Loris Pellegrini
Appunti di grammatica italiana
ORTOGRAFIA
INDICE
Introduzione
1. L'alfabeto
2. Gli accenti
3. L'apostrofo
4. Le sillabe
5. La punteggiatura
L'ALFABETO
L'alfabeto italiano è formato da 21 lettere: 5 vocali (a e i o u) e 16
consonanti (b c d f g h l m n p q r s t v z). Ma i suoni di cui la nostra lingua
si serve per comunicare sono più dei segni, sono 29. Così alcune lettere possono
essere pronunciate in due modi diversi (e o c g s z), mentre, al contrario,
alcuni suoni hanno bisogno di due lettere per poter essere registrati: gl
(taglio), gn (pigna), sc (ascia).
Ci sono poi 5 lettere, di derivazione classica o straniera, che pur non
appartenendo propriamente al nostro alfabeto sono di uso comune: j (i lunga:
così si chiama in italiano, e non "gei", all'inglese), k (cappa), w (vu doppia),
x (ics), y (ipsilon, o: i greca).
Vediamo più da vicino le caratteristiche di alcune lettere e dei gruppi
consonantici.
C e G
Le lettere c e g hanno suono gutturale, cioè duro, davanti ad a o u, come in
casa, goffo, cupola; hanno invece suono palatale, cioè dolce, davanti a e ed i,
come in cera e giro (per avere suono gutturale davanti a queste ultime vocali
bisogna infatti, come si sa, far seguire c e g dalla lettera h: chiesa, ghiro).
Scriveremo perciò, ad esempio: rosticceria, NON: rosticcieria, perché la c
davanti alla e è già dolce. Ma ci sono alcune parole in cui — per motivi che
sarebbe troppo lungo spiegare qui — fra la c e la e si interpone una i, anche se
inutile: cielo, infatti, si pronuncia come se fosse scritto celo. Le più comuni
sono: cielo, cieco(ma: accecare), sufficienza (e anche sufficiente, efficiente,
coefficiente, ecc.), specie, superficie. E ce ne sono altre: braciere, società,
ecc. Nell'incertezza meglio consultare il vocabolario!
D
C'è una d eufonica (facilita cioè la pronuncia) che si aggiunge alla
preposizione a e alle congiunzioni e e o quando queste si trovano davanti a una
parola che inizia con la stessa vocale: ad amare, ed egli, ecc. Ma se le vocali
sono diverse generalmente si tralascia: e allora, a entrare, o altro, ecc.
E e O
Per quanto possa sembrare strano, esistono in realtà due e e due o: la e di
nero, infatti, non è la stessa di bello, così come la o di cosa non è la stessa
di ora. È possibile distinguere i due suoni con l'aiuto di un accento grave
(inclinato a sinistra) che indica la pronuncia "aperta", cioè larga: bèllo,
còsa; e di un accento acuto (inclinato a destra) che indica la pronuncia
"chiusa", cioè stretta: néro, óra. Purtroppo questo tipo di accento — che, come
vedremo, si dice fonico perché ci indica come va pronunciata la lettera — non è
obbligatorio. Scriviamo dunque bello e nero sapendo che diremo bèllo e néro;
scriviamo cosa e ora sapendo che diremo còsa e óra.
H
La lettera h è un simbolo puramente grafico, cioè una lettera "muta" che non si
pronuncia, ma che svolge ugualmente alcune utili funzioni:

rende gutturali la c e la g davanti alle vocali i ed e: chiesa, ghiro;

aiuta a distinguere il verbo avere in alcuni casi di omofonìa, cioè di
identica pronuncia:
ho (verbo) - o (congiunzione)
hai (verbo) - ai (preposizione articolata)
ha (verbo) - a (preposizione semplice)
hanno (verbo) - anno (sostantivo)

