’ipotesi dell’esistenza di un
comune denominatore all’interno della condizione giovanile europea.
59
4.
5.
I fattori del disagio
2.6. Bisogno di integrazione e di senso
Sia Maslow che altri psicologi umanisti, hanno una concezione olistica, unitaria ed organica
della persona umana41. I bisogni devono integrarsi in un complesso unitario42. L’autorealizzazione
funziona da catalizzatore delle varie istanze (bisogni, comportamenti, conoscenze, ecc.). Allport
suppone addirittura che la personalità sia organizzata in modo da ricondurre ad unità tutti gli aspetti
della vita che considera propri. Chiama appunto tale capacità col nome di “proprium”43.
Anche Erikson presuppone qualcosa di simile. Egli parla di bisogno "integrità" o "totalità",
cioè di sentirsi un tutt’uno con se stessi, di saper comporre insieme tutte le parti proprie ed
integrarle con le proprie funzioni, di percepire la realtà in modo ordinato e coerente, di sapere
integrare i dati che si ricevono in continuità con quelli precedenti, di superare il senso dell'effimero
e del transitorio. Per questo tratta della “funzione sintetizzante dell’io”44.
Tutto ciò contribuisce a dare coerenza alle proprie azioni, ai propri pensieri ed ai propri
impulsi, contribuendo alla formazione della personalità matura e alla sua identità. La tensione
all’unificazione dei motivi comporta anche una coerenza nei valori guida di una persona. Pertanto il
quadro valoriale di una personalità integrata dovrebbe essere altrettanto coerente e integrato. Un
sistema di riferimento integrato conferisce a sua volta capacità orientamento o di senso alla vita.
Sono vari gli autori che affermano l’importanza di un quadro di riferimento unitario in grado
di soddisfare al bisogno di senso (o significato). Frankl afferma addirittura che questo è il problema
principale della nostra epoca45.
Ciò emerge anche dalla constatazione della sempre maggior tendenza della società
complessa e post-moderna alla frammentazione, al pluralismo, alla perdita di riferimenti ideali e
fondativi, con effetti di disorientamento collettivo ed individuale.
Tale bisogno viene affermato anche a livello di ricerca sociale. Loredana Sciolla afferma che
“l'uomo non può vivere nell'incertezza, ma vi è in lui la tendenza a mettere ordine, l'elementare
bisogno di interpretare la semiordinata confusione del flusso degli eventi e del mondo esperibile
introducendovi il massimo d'ordine, connessione e regolarità” (Sciolla, 1983a, 62) e Mario Pollo
afferma: “il termine totalità [...], sta ad indicare una vita psichica unificata, in cui coscienza ed
inconscio sono entrambi integrati e, quindi, una persona ricca e creativa. Una personalità, cioè, che
“La nostra prima proposizione stabilisce che l’individuo è un tutto integrato, organizzato” (Maslow, 1973, 61).
“L’individuo è motivato nella sua interezza e non soltanto in una parte di sé” (Maslow, 1973, 61).
43 “Esso comprende tutti gli aspetti della personalità che contribuiscono alla sua unità interiore” (Allport, 1963, 58).
44 L’io è visto come “un ‘agente’ interiore che salvaguarda la nostra esistenza coerente vagliando e sintetizzando, in qualsiasi
successione di momenti, tutte le impressioni, emozioni, memorie e tutti gli impulsi che tentano di penetrare il nostro pensiero e
richiedono un’azione da parte nostra , e che ci dilanierebbero se non fossero suddivisi e organizzati da un vaglio sistematico,
sviluppato a poco a poco, vigile e attendibile (Erikson, 1974, 259).
“E’ la funzione sintetizzante dell’ego di integrare gli aspetti psicosessuali e psicosociali ad un dato livello di sviluppo ed al tempo
stesso disintegrare il rapporto di uiovi elementi di identità con altri già esistenti, in altre parole di superare le inevitabili discontinuità
tra i diversi gradi di sviluppo della personalità (Erikson, 1974, 191).
45 “Ogni epoca ha la sua nevrosi ed ogni epoca necessità di una psicoterapia. In realtà oggi non siamo più confrontati , come ai
tempi di Freud, con la frustrazione sessuale, quanto piuttosto con al frustrazione esistenziale. Il paziente tipico dei nostri giorni non
soffre tanto di un complesso di inferiorità, come all’epoca di Adler, ma di un abissale sentimento di insignificanza, intimamente
connesso ad un senso di vuoto esistenziale” (Frankl, 1982, 9)
41
42
60
possiede una coscienza di sé, che conosce la propria relatività e che è perciò in grado di essere
autocritica e di tendere alla verità e alla oggettività. Una personalità che ha il proprio centro nel sé,
come insieme di Io cosciente ed inconscio della psiche, e che sa utilizzare tutta l'energia creativa,
tutti i valori ed i messaggi che le provengono dall'inconscio senza per questo rinunciare alla propria
libertà cosciente” (Pollo, 1985, 51).
