allegato - Università degli studi di Bergamo

Giorgio Lunghini, il manifesto 9/7/2014, 9 luglio 2014
L’EVEREST DI QUEL 3%
Quali siano i rapporti tra scelte di politica economica e teorie economiche è questione di
grande interesse politico e culturale, sopratutto quando la norma non ha nessun fondamento. È questo il caso del rapporto tra deficit pubblico e Pil: «Fu una scelta casuale,
senza nessun ragionamento scientifico». Lo ammette candidamente, in una intervista alla
Repubblica dell’8 luglio 2014, un tale Guy Abeille, che avrebbe inventato la regola del
3%. Riprendo qui le sue risposte:
«Quando François Mitterrand venne eletto, nel 1981, scoprimmo che il deficit lasciato da
Valery Giscard d’Estaing per l’anno in corso non era di 29 ma di 50 miliardi di franchi.
Avevamo avanti uno spauracchio: superare 100 miliardi di deficit. Mitterrand chiese
all’ufficio in cui lavoravo di trovare una regola per bloccare questa deriva. Avevamo pensato in termini assoluti di stabilire come soglia massima 100 miliardi di franchi. Ma era
un limite inattendibile, quindi decidemmo di dare il valore relativo rispetto al Prodotto
interno lordo, che all’epoca era di 3.300 miliardi. Da qui il fatidico 3%.
Ma Laurent Fabius, allora premier, anziché dare la cifra parlò di un deficit pari al 2,6%
del Pil. Faceva molta meno impressione. Così è cominciato tutto. E’ stato Jean-Claude
Trichet a proporre questa norma durante i negoziati per il Trattato di Maastricht. Per
paradosso, la Germania ha adottato la norma del 3% di deficit sul Pil fino a farne uno
dei punti centrali del Patto di Stabilità. Trovo divertente che questa regola nata quasi per
caso e oggi imposta dai tedeschi sia nata proprio in Francia. Dovevamo fare in fretta, il
3% è venuto fuori in un’ora, una sera del 1981. Immaginavo che ci sarebbero stati degli
studi più approfonditi, in particolare quando il parametro è stato esteso all’Europa. E
invece il 3% rimane ancora oggi intoccabile, come una Trinità. Mi fa pensare a Edmund
Hillary che quando gli chiesero perché aveva scalato l’Everest rispose: «Because it’s
there».
Da quella sera del 1981 in cui il 3% è uscito fuori un po’ per caso, è diventato parte del
paesaggio delle nostre vite. Nessuno più che si domanda perché. Come una montagna da
scalare, semplicemente perché è lì».
Uno studio approndito c’è poi stato, quando Luigi Pasinetti, economista di reputazione
internazionale, nel 1998 pubblica sul Cambridge Journal of Economics un articolo dal
titolo The myth (or folly) of the 3% deficit/GDP Maastricht ‘parameter’. Articolo nel
quale si dimostra, matematicamente, che entro i confini della finanza pubblica sostenibile
(in termini di rapporto tra deficit e Pil e tra debito pubblico e Pil, dato un certo tasso di
crescita del Pil), i “valori di riferimento” stabiliti con il trattato di Maastrachit (60% per il
rapporto tra debito pubblico e Pil e 3% per il rapporto tra deficit e Pil), costituiscono
uno soltanto tra gli infiniti punti compresi nell’area della sostenibilità.
Di qui venivano allora, e potrebbero venire per l’oggi, molte scelte politiche teorica1
mente ben fondate. Però l’articolo di Pasinetti l’hanno letto soltanto alcuni economisti
studiosi e i pochi politici studiosi, uno in particolare. La questione dei rapporti tra politiche e teorie si può dunque condensare in un aforisma di Alberto Arbasino: il sonno della
ragione produce ministri.
GIORGIO LUNGHINI
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Il debito pubblico deprime la crescita?
Il clamoroso errore di Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff
Pubblicato da keynesblog il 18 aprile 2013
Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff
Siti e blog di economia non parlano d’altro. Un famoso paper di Carmen Reinhart
e Kenneth Rogoff, tra i più citati negli ultimi anni, nel quale si evidenziava
l’esistenza di una correlazione tra un alto rapporto debito/PIL (maggiore del
90%) e la bassa crescita, è inficiato da gravi problemi metodologici e addirittura
da un banale errore nel foglio di calcolo, tanto che su twitter si parla di
#excelgate. Eppure, anche sulla base di questo studio, è stata giustificata
l’austerità, il pareggio di bilancio e il “rimettere a posto i conti”, al di qua e al di
là dell’Atlantico.