si usa nelle esclamazioni: ahi!, ehi, ah!, oh, ecc., sia per dare alla
pronuncia un tono particolare, sia per evitare, in alcuni casi, la
confusione con: ai (preposizione articolata), a (preposizione semplice), o
(congiunzione), ecc. Attenzione: nelle esclamazioni la h segue sempre la
prima vocale: ah, oh (NON: ha, ho che sono voci del verbo avere, né: hey
che è inglese), e può essere seguita da un'altra vocale: ehi, ahi, ohi,
ecc. A titolo di curiosità ricorderemo inoltre che la h sopravvive in
alcuni nomi propri o geografici di origine latina (Rho, Thiene, ecc.).
J
La j (i lunga), che ormai si usa solo nelle parole straniere, come jazz o jet,
era usata una volta per indicare un certo tipo di i detta semiconsonantica, vale
a dire una i quasi assorbita dalla vocale seguente, e che si aveva quando la i
ad inizio di parola era seguita da una vocale (jeri, jattura) o quando era
iniziale di sillaba all'interno della parola (no-ja, ceso-je). E fino ai primi
del secolo scorso, inoltre, non era raro vederla usata al posto della doppia i
nel plurale dei nomi terminanti in -io con i àtona (cioè non accentata): studio
=> studj, invece di studii (ma noi oggi scriviamo semplicemente studi). Ormai è
sempre sostituita dalla i, tranne in alcuni nomi, propri o topografici: Jacopo,
Pejo, ecc.
N
La n si muta in m davanti alle lettera b e p. La cosa vale la pena di essere
ricordata perché in alcune parole la pronuncia ha il sopravvento sulla logica.
Esempio: invincibile è il contrario di vincibile, ottenuto con il prefisso in (=
non). Allo stesso modo si formano in-battibile e in-possibile, ma, per motivi
eufonici, cioè di miglior suono, scriveremo imbattibile e impossibile.
Q
La lettera q non ha un suono proprio e si pronuncia sempre unita alla u formando
il nesso qu che si lega alla vocale seguente: qua, que, qui, quo:ac-qua, questo, a-qui-la, quo-ta. Attenzione a non fare confusione con: -cua, -cue, -cui, cuo (proficua, innocue, taccuino, cuoco). In alcuni casi la differenza è
sensibile: mentre in aquila la u, inglobata alla q, quasi non si pronuncia e si
scivola velocemente sulla i, in cui la u ha tutto il suo valore vocalico e si
pronuncia distintamente: Il cui libro. Purtroppo non sempre il suono può
aiutarci: quota e cuore si pronunciano allo stesso modo pur scrivendosi
diversamente. Dunque, dizionario alla mano. Quanto al problema del raddoppio, si
risolve con cq: acqua, acquistare (e in questo caso la divisione sillabica
spezza le due consonanti: ac-qua, ac-quistare); fa eccezione soqquadro, con due
q perché la parola è formata col prefisso latino sub che raddoppia la consonante
iniziale (così come in: sommossa o sottrarre).
Un esercizio. Proviamo a scrivere taccuino in 4 diverse forme e studiamone la
pronuncia: 1) tacuino; 2) taquino; 3) tacquino; 4) taccuino. Nel primo caso si
pronuncerebbe come acuire; nel secondo come aquila; nel terzo come acquistare;
nel quarto come... taccuino, appunto, cioè con la doppia c e la u ben distinte,
ed è ovviamente la forma corretta.
S e Z
Come la e e la o anche la s e la z hanno un solo segno per due suoni diversi:
possono essere infatti sorde, emesse cioè con la sola emissione del fiato (solo,
asso; zio, pozzo), o sonore, emesse cioè mediante vibrazione delle corde vocali
(sbagliare; asilo; zanzara, azzerare). Si può capire bene la differenza mediante
un piccolo esperimento: appoggiate due dita sulla gola e pronunciate le parole
degli esempi. Con la s e la z di solo e zio non sentirete nessuna vibrazione,
con quelle di asilo e zanzara sì. A differenza della e e della o, la s e la z
non hanno accenti per distinguere i due suoni. Così se vogliamo pronunciarle
bene e non conosciamo le regole della dizione italiana è necessario ricorrere al
dizionario, dove le due pronunce sono indicate con l'aiuto di qualche segno. Non
dimentichiamo, infine, che la z singola (frazione) e quella doppia (pozzo) si
pronunciano allo stesso modo e perciò dobbiamo fare attenzione nello scriverle
(a proposito: tutte le parole in -zione vogliono una sola z: eccezione,
stazione, sottrazione, ecc.)
GL
Il nesso gl ha suono dolce solo davanti alla vocale i (aglio, figlio) con
l'eccezione di alcune parole, come glicerina o negligenza. Perciò, ad esempio:
maglie, NON: magle. Attenzione a non confonderlo con la l: miliardo, NON:
migliardo; maglione, NON: malione.
GN
Il nesso gnnon è mai seguito da i àtona, cioè non accentata. Perciò: castagna,
NON: castagnia; lavagna, NON: lavagnia. In queste parole, infatti, l'accento
tonico cade su sillabe diverse da quelle del nesso gn: ca-stà-gna, la-và-gna. Ma
scriveremo compagnia, perché qui l'accento tonico cade sulla i: com-pa-gnì-a.
Fanno eccezione i verbi terminanti in -gnare e -gnere alla prima persona plurale
dell'indicativo presente e alla prima e alla seconda persona plurale del
congiuntivo presente, perché qui la i appartiene alla desinenza; quindi: noi
sogniamo, che noi sogniamo, che voi sogniate, così come scriviamo: noi am-iamo,
che noi am-iamo, che voi am-iate.
SC
Tra il gruppo consonantico sc e la vocale enon si inserisce mai la vocale i
(quindi: scelta, scena, ecc.) tranne in: scienza e derivati (scienziato, ecc.),
coscienza e derivati (incosciente, ecc.) e usciere. Perciò: conoscenza (che non
deriva da scienza ma da conoscere), adolescenza, reminiscenza, ecc. Dunque non
vogliono la i neanche i plurali: fasce, lisce, ecc.
2. GLI ACCENTI
L'accento è un segno che si sovrappone a una vocale e serve per la corretta
pronuncia della lettera e della parola. Esistono, nella lingua italiana, tre
tipi di accenti: FONICO, TONICO e CIRCONFLESSO.
ACCENTO FONICO
È l'accento che ci dice come dobbiamo pronunciare le vocali e ed o. Inclinato a
sinistra indica la pronuncia aperta (o larga): è ò (bèllo, pòrta); a destra la
pronuncia chiusa (o stretta): é ó (néro, óra). Chi vuol parlare, infatti, un
italiano corretto, deve saper distinguere la pronuncia:
Ho mangiato una pèsca, ma: Sono andato a pésca;
C'erano vènti fortissimi, ma: Le matite sono vénti;
Ho preso le bòtte, ma: Ho comprato una bótte di vino;
Quell'avvocato è un principe del fòro, ma: C'è un fóro nella
pentola.
All'interno della parola di solito questo accento non si segna, perché il
contesto della frase è sempre sufficiente a evitare equivoci con altre parole
che si scrivono allo stesso modo ma hanno altri significati (téma = timore; tèma
= componimento; ecc.). Ma se la e e la o sono accentate in fine di parola, e
dunque l'accento è necessario (altrimenti giacché si leggerebbe giacche o però
si leggerebbe pero) è bene metterlo orientato per la giusta pronuncia.
In questo caso ricordiamo che:

