PRESENTAZIONE Quando John Bowlby si interrogò, per la prima volta, sulla relazione tra deprivazione materna e delinquenza giovanile, certamente non immaginava che il proprio lavoro avrebbe prodotto uno dei settori della ricerca più vasto, profondo e innovativo della psicologia del XX secolo. Né tanto meno poteva immaginarlo Mary Ainsworth, rispondendo ad un annuncio pubblicato su un giornale di Londra che l’avrebbe portata a collaborare con lo stesso Bowlby. Quando Bowlby iniziò a presentare le sue idee dinanzi alla comunità psicoanalitica inglese, fu, come accade spesso ai grandi innovatori, tacciato di eresia. Un analista anonimo addirittura offeso dalla proposta di Bowlby durante una seduta plenaria della Società Psicoanalitica Inglese disse: “Bowlby? No, dateci Barabba!”. Conducendo la ricerca bibliografica sul tema “attaccamento”, allo scopo di raccogliere materiale per il presente lavoro, ho avuto modo di apprezzare la presenza di più di 2.000 voci inerenti a questo argomento, segno che, all’invocazione dell’anonimo psicoanalista sopracitato, i ricercatori venuti successivamente non hanno risposto come fece Pilato. Infatti attualmente la teoria dell’attaccamento rappresenta il più significativo quadro concettuale, basato sui dati empirici, nel campo sociale e dello sviluppo emotivo. Va inoltre assumendo un ruolo rilevante nella sempre più ampia letteratura clinica relativa agli effetti delle relazioni precoci genitore-figlio, che comprendono il maltrattamento e le relazioni disturbate. Il volume di Bowlby dedicato alla perdita rappresenta tuttora una fonte inesauribile di intuizioni e ispirazione per tutti i ricercatori che si rivolgono allo studio del lutto. L’attuale teoria, benchè sostanzialmente simile a quella elaborata trent’anni fa, ha acquistato specificità e consistenza, espandendosi in nuove direzioni, grazie ad una ricerca accurata e creativa. Una parte di questa ricerca soprattutto nell’ultima decade si è particolarmente occupata di questioni psicopatologiche cercando di evidenziare il ruolo giocato dall’attaccamento in diversi quadri nosografici. I disturbi maggiormente considerati da questa tradizione di ricerca sono stati quelli storicamente associati alla teoria dell’attaccamento come i disturbi affettivi e di ansia, oppure quelli che solo negli ultimi anni hanno avuto l’attenzione degli studiosi dell’attaccamento, come il Disturbo Borderline di Personalità, i Disturbi Dissociativi e la Schizofrenia. Anche i Disturbi Alimentari rientrano all’interno dei quadri patologici sottoposti al vaglio della teoria dell’attaccamento I anche se gli studi intrapresi in questo specifico campo sono ancora pochi se paragonati a quelli effettuati negli altri domini della psicopatologia. Il lavoro qui presentato si inscrive quindi, idealmente, all’interno di questa crescente tradizione di ricerca tendente ad illuminare il coinvolgimento dell’attaccamento nel complesso campo dei Disturbi del Comportamento Alimentare (DCA). Per quanto riguarda lo studio qui presentato, l’associazione tra attaccamento e DCA non scaturisce soltanto da una tradizione accademica, quanto piuttosto dall’incontro di due persone. Infatti il mio interesse per i DCA e l’Anoressia in modo particolare, si è ben conciliato con gli interessi teorici della professoressa De Coro relativi alle caratteristiche dell’organizzazione mentale relativa all’attaccamento in gruppi clinici. Il lavoro qui esposto infatti ha inteso applicare l’ “Intervista di Attaccamento nella Latenza” (IAL) alle ragazze anoressiche per valutarne lo stato mentale attuale rispetto a questa particolare esperienza. La IAL è uno strumento di misura messo a punto e sviluppato nel 1990 da un’equipe di ricercatori e docenti dell’Università degli Studi di Roma “La Sapienza” nel 1990, di cui la professoressa De Coro ha fatto parte. Nel corso della fase di progettazione dell’impianto metodologico da attribuire alla ricerca, è maturata anche la volontà di coinvolgere in qualche modo i genitori delle ragazze per contestualizzare i risultati delle IAL in un quadro di riferimento familiare. Per ottenere ciò è stato utilizzato il Parental Bonding Instrument (PBI) un questionario autosomministrato che ha lo scopo di registrare in che modo l’intervistato percepisce le proprie figure genitoriali. Una volta definiti i confini del progetto il sottoscritto si è messo in contatto con il prof. Cuzzolaro, responsabile del Servizio di Igiene Mentale del Dipartimento di Scienze Neurologiche e Psichiatriche dell’Età Evolutiva dell’Università degli Studi di Roma “La Sapienza”, il quale abilmente persuaso della bontà del progetto, mi ha introdotto all’interno dell’Ambulatorio per i Disturbi del Comportamento Alimentare diretto dalla Dott.ssa Piccolo, la quale mi ha pazientemente guidato lungo tutto il lungo periodo necessario alla raccolta dei dati. Sempre affiancando la Dott.ssa Piccolo durante i colloqui preliminari, ho avuto modo di fare la prima conoscenza delle ragazze a cui poi, in un’altra occasione, avrei dovuto somministrare la IAL. Durante l’intervista delle ragazze i genitori compilavano i PBI, che sono stati da me codificati, a differenza delle IAL invece codificate dalla Prof.ssa De Coro. II I risultati di questo lavoro sono presentati nella terza ed ultima parte dedicata alla ricerca mentre le prime due sono dedicate rispettivamente ai Disturbi del Comportamento Alimentare e alla Teoria dell’Attaccamento. Non era certo nelle intenzioni di questo elaborato fornire una esaustiva rassegna dei dati e delle acquisizioni connesse all’universo dei DCA, però si è cercato di offrire una panoramica globale dei segni clinici principali, così come delle diverse teorie che hanno tentato una interpretazione di questa dolorosa esperienza umana. La parte dedicata all’attaccamento comprende un omaggio ai fondatori Bowlby e Ainsworth, che per primi hanno tracciato il sentiero, e ad alcuni studiosi come Main, Bretherton, Cassidy, Hesse e Solomon che lo hanno approfondito e sviluppato. Al termine del mio lavoro desidero ringraziare sinceramente tutti coloro che hanno contribuito alla sua realizzazione. In primo luogo vorrei esprimere la mia riconoscenza alla prof.ssa Alessandra De Coro per il suo prezioso e puntuale aiuto, il supporto e la disponibilità dimostrata nei miei confronti e soprattutto per aver scelto di seguire il mio progetto superando le difficoltà della Cattedra nell’accettare nuovi tesisti. Vorrei poi ringraziare il prof. Cuzzolaro che mi ha consentito l’accesso al servizio da lui diretto e soprattutto la dott.ssa Piccolo che è stata per me una “base sicura” dalla quale ho imparato importanti elementi utili alla conduzione di un colloquio clinico. Colgo quest’occasione anche per esprimere la mia gratitudine alla dott.ssa Thouverai, dott.ssa Cottone, dott. Corbelli e dott.ssa Committeri per aver sopportato, nei lunghi e tormentati anni degli studi universitari, le albe e i tramonti del mio “attaccamento ambivalente”. In particolare va alla dott.ssa Committeri la mia più genuina e rispettosa gratitudine per aver reso possibile la realizzazione di questo lavoro, curando con affetto e professionalità l’elaborazione statistica. III INDICE PARTE PRIMA: Disturbi del Comportamento Alimentare CAPITOLO I ................................................................................................................................................... 3 DISTURBI ALIMENTARI: MODERNE CLASSIFICAZIONI DIAGNOSTICHE .................................................. 1 INTRODUZIONE ....................................................................................................................................................... 1 CLASSIFICAZIONE ATTUALE DELL’ANORESSIA NERVOSA ............................................................................... 2 BULIMIA NERVOSA .................................................................................................................................................. 3 DISTURBO DA ALIMENTAZIONE INCONTROLLATA ........................................................................................... 6 DISTURBI ALIMENTARI ATIPICI ............................................................................................................................ 7 UNO SGUARDO CLINICO SULLA STORIA DELLA SINDROME ......................................................................... 10 EPIDEMOLOGIA ..................................................................................................................................................... 11 ALCUNI RIFERIMENTI SEMIOLOGICI PER L’ANORESSIA NERVOSA ............................................................. 13 CAPITOLO II ................................................................................................................................................ 22 IPOTESI EZIOLOGICHE ........................................................................................................................................ 22 UNA PROSPETTIVA BIOPSICOSOCIALE ............................................................................................................. 22 FATTORI PREDISPONENTI INDIVIDUALI ........................................................................................................... 23 FATTORI PREDISPONENTI FAMILIARI ............................................................................................................... 29 FATTORI PREDISPONENTI SOCIO-CULTURALI ................................................................................................ 31 FATTORI SCATENANTI E PERPETUANTI ............................................................................................................ 32 DISORDINI ALIMENTARI DELL’INFANZIA ......................................................................................................... 34 PARTE SECONDA : La Teoria dell'Attaccamento CAPITOLO III .............................................................................................................................................. 36 LE ORIGINI ............................................................................................................................................................. 36 INTRODUZIONE ..................................................................................................................................................... 36 I FONDATORI .......................................................................................................................................................... 37 ETOLOGIA E CIBERNETICA .................................................................................................................................. 40 COMPORTAMENTO ISTINTIVO E SISTEMI COMPORTAMENTALI................................................................... 41 IL COMPORTAMENTO DI ATTACCAMENTO ...................................................................................................... 45 PULSIONE PRIMARIA O SECONDARIA ............................................................................................................... 48 CRONOLOGIA DELL’ATTACCAMENTO .............................................................................................................. 49 I MODELLI COMPORTAMENTALI DELL’ATTACCAMENTO ............................................................................. 51 SISTEMI DI RAPPRESENTAZIONE O MODELLI OPERATIVI INTERNI ............................................................. 53 CAPITOLO IV............................................................................................................................................... 55 GLI SVILUPPI ........................................................................................................................................................ 55 INTRODUZIONE ..................................................................................................................................................... 55 AD INTERIM ............................................................................................................................................................ 56 ATTACCAMENTO COME LEGAME AFFETTIVO ................................................................................................. 58 MODELLI DI ATTACCAMENTO E STRANGE SITUATION .................................................................................. 60 LE CONFIGURAZIONI DI ATTACCAMENTO VISTE DALL’INTERNO ............................................................... 