La narrativa prevalente nel dibattito pubblico sulla crisi economica corrente e sulle
soluzioni per uscirne ha identificato nell’alto debito pubblico italiano “a rischio
insolvenza” la causa primaria dei problemi attuali dell’Italia. Questo nonostante a livello
internazionale gli economisti professionisti abbiano raggiunto un largo consenso
nell’individuare in altre cause, dovute in ultima analisi ai limiti dell’attuale architettura
monetaria europea, le ragioni di fondo della crisi dell’euro e in particolare le tensioni sul
mercato dei titoli di stato italiani (lo spread). A un alto livello del debito pubblico è spesso
attribuita anche la malattia fondamentale dell’Italia negli ultimi decenni: l’anemica
crescita del reddito nazionale o PIL.
Sebbene senza lo stesso livello di ossessività a rasentare la paranoia, le “nefaste e
terrificanti conseguenze del debito pubblico” sono state sino ad ora molto presenti nel
dibattito pubblico di altri paesi, evocate in particolare dai sostenitori dell’austerità e della
disciplina di bilancio in tempi di crisi, in Europa come negli Stati Uniti. Poiché è difficile
motivare l’austerità sulla base di una larga parte dei prevalenti modelli macroeconomici
di breve periodo (ovvero, con un po’ di libertà terminologica, i modelli utilizzati dagli
economisti per predire il e rispondere al ciclo economico, recessioni ed espansioni)
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costoro si basano piuttosto su motivazioni di lungo periodo: il debito pubblico sarebbe un
male poiché limita la crescita dell’economia nei decenni a venire, e quindi ci renderà tutti
più poveri, in media, nel futuro.
Le basi teoriche di questa argomentazione, tuttavia, sono difficili da identificare e isolare
con chiarezza (tra queste non va inclusa la ripetuta predica riguardante il “peso sulle
future generazioni”, la quale ignora che le nuove generazioni erediteranno la ricchezza
delle vecchie e pure, quindi, credito sul debito pubblico, per cui la questione è mal
posta). Certamente maggior eco ha avuto lo studio di due autorevoli economisti
dell’Università di Harvard e del Maryland, Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff,
pubblicato nel 2010 sulla prestigiosissima American Economic Review, il quale ha stabilito il
problema in termini empirici. E’ possibile scaricare un Working Paper preliminare
all’indirizzo http://www.nber.org/papers/w15639.pdf
Analizzando una nuova base di dati che mette a confronto le finanze pubbliche e i
risultati macroeconomici di un campione molto ampio di paesi a partire dal dopoguerra e
oltre, ma non sempre disponibili per ogni paese e per ogni anno, lo studio dei due
economisti mostra come esista una “discontinuità” dell’effetto del debito pubblico sulla
crescita. In particolare, se parrebbero non esserci differenze sostanziali per valori
sufficientemente moderati del rapporto debito/PIL, un valore di tale rapporto che sia
superiore al 90% è associato nei dati a tassi di crescita economica significativamente più
bassi, e in media nulli o negativi.
È importante sottolineare come tale risultato non corrisponda a un rapporto causale del
debito sulla crescita, ma di correlazione: il meccanismo potrebbe benissimo essere
inverso, ad esempio la bassa crescita può comportare alti rapporti tra debito e PIL se i
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governi fossero incapaci di governare il deficit in assenza o scarsità di crescita. Lo studio
non può offrire una risposta a tale questione, e ciò è tenuto ben presente dagli autori.
L’importanza di questo studio tra gli economisti accademici non è stata dovuta tanto alla
risolutezza delle conclusioni raggiunte, quanto alla novità scientifica rappresentata
dall’affrontare il problema su basi empiriche e con una più ricca base di dati. Tuttavia,
pare che politici e responsabili di politica economica abbiano tratto da questo studio di
ricerca economica, per quanto innovativo, indiscutibili verità ontologiche destinate a
magnificare le loro sagge e lungimiranti scelte o proposte di politica economica. Olli
Rehn, commissario UE per l’Economia, ha per esempio affermato:
«È ampiamente riconosciuto, sulla base di seria ricerca scientifica, che quando i livelli del
debito pubblico salgono oltre il 90% tendono a presentare una dinamica economica
negativa, la quale si trasforma in bassa crescita per molti anni.»
Affermazioni simili sono state fatte da personalità quali Paul Ryan e Tim Geithner negli
Stati Uniti e Lord Lamont of Lerwick nel Regno Unito. Purtroppo per molti, tuttavia,
tali risultati così ampiamente citati e influenti nel dibattito pubblico, se probabilmente
non sono mai stati troppo solidi, ora appaiono del tutto dubbi e traballanti.