sulla e è chiuso nelle parole terminanti in -ché (poiché, perché, sicché,
ecc.), in né e sé, e in alcuni passati remoti (temé, poté, ecc.); ma è
aperto in quattro parole di uso comune: è, cioè, tè e caffè (oltre a
qualche parola di origine francese, come gilè);

sulla a e sulla o è sempre aperto (città, sarà, farò, dirò);

sulla i e sulla u sebbene sia più corretta la forma chiusa (í, ú) si usa
più spesso quella aperta (ì, ù), anche perché questo è l'accento che c'è
sulle tastiere delle macchine da scrivere e dei computer. In ogni caso la
pronuncia non cambia, quindi: lì o lí, più o piú; ma una volta fatta una
scelta è bene comportarsi coerentemente.
ACCENTO TONICO
Indica la sillaba su cui cade l'accento nella pronuncia: pàl-li-do, do-ló-re,
per-ché, ecc. e, a seconda di dove cade l'accento, le parole vengono dette:
piane, sdrucciole, tronche.
Sono piane le parole in cui l'accento cade sulla penultima sillaba: cà-sa, finè-stra, ta-vo-lì-no, ecc. Si tratta di un accento che in realtà non si scrive
perché, essendo piane la maggior parte delle parole della nostra lingua, noi
pronunciamo spontaneamente in maniera "piana" (e gli stranieri infatti, che lo
sanno, dicono ad esempio ta-vò-lo invece di tà-vo-lo).
Sono sdrucciole le parole in cui l'accento della pronuncia cade sulla terzultima
sillaba: ò-stri-ca, te-lè-fo-no, pàr-la-mi; ecc. Anche questo accento di solito
non si scrive perché impariamo la corretta pronuncia con l'esercizio. Tuttavia
l'esistenza di parole omògrafe (parole cioè che si scrivono allo stesso modo ma
hanno diversi significati) fa sì che talvolta l'accento possa essere almeno
utile, se non proprio necessario. Per non confondere, ad esempio, càpitano con
capitano, o fòrmica con formica. Ma il contesto della frase quasi sempre è
sufficiente alla distinzione. (Esistono anche parole bisdrucciole o
trisdrucciole ma sono così rare che non ne parleremo.)
Sono tronche, infine, le parole in cui l'accento cade sull'ultima sillaba: andàr, vol-ér, sof-frìr, ecc. In questo caso, se l'ultima sillaba termina con una
vocale, l'accento è obbligatorio (però, così, poiché, andrà, ecc.) perché se non
scrivessimo l'accento tenderemmo a leggere le parole in maniere "piana" (pero,
cosi, ecc.).
Da tutto ciò deriva una conclusione: poiché l'accento indica su quale sillaba
deve "battere" la pronuncia, le parole di una sola sillaba non ne hanno bisogno:
non è possibile, infatti, far cadere l'accento su nessun'altra sillaba. Ecco
dunque una regola semplice e generale: i monosillabi non si accentano mai. Ma le
regole, si sa, hanno sempre delle eccezioni. Ci sono, purtroppo, alcuni
monosillabi in cui, anche se inutile, l'accento va segnato.