62 VARIABILI CONNESSE CON GLI STILI DI ATTACCAMENTO ............................................................................ 63 NON C’E TRE SENZA QUATTRO ........................................................................................................................... 69 ATTACCAMENTO IN ETA’ ADULTA ..................................................................................................................... 72 TALIS MATER TALIS FILIUS .................................................................................................................................. 76 FUNZIONE RIFLESSIVA E MONITORAGGIO METACOGNITIVO ...................................................................... 79 CAPITOLO V ................................................................................................................................................ 84 ATTACCAMENTO ADOLESCENZA E PSICOPATOLOGIA .............................................................................. 84 INTRODUZIONE ..................................................................................................................................................... 84 ORIGINI DEL CONCETTO DI PATOLOGIA IN BOWLBY .................................................................................... 85 EVOLUZIONE DEL CONCETTO DI PATOLOGIA IN BOWLBY ........................................................................... 86 ATTACCAMENTO E PSICOPATOLOGIA OGGI ................................................................................................... 89 ADOLESCENZA SECONDO LA VISIONE PSICOANALITICA .............................................................................. 92 IV ADOLESCENZA E ATTACCAMENTO .................................................................................................................... 97 ATTACCAMENTO E DISTURBI DEL COMPORTAMENTO ALIMENTARE ....................................................... 100 ADULT ATTACHMENT INTERVIEW E I DISTURBI ALIMENTARI .................................................................... 104 PARENTAL BONDING INSTRUMENT E DISTURBI ALIMENTARI .................................................................... 107 ALTRE MISURE DELL’ATTACCAMENTO E DISTURBI ALIMENTARI ............................................................. 110 ATTACCAMENTO E DISTURBI ALIMENTARI: CONCLUSIONI ........................................................................ 113 PARTE TERZA: La Ricerca CAPITOLO VI............................................................................................................................................. 116 LA RICERCA ........................................................................................................................................................ 116 INTRODUZIONE ................................................................................................................................................... 116 METODO................................................................................................................................................................ 118 RISULTATI ............................................................................................................................................................. 126 DISCUSSIONE ....................................................................................................................................................... 147 BIBLIOGRAFIA ......................................................................................................................................... 153 V CAPITOLO I DISTURBI ALIMENTARI: MODERNE CLASSIFICAZIONI DIAGNOSTICHE INTRODUZIONE I Disturbi del Comportamento Alimentare (DCA) rappresentano un gruppo di sindromi patologiche che, secondo la definizione data dal Manuale Diagnostico Statistico dei Disturbi Mentali DSM-IV (Rapaport e Ismond, 1996) pubblicato nel 1994 dalla American Psychiatric Association, possiamo schematicamente raggruppare in tre aree: i due classici quadri clinici della Anoressia Nervosa (AN) e della Bulimia Nervosa (BN) e l’ampia ed eterogenea categoria dei Disturbi Atipici del Comportamento Alimentare, cioè quei disturbi che, pur essendo clinicamente significativi, non soddisfano i criteri diagnostici della AN e della BN così come descritte dal DSM-IV. Anoressia Nervosa e Bulimia Nervosa sono due disturbi della condotta alimentare che hanno in comune tra loro il fatto di essere diffusi prevalentemente tra giovani donne e il fatto di comportare un’estrema preoccupazione per il peso e l’aspetto fisico. Questa preoccupazione porta le persone colpite da un DCA a mettere in atto tutta una serie di strategie (digiuno, attività fisica eccessiva, abuso di diuretici e lassativi, vomito autoindotto ecc.) volte a limitare l’aumento del peso, anche in presenza di situazioni fisiologiche di grave denutrizione. Le definizioni e le classificazioni dei Disturbi del Comportamento Alimentare sono passati, nel corso della loro storia, attraverso varie fasi. Per quanto riguarda l’Anoressia Nervosa, soltanto in quest’ultimo secolo, è stata considerata dapprima una malattia organica a coinvolgimento ipofisario, poi una variante non specifica di molti disturbi psichiatrici, infine oggi è riconosciuta come una sindrome che ha una sua specifica entità ed individuali caratteristiche. Anche la Bulimia Nervosa ha attraversato varie vicissitudini, passando da sintomo episodico, corollario dell’anoressia, a sindrome specifica. 1 CLASSIFICAZIONE ATTUALE DELL’ANORESSIA NERVOSA Nel campo della classificazione dell’Anoressia Nervosa sono sempre esistite notevoli controversie. Alcuni studiosi hanno accentuato l’importanza degli aspetti psicologici, altri quelli socioculturali, altri ancora quelli biologici. Un punto fermo all’interno di questo dibattito è stato sicuramente raggiunto nel 1970, quando Gerard Russel propose una classificazione semplice ed esauriente che ha fortemente influenzato i criteri classificativi. Secondo quest’autore la diagnosi d’Anoressia Nervosa si compone di almeno tre fattori: 1) marcata perdita di peso corporeo; 2) profonda paura di diventare grassi; 3) amenorrea nelle femmine e perdita d’interesse sessuale nei maschi. La validità e la comprensibilità di questa classificazione è dimostrata dal fatto che la definizione di Anoressia Nervosa del DSM IV (Tab. 1.1) non si discosta troppo da quella di Russel. Come annunciato questa moderna classificazione ricorda a grandi linee quella originaria di Russel, però, oltre a proporre come nuovo criterio diagnostico l’alterazione dell’immagine corporea, presenta anche un’interessante specificazione tra due sottotipi di Anoressia, quella restrittiva e quella bulimico-purgativa. Successivamente molte ricerche hanno documentato significative differenze tra le ragazze anoressiche che periodicamente hanno abbuffate compulsive (tipo bulimicopurgativo) e quelle che restringono costantemente la loro alimentazione senza mai perdere il controllo (tipo restrittivo). Le anoressiche di tipo bulimico-purgativo prima dell’insorgenza della malattia hanno un peso corporeo più elevato e spesso hanno una storia d’obesità; nelle loro famiglie sono ricorrenti l’obesità e vari problemi psichiatrici, il più tipico dei quali è la depressione; usano più spesso lassativi e vomito autoindotto per controllare il peso corporeo; hanno elevati livelli d’impulsività, non solo nel comportamento alimentare, ma anche in altre aree; nella loro storia esiste un più elevato numero di tentativi di suicidio e spesso hanno un’organizzazione di personalità di tipo borderline, narcisista o antisociale (Marcelli Braconnier, 1999). 2 Tabella. 1.1 (Fonte: Rapaport e Ismond, 1996) Anoressia Nervosa: criteri diagnostici (DSM IV – Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders, 1994) A. Rifiuto di mantenere il peso corporeo al livello minimo considerato normale in rapporto all’età e alla statura o al di sopra di esso ( per es., perdita di peso che porta a mantenere il peso corporeo al di sotto dell’85% rispetto a quanto previsto oppure durante il periodo di crescita in altezza, mancanza dell’aumento di peso previsto, che porta a un peso corporeo inferiore all’85% di quell’atteso). B. Intensa paura di acquistare peso o di diventare grassi, anche quando si è sottopeso. C. Disturbi nel modo di sentire il peso e le forme del proprio corpo, influenza eccessiva del peso e delle forme del corpo sui livelli di autostima, o rifiuto di ammettere la gravità dell’attuale condizione di sottopeso. D. Nelle donne che hanno già avuto il menarca, amenorrea, cioè assenza di almeno 3 cicli mestruali consecutivi. (Si considera amenorroica una donna i cui cicli avvengono solo in seguito a somministrazione d’ormoni, per es., estrogeni). Specificare il sottotipo: RESTRITTIVO: durante l’episodio attuale di Anoressi Nervosa il soggetto non ha presentato regolarmente abbuffate o condotte di eliminazione (per es., vomito autoindotto, abuso di lassativi, diuretici o enteroclismi) BULIMICO PURGATIVO: durante l’episodio di Anoressia Nervosa il soggetto ha presentato regolarmente abbuffate o condotte di eliminazione (per es., vomito autoindotto, abuso di lassativi, diuretici o enteroclismi) BULIMIA NERVOSA Nel vocabolario medico-psichiatrico “bulimia” indica da molti secoli un sintomo. solo da pochi anni è anche una sindrome. La data di nascita del concetto di Bulimia Nervosa come entità nosografica autonoma può essere collocata nel 1979. A quell’anno risale infatti la pubblicazione di un articolo di Russel (Russell 1988) intitolato “Bulimia nervosa: an ominous variant of anorexia nervosa” dove venivano presentati trenta casi clinici, due 3 maschi e ventotto femmine, che rispondevano al doppio criterio di presentare crisi bulimiche e di soffrire di paura morbosa d’ingrassare. Russel, confrontando la Bulimia Nervosa con quella che chiama la “vera Anoressia Nervosa” (non complicata da crisi bulimiche), osserva che nella Bulimia Nervosa il peso corporeo è più elevato, è più frequente la presenza di cicli mestruali fertili, è più comune una vita sessuale attiva, è alta l’incidenza di crisi depressive con notevole rischio di suicidio. Conclude quindi che la Bulimia Nervosa è una pericolosa variante dell’Anoressia Nervosa con una prognosi più sfavorevole. Russel basa la sua descrizione di bulimia nervosa su tre punti fondamentali: 1) impulsi potenti e irresistibili a stramangiare; 2) uso di accorgimenti per evitare l’effetto ingrassante del cibo, in particolare vomito autoindotto e/o lassativi; 3) paura morbosa d’ingrassare. Come accaduto per l’Anoressia Nervosa vediamo che, anche in questo caso, la grande acutezza e precisione di Russel hanno ampiamente ispirato il DSM-IV, il quale, per la definizione della Bulimia Nervosa, presenta criteri diagnostici simili a quelli proposti dallo psichiatra inglese (Tabella 1.2). Quindi la bulimia intesa come il fatto di abbuffarsi e/o vomitare, è un quadro conosciuto fin dall’antichità, forse ancor prima dell’anoressia, mentre la Bulimia Nervosa come noi oggi la intendiamo, pare essere una patologia comparsa nosograficamente in tempi piuttosto recenti. Oggi la Bulimia Nervosa ha conquistato un proprio autonomo statuto psicopatologico e può essere diagnosticata in assenza di una pregressa diagnosi di Anoressia Nervosa. Questa differenziazione è confortata anche da sempre più crescenti contributi tendenti a testimoniare un diverso quadro psicodinamico di base delle due sindromi (Marcelli e Braconnier, 1999). Piccini (2000) sottolinea ulteriormente come le pazienti predisposte a una Bulimia Nervosa abbiano una struttura di personalità diversa da quella delle pazienti predisposte all’Anoressia Nervosa. Infatti mentre la potenziale anoressica appare caratterizzata da un tratto o da un disturbo di personalità di tipo ossessivo-compulsivo, la potenziale bulimica appare invece portatrice di un tratto di personalità di tipo impulsivo. Per ragioni di spazio e di pertinenza nel lavoro qui presentato alla Bulimia Nervosa non è concesso lo stesso spazio dedicato all’Anoressia Nervosa, ci sembra però doveroso spendere qualche parola in più per riconoscere alla bulimia lo spessore che merita. A questo proposito si intende proporre almeno un contributo riferito alla riflessione psicodinamica applicata a questo antico e complesso disturbo. 