Martedì scorso un working paper a cura di Thomas Herndon, Michael Ash e Robert
Pollin dell’Università del Massachusetts, Amherst [link] ha dimostrato come i risultati
originali della ricerca di Reinhart e Rogoff siano basati su problemi metodologici,
manipolazioni dei dati ed errori di calcolo che paiono in alcuni casi grossolani e, in un
certo senso, “originali”. Eliminandoli dall’analisi, il tasso di crescita medio dei paesi
ad alto debito balza dal –0.1% al +2.2%, una differenza molto grande. I problemi
principali individuati sono tre:
1. l’esclusione selettiva di alcune osservazioni nei dati;
2. uno schema di bilanciamento dei dati non convenzionale;
3. un errore di codice nel foglio di calcolo originale utilizzato per selezionare i
dati.
Cercherò di riassumerli brevemente.
In primo luogo, sono escluse osservazioni specifiche di paesi (peraltro tutti anglosassoni:
Canada, Australia e Nuova Zelanda) in un periodo storico, quello dell’immediato
dopoguerra, in cui questi paesi sono stati caratterizzati sia da alto debito pubblico, oltre
la fatidica soglia del 90%, che da una buona crescita media dell’economia. Reinhart e
Rogoff utilizzano solamente, e senza alcuna ragione troppo chiara, l’ultima osservazione
del periodo storico in questione per la Nuova Zelanda. In quest’ultimo paese in
particolare – il cui tasso di crescita dell’economia era molto volatile nel dopoguerra, ma
in media buono, del 2.58% – l’esclusione ha un grande impatto sulla media del tasso di
crescita, che cade così di circa dieci punti al -7.6%: un’enormità!
Questa “scelta discrezionale” non avrebbe avuto probabilmente una grande importanza
se non fosse stata amplificata da un secondo problema nell’analisi, uno schema non
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convenzionale di bilanciamento delle osservazioni. Negli studi empirici in economia è
normale utilizzare tecniche volte ad attribuire maggiore o minore importanza ad alcune
osservazioni. Solitamente, queste tecniche sono mirate ad ottenere obiettivi specifici: ad
esempio, se si vuole calcolare l’effetto di una determinata variabile o politica sul reddito
medio nella popolazione, ma si hanno a disposizione solo dati per gruppi di individui (ad
esempio, paesi) tali dati sono pesati per la popolazione.
Tuttavia, lo schema di bilanciamento scelto da Reinhart e Rogoff non pare avere
motivazioni e basi chiare, ma certo ha un grande effetto sui risultati finali.
Sostanzialmente, tutte le osservazioni per ogni singolo paese vengono divise in gruppi
rispetto al rapporto debito/PIL (ad esempio, tutte le osservazioni per gli anni in cui il
rapporto è più basso, oppure più alto, del 90%), e viene calcolata la media del tasso di
crescita di ogni paese separatamente in ogni gruppo. Alla fine, si calcola la media delle
medie tra tutti i paesi all’interno di ogni singola categoria di debito/PIL.
Questo significa che nel calcolo finale, le 19 osservazioni relative alla crescita media del
2.4% del Regno Unito nel periodo di alto debito pubblico hanno la stessa importanza del
–7.6% della Nuova Zelanda, come detto basato su un solo anno e dovuto a
un’esclusione apparentemente arbitraria di singole osservazioni. Gli autori della critica
sono consapevoli che probabilmente, per una serie di ragioni tecniche, un qualche tipo di
schema di bilanciamento potrebbe essere preferibile a una media pura sulle singole
osservazioni, ma è quantomeno inusuale che Reinhart e Rogoff nel loro lavoro originale
non discutano o giustifichino la scelta del loro schema di bilanciamento, che ha un
impatto enorme sui loro risultati.
Infine, l’intero lavoro è viziato da un errore di codice sul foglio di calcolo utilizzato per
selezionare i dati, il quale esclude la buona media del tasso di crescita del Belgio che è a
lungo stato contraddistinto da un alto debito pubblico. La seguente immagine è
abbastanza esplicativa.
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Si può notare come questo errore, che da solo abbassa la media del tasso di crescita dei
paesi ad alto debito dello 0.3%, escluderebbe anche Canada e Australia se le osservazioni
per questi paesi fossero state appropriatamente incluse nell’analisi. È altresì evidente che
il grosso del risultato pare guidato dalla singola osservazione sulla performance
economica del tutto anomala della Nuova Zelanda – un paese relativamente piccolo e
isolato – in un singolo anno, il 1949.
Il tutto appare, agli occhi di qualsiasi ricercatore di economia, terribilmente
approssimativo.