Anche per Giancarlo Milanesi è importante il “bisogno di senso o di significato”, definito
come “tensione verso l'integrazione ottimale del sistema (di personalità o di cultura o di società)”
(Milanesi, 1981, 22). Tale termine viene ulteriormente precisato: “Sistema di significato
interiorizzato è una percezione unitaria del reale capace di produrre un corrispondente
atteggiamento fondamentale verso di esso, che è condizione essenziale e fattore di progressiva
integrazione della personalità, cioè di una sua organizzazione, funzionale (relativamente) ottimale”
(Milanesi, 1981, 88).
In pratica si riconosce al soggetto la capacità interiore di utilizzare i sistemi simbolici offerti
dall’ambiente, selezionarli, rielaborarli e farli propri interiorizzandoli. Questo costituisce il sistema
di significato interiore che rappresenta come una bussola per il soggetto che gli permette di
orientarsi nella vita secondo criteri propri, pur in connessione e relativa dipendenza dai sistemi di
significato presenti sul mercato (la società). Tale capacità di orientamento si traduce anche in
capacità progettuale.
Questo bisogno sta in cima sia ai bisogni umani fondamentali (bisogno esistenziale), sia ai
bisogni specifici dell’adolescente, facendolo con ciò coincidere con i compiti di sviluppo o bisogni
formativi, di cui concordemente il bisogno di identità costituisce il punto di riferimento comune.
Così il bisogno di significato diventa il bisogno ultimo, rispetto alla nostra epoca, potendo farlo
corrispondere sia al bisogno di identità che di autorealizzazione.
Emerge con la società post-industriale il concetto di bisogno di significato. L'uomo è dotato da una
"volontà di significato" che motiva la sua ricerca di senso per l'esistenza e che costituisce un vero e
proprio bisogno. La presenza, nell'uomo, della volontà di significato è evidente nei casi in cui essa
gli viene negata. La frustrazione del bisogno di senso della vita porta al "vuoto esistenziale" che, in
un crescendo di gravità, accompagna manifestazioni quali le crisi adolescenziali, gli stadi
depressivi, le condotte suicidarie, e la risposta a tale vuoto consiste nella ricerca di compensazioni,
di ricerca della felicità nei mezzi anziché nei fini. Tale frustrazione si evidenzia nel potenziamento
dei mezzi (il denaro, l'altro, la moda, l'apparenza, il corpo) come fini per il raggiungimento della
felicità, e in casi più intensi con l'autodistruzione (il suicidio), ma anche nel desiderio di evasione
che si manifesta nella ricerca della droga, dell'alcol, della vita allo sballo, della velocità. Trascinato
dal bisogno di significato come motivazione ultima il soggetto riesce a dare senso ad altri valori
che, messi in una gerarchia costituiscono il riferimento in base al quale la persona orienta le
proprie decisioni. Quando vengono meno questi riferimenti di valore, altri motivi, generati dalla
situazione presente, o dai bisogni più urgenti, orientano il processo decisionale del soggetto. I
riferimenti di valore costituiscono i sistemi di significato, dimensioni che toccano gli atteggiamenti
fondamentali del modo di porsi del soggetto di fronte alla realtà. Possono funzionare come centro e
riferimento che orientano il soggetto nei confronti delle proprie scelte e decisioni. La mancanza di
un sistema di significato può indurre a prese di posizioni, atteggiamenti e scelte guidate dalla sfera
degli impulsi, che tendono a motivare le soluzioni indirizzate al momento, e ad appagare i bisogni
in base a criteri senza riferimenti più precisi (Caliman, Pieroni 1998, 10).
Altri vedono in questi comportamenti l’espressione contro il “benessere” materiale, che li ha privati
delle dimensioni più profonde della vita, oppure semplicemente il tentativo di reagire alla solitudine
e all’abbandono della grande città. Il problema del senso e dell'integrazione viene talvolta ricercato
nelle caratteristiche della società di massa che sembra offrire una cultura comune e condivisa da
tutti. Tuttavia essa, per essere accolta e condivisa in una società altamente differenziata come
l'attuale, deve rimanere indifferenziata e generica. Ciò comporta che il consenso che essa ottiene sia
basato su adesioni a immagini e valori generici e superficiali. Che proceda per stereotipi e luoghi
comuni, che si nutra di sarcasmo ed ironia o che si concentri sui simboli che conferiscono
61
"immagine", come il consumo o la cosiddetta cultura progressista. L'identità come consumatori è
uno degli esiti possibili (Cipolla 1989). Tuttavia troppo generica e superficiale per essere tenuta in
conto come una vera soluzione al problema dell'identità. Altre forme attraverso cui si esprime il
disagio esistenziale ed il tentativo di uscirne fuori può essere quello della violenza: quella della
baby-gang o quella agita nel gruppo dei pari, le “identità di stile” giocate prevalentemente in forme
consumistiche e sull’abbigliamento. Attività che rientrano perfettamente in quel ruolo di
consumatori che è l’unico che un certo tipo di società sembra riconoscere loro con una insistenza
esasperante.