4 Tab. 1.2 (Fonte: Rapaport e Ismond, 1996) Bulimia nervosa: criteri diagnostici (DSM IV) A. Episodi ricorrenti di abbuffate. Un’abbuffata è definita tale dai due caratteri (entrambi necessari) qui elencati: 1) Mangiare in un periodo di tempo circoscritto (per es., due ore) una quantità di cibo che è significativamente maggiore di quello che la maggior parte delle persone mangerebbe nello stesso periodo di tempo in circostanze simili; 2) Sensazione di perdere il controllo durante l’episodio (per es., sensazione di non riuscire a smettere di mangiare o a controllare cosa e quanto si sta mangiando). B. Ricorrenti e inappropriate condotte compensatorie per prevenire l’aumento di peso, come vomito autoindotto, abuso di lassativi, diuretici o altri farmaci; digiuno o esercizio fisico eccessivo; C. Abbuffate e condotte compensatorie si verificano entrambe in media almeno due volte la settimana per la durata di tre mesi; D. La valutazione di sé è inappropriatamente influenzata dalle forme e dal peso del corpo; E. Il disturbo non si riscontra soltanto nel corso di episodi di Anoressia Nervosa. Specificare il sottotipo: PURGATIVO: nell’episodio attuale di Bulimia Nervosa il soggetto ha presentato regolarmente vomito autoindotto o uso inappropriato di lassativi, diuretici o enteroclismi NON PURGATIVO: nell’episodio attuale il soggetto usa altri comportamenti compensatori inappropriati, come il digiuno o l’esercizio fisico eccessivo, ma non ha l’abitudine di provocarsi il vomito né quella di usare in modo inadeguato lassativi o diuretici. In ambito psicoanalitico, i modelli teorici maggiormente accreditati, come quello del conflitto pulsione-difesa, quello delle relazioni oggettuali, la Psicologia del Sé e più recentemente anche la teoria dell’attaccamento si sono confrontati con l’universo dei DCA. Tra questi abbiamo selezionato il contributo di Cuzzolaro (1988), particolarmente attento 5 alla funzione intrapsichica di quella che l’autore chiama la “sequenza bulimica”: dietaorgia alimentare-distensione-rimorso. In questa prospettiva, tale sequenza e, in particolare, il passaggio crisi bulimica-vomito, risponde al compito di alleviare una tensione interna insopportabile. Infatti l’esperienza clinica conferma come il bisogno di stramangiare nasca come compenso piacevole ad una esperienza dolorosa, come ricerca di una gratificazione in seguito ad una frustrazione. In realtà secondo Cuzzolaro la crisi bulimica svolge una complessa funzione di “regolatore” delle tensioni interne, di qualsiasi origine e natura. Cuzzolaro inoltre attinge anche dal contributo di Balint (1952), il quale riconosce due modalità arcaiche di relazione oggettuale: atteggiamento ocnofilo e filobate. Il primo è caratterizzato da apertura e dipendenza, mentre il secondo da autosufficienza e superinvestimento delle abilità personali. La sequenza bulimica, può essere quindi letta secondo Cuzzolaro (1988) come una vertiginosa oscillazione da una posizione filobate (la dieta) ad una ocnofila (l’orgia alimentare, la ricerca dell’amore primario) ad una ancora filobate (il vomito, che ha la funzione di alleviare il malessere fisico e, di restituire una sensazione di dominio e di integrità del Sé minacciato dalla massiva regressione precedente). In conclusione, l’atto alimentare viene qui inteso come un regolatore di tensione, in grado di ristabilire l’idea di un controllo onnipotente dell’unico oggetto importante, anzi dell’unico esistente (il cibo), ogni qualvolta la realtà spiacevole smaschera l’impossibilità di dominare la vita e i suoi effetti. Anche il vomito ha una funzione di controllo poiché una volta finita l’abbuffata c’è qualche altra cosa che potrebbe sfuggire al controllo: il corpo (il suo peso, la sua forma) che invece non deve ingrassare, non deve cambiare. DISTURBO DA ALIMENTAZIONE INCONTROLLATA Recentemente è stata introdotta una nuova categoria diagnostica, che è tuttora sottoposta al vaglio del DSM-IV e quindi per il momento classificata tra i Disturbi del Comportamento Alimentare Atipici: il Disturbo da Alimentazione Incontrollata (Rapaport e Ismond, 1996). Questo tipo di disturbo è diagnosticabile in soggetti in sovrappeso, i quali si abbuffano con le stesse modalità e la stessa frequenza dei soggetti bulimici, ma che a differenza di questi, non fanno uso, di alcun mezzo di compenso, quali il vomito, i lassativi, i diuretici, le diete severe e l’eccessivo esercizio fisico, giungendo così a soffrire ben presto di obesità di grado variabile. Sostanzialmente i soggetti affetti da Binge Eating Disorder continuano 6 ad abbuffarsi senza mai cercare un modo per compensare la propria alimentazione eccessiva: questo spiega perché essi siano generalmente obesi, mentre quelli affetti da Bulimia Nervosa sono generalmente normopeso (Piccini, 2000). Le abbuffate avvengono con regolarità (con una frequenza di almeno due giorni alla settimana per un periodo di almeno sei mesi) e molto spesso in solitudine, il cibo viene consumato con grande voracità senza tenere conto del fatto di sentirsi già pieni oppure di non sentire affatto la sensazione fisica della fame. Subito dopo queste abbuffate i pazienti si sentono fortemente in colpa e si vergognano per quello che hanno fatto (Fairburn, 1994). Il BED è spesso associato ad una rilevante quota di comormilità psichiatrica; in particolare con Disturbi dell’Umore e Disturbi di Personalità di tipo Schizoide o Schizotipico (Marcelli e Braconnier, 1999). Non a caso un tempo questi pazienti venivano etichettati come “obesi egodistonici” o “obesi depressivi”, per distinguerli da quella quota di obesi definiti egosintonici che invece non sembravano presentare alcuna patologia psichiatrica significativa e in cui l’obesità appariva semplicemente legata a patologie di tipo metabolico (Piccini, 2000). Nella Tabella 1.3 possiamo apprezzare i criteri diagnostici necessari per individuare questo disturbo, secondo il DSM-IV. DISTURBI ALIMENTARI ATIPICI Oltre alla Anoressia Nervosa e Bulimia Nervosa, esiste un ampia ed eterogenea categoria di Disturbi del Comportamento Alimentare cosiddetti “atipici o “non altrimenti specificati” (DCA-NAS). In questa categoria diagnostica trovano posto tutti quei quadri clinici che si configurano sicuramente come patologici, ma che non soddisfano i criteri diagnostici necessari, oppure non sono abbastanza gravi, per essere inclusi in una delle due categorie diagnostiche maggiori. Ad esempio può configurarsi un DCA-NAS quando in un quadro clinico sono soddisfatti tutti i criteri per una diagnosi di Anoressia Nervosa ma, nonostante la paziente sia sottopeso, il peso non è inferiore all’85% del peso atteso e il BMI è superiore a 17,5 . Un altro esempio di DCA-NAS può essere il caso di una ragazza che presenta tutti i criteri diagnostici per l’Anoressia Nervosa, eccetto l’amenorrea. Ancora consideriamo DCA-NAS il caso di una ragazza che presenti tutti i criteri per la Bulimia Nervosa tranne per il fatto che la frequenza delle abbuffate è soltanto di una alla settimana. Nella Tabella 1.4 possiamo ritrovare le caratteristiche necessarie ad individuare un DCA-NAS, secondo la classificazione adottata dal DSM-IV. 7 Tab. 1.3 (Fonte: Rapaport e Ismond, 1996) Disturbo da Alimentazione Incontrollata (binge eating disorder): criteri diagnostici (DSM IV) A. Episodi ricorrenti di abbuffate. Un’abbuffata è definita dai due caratteri seguenti:(vedi tab. 1.2). B. Gli episodi di abbuffate sono associati ad almeno tre dei seguenti caratteri: 1) Mangiare molto più rapidamente del normale; 2) Mangiare sino ad avere una sensazione dolorosa di stomaco eccessivamente pieno; 3) Mangiare grandi quantità di cibo pur non sentendo fisicamente la fame; 4) Mangiare in solitudine a causa dell’imbarazzo per le quantità di cibo ingerite; 5) Provare disgusto di sé, depressione o intensa colpa dopo aver mangiato troppo: C. Le abbuffate suscitano sofferenza e disagio; D. Le abbuffate avvengono, in media, almeno due giorni la settimana per almeno sei mesi. E. Il disturbo non si riscontra soltanto nel corso d’Anoressia Nervosa o di Bulimia Nervosa. 8 Tab. 1.4 (Fonte: Rapaport e Ismond, 1996) Disturbi del comportamento alimentare non altrimenti specificati: criteri diagnostici. (DSM-IV) Disturbi del comportamento alimentare che non soddisfano i criteri per uno specifico disturbo del comportamento alimentare (Anoressia Nervosa o Bulimia nervosa). Esempi: 1. Per femmine, sono soddisfatti tutti i criteri per l’Anoressia Nervosa, ma il soggetto ha cicli mestruali regolari; 2. Sono soddisfatti tutti i criteri per l’Anoressia Nervosa, ma il peso, benché diminuito significativamente, rientra nell’area della normalità; 3. Sono soddisfatti tutti i criteri per la Bulimia Nervosa, ma abbuffate compulsive e utilizzo di mezzi di compenso impropri avvengono con frequenza inferiore a due volte la settimana o per un periodo inferiore ai tre mesi; 4. Un soggetto normopeso ha l’abitudine d’utilizzare comportamenti impropri di compenso dopo aver mangiato modeste quantità di cibo; 5. Un soggetto mastica e sputa ripetutamente, senza inghiottire, grandi quantità di cibo. 6. Disturbi d’abbuffate compulsive: episodio ricorrente d’abbuffate compulsive senza quei comportamenti impropri di compenso che sono caratteristici della Bulimia Nervosa. 9 UNO SGUARDO CLINICO SULLA STORIA DELLA SINDROME Alcuni studi recenti sull’Anoressia Nervosa pongono il problema se essa debba considerarsi una “malattia nuova”, cioè un fenomeno peculiare della società moderna, oppure un disturbo già conosciuto anche nei secoli passati (Brutti e Parlani, 1992). Scopo del presente paragrafo è quello di raccoglire i diversi contributi in grado di testimoniare tracce di comportamenti anoressici anche in epoche passate, mentre l’influenza socioculturale della moderna civiltà occidentale sull’insorgenza di questo disturbo, sarà vagliata al momento di prendere in considerazione i fattori predisponenti alla malattia. Nell’immaginario collettivo quanto viene designato con il termine “Anoressia” è un fenomeno proprio del XX secolo: una sorta di peculiare epidemia, endemica nella società del benessere, senza antecedenti di rilievo. In realtà, nella storia della medicina, possiamo riconoscere che la prima descrizione di un quadro anoressico risale al 1694 quando Richard Morton nel capitolo “De phthisi nervosa” nel suo trattato Phthisiologiae Liber Primus, indicò come consunzione della costituzione corporea una sindrome in cui l’appetito viene debilitato dal debole tono dello stomaco e l’assimilazione ritardata dallo stato ammalato del cervello (Morton, 1988). Dalle sue incisive note cliniche inoltre, emerge con chiarezza l’importanza che Morton attribuì all’amenorrea. Dovranno passare due secoli perché questi “stati di consunzione” tornino ad essere oggetto di attenzione da parte della medicina: a distanza di un anno, Lasègue nel 1873 in Francia e Gull nel 1874 in Inghilterra, compiono uno sforzo di specificazione nosografica della sindrome, che si è ormai imposta definitivamente all’attenzione della medicina, e che viene inizialmente denominata “Anorexia histerique” da Lasègue, che poi nel 1883 Huchard modificherà in “Anoressia mentale” (Brutti e Parlani, 1992). Al di là di questi diversi aggettivi però la rappresentazione successiva dell’Anoressia fu profondamente segnata dal suo significato etimologico (dal greco Anoreksia, che significa “non ho appetito”), che dette definitivamente al quadro, almeno fino alla metà del XX secolo, il carattere di sindrome da inappetenza. Raramente, infatti, nelle descrizioni relative alla sindrome, effettuate tra il 1873 e il 1950 viene riferita, rispetto alle anoressiche, la paura di ingrassare (Dalle Grave, 1996). Come abbiamo visto, attualmente, l’Anoressia Nervosa è considerata un disturbo con delle caratteristiche specifiche che la distinguono da altre patologie psichiatriche; ma non è stato sempre così, infatti, per molto tempo, è stata considerata variante o sintomo non specifico d’altre malattie. Tomas infatti nel 1909 affermò che l’Anoressia Nervosa non era 10 una singola malattia ma una sindrome comune a diversi stati come la paranoia, la malinconia, l’ipocondria, la mania e le neurosi (Ruggieri e Fabrizio, 1994) Per quanto riguarda la schizofrenia, il primo caso riscontrato in un soggetto anoressico risale al 1913 ed è stato descritto da Dubois (Dalle Grave, 1996); d’allora alcuni autori hanno creduto che l’Anoressia Nervosa fosse una variante della schizofrenia (Selvini Palazzoli, 1981). Tuttavia, sebbene alcune caratteristiche presenti nell’Anoressia Nervosa, quali il negativismo e l’isolamento sociale, si manifestino anche nella schizofrenia e sebbene in taluni casi il disturbo dell’immagine corporea possa raggiungere nelle anoressiche le dimensioni di un vero e proprio delirio, le caratteristiche fondamentali delle due patologie, negli affetti e nei problemi di pensiero, sono significativamente differenti (Segal, 1989). Sempre con l’intento di ritrovare tracce del disturbo anche in epoche remote, Bell (1987) esplora, analizzando pagine di diario, relazioni di confessori e testimonianze di contemporanei, le biografie di alcune sante, vissute nell’Italia centrale tra il XIII e il XVII secolo, tra le quali spiccano nomi di grande rilievo storico come quelli di S. Caterina da Siena, S. Chiara d’Assisi, S. Margherita da Cortona. Bell tende a dimostrare che il comportamento alimentare di queste sante era del tutto sovrapponibile a quello delle odierne anoressiche. L’autore, inoltre, rispetto al contesto, ci ricorda che esso dinanzi al comportamento alimentare delle sante esprimeva una duplice reazione: di idealizzazione della loro eroica capacità di resistere all’impulso della fame e, al contrario di dubbio e addirittura di sospetto. I confessori di tali sante, nella loro inquietante ricerca di indizi per capire se si trovavano di fronte ad un evento demoniaco da esorcizzare o ad una manifestazione del divino, sono presi a rappresentanti del dilemma che quell’anomalo comportamento veniva a creare. La tesi di Bell (1987) è dunque che anche le sante medievali erano anoressiche. EPIDEMOLOGIA Gli studi epidemiologici, fino ad ora eseguiti hanno dimostrato che la distribuzione dell’Anoressia Nervosa all’interno della popolazione non è casuale, ma che il gruppo più vulnerabile è rappresentato dalle giovani donne, infatti i maschi rappresentano solo il 510% dei soggetti affetti da questo disturbo (Piccini, 2000). 