Altrettanto approssimativa non è invece parsa la sicumera con cui politici più o meno
eletti, come il già citato Olli Rehn, hanno esibito lo studio di Reinhart e Rogoff come
indiscutibile base scientifica per le politiche di austerità. Sotto l’insegna di questo tipo di
motivazioni, in Italia sono state tagliate o dilazionate pensioni di individui oramai avanti
negli anni e con poche prospettive sul mercato del lavoro, ed è stata ferocemente tassata
la proprietà della prima casa in maniera alquanto indiscriminata. Le conseguenze di
queste scelte sono evidenti: un aggravarsi della recessione, un aumento della
disoccupazione e un peggioramento ulteriore del rapporto debito/PIL – a suggerire di
nuovo, non sarà che se un rapporto di causalità esiste, questo sia al contrario?
La domanda che alcuni economisti maliziosamente si fanno ora è: quanta
disoccupazione è stata “causata” da errori aritmetici e di utilizzo del foglio di calcolo?
Quanti posti di lavoro persi?
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Probabilmente nessuno: è arduo immaginare che un singolo articolo scientifico, per
quanto rilevante, abbia da solo reso possibile determinate scelte di politica economica.
Ma certamente ne è stato un supporto propagandistico rilevante, in una fase critica per le
democrazie occidentali in cui un maggiore pluralismo nell’informazione economica e nel
dibattito di politica economica sarebbe certamente più auspicabile.
Addendum: Reinhart e Rogoff hanno prontamente risposto alle critiche, ammettendo
larga parte degli errori, ma difendendo la propria analisi con argomentazioni delle quali le
più rilevanti sono, primo, che se è vero che i loro risultati non sono veri rispetto alla
crescita economica media, valgono sotto alcune condizioni per la crescita economica
mediana e, secondo, che in ogni caso la loro analisi contenuta in ricerche successive
come nel libro This time is different, che analizza episodi storici di crisi finanziaria e default
del debito pubblico, non ne risulterebbe invalidata.
Ancora più rapida è stata però la duplice-triplice replica di Krugman che dal suo blog si
dichiara non convinto, per usare un eufemismo, che la difesa di R-R (come li chiama), sia
efficace. Un punto è certo: la soglia critica del 90% del rapporto debito/PIL, così vicina
ai livelli di molti paesi occidentali coinvolti nella crisi e nelle politiche di austerità, non
pare avere alcun particolare significato economico o statistico, e che la discussione
accademica e pubblica dovrebbe piuttosto concentrarsi maggiormente sul rapporto di
causalità inversa, cioè la scarsa crescita che gonfia il debito relativo. L’importante è che il
dibattito sia aperto: per lo meno, ora lo è certamente più di prima.
Link utili:
L’articolo di R&R: http://www.nber.org/papers/w15639.pdf
Alcune citazioni dell’articolo (versione del
CEPR): http://ideas.repec.org/r/cpr/ceprdp/7661.html
Il paper di Thomas Herndon, Michael Ash e Robert Pollin dell’Università del
Massachusetts, Amherst
http://www.peri.umass.edu/fileadmin/pdf/working_papers/working_papers_301350/WP322.pdf
Un articolo dettagliato dal sito Next New Deal della Fondazione Roosevelt
http://www.nextnewdeal.net/rortybomb/researchers-finally-replicated-reinhart-rogoffand-there-are-serious-problems
Articoli sul tema di Paul Krugman:
http://krugman.blogs.nytimes.com/2013/02/27/another-attack-of-the-90-percentzombie/
http://krugman.blogs.nytimes.com/2013/04/09/deficit-derangement-syndrome/
http://krugman.blogs.nytimes.com/2013/04/16/holy-coding-error-batman/
http://krugman.blogs.nytimes.com/2013/04/16/reinhart-rogoff-continued/
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http://krugman.blogs.nytimes.com/2013/04/17/further-further-thoughts-on-death-byexcel/
http://krugman.blogs.nytimes.com/2013/04/17/blame-the-punditstoo/?gwh=E955C4D85DC090055882D29B7A0D37C1
Dal blog Free Exchange dell’Economist:
http://www.economist.com/blogs/freeexchange/2013/04/debt-and-growth
Una delle prime critiche al paper di R&R:
http://ideas.repec.org/p/lev/wrkpap/wp_603.html (qui in
italiano: http://memmt.info/site/un-debito-sovrano-eccessivo-compromette-davverola-crescita/ )
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Quel nesso da dimostrare tra debito e crescita
30.04.13 lavoce.info
Ugo Panizza e Andrea Filippo Presbitero
Senza dubbio, i dati indicano una correlazione negativa tra debito pubblico e crescita. Ma resta da
dimostrare il nesso causale tra i due fenomeni. Così come l’esistenza di un effetto soglia. Le decisioni di
politica fiscale e i limiti della ricerca economica.
