congiuntura internazionale e crisi finanziaria

Il tempo dei fatti
Di Maurizio Petriccioli
Mentre viviamo gli effetti di una vera e propria nuova tempesta sulle borse dovuta anche alla crisi
della Grecia e dei Paesi periferici dell’Unione europea (Irlanda, Portogallo, Spagna), l’insicurezza
delle persone provocata da una continua altalena di dati ed informazioni fra di loro contraddittorie si
fa sempre più forte e percepibile.
La progressiva perdita del potere di acquisto delle retribuzioni e delle pensioni ha determinato una
situazione di difficoltà per milioni di persone, a cui si aggiungono tutti i problemi derivanti dalle
sospensioni e dalle interruzioni dei rapporti di lavoro.
Il senso di insicurezza, quindi, aumenta il disagio materiale, pur in una situazione in cui si
intravvedono segnali positivi che segnano un’inversione di tendenza di quella che possiamo
senz’altro definire come la più grande crisi economica dopo quella del ’29.
Se da un lato si registra un preoccupante picco della disoccupazione (8,8% secondo le rilevazioni di
marzo), dall’altro le richieste di cassa integrazione guadagni ordinaria stanno diminuendo (in aprile
le ore di CIGO segnano un -22,5% rispetto al mese di marzo) e nell’ultimo trimestre diminuisce
pure il numero di ore effettivamente utilizzate dalle imprese. I prezzi al consumo registrano una
crescita annua tendenziale dell’1,5% mentre l’indice grezzo della produzione industriale ha
registrato, in febbraio, un aumento del 2,7% rispetto allo stesso mese del 2009. Il debito pubblico,
nonostante la linea del rigore, continua a salire, superando il 118% mentre il deficit si attesta al
5,3% del PIL.
I risultati raggiunti nella lotta all’evasione nel 2009 segnano un miglioramento del 32% rispetto alle
entrate dell’anno precedente, con un incasso per l’erario di 9,1 miliardi di euro che, nel biennio,
raggiungono la rilevante cifra di 16 miliardi di euro.
Insomma, in questo mare tempestoso di dati a volte contrastanti, apprendiamo che il nostro Paese,
nonostante le difficoltà in gran parte acuite dall’enorme peso del debito pubblico, regge meglio di
altri ai guasti prodotti dalla crisi mondiale, che il sistema bancario, nel confronto, appare più
robusto, che il risparmio delle famiglie e delle imprese ha contrastato efficacemente gli effetti della
crisi, nonostante l’elevato indebitamento dello Stato.
Certo, la crisi finanziaria e il calo della domanda interna e mondiale ha spinto le imprese italiane a
profondi processi di riorganizzazione, mentre l’esiguità delle risorse pubbliche disponibili rende in
alcuni casi difficoltosa la riconversione industriale e produttiva e risulta insufficiente a sostenere il
Paese nella difficile congiuntura economica e finanziaria.
Dalla crisi finanziaria all’economia reale e, ora, attraverso la cinghia di trasmissione dei mercati
finanziari, dall’economia reale di nuovo ad una pericolosa recrudescenza degli effetti finanziari.
Per arginare questa pericolosa deriva, di cui attualmente fanno le spese solo i Paesi periferici
dell’area U.e., è necessaria una presa di coscienza “europea” che parta dalla considerazione che i
parametri di Maastricht, nella loro rigida concezione ragioneristica, hanno fatto il loro tempo.
Intanto è diventato evidente, che ruolo più forte degli Stati implica una “collettivizzazione” dei
rischi: il bisogno di sicurezza richiede "più Stato", anzi un ruolo più forte dello Stato, ma non
autorizza di fare passi più lunghi delle proprie gambe. Anche gli Stati possono fallire.
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Emerge, dunque, il bisogno di riallocare i rischi ad una dimensione sovranazionale e di ridisegnare
le regole del gioco per riattivare più efficaci strumenti pubblici di politica attiva, contenendo i
rischi.
L’Unione europea costituisce una grande opportunità per l'Italia, inchiodata al suo debito pubblico.
Fra chi propone di allentare i parametri di Maastricht e chi, come la Presidente tedesca Angela
Merkel, di introdurre più rigorose restrizioni, vi è lo spazio per ragionare su una ridefinizione dei
criteri utili ad individuare i margini di azione comuni. Può, quindi, riprendere corpo in sede europea
una discussione sulla necessità di liberare risorse per investimenti produttivi, a sostegno della
disoccupazione, della formazione professionale, dell’innovazione e riorganizzazione produttiva.
Da qui un’indicazione utile anche per l’Italia che, considerato l’elevato livello del debito pubblico,
non può certo permettersi di allentare la linea rigorista ma che deve cercare di trovare al proprio
interno le risorse necessarie a sostenere la domanda aggregata per consumi ed investimenti,
migliorando l’attuale distribuzione dei redditi fra i diversi fattori della produzione, al fine di
realizzare una maggiore equità sociale ed un più elevato livello di efficienza economica, spostando
in avanti la frontiera di specializzazione del nostro sistema produttivo.
Ciò implica un atteggiamento rigoroso sulla spesa pubblica, che deve offrire il proprio contributo al
risanamento, liberando risorse utili per sostenere l’economia reale. Una riflessione che, se
sconsiglia tagli lineari generalizzati alla spesa corrente, ricercando invece una opportuna selettività
di intervento,
non può neppure perdersi in un conflitto istituzionale dalle caratteristiche
campanilistiche che porterebbe a neutralizzare qualsiasi possibilità di conseguire un risultato utile.
Al tempo stesso dobbiamo affrontare la piaga dell’evasione fiscale e proprio a questo scopo la Cisl
ha, con tenacia, chiesto al Governo di aprire un confronto che consenta di individuare, finalmente,
soluzioni efficaci per conseguire una più equa distribuzione del prelievo, ad una maggiore
disponibilità di gettito per l’Erario.
Spetta al Governo presentare un progetto organico di riduzione fiscale sostenibile ed ambiziosa, per
ridurre l’attuale livello di ingiustizia sociale, per offrire un contributo decisivo alla ripresa della
domanda interna necessaria a far tornare a crescere la nostra economia.
Spetta al sindacato, a tutte le parti sociali, prima ancora che le acque si siano calmate, sollecitare
l’urgenza di una politica economica impegnata a favorire un robusto processo di crescita, con un
piano di riforme che esplicitino il senso del progetto comune di cambiamento che il Paese è
chiamato ad affrontare.
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