Vogliono l'accento i monosillabi che terminando in dittongo, cioè con due
vocali accoppiate, potrebbero dare origine a incertezze di pronuncia.
Quindi: ciò, più, già, ecc., altrimenti (data la nostra preferenza a
pronunciare in maniera "piana" piuttosto che "tronca") leggeremmo: cìo,
pìu, gìa, ecc., così come leggiamo mìo, zìa. Attenzione però a qui e qua:
in questo caso il monosillabo non ha due vocali perché — ricordate? — la
lettera q si lega sempre con la u a formare un unico suono consonantico:
(qu)i, (qu)a. Quindi: qui e qua (secondo la regola generale che i
monosillabi non si accentano) e NON: quì, quà;

Vogliono l'accento i monosillabi che avendo dei "fratelli gemelli", cioè
monosillabi identici ma di diverso significato, possono distinguersi solo
con l'accento. E sono:
o dà (terza persona dell'indicativo presente del verbo dare: Mario dà
una mano a suo fratello) per distinguerlo da da (preposizione: Da
chi sei stato ieri?).
o è (terza persona dell'indicativo presente del verbo essere: Questo
quadro è bello) per distinguerlo da e (congiunzione: Pane e
salame).
o là (avverbio di luogo: Maria è là) per distinguerlo da la (articolo:
La cartella è sul tavolo; o pronome: La vuoi un po' di
cioccolata?).
o lì (avverbio di luogo: Il libro è lì) per distinguerlo da li
(pronome: Li ho visti al cinema).
o né (congiunzione negativa: Né questo, né quello) per distinguerlo da
ne (particella atona con funzione avverbiale: Sono appena arrivato e
me ne andrò subito; o pronominale: Me ne ha parlato Mario; o
pleonastica: Che ne dici di questo libro?).
o sé (pronome: L'ha fatto da sé) per distinguerlo da se (particella
pronominale: Se l'è presa troppo; o congiunzione semplice: Se
potessi andrei al mare). [Nota: Sarebbe ora di smetterla con
l'assurda diceria che "se stesso" non va accentato perché qui "se" è
chiaramente pronome e non si può confondere: una volta accettato il
principio della possibilità dell'equivoco si dovrebbe agire di
conseguenza evitando di creare l'eccezione a un'eccezione! Del resto
scriviamo: a sé stante e neanche qui c'è la possibilità
dell'equivoco. Ma le abitudini sono dure a morire...]
o sì (avverbio di affermazione: Sì, sono stato io!) per distinguerlo
da si (particella pronominale: Si crede il più bravo; Si dice
che...).
o dì (sostantivo: forma antiquata per "giorno": Tre volte al dì) per
distinguerlo da di (preposizione: Di chi è quel libro?).
o tè (sostantivo: la bevanda: Vuoi un po' di tè? [NON: thè!]) per
distinguerlo da te (pronome personale: Abbiamo parlato di te, che
oltretutto va anche pronunciato con la e stretta, cioè come se fosse
scritto té).
o ché (forma abbreviata di perché: Me ne vado, ché così non si può
andare avanti) per distinguerlo da che (pronome: Il libro che mi hai
dato).
Va da sé che in questi casi, visto che l'accento è necessario, tanto vale
metterlo anche "orientato", cioè corretto fonicamente. Scriveremo quindi:
è, tè (NON: é, té), con l'accento aperto; e: né, sé, ché (NON: nè, sè,
chè), con l'accento chiuso.
Tutti gli altri monosillabi non vogliono l'accento. Quindi:
Carlo sta studiando, NON: Carlo stà studiando;
Dieci anni fa, NON: Dieci anni fà;
Io lo so, NON: Io lo sò;
ecc.
ACCENTO CIRCONFLESSO
Più che un vero e proprio accento è un segno (^) che, una volta, indicava la
contrazione di due i in fine di parola: varî = varii ; vizî = vizii, ecc. Ma
oggi scriviamo studi e, dunque, possiamo ben scrivere vari, vizi, ecc. Tutt'al
più, in certi casi equivoci, si può ricorrere all'accento tonico: princìpi
(plurale di principio) per distinguerlo da principi (plurale di principe).
3. L'APOSTROFO
L'apostrofo indica, in generale, la caduta della vocale o della sillaba iniziale
o finale di una parola; indica insomma che "manca qualcosa". In particolare
serve ad indicare: l'ELISIONE, l'AFERESI, l'APOCOPE. Non spaventatevi dei
paroloni: è tutto più semplice di quanto non sembri.
ELISIONE (e TRONCAMENTO)
L'elisione è la soppressione della vocale finale di una parola quando questa
precede un'altra parola che comincia con una vocale: per facilitare la pronuncia
si mette l'apostrofo al posto della vocale soppressa: lo elmo - l'elmo; bella
anima - bell'anima; degli interessi - degl'interessi; una arma - un'arma.
Possiamo dire che oggi si tende a elidere meno di una volta, e che l'elisione è
necessaria solo con l'articolo lo e le preposizione da esso derivate (dello,
allo, nello, ecc.): l'albero, sull'albero, ecc. (ma si scriverà: lo iodio, lo
iato, ecc.). Ci sono alcuni casi, poi, in cui l'elisione è addirittura da
evitare, e cioè:


quando l'articolo precede una parola invariabile al plurale: l'analisi che
cosa vuol dire: la analisi o le analisi?
quando l'articolo plurale gli precede una vocale che è diversa dalla i:
gl'intrighi, gl'ingegni; ma NON: gl'altri, gl'ultimi, gl'elefanti.
Anche il troncamento è la soppressione dell'ultima vocale o dell'ultima sillaba
àtona di una parola (buon, bel, signor, ecc.), ma indipendentemente dal fatto
che la parola seguente cominci con una vocale o no, e dunque non vuole
l'apostrofo: buon padre, bel cane, signor mio.
Il problema ora è: come si fa a distinguere una parola elisa (che vuole
l'apostrofo) da una tronca (che non lo vuole)? Una volta tanto siamo fortunati:
c'è una regolina facile da ricordare, ed è questa: se una parola privata della
vocale o della sillaba finale può stare davanti ad un'altra parola che inizia
con consonante, è una parola tronca e non vuole l'apostrofo, neanche davanti a
vocale. Quindi: tal uomo (perché posso dire: la tal donna, la tal parte, ecc.),
buon uomo (perché posso dire: buon giorno, buon pranzo, ecc.), e anche: qual è
(perché posso dire: il qual nome, qual buon vento, ecc.). Se invece non può
starci è una parola elisa, che non ha senso compiuto e perciò vuole l'apostrofo
al posto della vocale mancante. Quindi: quand'anche (perché non posso dire:
quand questo); buon'amica (perché non posso dire: buon donna); pover'uomo
(perché non posso dire: pover cane). Facile, no?
AFERESI
Anche l'afèresi è la caduta di una vocale o di una sillaba, ma iniziale, e anche
qui la parte caduta si sostituisce con l'apostrofo. Si incontra spesso
nell'italiano antico: lo 'ngegno (=l'ingegno), ma può capitare di usarla anche
oggi: 'Sta (=questa) minestra è proprio buona!. Attenzione: l'apostrofo va
legato all'inizio della parola: Tra 'l sì e 'l no, NON: Tra' l sì e' l no.
APOCOPE
L'apòcope è la caduta della vocale o sillaba finale — al cui posto si mette
l'apostrofo — ma indipendentemente dalla parola che segue: po' = poco, be' =
bene, mo' = modo, ecc.; e nell'italiano antico anche: de' = dei, a' = ai, ecc.
In particolare è bene ricordare l'apocope di alcuni imperativi che senza
apostrofo possono essere confusi con altre voci verbali o altre parti del
discorso:

va' = vai (imperativo di andare): Va' a prendere quei libri! Ma: Gianni va
a casa (perché qui va è la 3a pers. sing. del pres. indicativo).