L’AFFAIRE REINHART-ROGOFF
Quali sono le conseguenze per la crescita economica di un elevato debito
pubblico? (1) È vero che l’economia rallenta quando il debito è troppo alto? La risposta
non è semplice, ma è fondamentale per capire se politiche fiscali espansive, che fanno
aumentare l’indebitamento pubblico corrente, possono avere effetti di lungo periodo sul
benessere e sulla crescita economica.
In una serie di contributi scientifici che hanno avuto molta influenza sul dibattito
accademico e politico, gli economisti di Harvard Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff
mostrano che esiste una correlazione negativa tra debito pubblico e crescita
economica, ma che la relazione non è evidente fintanto che il debito pubblico non
supera il 90 per cento del Pil. Nei loro articoli accademici, Reinhart e Rogoff si sono
sempre dimostrati molto cauti nel suggerire che una semplice correlazione implichi un
nesso di causalità dall’alto debito alla bassa crescita. Ciò nonostante, i loro risultati sono
stati spesso utilizzati per sostenere politiche di austerità e rigore fiscale.
Ora una ricerca di tre economisti della University of Massacchussets-Amherst ha
evidenziato alcuni errori nei dati utilizzati da Reinhart e Rogoff, scatenando un ampio
dibattito, anche mediatico, sulla validità dei loro risultati. Senza entrare nei dettagli,
occorre evidenziare che la correzione di questi errori non è sufficiente per ribaltare i
risultati di Reinhart e Rogoff. I risultati cambiano solamente se si utilizza
una metodologia differente per calcolare la crescita media. Reinhart e Rogoff hanno
ammesso che il loro foglio di Excel conteneva alcuni errori, ma sostengono che la loro
metodologia per calcolare la crescita media è preferibile rispetto a quella utilizzata dagli
economisti della University of Massacchussets-Amherst. Non intendiamo entrare qui
nella sostanza della replicabilità e della validità dei risultati di Reinhart e Rogoff. Infatti,
riteniamo che la discussione sui loro presunti errori abbia distolto l’attenzione dai
problemi principali che si devono affrontare nel caso in cui si voglia identificare il nesso
tra debito e crescita.
In un lavoro che precede il dibattito sulla validità dei dati di Reinhart e Rogoff (Panizza e
Presbitero 2013) abbiamo passato in rassegna una serie di contributi che studiano il
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legame tra debito e crescita nelle economie avanzate. Ne emergono quattro aspetti
fondamentali che è necessario discutere:
1. la presenza di non-linearità e effetti soglia
2. la presenza di eterogeneità
3. l’identificazione del nesso di causalità
4. la definizione di debito pubblico
EFFETTI SOGLIA?
Mentre è vero che esiste una correlazione negativa tra debito e crescita (le stime
suggeriscono che un aumento del debito di 30 punti percentuali è associato a una
riduzione della crescita di mezzo punto percentuale), esistono molti studi che mettono in
dubbio la presenza di un effetto soglia. In particolare, la soglia individuata da Reinhart e
Rogoff in corrispondenza di un rapporto debito/Pil pari al 90 per cento non appare
sufficientemente robusta a rigorose analisi empiriche che utilizzano tecniche statistiche
sviluppate esplicitamente per modellare relazioni non-lineari, o che si basano su dati
provenienti da fonti diverse o riguardanti periodi e campioni diversi (sempre all’interno
del gruppo delle economie avanzate).
UNA RELAZIONE UGUALE PER TUTTI?
In genere, gli studi empirici impongono che la relazione tra debito e crescita sia uguale
per tutti i paesi. Per esempio, normalmente si ipotizza che un aumento del debito di dieci
punti percentuali in Grecia abbia un effetto sulla crescita economica greca uguale
all’effetto di un aumento del debito di dieci punti percentuali in Giappone sulla crescita
economica giapponese. L’ipotesi può potenzialmente portare a risultati fuorvianti e
studi che usano tecniche statistiche che non la impongono mettono in dubbio la
presenza di una relazione negativa tra debito e crescita nei paesi avanzati.
CHE COSA CAUSA COSA?
Anche in presenza di una correlazione negativa tra debito e crescita, occorre ricordare
che una correlazione non implica l’esistenza di un nesso di causalità (in caso contrario,
l’osservazione che vi sono molte persone ammalate negli ospedali, ci porterebbe a
concludere che andare all’ospedale faccia ammalare la gente). Il legame negativo tra
debito e crescita potrebbe essere dovuto al fatto che un elevato debito pubblico causa un
rallentamento dell’economia. In alternativa, la correlazione potrebbe essere il risultato
dell’effetto di una qualche altra variabile che simultaneamente determina un alto
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indebitamento e una bassa crescita. In un precedente lavoro, già discusso su lavoce.info,
affrontiamo esplicitamente il legame di causalità tra alto debito e bassa crescita e
concludiamo che non esiste, al momento, una prova convincente che il debito pubblico
abbia un effetto causale sulla crescita economica.