11 Il disturbo appare più frequentemente tra i 12 e i 25 anni, con un incremento tra i 14 e i 18 anni, anche se negli ultimi anni sono stati diagnosticati molti casi ad incidenza più tardiva, dopo i 20 - 30 anni (Bruch, 1978). L’Anoressia Nervosa è considerata da alcuni autori una sindrome legata alla cultura (culture – bond) e quindi presente in alcuni paesi e culture ed assente in altre. E’ ormai chiaro che il disturbo mostra una netta predominanza nei paesi industrializzati e sviluppati, soprattutto occidentali (Gordon, 1991). L’Anoressia Nervosa ha una frequenza ed una distribuzione abbastanza uniformi sul territorio italiano: va dal 0,36-0,4% nel Centro Nord allo 0,2-0,3% nel Centro Sud. Tale frequenza è andata costantemente aumentando negli ultimi dieci anni (Piccini, 2000). Anche la sua distribuzione appare omogenea a livello sociale: le classi agiate appaiono in fatti colpite con la stessa frequenza delle classi meno agiate. La Bulimia Nervosa, ha conosciuto negli ultimi dieci anni una crescita esponenziale, fino a raggiungere una incidenza nella popolazione italiana che si situa attualmente tra l’1% al Centro-Nord e l’1,7% al Centro-Sud, con criteri di distribuzione piuttosto omogenei sia per aree territoriali, sia per ceti sociali. Anche per la BN l’età di esordio si situa tra i 12 e i 25 anni con un picco di maggior frequenza tra i 17 e i 18 anni (Cuzzolaro, 1988). L’esatta incidenza del Binge Eating Disorder nella popolazione italiana non è ancora del tutto nota, ma sembra essere compresa tra il 20/30% dei pazienti che richiedono un trattamento per l’obesità. Questo quindi permetterebbe di stimare l’incidenza di BED variabile tra lo 0,7 e il 4% degli individui obesi (Dalle Grave, 1996). Cuzzolaro (1988) ha condotto a Roma una ricerca dalla quale sono emerse prevalenze dello 0,4 e dello 0,34%. La sua prevalenza nella popolazione generale degli individui obesi, sembra inoltre aumentare con il crescere del peso corporeo (ad esempio nei soggetti con obesità di grado elevato è presente in circa il 40% dei casi) (Piccini, 2000). Il BED insorge di solito tra i 20 e i 30 anni, spesso a seguito di una significativa perdita di peso ottenuta mediante una dieta drastica. Una patologia dunque non rara, anche se di difficile individuazione diagnostica rispetto alla Bulimia Nervosa, cui si sovrappone in parte dal punto di visto sintomatologico. 12 ALCUNI RIFERIMENTI SEMIOLOGICI PER L’ANORESSIA NERVOSA L’Anoressia Nervosa, considerata una volta una malattia rara e bizzarra, costituisce un problema molto grave che affligge attualmente in prevalenza i paesi occidentali o comunque industrializzati. Infatti l’Anoressia Nervosa in passato rarissima e quasi esclusiva delle classi sociali più elevate, è diventata un disturbo frequente anche in altri strati della popolazione. L’aumento di casi d’Anoressia Nervosa iniziata dopo la Seconda Guerra Mondiale, è divenuto molto più intenso negli anni ’70, ’80 e ’90. L’Anoressia Nervosa è considerata un Disturbo del Comportamento Alimentare, anche se questa definizione rischia d’oscurare il nucleo centrale del problema, che non consiste solo in un’alimentazione disturbata ma nell’eccessiva preoccupazione nei confronti del peso e delle forme corporee. Questa preoccupazione si esprime con due modalità che sono presto diventate dei segni patognomonici specifici di questa sindrome e che sono: la paura d’ingrassare e una costante ricerca della magrezza. Naturalmente oltre questo nucleo centrale, largamente accettato, sono presenti molti altri segni e sintomi cui è stata attribuita maggiore o minore importanza a seconda degli autori che li hanno descritti. A questo proposito è necessario sottolineare che nonostante questi punti fermi, la descrizione del quadro clinico dell’Anoressia Nervosa presenta delle difficoltà in quanto diventa difficile distinguere tra alcune caratteristiche del disturbo e gli effetti fisici e psicologici del digiuno e della denutrizione (Dalle Grave, 1996). Dopo questa premessa generale vediamo ora più in dettaglio gli elementi che possono aiutarci a comprendere e descrivere meglio questa complessa patologia. Paura d’ingrassare e ricerca della magrezza La preoccupazione nei riguardi del peso e delle forme corporee è considerata dalla maggioranza degli autori come il nucleo psicopatologico specifico dell’Anoressia Nervosa. Infatti, questa sindrome è stata alternativamente definita come “paura morbosa del grasso” oppure “inseguimento della magrezza” (Garfinkel e Garner et. al, 1983). Dopo aver individuato queste due modalità elettive d’espressione della preoccupazione inerente al peso e alle forme corporee, è interessante capire in che rapporto sono tra loro. La ricerca spasmodica della magrezza è presente soprattutto nelle prime fasi del disturbo, mentre poi è gradualmente sostituita dalla paura d’ingrassare. La paura d’ingrassare inoltre sottende e rende comprensibili la maggior parte degli aspetti dell’Anoressia Nervosa. In questa sindrome infatti, gli elementi dietetici restrittivi, 13 il vomito autoindotto, l’uso di lassativi o diuretici, la preoccupazione nei confronti del cibo, l’enorme sensibilità alle modificazioni del peso, il pesarsi frequentemente oppure non pesarsi affatto sono tutti fenomeni che scaturiscono dalla convinzione, comune a tutte le ragazze anoressiche, che il peso e la forma fisica siano d’estrema importanza per giudicare il proprio valore personale, ecco perché questi fattori vanno sempre tenuti sotto strettissimo controllo (Dalle Grave, 1996). Molto spesso una situazione di leggero sovrappeso può precedere l’insorgenza dell’Anoressia Nervosa, in quanto porta ad iniziare una dieta sotto la spinta dei genitori o del medico. L’obiettivo iniziale non è quasi mai quello di perdere molto peso ma solo qualche chilo; tuttavia quando il dimagrimento ha avuto inizio difficilmente si arresta. La paura d’ingrassare che subentra al desiderio di dimagrimento assume il completo controllo della situazione e l’alimentazione è ristretta sempre di più. Assumendo una prospettiva biopsicosociale (Swift et al 1986), indispensabile per affrontare una patologia così complessa, è possibile sottolineare che la paura d’ingrassare è accentuata dal fatto che, mentre il soggetto desidera raggiungere un certo peso, il suo corpo oppone resistenza a questo progetto: infatti quando un soggetto si sottopone, per qualsiasi motivo, ad una restrizione alimentare l’organismo mette in atto svariati meccanismi difensivi, tra cui un aumento della fame e della preoccupazione nei confronti dell’alimentazione. Questa pressione psicologica ad assumere cibo, in una ragazza che consideri il controllo del peso corporeo come il metro più importante per esprimere il suo valore, aumenta ancor più la paura di perdere il controllo e d’ingrassare (Moriconi et al. 1992). In questo modo si viene ad instaurare un circolo vizioso caratterizzato da: dieta severa – pressione biologica ad assumere cibo – paura d’ingrassare – dieta ancor più severa. In questo contesto il termine anoressia, con la sua accentuazione etimologica sulla mancanza di appetito, sembra perciò inadeguato a descrivere quello che accade, in quanto la maggior parte dei soggetti affetti da tale patologia soffre di una fame così intensa che per ridurla devono assumere farmaci anoressizzanti o grandi quantità di liquidi. A questa paura d’ingrassare e alla profonda restrizione dell’apporto alimentare, fa da contraltare nelle ragazze anoressiche un interesse nei confronti del cibo che si manifesta attraverso comportamenti tipici come la conoscenza delle calorie d’ogni alimento, il collezionare libri di cucina, cucinare per gli altri, etc. 14 Negazione della malattia e disturbo dell’immagine corporea Nelle fasi della malattia, nonostante la severa perdita di peso, quasi tutte le ragazze anoressiche negano la fame, la perdita di peso e la presenza di qualsivoglia problema, affermando di sentirsi bene e che non c’è nulla di cui preoccuparsi. A quest’atteggiamento s’associa assai frequentemente quello che sta diventando insieme alla paura d’ingrassare e al desiderio di dimagrire, una caratteristica importante dell’Anoressia Nervosa e cioè il disturbo dell’immagine corporea. Infatti molte ragazze con evidente emaciazione si vedono e si sentono normali, se non addirittura grasse in tutto il corpo o in alcune sue parti (Ruggieri e Fabrizio, 1994) Partendo da questo dato, negli ultimi anni, sono state messe a punto diverse metodologie per valutare la percezione dell’immagine corporea, ed il fenomeno è apparso molto complesso. Non in tutti i soggetti affetti da Anoressia è presente una distorsione dell’immagine corporea ed inoltre tale fenomeno non riguarda esclusivamente questa patologia. Probst et al. (1995)) hanno messo a punto una metodica che misura il grado di distorsione della percezione dell’immagine corporea, denominata videodistorsione. Il soggetto posa in bikini di fronte ad una videocamera collegata ad uno schermo ed agisce su una manopola attraverso la quale la sua immagine nello schermo può essere allargata o ristretta. Infine la paziente sottoposta al test deve stimare la misura di un oggetto ( solitamente un cerchio), perché si possa valutare s’esista o meno un deficit generale della percezione. Durante l’esperimento sono presentate tre richieste: 1. Modificare l’immagine sullo schermo fino al momento in cui rifletta quella reale; 2. Modificare l’immagine sullo schermo fino al punto in cui essa corrisponda a come la paziente desidera essere; 3. Modificare l’immagine fino al momento in cui essa corrisponda a come la paziente si sente. Questa ricerca ha in parte confermato le aspettative, poiché le immagini desiderate dai soggetti erano molto più magre del normale, ma d’altronde ha stupito verificare che le ragazze anoressiche, nella maggior parte dei casi, non sovrastimano il proprio corpo; molto spesso la valutazione percettiva delle proprie dimensioni corporee è simile a quella delle ragazze non affette da Anoressia Nervosa. 