Forse non basta assicurare la libertà, ma offrire anche un quadro di valori e delle condizioni reali
perché tali valori possano essere fatti propri. Forse è da mettere in discussione il primato assegnato
nell’impostazione di Inglehart alla libertà. Forse c’è ancora qualche altro valore cui anche la libertà
può servire. L’invocazione dei giovani del disagio indicherebbe nel senso e nella solidarietà il loro
bisogno inespresso più profondo.
3.
Bisogno di integrazione, di significato
Un altro tipo di bisogno che emerge da alcuni tipi di analisi è quello di integrazione, di significato o
senso, che appare particolarmente minacciato oggi e quindi alla radice di molte forme di disagio.
3.1. Anni ‘70
Gia negli anni ’70, nel momento in cu si rilevava la rottura della conformità culturale e la messa in
qustione dei fondamenti stessi della società, si rilevava quche questo provocava disagio e malessere
tra i giovani.
Secondo Tullio-Altan il malessere psicologico nasceva dalla frizione tra sistemi culturali all’interno
di ogni persona: cioè, tra il modello culturale introiettato, di tipo acquisitivo, ed il bisogno di una
socialità diversa che si esprime nell’atteggiamento di apertura a nuovi rapporti, più autentici ed
immediati. Il divario tra i due sistemi di valori viene percepito con sofferenza da parte dei soggetti
interessati. Sofferenza che si esprime in un malessere diffuso nella condizione giovanile.
Grasso parlava della mancanza “di una struttura psicologica unitaria o di un tratto globale che
integri con qualche coerenza i diversi atteggiamenti” (Grasso 1974, 176). Cosicché, anche i valori
espressi dai giovani non sembrano emanare da una concezione unitaria della persona, bensì dalla
loro appetibilità e fruibilità privata o dalla desiderabilità sociale. Ne conseguiva la coesistenza
psicologica di due sistemi di valori sovrapposti senza integrazione . Mancando un’integrazione tra
sistemi, sia a livello sociale che personale, ne conseguono risonanze interiori con sensi di colpa e
sofferenza diffusa. Ciò corrisponde ad una situazione di disagio provocata dalla resistenza al
cambiamento, sia a livello sociale, nelle istituzioni e nelle strutture sociali, sia a livello individuale,
nella tensione tra sistemi culturali che configgono all’interno della persona stessa. Questa viene
percepito soprattutto dai giovani, che, da una parte sono affascinati dai valori “moderni” e,
dall’altra, avvertono la resistenza interna dovuta ad un sistema di valori ben strutturato già in tenera
età.
Ciò sarebbe stato anche la causa del riflusso, in quanto “abbandonarsi all’onda contestativa è stato
vissuto da molti come una grave colpa culturale e anche, più o meno chiaramente, come un
tradimento delle solidarietà primarie a cui erano stati condizionati nell’infanzia” (Grasso, 1974,
101).
A ciò va aggiunta la consapevolezza di marginalità sociale della propria situazione (culturale e
strutturale), con sensazione di isolamento ed estraneità. Pertanto la rottura del conformismo sociale
e la crisi dei rapporti di solidarietà con le istituzioni più socialmente rassicuranti, comporta senso di
insicurezza e di sconcerto psichico.
Anche i promotori (De Moor e Kerkhofs) della prima indagine EVSSG dell’81 si ponevano questi
interrogativi: “in che misura la cultura europea è ancora fondata su dei valori di base che formano
un insieme coerente?” (in Stoetzel 1984, 7), in quanto si riconosce che in tutta l’Europa sono
avvenuti mutamenti tali da mettere in discussione questa coerenza culturale.
62
Per Tullio-Altan l’integrazione, o l’innovazione, dev’essere condotta soprattutto a livello politico e
sociale, attraverso l’azione di elite che la trasferiscono a tutta la società. Grasso invece chiama in
causa le istituzioni perché adeguino i loro modelli culturali alle esigenze dei tempi, in maniera da
mettere i giovani in una situazione non troppo conflittuale, che essi non possono affrontare da soli.
Se invece non sono adeguatamente sostenuti in quest’impegno, essi rischiano di sovrapporre
semplicemente sistemi culturali eterogenei senza integrarli in se stessi, ma solo giustapponendoli,
secondo il criterio dell’appetibilità e fruibilità. L’integrazione per lui è quella che avviene a livello
culturale, esterno nelle istituzioni, interno, nel sistema psichico.