DI QUALE DEBITO STIAMO PARLANDO?
Infine, c’è un aspetto fondamentale che è alla base della relazione tra debito e crescita,
ma che è raramente discusso tra gli economisti. Si tratta della definizione di debito
pubblico.
A fine 2012, il debito lordo italiano era pari al 127 per cento del Pil, ma il debito netto
era 30 punti percentuali in meno. Allo stesso tempo, una misura del debito che include
tutte le passività implicite del governo (soprattutto legate al pagamento delle pensioni)
fornirebbe un rapporto debito/Pil ben maggiore. Queste considerazioni implicano che
non è ovvio quale misura scegliere tra debito lordo e debito netto, se includere solo le
passività esplicite ovvero anche quelle implicite e se considerare o no le contingent
liabilities (si pensi ai repentini aumenti dei debiti in Irlanda, Spagna e Islanda).
I LIMITI DELLA RICERCA DEGLI ECONOMISTI
I dati indicano inequivocabilmente una correlazione negativa tra debito pubblico e
crescita. Tuttavia, la presenza di un effetto soglia oltre il quale il debito è associato a una
contrazione considerevole della crescita del Pil e la presenza di un nesso causale tra alto
debito e minore crescita sono fatti ancora da dimostrare.
Questa nostra conclusione, basata su un’ampia rassegna della letteratura più recente, non
deve essere letta a sostegno di politiche che necessariamente promuovano
l’indebitamente pubblico. Né intendiamo sostenere che alti livelli di debito siano senza
conseguenze (si veda la discussione in Panizza e Presbitero 2012). Ciò che intendiamo
sostenere è la necessità di una consapevolezza dei limiti della ricerca economica in un
ambito molto rilevante per le politiche economiche nazionali e sovranazionali. A questo
proposito, sottoscriviamo quanto scritto recentemente da Dani Rodrik, secondo cui
“Economists would be so much more honest (with themselves and the world) if they acted accordingly –
letting their audience know that their results and prescriptions come with a large margin of
uncertainty”. (2) Proprio perché riconosciamo il grado di ignoranza e di incertezza che
regna in questo ambito di ricerca, auspichiamo che nel futuro nuovi studi contribuiscano
a fornire risultati convincenti, specialmente in termini di causalità ed eterogeneità.
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(1) Questo articolo è basato su un nostro contributo pubblicato di recente su Vox
(2) Gli economisti sarebbero molto più onesti (con se stessi e con il resto del mondo) se
agissero di conseguenza e riconoscessero di fronte all’opinione pubblica che i loro
risultati e le loro ricette presentano con un ampio margine di incertezza.
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Debito Estero contro Debito Interno nella Crisi dell'Euro
Traduzione parziale da Voci dall’estero
Daniel Gros
24 May 2011
Mentre i leaders europei cercano di cavarsela alla meno peggio nella crisi dell'euro, il dibattito sulle sue
cause profonde continua. Il dibattito è importante se vogliamo capire come prevenire delle crisi future.
Questo articolo sostiene che concentrare l'attenzione sul debito pubblico è fuorviante - il debito estero è la
chiave per comprendere i disordini nelle economie europee.
Il debito estero è indifferente in una unione monetaria? Il caso del Portogallo illustra
l'importanza del debito estero. Il premio al rischio sul debito pubblico portoghese è
aumentato costantemente fino a quando il paese è stato costretto a rivolgersi all'
European Financial Stability Facility (EFSF) per il finanziamento d'emergenza. Ma i suoi
numeri sul piano fiscale non sono peggiori di quelli della Francia. I mercati sono
preoccupati per il Portogallo per un altro motivo - il suo elevato debito estero - in
particolare, quello del settore privato (banche e imprese).
D'altra parte, anche il fatto che il Belgio non stia attraversando una crisi nonostante la
sua fragile posizione fiscale serve ad illustrare l'importanza del debito estero .
Il rapporto debito / PIL del Belgio è ben superiore a quello del Portogallo (circa il
100%) e il suo sistema politico è irrimediabilmente diviso. E' passato più di un anno dalle
ultime elezioni e il paese non ha ancora un nuovo governo. Ma nonostante questi aspetti
negativi, si trova ad affrontare un premio di rischio solo di circa 100 punti base al di
sopra del debito tedesco. La ragione è che il Belgio è un creditore netto verso il resto del
mondo per la bellezza del 50% del suo PIL, anche molto più della Germania.