fa' = fai (imperativo di fare): Fa' presto! Ma: Luigi fa i compiti (perché
qui fa è la 3a pers. sing. del pres. indicativo)

sta' = stai (imperativo di stare): Sta' fermo!Ma: La mamma sta cucendo
(perché qui sta è la 3a pers. sing. del pres. indicativo).

da' = dai (imperativo di dare): Da' quel libro a Mario! Ma: Gianni dà una
mano a Mario (perché qui dà è la 3a pers. sing. dell'indic. pres.); e: Da
qui al paese la strada è lunga (perché qui da è preposizione).

di' = di' tu (imperativo di dire): Di' un po': che ti è successo? Ma: Tre
compresse al dì (perché qui dì è un sostantivo e sta per: giorno); e: Di
chi è questo? (perché qui di è preposizione).

ve' = vedi (imperativo di vedere): Ve' che roba...

to' = togli (imperativo di togliere, nel suo antico significato di
prendere): To' (=prendi), portalo a Maria!
È bene ricordare infine che l'apostrofo serve anche nelle abbreviature dei
millesimi (La guerra del '15-'18) e si mette prima delle ultime due cifre ad
indicare che sono state soppresse le prime due: Anni '60, NON: Anni 60'.
Sarà utile a questo punto una TAVOLA RIASSUNTIVA di particelle e nessi che
possono confondersi:












ce - c'è (C'è già molto zucchero, non ce ne mettere più)
da - dà - da' (Se Mario ti dà la penna, tu da' a Paolo la macchina da
scrivere)
di - dì - di' (Di' un po', hai capito? Di queste pillole deve prenderne
tre al dì)
fa - fa' (Mario fa i suoi compiti, tu fa' presto a finire i tuoi!)
la - là - l'ha (La giacca l'ha messa là)
lo - l'ho (Lo zainetto l'ho preso io)
ma - mah - m'ha (Mah, non m'ha detto niente, ma io ho capito lo stesso...)
ne - né - n'è (Anche se ce n'è ancora, non ne voglio più né di questo né
di quello)
se - sé - s'è (Se s'è fatto male da sé peggio per lui!)
sta - sta' (Guarda Mario come sta fermo: sta' buono anche tu!)
to' - t'ho (To', chi si vede... T'ho riconosciuto subito, sai?)
va - va' (Mario va a casa presto, va' con lui). Ricorda: va indica sempre
la terza persona (egli va), va' la seconda (vai tu).
E prima di chiudere il paragrafo sull'apostrofo affrontiamo una dibattutissima
questione: si può usare l'apostrofo in fin di riga, scrivere cioè: l' (a capo)
albero? Alcuni studiosi dicono
a conforto della loro tesi. Io
Gabrielli e ho scelto di stare
l'uso dell'apostrofo in fin di
di sì, altri di no, e tutti portano buone ragioni
sono stato sedotto dalle argomentazioni di Aldo
dalla parte di coloro che ritengono corretto
riga. Quindi, oltre alla forma:
bel-
l'albero
(che va sempre bene), si può usare anche:
bell'
albero
Non si deve mai scrivere, invece:
bello
albero
perché questa forma non rispetta la necessaria elisione ed è quindi un errore.
4. LE SILLABE
Saper dividere una parola in sillabe è indispensabile per "andare a capo"
correttamente. E a capo si può andare "spezzando": a) una vocale e una
consonante; b) due vocali; c) due consonanti.
1. Le consonanti semplici fanno sillaba con la vocale che segue: co-sa, ta2.
3.
4.
5.
vo-lo, ecc.
Quando le vocali i e u atone (cioè, come abbiamo già detto, senza accento)
si incontrano con un'altra vocale (fiorino), eventualmente accentata
(cuòre), o fra di loro — e in questo caso una delle due può avere
l'accento (piùma) — abbiamo un dittongo, che può considerarsi come
un'unica vocale composta, e non si spezza:fia-to, piog-gia, noi, Eu-ro-pa,
fuo-co, fiu-me (quando le vocali inseparabili sono tre si parla di
trittongo: buoi, miei, pagliai). Altrimenti le vocali formano uno iato, si
pronunciano separatamente e possono essere spezzate: be-a-to, ma-e-stro,
mi-o, bu-e, pa-u-ra. Ma attenzione: non sono dittonghi quelli derivanti da
parole con i o u toniche, su cui cioè cade l'accento della pronuncia (ad
esempio spi-a-re: i-a non è un dittongo perché viene da spì-a che ha la i
tonica; o pa-u-ro-so che viene da pa-ù-ra); né sono dittonghi quelli
presenti in parole in cui la i è preceduta da r o da un gruppo
consonantico con r : ori-ente, settentri-one, patri-a, ri-one.
Le consonanti doppie si dividono a metà: una resta con la sillaba
precedente, l'altra va con la seguente: boz-zet-to, az-zur-ro. I gruppi di
due o tre consonanti diverse fra loro si comportano nel modo seguente:
Se il gruppo può costituire inizio di parola (se cioè esiste nella lingua
italiana qualche parola che inizi con quel gruppo consonantico) il gruppo
si lega alla vocale che segue: re-spi-ro, perché esiste spronare; la-drunco-lo, perché esiste: drenare; a-tro-fi-a, perché esiste: trofeo.
Se il gruppo delle consonanti non può costituire inizio di parola (se cioè
non esiste nessuna parola italiana che inizi con quel gruppo) allora la
prima o le prime consonanti si legano alla sillaba precedente in modo che
le rimanenti possano costituire inizio di parola e dunque, secondo la
regola precedente, andare a capo legate alla vocale che le segue. Ad
esempio: in tecnico il gruppo consonantico cn non può costituire inizio di
parola (non c'è infatti nessuna parola italiana che cominci con cn),
perciò andremo a capo così: tec-nico. E così: subdolo - sub-dolo, amnesia
- am-nesia, cripta - crip-ta, abnorme - ab-norme, tungsteno - tung-steno.
5. LA PUNTEGGIATURA
Non esistono regole ferree per la punteggiatura, che risponde più ad esigenze
stilistiche che grammaticali, ma è bene ricordare che i segni d'interpunzione
hanno anche un valore "logico" e vanno usati per comunicare il meglio possibile
le sfumature del nostro pensiero.
Virgola
Indica una breve pausa e si usa spesso per separare gli "incisi", cioè le parti
accessorie di un discorso principale: Domani, se sarà bel tempo, andrò al mare;
oppure: Marco, ragazzo diligente, studia con profitto. È necessaria inoltre
nelle elencazioni: C'erano Mario, Carlo, Luigi, Andrea; o quando si vogliono
scolpire bene alcune proposizioni di un periodo: Parlava, parlava, si agitava,
non concludeva nulla. È opportuna dopo una esortazione: "Andiamo, ragazzi, fate
un po' di silenzio!". In genere, comunque, oggi si tende a fare un uso parco e
razionale delle virgole; vale a dire: meglio metterne poche e bene.
Una nota: a scuola continua a circolare la diceria che "non si mette la virgola
prima della e". È una sciocchezza. Apriamo a caso I promessi Sposi: «Una cintura
lucida di cuoio, e a quella attaccate due pistole». E non è che un esempio fra
tanti. Ma se la e ha valore congiuntivo allora, ovviamente, la virgola diventa
inutile:Vino, pane e salame.
Punto
È il segno che indica la fine di un periodo compiuto, lungo o breve che sia.
Dopo il punto è necessaria la maiuscola.
Punto e virgola
Ormai caduto in disuso risulta invece utile quando, in un periodo già ricco di
virgole, si voglia continuare il discorso senza interromperlo con un punto. Un
esempio preso dal solito Manzoni: "Il lembo estremo, tagliato dalle foci de'
torrenti, è quasi tutto ghiaia e ciottoloni; il resto, campi e vigne, sparse di
terre, di ville, di casali; in qualche parte boschi, che si prolungano su per la
montagna".
Due punti
Si usano:



prima di riferire risposte e parole altrui: Luigi mi disse: «Vengo
anch'io.»;
prima di cominciare un elenco di cose o concetti: C'erano: Luigi, Mario e
Andrea;
quando il concetto che segue è una spiegazione o un rafforzamento del
precedente: Te l'ho già detto: non c'era nessuno.
Punto interrogativo e Punto esclamativo
Sono segni di intonazione e servono il primo a rendere la frase interrogativa
("Ha fatto proprio così." è un'affermazione, "Ha fatto proprio così?" è una
domanda), il secondo a sottolineare la sorpresa (Com'è bello!), il dolore (Ahi,
che male!), la minaccia (Mario, ubbidisci!), ecc. Non sempre richiedono dopo di
sé la maiuscola. Dunque si scriverà: Come? Non ci sei andato?; ma: Questo
ragazzo è, come dire?, svogliato, distratto..., oppure: Ragazzi, via!, non fate
chiasso... Una cosa importante: sia il punto interrogativo che quello
esclamativo indicano una certa "intonazione" e non è che mettendone più di uno
l'intonazione cambi; quindi è inutile il raddoppio: ?? o !!. Si possono invece
accoppiare i due segni per sottolineare una sfumatura di incredulità: Come?! Non
lo hai ancora fatto?
Puntini di sospensione
Sono un segno di interpunzione rappresentato da tre punti (non di più) con cui
si sospende a mezzo una frase per riprenderla subito dopo o lasciarla
incompleta. Non richiedono dopo di sé la maiuscola, tranne quando chiudono
definitivamente il periodo: "Ne parlerò alla madre badessa, e una mia parola...
e per una premura al padre guardiano... Insomma do la cosa per fatta" (Manzoni).
Meglio non usarli in senso ironico: Era proprio... bello! I puntini possono
anche indicare una omissione in una citazione, ma in questo caso è meglio
metterli tra parentesi: "Quel ramo del lago di Como (...) tutto a seni e a
golfi".
Barra
È utile quando si vuole citare una poesia, per separare i versi: "Sempre caro mi
fu quest'ermo colle / e questa siepe...".
Parentesi
Servono, fra gli altri usi, a circoscrivere un inciso, cioè una o più
proposizioni inserite in un periodo più complesso, ma tali che si potrebbero
omettere senza nuocere né al senso né alla costruzione grammaticale del periodo
stesso: "Anche i bimbi (giacché su questa materia comincian presto a ragionare)
non videro malvolentieri che si sottraesse alla polenta un concorrente, e il più
formidabile." (Manzoni).
Lineetta e Trattino
Nonostante siano graficamente molto simili (la lineetta è un po' più lunga del
trattino) hanno un valore ortografico molto diverso.

La lineetta (—) può valere sia come segno ortografico che come segno
d'interpunzione.
Come segno ortografico serve a delimitare un discorso diretto. Se il
discorso diretto è un dialogo si mette la lineetta solo in apertura:
— L'hai visto il film?
— No.
— Come mai?
— Sono arrivato tardi.
Se invece il discorso diretto è inserito in un periodo è necessario
mettere la lineetta anche in chiusura: Mario gridò:— C'è nessuno? —ma non
udì nessuna risposta.
Ma le lineette si possono anche usare in un discorso diretto
«virgolettato» per isolare l'intervento del narratore: «Se è bel tempo —
osservò Mario — potremmo andare al mare».
Come segno d'interpunzione la lineetta si usa invece per racchiudere un
inciso laddove la virgola non darebbe altrettanto rilievo, e le parentesi
sarebbero eccessive: La regola —ed è bene ricordarlo —dice di fare così.

Il trattino invece (-) serve ad indicare la spezzatura di una parola in
fin di riga:
om-
brello
o la congiunzione di certe parole composte: afro-americano.
Virgolette
Vanno sempre usate in coppia (una volta aperte, cioè, devono sempre essere
chiuse); e possono essere apicali "...", o angolari «...». Quelle apicali si
usano per circoscrivere una citazione: "Verrà un giorno...", come diceva padre
Cristoforo; o una parola dal significato particolare: Il computer è in fase di
"input". Quelle angolari sono particolarmente adatte ad indicare un discorso
diretto, perché essendo direzionate («...») è facile riconoscere quando aprono o
chiudono il discorso. Così:
«Sei andato alla festa?»
«No.»
«Perché?»
«Dovevo studiare.»
Ma anche: Mario chiese: «Che si fa oggi?» Michele sbuffò: «Non lo so...» (notate
che qui dopo le virgolette di chiusura del primo discorso non ci va nessun
punto, poiché il punto, interrogativo, è già dentro). I due tipi diversi di
virgolette possono anche distinguere il parlato dai pensieri: Gianni mi ha
chiesto: «Perché non vieni anche tu?», ma io ho pensato: "Mi devo fidare?".
Attenti, infine, nell'andare a capo in fin di riga: i due punti si legano sempre
alla parola precedente, le virgolette a quella seguente:
... Maria mi guardò e mi chiese:
«L'hai preso tu?»