15 I dati di questi studi, in ultima analisi, evidenziano che il disturbo dell’immagine corporea è un fenomeno complesso in quanto esso non è presente in tutti i soggetti affetti da Anoressia Nervosa, ma solo in un sottogruppo, che ha però prognosi peggiori (Ventura et al. 1992). Abbuffate compulsive vomito e lassativi In un largo sottogruppo di ragazze affette da Anoressia Nervosa sono presenti dei comportamenti che diventano ormai sempre più tipici di questa sindrome: vomito autoindotto, abuso di lassativi e abbuffate compulsive (Garfinkel e Garner et al., 1983). Per abbuffate compulsive s’intende l’assunzione d’elevate quantità di cibo, accompagnate dalla sensazione di perdita del controllo. Durante questi episodi vengono ingeriti i cibi “proibiti” o ingrassanti, che sono solitamente evitati nelle fasi di restrizione perché considerati troppo calorici. Vengono solitamente preferiti cibi che non richiedono troppa preparazione per essere cucinati, né masticazione per essere assunti, in particolare dolci, gelati, pane, toast, cioccolata. L’entità di un episodio bulimico varia considerevolmente entro un range che va dalle 1000 alle 2000 calorie (Russell, 1988). Spesso non si tratta di abbuffate compulsive oggettive, bensì soggettive; il cibo ingerito non è oggettivamente molto rispetto al normale, ma è soltanto superiore a quanto il soggetto aveva previsto (Piccini, 2000). Tali episodi vengono vissuti in solitudine e seguono generalmente dei rituali stereotipati. Durante le abbuffate la maggior parte dei soggetti mangia velocemente, senza apprezzare il gusto del cibo. La durata dell’attacco bulimico è estremamente variabile, ma normalmente inferiore alle due ore. Dopo l’abbuffata compulsiva alcune ragazze restringono la loro alimentazione per molti giorni, mentre altre s’inducono il vomito oppure fanno uso di lassativi o diuretici, per prevenire l’incremento del peso. Alcuni soggetti iniziano ad assumere lassativi con l’idea irrazionale di ridurre il gonfiore addominale e prevenire l’assorbimento del cibo. Iperattività fisica Un’altra caratteristica, difficile da modificare e presente nella maggior parte delle ragazze anoressiche, ma non in tutte, è costituita dall’iperattività accompagnata dalla negazione della fatica. Tale comportamento non ha mai cessato di suscitare stupore e sconcerto, poiché esso, realizzato da ragazze notevolmente sottopeso, appare paradossale e 16 misterioso. La giovane anoressica, infatti, più è defedata e più sembra invasa da un sacro fuoco che la rende incessantemente attiva. L’obiettivo più lampante di quest’iperattività è bruciare calorie per evitare d’ingrassare. Normalmente l’attività fisica è praticata in solitudine, seguendo una regolare e rigida sequenza che ha delle caratteristiche ossessive. Se per qualsiasi motivo quest’allenamento non ha luogo, le ragazze anoressiche si sentono fortemente in colpa. Questi comportamenti costruiscono un credito verso il cibo, infatti ci si “guadagna” il diritto d’ingerire un certo quantitativo di calorie svolgendo un determinato numero d’esercizi; al contrario si deve pagare la colpa di aver mangiato qualcosa in più, eseguendo una quantità ancora maggiore d’allenamento. Un altro tipo di iperattività si esprime con una persistente irrequietezza che è tipica di quasi tutti gli individui fortemente emaciati, spesso associata a disturbi del sonno ed apparentemente non sottoposta a controllo cosciente (Dalle Grave, 1996). La scoperta delle endorfine che in certe situazioni di stress e sofferenza il nostro organismo secerne, e l’effetto anestetico ed euforizzante da esse prodotto (Reitano, 1995) illumina il risvolto biologico del fenomeno, senza però spiegarlo completamente. Amenorrea Il sintomo più caratteristico ed indicativo dell’Anoressia Nervosa è certamente l’amenorrea (scomparsa delle mestruazioni), al punto tale che la sua presenza è considerata necessaria per porre la diagnosi d’Anoressia Nervosa (Selvini Palazzoli, 1988). Essa dipende largamente, ma non completamente, dalla perdita di peso conseguente alla restrizione alimentare, anche se in un sottogruppo di soggetti (7% - 24%) compare prima della riduzione ponderale (Dalle Grave, 1996). L’amenorrea regredisce, nella maggior parte dei casi, con il recupero del peso, ma in un sottogruppo permane, nonostante esso sia stato totalmente riacquistato. Attualmente non è ancora chiaro se tale disfunzione sia conseguente soltanto alla malnutrizione oppure sia associata ad anomalie biologiche o stress emotivi. Recentemente alcuni studi di orientamento endocrinologico hanno rilevato che, anche quando l’amenorrea precede la perdita di peso corporeo, si verifica in un periodo più o meno lungo di restrizione dietetica associata a stress ambientali e talora ad iperattività fisica (Pelicci, 1987). A questo proposito Brutti e Parlani (1992), in antitesi con l’atteggiamento organicista espresso dagli studi di tipo endocrinologico, che attribuiscono l’amenorrea a generici “stress emotivi” sostengono che quando nell’Anoressia Nervosa si stabilisce il rapporto tra 17 diminuzione del peso corporeo e amenorrea, occorre tener presente che ciò vale precisamente all’interno del processo anoressico in atto, non tutti i dimagrimenti, difatti, provocano la sospensione del ciclo mestruale. Secondo gli autori la situazione è più complessa, in quanto ad esempio, nelle anoressiche l’aumento di peso conseguente ad una alimentazione forzata non provoca, automaticamente, la ricomparsa delle mestruazioni. Per contro queste possono riprendere anche prima che la ragazza abbia riacquistato il peso supposto compatibile con la ricomparsa del flusso mestruale. Nelle ragazze prepuberi l’amenorrea incide negativamente sullo sviluppo delle mammelle, nei maschi invece il corrispettivo dell’amenorrea è la perdita dell’interesse e della potenza sessuale. Isolamento euforia depressione Nella maggior parte dei casi le ragazze affette da Anoressia Nervosa, con il progredire della malattia riducono gradualmente le proprie attività e interessi, che rimangono circoscritte a campi quali l’attività fisica, la scuola e la dieta. Nelle ragazze anoressiche permane infatti, almeno nelle fasi iniziali, un grande impegno nello studio e nel tentativo di raggiungere brillanti risultati scolastici, parallelamente all’astensione assoluta dalle situazioni sociali che comportano l’assunzione di cibo. La maggior parte dei soggetti perde l’interesse negli amici già nelle prime fasi della dieta e questo può essere considerato, come sottolinea anche Hilde Bruch (1973), il più importante segno precoce di Anoressia Nervosa. Per quanto riguarda il tono dell’umore la situazione è molto variabile. Abbiamo infatti una prima fase, quando c’è la negazione del problema, in cui si può assistere alla comparsa di un vero e proprio stato d’euforia. In questa fase i soggetti si sentono bene, non avvertono stanchezza, si concentrano meglio, si sentono “leggeri”, il tono dell’umore è elevato (Kaplan et al. 1988). La ragione di quest’euforia da digiuno può essere spiegata anche in termini evoluzionistici, in quanto un soggetto che per qualsiasi motivo si trovi in una condizione di prolungata assenza di cibo, almeno nelle fasi iniziali, riceve un grosso vantaggio dal fatto d’avvertire meno dolore fisico, di non soffrire di stanchezza, di vedere e sentire meglio, perché ciò gli consente di trovare più facilmente qualcosa da mangiare e quindi di sopravvivere. Questo stato di benessere è purtroppo un’arma a doppio taglio, poiché è anche uno dei principali meccanismi di rinforzo di pratiche dietetiche restrittive: la ragazza 18 anoressica sente che attraverso la dieta e la perdita del peso può migliorare il tono dell’umore e aumentare la propria autostima (Moriconi et al. 1992). Con il progredire della malattia l’euforia cede il posto alla comparsa di sintomi di depressione come umore depresso, disperazione, senso di colpa, autosvalutazione, irritabilità, mancanza di concentrazione, disturbi del sonno. Spesso sono presenti anche idee suicidarie (Kaplan et al. 1988). Questa frequente comorbilità tra Anoressia e sintomi depressivi, ha suggerito la possibilità che i Disturbi del Comportamento Alimentare altro non siano che una forma di depressione. Questi sintomi depressivi però vanno considerati più come manifestazioni secondarie dal disturbo alimentare che non fattori causali. Tale affermazione trova conferma dalla comparsa di depressione anche in soggetti sottoposti a digiuno in condizioni sperimentali e soprattutto dal fatto che con l’aumento ponderale del peso si verifica, nella maggioranza dei casi, un netto miglioramento della sintomatologia depressiva (Dalle Grave, 1996) Ansia ossessioni compulsioni L’ansia è comunemente presente in soggetti affetti da Anoressia Nervosa e si manifesta soprattutto in presenza del cibo, infatti quest’ansia assume la forma di paura nei confronti di alcuni cibi, la preoccupazione per le situazioni sociali che implicano il mangiare, il timore che il proprio corpo venga osservato. Visto che quest’ansia si lega principalmente a tematiche alimentari questi sintomi non possono certamente essere considerati indicativi di un disturbo d’ansia indipendente primario. Anche qui, come nella depressione, la normalizzazione del peso corporeo determina un marcato miglioramento delle funzioni psicologiche e sociali, con un complessivo miglioramento della sintomatologia ansiosa (Dalle Grave, 1996). L’Anoressia Nervosa è frequentemente associata ad altri sintomi che hanno radici profonde nell’ansia, ed anzi ne rappresentano la trasformazione, ossia le ossessioni ed il loro equivalente comportamentale, le compulsioni. Le ossessioni sono pensieri, immagini, impulsi, sperimentati come intrusivi, che creano una marcata preoccupazione nel soggetto che li sperimenta. Nella maggior parte dei casi di Anoressia Nervosa le ossessioni hanno per oggetto il cibo e il corpo (conteggio delle calorie, preoccupazione per le forme del corpo, il peso, rimuginazioni riguardo al cibo) mentre in una minoranza dei casi riguardano altri temi generali comunemente presenti 19 nelle ossessioni (paura d’essere contaminati, di aver dimenticato il gas acceso, disporre oggetti in un preciso ordine, lavarsi continuamente le mani) (Andreas Thiel et al., 1995). C’è d’aggiungere che l’ossessione del cibo è stata osservata in quasi tutti i soggetti denutriti, indipendentemente dalla causa che li ha portati a dimagrire, e può quindi essere considerata un meccanismo difensivo normale in un soggetto a digiuno; essa aumenta insieme alla perdita del peso e diminuisce con il suo recupero (Dalle Grave, 1996). Tuttavia, in alcuni soggetti affetti da Anoressia Nervosa in particolare di tipo restrittivo, esiste anche un disturbo ossessivo-compulsivo che presenta tematiche non inerenti alla dieta, al cibo o all’immagine corporea; i più tipici fra di essi sono il continuare a pulire e a lavarsi, l’automutilazione, dubbi patologici (Halmi et al., 1991). Identità perfezionismo autostima Alcuni autori hanno evidenziato che nei soggetti, prima dell’insorgenza della malattia, esistono caratteristiche psicologiche abbastanza costanti come: elevato perfezionismo, alti livelli d’introversione, scarsa capacità di relazione sociale, bassa autostima (Piccini, 2000). I racconti più tipici descrivono le bambine pre-anoressiche come perfette, sempre ubbidienti e disponibili ad offrire il loro aiuto (Brusset, 1998). Con il progredire del disturbo si assiste ad un profondo mutamento della loro personalità: reagiscono ad ogni tentativo altrui di modificare il loro atteggiamento con rabbia, inganni e manipolazioni. Con lo sviluppo della malattia vengono poi totalmente assorbite dal processo patologico e diventano enormemente dipendenti dalla famiglia o dal terapeuta. Hilde Bruch (1973, 1978) ha collegato questa patologia ad uno schiacciante senso d’inefficacia e scarsa autostima. L’autrice sostiene che il desiderio di controllo del peso rifletterebbe un fortissimo impulso al controllo della sessualità e degli impulsi aggressivi. Tale senso d’inefficacia sarebbe legato ad altri due fattori principali: disturbo dell’immagine corporea e disturbo dell’elaborazione degli stimoli che originano dal corpo come fame, stanchezza, sazietà. Questo disconoscimento dei bisogni del corpo sarebbe legato alle prime esperienze difettose del lattante: egli avrebbe ricevuto da parte della propria madre risposte inadatte, caotiche, insufficienti o eccessive alle proprie diverse richieste. Questi errati apprendimenti non permetterebbero al lattante, al bambino e poi all’adolescente di riconoscere i bisogni del proprio corpo. Il bambino apprenderebbe a rispondere esclusivamente alle sensazioni e ai bisogni corporei della madre e non ai suoi, e ciò provocherebbe disturbi nella costruzione dell’identità fondamentale e dell’immagine 20 del corpo. L’incapacità d’integrare gli stimoli che concernono la fame e la sazietà e gli stati affettivi, spiegherebbe anche, secondo Bruch, l’assenza d’interesse per la sessualità. Una caratteristica spesso presente nelle ragazze affette da Anoressia Nervosa è la regolazione dell’autostima e del valore personale attraverso l’adesione a standard di apparenza e di prestazione (Dalle Grave, 1996). Il gran desiderio di auto-affermazione non sembra provenire da una genuina ricerca dell’autonomia, ma piuttosto dal desiderio dell’essere approvato dagli altri. La ricerca dell’identità personale è espressa attraverso una mimesi degli attuali modelli culturali. Questo spiegherebbe l’aumentata incidenza dei disturbi alimentari verificatasi negli ultimi anni nei paesi occidentali, dove la pressione sulle donne