Semplice prova
Una interpretazione standard della crisi dell' eurozona è che il debito pubblico è la chiave
di volta della storia (Pagano 2010) e di certo non si può negare che il lato fiscale sia
importante. Ma l'esperienza della zona euro sembra suggerire che il debito pubblico da
solo non offre una spiegazione sufficiente. La Figura 1 mostra un semplice diagramma a
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dispersione del premio di rischio sui titoli di Stato a lungo termine contro il saldo delle
partite correnti(media degli ultimi tre anni prima della crisi). La forte relazione tra lo
spread (il differenziale tra il rendimento dei titoli del paese rispetto a quelli della
Germania, ndt) e la bilancia in conto corrente è evidente.
Perché questa relazione tra squilibri esterni e rischio del debito sovrano?
Qual è la ragione di questi risultati empirici? Per capire il collegamento, guardiamo in
primo luogo al perché i debiti delle nazioni più avanzate al di fuori della zona euro sono
in genere considerati privi di rischio. I paesi che hanno la loro moneta ed emettono titoli
di debito denominati nella propria moneta, non rischiano mai il default, in modo
assoluto. Se arriva il momento critico, si può sempre utilizzare la stampa per ripagare il
debito. Ci sarà una ripercussione sicuramente sui tassi di interesse, ma lo spread è visto
più come un premio per l'inflazione, non un premio del rischio default.
In un'unione monetaria, il presupposto che il debito pubblico è privo di rischio non è
valido. Paesi come la Grecia non hanno accesso all'opzione finale di stampare denaro. In
questo senso, il debito pubblico dei paesi della zona euro è simile a quello dei mercati
emergenti (Corsetti 2010).
Il punto cruciale dell'importanza del debito estero rimane anche se le nazioni della zona
euro conservano pieno potere impositivo sui loro cittadini. La logica è piuttosto sottile e
si può spiegare meglio con un esempio estremo, che rende la questione estremamente
chiara. Supponiamo che l'intero debito di una nazione sia detenuto da un solo uomo e
che la nazione vada incontro a una crisi del debito. Se questo obbligazionista è un
residente della nazione, il governo potrebbe imporre una tassa su di lui pari, per dire, al
50% del valore dei suoi titoli di debito. Utilizzando questo nuovo gettito fiscale, il
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governo potrebbe ripagare il 50% del suo debito. Naturalmente si tratterebbe di un
esproprio oltraggioso e renderebbe più difficile indebitarsi in futuro, ma non ci sarebbe
un default.
Al contrario, supponiamo che l'obbligazionista unico fosse un cittadino straniero
residente all'estero. In questo caso, il governo non potrebbe più tassare liberamente il
detentore dei titoli. I governi non hanno mano libera nella tassazione dei non cittadini,
ma sono vincolati dai trattati esistenti e dalle norme internazionali.
Il punto fondamentale è che, fintanto che i membri della zona euro mantengono
pienamente la potestà impositiva, possono sempre servire i loro debiti nazionali, anche
senza l'accesso alla stampa. Ad esempio, i governi potrebbero ridurre il valore del debito
pubblico detenuto dai residenti attraverso qualche forma di tassazione forfettaria, come
una imposta sul patrimonio. Il governo potrebbe approvare una legge che obbliga tutti i
titolari di titoli di Stato a pagare una tassa pari al 50% del valore nominale del bond. Il
valore del debito pubblico sarebbe quindi dimezzato, nello stesso modo in cui lo sarebbe
se il governo ordinasse alla banca centrale di raddoppiare l'offerta di moneta, che
presumibilmente porterebbe ad un raddoppio dei prezzi.
Per questo motivo, credo, è il debito estero che costituisce il problema di fondo per la
solvibilità di un sovrano, anche nell'Eurozona.
Considerando la complessità
Le cose ovviamente si complicano quando ci sono parecchi movimenti e attività
patrimoniali transfrontaliere. E' quindi possibile che per un paese senza alcun debito
estero netto, una gran parte del debito pubblico sia detenuto da residenti stranieri (che
vogliono diversificare le loro aziende), ma i residenti abbiano attività estere di uguali
dimensioni. Ma, anche in questo caso, almeno in linea di principio, il governo può
ancora onorare i debiti tassando le attività estere dei suoi cittadini. Per lo meno il
governo può finanziarsi, costringendo i residenti a spogliarsi dei propri averi e comprare
titoli di Stato (domestici).
Tuttavia, in questo caso il governo deve affrontare la tentazione di dichiarare default sul
proprio debito estero, e tale tentazione sarà tanto più forte quanto più è difficile per il
governo tassare le attività estere dei suoi residenti.