Le stesse indicazioni di questa ricerca che indicano un riemergere del bisogno del sacro,
sono lette come un indicatore di un bisogno di senso e di integrazione. La stessa equipe che lavora
con Milanesi (1981) così interpreta la domanda giovanile del momento, per cui non solo promuove
una ricerca sulla religiosità giovanile, ma la concentra sul bisogno di significato. Esso fu definito
“come tensione verso l'integrazione ottimale del sistema (di personalità o di cultura o di società)”
(Milanesi 1981, 22). Egli riconosce che
il «sistema di significato» è anzitutto un bisogno umano più rilevante sul piano esistenziale
(bisogno di dare un significato complessivo alla propria esistenza), ma è anche un processo
(implicante un'acquisizione progressiva e spesso problematica se non fallimentare), e infine un fatto
(cioè il risultato stesso del processo; l'esito, in termini di «contenuti», del sistema di significato)
(Ibidem, 89).
«Sistema di significato interiorizzato è una percezione unitaria del reale capace di produrre un
corrispondente atteggiamento fondamentale verso di esso, che è condizione essenziale e fattore di
progressiva integrazione della personalità, cioè di una sua organizzazione, funzionale
(relativamente) ottimale » (Milanesi 1981, 88).
3.2. Stoetzel
La coerenza di questa risposta e il riferimento ad un centro unitario, che può essere reperito nella
persona singola o nell’intera società. La cultura, cui si fa riferimento, è quella cristiana, in cui si
riconoscono le basi della cultura europea.
«Benché ciascuno di noi sia un individuo separato dagli altri e i cui interessi, di conseguenza, sono
in un qualche modo distinti da quelli del resto del mondo, si deve tuttavia pensare che non si
potrebbe sopravvivere da soli, e che si è, di fatto, una delle parti dell’universo e, ancora più in
particolare, una delle parti di questa terra, una delle parti di questo Stato, di questa società, di questa
famiglia, cui si è legati dalla propria abitazione, da un proprio giuramento, dalla propria nascita. E
bisogna sempre preferire gli interessi del tutto, di cui si è parte, a quelli del proprio particolare ... »
[da una lettera di Cartesio del 15 settembre 1645] (Stoetzel 1984, 344).
Questa nozione di individuo,
porta con sé una varietà di valori che le sono legati, la felicità, la sicurezza, la libertà d’azione e di
decisione e la libertà in sé e per sé, la padronanza del proprio destino, la realizzazione di sé, la
considerazione sociale, nonché delle attività piacevoli in testa alle quali dobbiamo porre il tempo
libero, che già per i Greci era il segno dell’uomo libero.
Per questa ragione la famiglia risulta essere l’istituzione che raggiunge il massimo valore. Lì
l’individuo, qualunque sia la sua condizione, è riconosciuto come persona, vi si distende, vi riposa,
vi trascorre il tempo libero, vi vive in sicurezza, vi trova la felicità (Stoetzel 1984, 344).
Lo stesso vale per il lavoro, la patria, e le altre istituzioni che compongono una società.
Ora, si domanda, dove andrà la società europea se questi concetti fondamentali andranno persi? Se
il concetto stesso di persona e di coscienza , vengono messi in crisi?
Cosa capita quando le certezze morali si dissolvono?
Solo un quarto degli Europei ha dei principi sicuri che gli consentono di distinguere sempre il bene
dal male. Raffinatezza o discernimento etico? Chissà. Se, al di fuori della famiglia, avessero dei
63
valori assoluti, perché per più della metà di loro non esiste nulla cui sarebbero disposti a sacrificare
qualsiasi cosa? (Stoetzel 1984, 346).
Cosa succede quando manca coerenza tra principi e valori, quando appaiono evidenti contraddizioni
tra valori, quando non si traggono tutte le conseguenze di certe scelte?
Come spiegare il fatto che in qualsiasi paese (compresi gli Stati Uniti), il comportamento
considerato più inaccettabile sia la «presa in prestito» di automobili? Perché né l’aborto, né il
suicidio, né l’eutanasia vengono correlati al divieto di uccidere, che pure riceve una così alta
adesione? Il divorzio esiste, è qualcosa che può succedere a chiunque. La contraccezione è praticata
regolarmente e se la maggior parte degli Europei non ammette l’interruzione volontaria della
gravidanza se non in casi molto limitati di ordine terapeutico, la media del numero ideale di figli
che essi stessi fissano corrisponde al livello di una popolazione stazionaria. Sempre più i genitori
allentano la disciplina ed i giovani ammettono di essere stati lasciati abbastanza liberi nel loro
comportamento (Stoetzel 1984, ).
3.3. Sorcioni
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