ad essere magre e a raggiungere il successo è aumentata in modo drammatico. Sessualità Con il progredire della denutrizione le ragazze anoressiche perdono del tutto l’interesse nella sessualità ed evitano qualsiasi possibile incontro con il sesso opposto. In queste ragazze c’è sempre un movimento di ritiro rispetto alle sollecitazioni che le trasformazioni corporee della pubertà e il cambiamento di statuto familiare e sociale dell’adolescenza comportano. Nel caso in cui abbiano esperienze sessuali, esse sono vissute senza provare il minimo piacere, accompagnate anzi da sentimenti d’ansia e senso di colpa. Sul piano di queste attività come sul piano delle fantasticherie, non c’è che poca implicazione affettiva e corporea. Si tratta piuttosto, sia di fare come gli altri in una ricerca conformista di una supposta normalità, sia di utilizzare gli altri a fini narcisistici (Brusset, 1998). La coincidenza dell’Anoressia Nervosa con l’adolescenza ha fatto considerare questa malattia come una sorta di nevrosi attuale in rapporto con la maturazione puberale. Infatti l’arrivo della pubertà, con la maturazione corporea e l’incremento degli impulsi sessuali, coglie un individuo fragile, profondamente minato nella sua autostima, che mette subito in atto meccanismi di difesa che vanno dalla razionalizzazione fino a meccanismi più arcaici come la scissione e l’identificazione proiettiva, che hanno lo scopo di dominare totalmente le fantasie e gli impulsi sessuali nascenti (Laufer, 1984). Infatti i desideri sessuali e il bisogno di un nuovo oggetto al di là di quelli infantili sono vissuti come minacciosi da un’autostima fragile, quale quella delle ragazze anoressiche che, negando la dipendenza da ogni investimento oggettuale, si collocano invece nella dipendenza dalle sensazioni, come quella della fame, permettendo che il conflitto legato alla dipendenza si sposti sulla fame (Blos, 1962). 21 CAPITOLO II IPOTESI EZIOLOGICHE UNA PROSPETTIVA BIOPSICOSOCIALE L’Anoressia Nervosa è un disturbo molto complesso, e questa complessità ha portato fin dalle prime descrizioni, alla nascita di un largo ventaglio di ipotesi che avevano lo scopo di trovare un fattore causale che spiegasse il disturbo. Nel corso del tempo, ciclicamente, si sono prese maggiormente in considerazione ipotesi psicologiche, biologiche o culturali. Le prime ad affermarsi all’inizio del XX secolo furono le ipotesi psicologiche proposte da alcuni medici come Charcot, Dubois, e Janet (Piccini, 2000). Non passò molto tempo, quando, nel 1914, la cattiva interpretazione di un decesso portò in auge l’ipotesi biologica. Il caso in questione riguardava una donna che, arrivata ad un’estrema cachessia e poi alla morte, sottoposta ad autopsia presentava un’atrofia del lobo anteriore dell’ipofisi. Negli anni ’30 si verificò un rilancio dell’origine psicogena dell’Anoressia Nervosa ad opera di medici come Ryle, Sheldon e Venables; ipotesi che venne ad assumere contorni più definiti negli anni ‘40, quando Berkman (1945) dimostrò definitivamente che l’emaciazione non era una caratteristica comune nell’insufficienza ipofisaria e che questa condizione poteva essere chiaramente distinta dall’Anoressia Nervosa. Nel momento in cui l’ipotesi psicologica iniziava a diffondersi e a raccogliere consensi negli ambienti scientifici, iniziarono a prosperare numerose teorie che, ispirate a concetti psicoanalitici, ipotizzavano cause esclusivamente psicologiche. Queste teorie influenzate dal pensiero freudiano avevano come chiave interpretativa il concetto di regressione allo stato orale. Negli anni ’60 le cause biologiche del disturbo, mai completamente abbandonate, suscitarono un rinnovato interesse. Il fatto che in alcune ragazze l’amenorrea si verificasse prima della perdita del peso corporeo, e che in altre si mantenesse anche dopo il recupero ponderale, portò molti autori a postulare che esistesse un’alterazione endocrina alla base del disturbo e che l’anomalia biologica risiedesse a livello dell’ipotalamo anteriore. Questa teoria non ha raccolto però prove convincenti che la supportino. 22 Giungendo agli anni ’70 troviamo il contributo della psichiatra americana Hilde Bruch (1973, 1978), che più di tutti influenzò la moderna concezione dell’Anoressia Nervosa. Quest’autrice propose un modello psicologico centrato sull’importanza che la profonda mancanza di autostima ha sull’Anoressia, e su come la malattia sia un tentativo per riempire questo gran vuoto attraverso il corpo, il cui controllo può ricostruire il sentimento d’auto-efficacia perduto. Questo rapido escursus delle principali ipotesi eziologiche riguardanti l’Anoressia e in particolare la ciclicità di alcune di esse tende a dimostrare che questa malattia è troppo complessa per essere ricondotta ad un singolo fattore causale. Di fatto la ricerca attuale si sta orientando verso ipotesi eziologiche di tipo multifattoriale. Secondo questa prospettiva la malattia costituirebbe l’esito finale della combinazione di tre fattori: 1)Fattori predisponenti: Individuali (biologici-psico-dinamici); Familiari; Socio-culturali. 2)Fattori scatenanti: Dieta. 3)Fattori perpetuanti: Rinforzi ambientali; Sintomi da digiuno. FATTORI PREDISPONENTI INDIVIDUALI Lo studio delle cause dell’Anoressia Nervosa ha evidenziato che nello sviluppo della patologia possono essere implicati numerosi fattori predisponenti. Affrontiamo ora i fattori predisponenti di tipo individuale che possiamo distinguere sommariamente in biologici e psicologici. Fattori biologici Da numerosi autori l’Anoressia Nervosa è stata considerata una patologia sostenuta da alterazioni biologiche. Ad indirizzare il pensiero scientifico in questa direzione sono state inizialmente le gravi alterazioni endocrine e le vistose alterazioni somatiche presenti in questi pazienti. Questa concezione si alimentò, come abbiamo accennato, anche a causa di un grossolano errore diagnostico. Essa fu confusa infatti con il “morbo di Simmonds” che 23 è una sindrome di panipopituarismo, cioè una grave insufficienza ipofisaria, in cui uno dei sintomi più evidenti è costituito dall’imponente dimagrimento (Ruggieri e Fabrizio, 1994). Tutto ciò orientò alla ricerca di cause endocrine nell’eziologia della malattia, mentre il ruolo degli aspetti psicologici venne ripreso solamente negli anni ’30. Le più recenti conoscenze circa il ruolo di controllo e di modulazione esercitato dal Sistema Nervoso Centrale sul Sistema Endocrino hanno consentito di comprendere come le alterazioni ormonali possano essere considerate conseguenze dell’alterata regolazione nervosa (Pinel, 1990). Quest’ultima a sua volta può essere strettamente collegata a più profonde alterazioni di natura psicologica (intrapsichica e relazionale) (Ruggieri e Fabrizio, 1994). Questo certo non significa che la prospettiva bio-medica di studio dell’Anoressia sia stata accantonata, anzi essa non ha mai smesso di fornire interessanti spunti allo studio di questo complesso fenomeno: Genetica: L’idea di un’origine genetica dell’Anoressia Nervosa è presente già dal 1800. Negli ultimi anni la ricerca sulla possibilità dell’origine genetica dell’Anoressia Nervosa ha utilizzato principalmente tre metodi: a) tasso di prevalenza della malattia nei familiari (Fairburn et al. 1999) b) concordanza della malattia nei gemelli monozigoti e in quelli eterozigoti (Bulik et al. 2000) c) studi di legame tra anoressia e altri disturbi psichiatrici (Crisp, 1970). I risultati di questi studi suggeriscono la possibilità di una componente genetica del disturbo, anche se non è ancora chiaro cosa venga trasmesso ereditariamente, se sia il disturbo specifico, alcuni tratti di personalità o una generale vulnerabilità alla sofferenza psicologica. Anomalie neuroendocrine e neurotrasmettoriali : Negli anni ’60 iniziò l’interesse per i neurotrasmettitori cerebrali nel controllo del comportamento alimentare quando alcuni ricercatori documentarono che delle microiniezioni di noradrenalina nell’ipotalamo ventromediale provocavano nel ratto sazio, un notevole aumento dell’assunzione di cibo, mediante l’attivazione dei recettori alfa-1-adrenergici. L’azione mostrava anche un certo grado di specificità in quanto altri neurotrasmettitori, come la serotonina e la dopamina, non provocavano nessun effetto nelle stesse condizioni, essendo invece più associati alla sensazione di sazietà (Moriconi et al. 1992). Evidenze recenti sembrano confermare l’ipotesi che il comportamento alimentare dipende dall’attività coordinata di vari circuiti cerebrali di cui le catecolamine (adrenalina, noradrenalina, dopamina) e la serotonina sono elementi essenziali (Pinel, 1990). Nelle ragazze molto denutrite si riscontrano numerose 24 alterazioni dei neurotrasmettitori cerebrali. I sistemi noradrenergico e adrenergico (stimolatori del senso della fame) sono ipofunzionanti nella fase acuta dell’AN. I sistemi dopaminergico e serotoninergico (regolatori della sazietà) sono anch’essi ipofunzionanti (Halmi et al. 1978). Si registra inoltre l’elevazione del neuropeptide y, della vasopressina e una riduzione dei livelli di beta-endorfina e ossitocina. Tutte queste alterazioni sono secondarie alla malnutrizione e alla perdita di peso corporeo e si normalizzano dopo il recupero ponderale. Questa normalizzazione dei valori neurotrasmettitoriali al ristabilirsi del peso sembra indicare che queste alterazioni biochimiche siano la conseguenza e non la causa del processo morboso (Ruggieri e Fabrizio, 1994) anche se recentemente Kaye et al. (1991) hanno collegato i sintomi anoressici ad un’anomalia intrinseca e primitiva dell’attività serotoninergica cerebrale, anomalia che potrebbe essere il tratto biologico predisponente al comportamento alimentare disturbato. Relativamente agli aspetti neuroendocrini del disturbo, si è visto che nelle anoressiche vi sono basse concentrazioni seriche di FSH e LH (ormone follicolo-stimolante ed ormone luteinizzante) che non crescono neanche in seguito all’azione di releasing factor ipotalamico (LRH). Inoltre vi sono bassi livelli di estrogeni che portano ad una riduzione del volume delle ovaie, ad una fibrosi dell’endometrio e all’atrofia della mucosa vaginale. (Dalle Grave, 1996). Fattori psicologici Modello Cognitivo-Comportamentale: le ragazze affette da Anoressia Nervosa hanno spesso valori, credenze e pensieri stereotipati e disfunzionali. Queste distorsioni possono avere un ruolo significativo sia nel predisporre che nel perpetuare il disturbo. Un esempio paradigmatico di queste idee disfunzionali è fornita da Liotti (1988) il quale descrive nei pazienti anoressici dei particolari schemi cognitivi interpersonali. Liotti parte dal dato di base che nella psicoterapia di persone affette da Disturbi Alimentari Psicogeni, DAP (categoria elaborata da Liotti allo scopo di unificare Anoressia, Bulimia e Obesità sotto un'unica etichetta) è molto frequente trovare uno stile comunicativo che mira a stabilire un rapporto cordiale e d’accettazione con lo psicoterapeuta, ma, contemporaneamente, mira a prevenire qualunque espressione diretta del mondo interiore, di pensieri, interessi o desideri profondi, sentimenti e memorie. Liotti vede in quest’atteggiamento l’espressione di particolari schemi cognitivi, relativi allo scambio interpersonale, che sembrano tipici dei soggetti anoressici. I tentativi di esperienze personali si incontrano con figure genitoriali invadenti o invischianti o presenti solo in 25 modo alterato. Riflettendo e proponendo ai propri figli immagini vaghe e indefinite, i genitori rendono difficile il processo di identificazione. L’attenzione del bambino rimarrà focalizzata su quello che gli altri pensano e provano, alla ricerca di conferme e giudizi esterni che sono, contemporaneamente, temuti e indispensabili. Come tutti gli schemi cognitivi, gli schemi interpersonali, sono strutture mentali astratte, costruite per generalizzazione e sintesi delle precedenti esperienze relazionali e comprendono la rappresentazione di sé e dell’altro. Nelle persone affette da disturbi alimentari è evidentemente operante uno schema interpersonale connesso ad una rappresentazione dell’altro come inaffidabile e minaccioso quando si tratta di confidargli i propri reali interessi, desideri e pensieri profondi. Parallelamente il Sé è rappresentato come particolarmente vulnerabile nell’incontro con altre persone significative. Secondo Guidano (1988) l’organizzazione cognitiva individuale che caratterizza i pazienti con un DAP si basa sull’ambiguità e l’indefinitezza che caratterizzano già i primi rapporti di reciprocità tra madre e bambino. Si tratta di un tipo di