L'importanza di questo punto è stato illustrata dal caso dell'Argentina, dove il paese in
quanto tale non aveva un grande debito estero netto. Il settore privato aveva ingenti
attività estere, mentre il governo aveva circa la stessa quantità di debiti esteri. Tuttavia,
l'Argentina è andata in bancarotta con poco debito estero netto, perché i ricchi argentini
avevano spostato le loro attività fuori dal paese, e quindi fuori dalla portata del governo,
mentre gli argentini poveri si sono rifiutati di pagare le tasse necessarie a soddisfare le
richieste dei creditori stranieri.
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Anche se ci potrebbero essere dei limiti alla misura in cui un governo può in realtà
tassare le attività estere dei suoi cittadini (a seconda della forma in cui sono detenuti) è
chiaro tuttavia che il governo di un paese con una posizione estera netta positiva ha più
opportunità di estrarre risorse per il servizio del debito pubblico rispetto a un paese con
una posizione estera netta negativa.
Un'altra ragione per cui il riequilibrio del debito, quando questo è interno, è molto più
semplice, è che i pagamenti di interessi per il debito interno vanno ai residenti.
Pagamenti di interessi elevati sono - dal punto di vista della domanda aggregata - come
spostare i soldi dalla mano sinistra alla mano destra. Il maggior costo del servizio del
debito non altera la possibilità di consumo del paese nel suo complesso. Tassi di
interesse più elevati significano "solo" tasse più elevate per alcuni e maggiori entrate per
gli altri, e i due gruppi potrebbero anche in parte sovrapporsi.
Questo è molto diverso quando il debito pubblico è detenuto da stranieri. In questo caso
i tassi di interesse più elevati spostano più soldi fuori del paese. Questo implica maggiori
trasferimenti a stranieri e quindi richiede un aggiustamento della bilancia commerciale.
La Politica è anche Importante
Le dinamiche politiche del debito sono molto diverse nel debito domestico e nel debito
estero. Nel caso del debito interno gli elettori voteranno per i governi che vogliono
evitare il default. Questo non è il caso del debito estero; il default verso gli "stranieri"
potrebbe in realtà essere molto popolare.
Per capire il punto, prendiamo un altro semplice esempio, questa volta consideriamo dei
cittadini di una nazione tutti appartenenti alla stessa famiglia. Le giovani generazioni
lavorano e pagano le tasse, la vecchia generazione vive dei propri risparmi. Supponendo
che tutto il debito pubblico sia nazionale, i pensionati baseranno la loro pensione sui
titoli di Stato nazionali.
Pensate a votare sul default in questa situazione. I vecchi chiaramente voteranno per un
aumento delle imposte (sui lavoratori) per pagare per il servizio del debito necessario ad
evitare il default. I giovani si opporranno. L'esito dipenderà dall'empatia e dai risultati
elettorali, ma il punto principale è che quasi la metà dei votanti sarà naturalmente
contrario al default. Infatti, oggi, in Europa l'età media della popolazione votante non è
lontana dall'età media effettiva di pensionamento.
Ora, rifacciamo l'esperimento mentale con degli obbligazionisti pensionati stranieri, per
cui il blocco anti-default non può votare sulla questione. Se il paese ha un sacco di debito
estero (come nel caso della Grecia e Portogallo), sarà molto più difficile ottenere il
consenso popolare alle misure di austerità necessarie a trasferire risorse agli stranieri.
Vi sono motivi sia economici che politici che rendono importante, forse addirittura
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determinante, l'ammontare del debito estero del paese per i premi al rischio sul debito
pubblico.
Implicazioni per la crisi dell'Eurozona
La mia tesi che il debito estero è più importante del debito pubblico ha una serie di
implicazioni sulla crisi in corso nell'Eurozona:
L'Irlanda, che quest'anno è in corsa per un avanzo di parte corrente e che ha una
piccola posizione debitoria netta internazionale (circa il 20% del PIL), dovrebbe essere in
grado di resistere alla crisi molto più facilmente rispetto a paesi come il Portogallo o la
Grecia, che ancora hanno disavanzi delle partite correnti e posizioni debitorie nette
molto grandi a livello internazionale (circa il 100% del PIL).

Potrebbe essere più importante per la Grecia (e il Portogallo) realizzare un surplus
estero (nel conto corrente) piuttosto che un surplus fiscale (primario).

Al fine di ripristinare il merito di credito di un paese i politici dovrebbero tagliare
il
suo debito estero, non solo il debito pubblico in generale.

Dato che ad ora solo la metà circa dei titoli di Stato greci sono detenuti da privati
residenti all'estero, sarà difficile risolvere il problema col solo default sul debito pubblico.
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