adattamento invischiante che ostacola l’emergere di un individuo autonomo. In tal modo si produce solo una demarcazione precaria tra il proprio senso di sé e le rappresentazioni interne dei genitori. I tentativi di esperienze personali, si incontrano anche secondo Guidano con figure genitoriali invadenti o invischianti. In tal modo si produrrà un Sé confuso e indistinto. Il non mangiare vuol dire controllare il proprio corpo e quindi dare un’illusione di padroneggiare la realtà producendo una falsa sicurezza ed una pseudo-autonomia (Guidano, 1988) Modello psicodinamico: forse più che modello psicodinamico di interpretazione dell’Anoressia Nervosa è più appropriato parlare di modelli psicodinamici. Infatti sotto il profilo teorico, gli psicoanalisti, all’interno del solco tracciato da Freud, oscillano tra il considerare l’Anoressia come un sintomo, scelto a copertura di una situazione nevrotica o psicotica sottostante (Freud, Abraham, Klein), e il considerarla una sindrome con una propria dignità nosografica (Bruch, Chiozza, Brusset). Inoltre, mentre alcuni autori scorgono nell’Anoressia una potente fissazione orale che impedisce al soggetto di accedere ad una sessualità adulta, altri insistono nel vedere nell’Anoressia un antagonismo radicale tra narcisismo e mondo oggettuale (Brusset, 1998). Freud ha ipotizzato una regressione allo stadio “narcisistico” o alla fase dell’”oralitàattiva”. Esperienze traumatiche, legate all’allattamento, potrebbero provocare una rimozione della libido, una fissazione alla fase pre-edipica dell’oralità e l’instaurarsi di un legame tra pulsione di morte e alimentazione. Nel periodo della pubertà e dell’adolescenza, 26 il riemergere della libido potrebbe di nuovo rendere attuali le pulsioni legate al trauma rimosso e portare a disturbi alimentari (Ruggieri e Fabrizio, 1994). Le intuizioni freudiane troveranno avallo e sostegno nei lavori di K. Abraham il cui contributo è legato all’approfondimento dello studio delle fasi pregenitali dello sviluppo libidico. Abraham definisce l’Anoressia uno stato malinconico-depressivo; approfondisce la relazione tra oralità e disturbo alimentare: in questi soggetti è proibita la soddisfazione dei desideri oro-cannibalici per cui essi rifiutano ostinatamente il cibo (Basile, 1992). Il contributo di M.Klein si inserisce nella scia degli studi di Abraham sulle fasi pregenitali della libido e sullo stabilirsi delle relazioni di oggetto. A suo avviso le prime difficoltà di alimentazione che si verificano nel neonato già nei primi giorni di vita sono da collegarsi all’angoscia persecutoria e alla pulsione di morte presente sin dalla nascita. Se a tutto ciò si aggiunge una carenza di sviluppo di relazioni oggettuali, si rafforzano i meccanismi schizo-paranoidi: le pulsioni distruttive e l’angoscia persecutoria diventano in questo caso predominanti (Segal, 1979). Dopo un breve accenno a come la prima psicoanalisi ha pensato l’Anoressia passiamo al contributo di alcuni esponenti della psicoanalisi moderna che hanno visto nell’Anoressia un quadro nosografico con i suoi precisi confini. Relativamente a quest’argomento è assolutamente illuminante il contributo di Bruch (1973, 1978) che considera i deficit dell’autonomia e dell’autostima come componenti centrali nello sviluppo dell’Anoressia Nervosa. La studiosa affermò ripetutamente che la malattia rappresenta da un lato il tentativo del soggetto di conquistare autoefficacia e rispetto da parte degli altri attraverso la magrezza, mentre dall’altro è legata alla gestione dei propri sentimenti d’incapacità, inefficacia e impotenza attraverso l’imposizione al proprio corpo di una severa autodisciplina. Il disturbo anoressico sarebbe quindi legato ad un sottostante deficit del Sé, dell’identità e dell’autonomia, in particolare in relazione al fatto che i genitori hanno sempre imposto la loro volontà alla figlia senza porre attenzione alle sue necessità e desideri: la futura ragazza anoressica è una bambina straordinariamente buona, che ottiene molti successi ed è fonte di gratificazione per i genitori; quando arriva a dover affrontare i problemi dell’adolescenza, diventa consapevole del proprio vuoto interiore provando un senso d’impotenza. La ragazza anoressica quindi, attraverso la magrezza e la perdita di peso corporeo, cerca disperatamente e dolorosamente di raggiungere un senso d’identità e autonomia che non gli è stato concesso di raggiungere in altri modi. 27 Interessante ci appare anche il contributo di Chiozza (1992), che mira ad individuare, pur nel rispetto di ogni percorso individuale, la “fantasia inconscia condivisa da tutte le situazioni anoressiche”. Secondo l’autore l’astinenza dal cibo, comune nelle ragazze anoressiche, è fondamentalmente collegata alla fantasia di base di svuotamento della propria forma corporea che, appunto, le anoressiche sempre perseguono. Questo svuotamento della propria forma corporea a sua volta nasconde un violento attacco “che la giovane opera nei confronti della realizzazione della sua forma che ella denigra e percepisce come repellente in una sorta di gioco bugiardo in cui, proprio in virtù della non realizzazione della forma, ella può mantenere intatta l’aspettativa idealizzata ma sempre differita della sua rivelazione” (Chiozza, 1992). Abuso sessuale: Recentemente la relazione tra Anoressia Nervosa e abusi sessuali ha subito una forte enfasi. Molti studi hanno dimostrato che le esperienze traumatiche. Ed in particolare gli abusi sessuali, sono presenti in eguale misura anche in altre patologie psichiatriche. Tali esperienze, quindi, sarebbero responsabili di una generale vulnerabilità alle malattie psichiatriche e non un fattore di rischio specifico per lo sviluppo dell’Anoressia Nervosa; tuttavia esse, interagendo con specifici fattori predisponenti (biologici, psicologici e sociali), possono giocare un ruolo importante nello sviluppo di un disturbo alimentare (Smolak e Murnen, 2002). 28 FATTORI PREDISPONENTI FAMILIARI Negl’ultimi decenni della psicologia clinica si sono sviluppate linee di pensiero che non pongono più l’accento sul singolo individuo, ma sulla relazione. Secondo quest’impostazione teorica la famiglia viene vista come un complesso sistema sociale, caratterizzato da una matrice di fattori interagenti, dai quali scaturirebbe come organizzazione emergente il disturbo alimentare. Alla luce della teoria sistemicorelazionale i comportamenti non sono più osservati solo in rapporto al soggetto che li produce, ma in rapporto alle relazioni dinamiche tra le diverse componenti di un grupposistema (Malagoli Togliatti e Telfner, 1991). La causalità viene vista come un processo circolare piuttosto che lineare, dove la famiglia non è considerata come la causa del disturbo, ma come il suo contesto. Da questo ambito culturale sono partite delle critiche alla Bruch ad opera di Minuchin (1978) proprio in riferimento al suo modo di interpretare, secondo una stretta causalità lineare e non circolare, la problematica dell’Anoressia Nervosa. Il problema dell’Anoressia comincia dunque ad essere esaminato nel contesto della famiglia, considerata come un sistema stabile in continuo interscambio con l’esterno, dove ogni comportamento, specialmente quello sintomatico, è al servizio di un meccanismo che regola la stabilità ed il cambiamento familiare, secondo processi dinamici di autoregolazione (Malagoli Togliatti e Cotugno, 1996). La maggior parte dei teorici sistemici hanno descritto la famiglia dell’anoressica come un nucleo estremamente chiuso, con confini intergenerazionali offuscati, in cui sono evitati conflitti e discussioni. Minuchin et al. (1978) affermano che certi tipi di organizzazione familiare sono strettamente collegati allo sviluppo ed al mantenimento di sindromi psicosomatiche e che, a loro volta, sono gli stessi sintomi del figlio psicosomatico a mantenere l’omeostasi familiare. Il sintomo diventa un modo di comunicare ed il suo significato dipende dal contesto comunicativo nel quale si manifesta e delle regole familiari. Secondo Minuchin et al. (1978) sarebbero presenti tre fattori principali: 1. 2. La ragazza ammalata è fisicamente vulnerabile; La famiglia ha quattro caratteristiche transazionali: invischiamento, iperprotettività, rigidità, scarsa soluzione dei conflitti; 3. La ragazza affetta da disturbo gioca un ruolo importante nella dinamica familiare d’evitamento dei conflitti. 29 La Selvini Palazzoli (1981) osserva come in queste famiglie ogni diversità viene azzerata mediante una costante opera di ridefinizione delle emozioni e dei desideri individuali che non vengono “negati” bensì “disconfermati”. Questa autrice parla infatti di “matrimonio a tre”, dove ogni membro della famiglia è come se fosse sposato con gli altri due componenti. Tutto ciò non permette alla figlia una vita autonoma. Poiché la ragazza occupa un posto centrale nei rapporti familiari, se il sistema è minacciato da un cambiamento (come può accadere ad esempio durante l’adolescenza) la figlia presenterà un comportamento disfunzionale visibile attraverso la comparsa di una particolare sintomatologia, che avrà lo scopo di segnalare il disagio, pur consentendo alla famiglia di mantenere inalterata la propria dinamica relazionale, in quanto la focalizzazione sulla sfera del cibo gli consentirà di evitare i conflitti che potrebbero scatenarsi dal confronto diretto su questioni sostanziali. La Selvini Palazzoli (1981) descrive inoltre le madri di queste ragazze; il quadro che emerge è quello di una donna insoddisfatta del marito, che si considera vittima di lui e della famiglia estesa. Una donna che molto spesso ha rinunciato alle proprie affermazioni personali per identificarsi con il ruolo di casalinga e di madre. L’accettazione del ruolo di brave mogli passive è però solo esteriore giacchè interiormente covano idee di ribellione ed abbandono che non vengono messe in atto solo per paura della disapprovazione sociale. Nei confronti poi della propria figlia femmina è estremamente intrusiva, ambivalente e dominante, in modo da impedire alla ragazza quella maturazione di esperienze cognitive ed emotive necessarie per una normale crescita. Il padre è solitamente passivo, assente, poco autorevole. Nei confronti della moglie si potrebbe definire come un “incassatore”, cioè buono, bravo, lavoratore, intelligente, è assolutamente incapace di mettere un freno ai comportamenti intrusivi della moglie. In conclusione va sottolineato che, nonostante la ricchezza del contributo sistemicorelazionale, vanno comunque evitati facili riduzionismi, come ad esempio l’ipotesi di una famiglia anoressogena, visto che alcune caratteristiche relazionali riscontrate in queste famiglie potrebbero non essere specifiche del disturbo. 30 FATTORI PREDISPONENTI SOCIO-CULTURALI L’ipotesi che i fattori socio-culturali possano svolgere un ruolo importante nel favorire lo sviluppo dei Disturbi del Comportamento Alimentare è suffragata dal fatto che questi ultimi sono poco frequenti nei Paesi non occidentali, e che l’aumento della loro incidenza coincide con maggiore pressione culturale verso la magrezza, cambiamento del ruolo sociale della donna, pregiudizi nei confronti dell’obesità. Gordon (1990), all’interno della sua analisi dello studio “anatomico” dell’Anoressia e Bulimia interpretate come epidemia sociale, suggerisce come i DCA possano essere considerati “disturbi etnici”. Alcuni criteri fondamentali per potere qualificare un disturbo etnico sono: - la maggiore frequenza, rispetto ad altri tipi di patologia psichica, nella cultura esaminata; - il rappresentare la tappa finale, comune, del disagio psichico; - l’inclusione di comportamenti che, in situazioni normali, vengono considerati altamente positivi; - il costituire un “modello di cattiva condotta” che dà la possibilità a chi lo attua di comportarsi in modo deviante ed irrazionale pur rimanendo nel socialmente accettabile; - il fondarsi su comportamenti accettabili, risultando pur tuttavia espressione di devianza, provocando nell’ambiente risposte ambivalenti; modalità che ne permette una certa notorietà all’interno della cultura di appartenenza; (Gordon, 1990) E’difficile stabilire esattamente il momento in cui la moda della magrezza si è affacciata alle società occidentali. Le ricerche che si sono cimentate in quest’impresa hanno basato le loro conclusioni su dati come: dimensioni del petto, della vita e dei fianchi delle modelle apparse su delle riviste di certi paesi in determinati periodi, oppure il peso corporeo delle partecipanti a varie edizioni di famosi concorsi di bellezza. In base a questi parametri, ricercatori come Silverstein et al. (1986) hanno stabilito che nel nostro secolo il mito della magrezza androgina è comparso a partire dagli anni ’50 fino agli anni ’80. Dalla seconda metà degli anni ’70 una nuova enfasi è stata posta su un tipo di forma fisica, che richiede alle donne occidentali di ricercare la costruzione di un corpo atletico (molto muscoloso e con pochissimo grasso) parallelamente alla ricerca di magrezza. Per quale motivo nella cultura occidentale è emerso in maniera così forte quest’ideale di magrezza? La risposta non è certo facile, né univoca. Alcuni sociologi ipotizzano che la pressione sociale verso la magrezza abbia potuto accentuarsi nei momenti storici in cui la donna ha compiuto significativi progressi nel 31 raggiungimento di una maggiore libertà politica e personale, come ad esempio il diritto al voto (Dalle Grave, 1996). Anche il movimento femminista ha cercato d’interpretare il fenomeno considerandolo invece come un momento di progresso e di liberazione delle donne. Il corpo femminile magro sostituirebbe quello formoso, materno, accogliente del passato, esprimendo quindi conquiste d’alto livello come l’indipendenza e l’autodeterminazione. Come già annunciato il fenomeno non è facilmente inquadrabile, ma nel tentativo di comprensione ricopre sicuramente uno spazio importante il cambiamento di ruolo sociale della donna. Secondo Gordon (1991) negli anni ’60 è avvenuto un mutamento nella società circa le aspettative sociali nei confronti delle donne che erano sollecitate verso il successo, l’indipendenza e la competitività. Tale modello entrava però in conflitto con quello tradizionale, per altri versi ancora presente, che vuole la donna sottomessa, brava moglie e madre. Quindi la “donna moderna” è spesso intrappolata in questo conflitto che gli crea angosce: mirare ad un ideale irraggiungibile di donna e fallire in questo tentativo. In questo contesto la dieta severa e le preoccupazioni nei confronti del corpo assumono il significato di risolvere il precedente conflitto, poiché se non riescono ad avere il controllo della propria vita, riusciranno almeno ad avere il controllo del proprio corpo. FATTORI SCATENANTI E PERPETUANTI Uno dei fattori scatenanti più rilevanti e frequenti dell’esordio dell’Anoressia Nervosa è sicuramente la dieta restrittiva. L’inizio della dieta può essere motivato da un leggero sovrappeso, oppure in alcuni casi da uno stato depressivo. Molte volte l’inizio della dieta è associato a momenti o situazioni problematiche tipiche dell’adolescenza, come lo sviluppo puberale oppure lasciare la famiglia per fare un viaggio da soli, o ancora l’inizio o l’interruzione di una relazione sentimentale (Garfinkel, Garner et al. 1983). Altri possibili frangenti negativi che possono associarsi all’inizio di una dieta sono: la morte di un familiare o un amico caro, una malattia (specialmente i traumi cranici), commenti spiacevoli ricevuti riguardo al proprio aspetto fisico. Naturalmente non tutti i soggetti che si sottopongono ad una dieta sviluppano in seguito l’Anoressia, e questo sta a dimostrare quanto sia importante l’interazione tra fattori scatenanti e un “terreno fertile”, formato dai fattori predisponenti, di varia natura, come quelli sopra elencati. Anche questa certezza deve essere sempre soppesata con prudenza, poiché non in tutti i soggetti che presentano gli elementi predisponenti che abbiamo visto, 32 la dieta rappresenta un elemento scatenante. In conclusione la prudenza è sempre consigliata davanti ad una patologia così complessa. Passiamo ora ad un aspetto dell’universo Anoressia che negli ultimi tempi sta attirando un grande interesse da parte degli operatori e dei ricercatori: i fattori perpetuanti (Cooper, 1995). Una volta innescato, il sintomo anoressico si autoperpetua attraverso una combinazione complessa di fattori che ora accenneremo. L’interesse sottolineato precedentemente circa le modalità di perpetuazione del sintomo, scaturiscono dalla necessità di capire perché alcuni soggetti sviluppino forme lievi di Anoressia Nervosa che regrediscono rapidamente, mentre altri assumono un andamento cronico e ingravescente, che può culminare con la morte. Attualmente esistono tre modelli per tentare un’interpretazione dei meccanismi di mantenimento del disturbo. Il modello cognitivo enfatizza soprattutto i fattori cognitivi e comportamentali che causano e mantengono il disturbo, e che sono individuabili nell’ossessionante pensiero d’essere magri. Quindi le distorsioni cognitive riguardo al peso e alle forme corporee non solo innescherebbero il disturbo, ma lo perpetuerebbero nel tempo (Garfinkel e Garner et al. 1983). Il modello sistemico suggerisce che i fattori più importanti per perpetuare la malattia siano invece gli eventi interpersonali e le dinamiche familiari, che molto spesso offrirebbero un rinforzo alle modalità alimentari disfunzionali del soggetto affetto (Selvini Palazzoli, 1981). Il modello biopsicosociale afferma che le complesse modificazioni biologiche e psicologiche secondarie al digiuno agirebbero nel perpetuare e cronicizzare l’Anoressia Nervosa. Vista la sua completezza e la sua fertilità, il modello biopsicosociale merita un approfondimento. Come abbiamo accennato, quest’approccio parte della considerazione di base che il digiuno, qualunque siano le cause, procura, se molto prolungato, delle importanti modificazioni psicologiche e biologiche, dimostrate ormai da molti studi (Hendren, 1983). Le principali modificazioni riguardano: atteggiamenti nei confronti del cibo (preoccupazione del cibo, collezione di ricette, incremento del consumo di tè, caffè, spezie); sfera emotiva e sociale (depressione, ansia, irritabilità e rabbia), sfera cognitiva (diminuita capacità di concentrazione, diminuita capacità di pensiero astratto), sfera corporea (disturbi del sonno, debolezza, disturbi gastrointestinali, ipotemia, diminuzione dell’interesse sessuale). Queste modificazioni scaturiscono da meccanismi biologici e 33 psicologici di difesa, messi in atto dall’organismo qualora sopraggiunga una severa restrizione dietetica. Tra i meccanismi biologici più conosciuti si annoverano: la riduzione del dispendio energetico e soprattutto uno straordinario aumento della fame. Il meccanismo principale di difesa contro il digiuno è la controregolazione, in cui, quando un soggetto perde momentaneamente il controllo e ingerisce una piccola quantità di cibo, successivamente tutto il controllo sarà perduto ed il soggetto mangerà fino al massimo della resistenza (Dalle Grave, 1996). Arrivati a questo punto il quadro è quasi completo; ora è necessario riservare uno spazio per inserire questi elementi appena esposti in un movimento dinamico, responsabile poi di quel circolo vizioso che porta all’autoperpetuazione dei comportamenti anoressici. Vediamo allora come un individuo, sotto la spinta dei fattori individuali, familiari e sociali già descritti, decida d’iniziare una dieta che, dopo una certa perdita di peso, scatenerà i meccanismi di difesa biologici e psicologici che aumentano nel soggetto il desiderio di assumere cibo. Sotto la spinta dell’accresciuta fame la ragazza anoressica vedrà riaffacciarsi le sue angosce circa il peso e le forme corporee che la porteranno a rafforzare ancora la restrizione alimentare (Swift et al. 1986). DISORDINI ALIMENTARI DELL’INFANZIA Seppure nell’immaginario collettivo i Disturbi del Comportamento Alimentare siano identificati con l’adolescenza, essi sono massicciamente presenti anche nella prima infanzia. Dobbiamo a Chatoor et al (1998) una precisa ricognizione e differenziazione dei diversi quadri di disturbi alimentari presenti nel bambino. Disturbo alimentare d’omeostasi. E’ un disturbo precoce, che tende a comparire nei primi mesi di vita e riguarda gli aspetti regolativi dell’alimentazione, soprattutto in termini di corrispondenza, ovvero di capacità della madre di sintonizzarsi con i segnali provenienti del figlio. Disturbo alimentare dell’attaccamento. Compare tra il secondo e il quarto-quinto mese di vita e riguarda il legame d’attaccamento, che in questa fase va a precostituirsi. Anoressia mentale. Questo quadro è stato riconosciuto recentemente dalla Chatoor che, dopo aver osservato una serie di bambini che avevano questo disturbo, lo mise in rapporto con il processo dì separazione-individuazione. L’autrice notò che esso tendeva ad 34 instaurarsi più tardivamente rispetto ai quadri precedentemente descritti, comparendo fra i sei mesi e i tre anni. Le caratteristiche cliniche di questo quadro consistono nel fatto che il bambino si rifiuta di mangiare, con un concomitante disturbo dell’accrescimento, nonostante la madre cerchi d’alimentare il figlio utilizzando diverse strategie, come ad esempio raccontando delle storie o insistendo con la forza. Il risultato finale è un’estremo stato di conflitto della relazione madre-bambino sia in ambito alimentare che relativamente agli aspetti dell’autonomia e dipendenza. 35 CAPITOLO III LE ORIGINI INTRODUZIONE Come tutti sanno Freud è il “padre” della Psicoanalisi, e come tutti i padri ha ricevuto molte critiche da quelli che sono stati i suoi “figli”, cioè gli altri teorici che dopo di lui, si sono cimentati con le tematiche più importanti della disciplina fondata dal geniale neurologo austriaco. Gli scontri teorici più cruenti, ma anche più fertili, hanno riguardato l’importanza da assegnare alle pulsioni istintuali o in alternativa alle relazioni interpersonali, nella struttura, sviluppo e dinamica della personalità. Freud, infatti, aveva costruito una psicologia monopersonale dove l’altro era il possibile strumento per scaricare la tensione istintuale. Successivamente, molti autori postfreudiani hanno messo in discussione, più o meno apertamente, la centralità delle pulsioni per affermare una visione psicologica più propriamente relazionale cercando progressivamente di elaborare una teoria bipersonale (Fairbairn, Klein, Winnicott, Jacobson, Mahler, Kernberg, Kohut). Nelle recenti teorie psicoanalitiche il bisogno dell’oggetto è primario e non subalterno al soddisfacimento pulsionale, ad esempio Kohut (1984) sostiene che lo sviluppo maturativo del Sé avviene solo in presenza di una alterità empaticamente convalidante, poiché il rapporto empatico è la conditio sine qua non della maturazione psicologica. Nel corso di questa lunga e sofferta metamorfosi che ha segnato, usando le parole di Greenberg e Mitchell (1983), lo spostamento da un modello strutturale delle pulsioni ad un modello strutturale delle relazioni, ha ricoperto un ruolo fondamentale proprio il contributo di John Bowlby. Infatti, la teoria dell’attaccamento di cui Bowlby è il principale, anche se non unico fondatore, inserendosi nell’ottica sistemica, etologica ed evoluzionistica, propone un nuovo modello di sviluppo normale e patologico in grado di fornire indicazioni generali su come la personalità di un individuo inizi ad organizzarsi fin dai primi anni di vita. Secondo questo autore nella specie umana, così come in altre specie animali, è attivo 36 il sistema comportamentale di attaccamento del bambino nei confronti della madre, costituendo un prerequisito per la sopravvivenza, come anche un’impronta importante per tutti i successivi rapporti umani. I FONDATORI La teoria dell’attaccamento nella sua forma attuale è il frutto del lavoro congiunto di John Bowlby e Mary Ainsworth. Bowlby ha formulato le linee di base della teoria utilizzando contributi teorici di discipline come l’etologia, la cibernetica e la psicoanalisi. Il risultato è stato un modo nuovo di concettualizzare il legame madre-bambino, come anche l’eziopatogenesi di molti disturbi psicologici e psichiatrici. Mary Ainsworth non solo ha messo a punto dei dispositivi sperimentali per operazionalizzare i concetti di base della teoria proposta da Bowlby, ma ha anche contribuito ad ampliare la teoria stessa: i suoi contributi di maggiore importanza, riguardano la spiegazione delle differenze individuali nei modelli di attaccamento, come anche il concetto del caregiver come base sicura. Non è scopo di questo lavoro tracciare un profilo biografico fedele di questi importanti teorici, è però utile ricordare come l’interesse di Bowlby verso le fasi precoci dello sviluppo infantile risale già al periodo dei suoi studi universitari, quando inizia ad avvicinarsi a quella che più tardi sarebbe stata conosciuta come psicologia dello sviluppo. Dopo la laurea in medicina nel 1933 inizia a maturare la volontà di diventare uno psichiatra infantile, proposito che inizia a realizzare entrando come tirocinante alla Child Guidance Clinic di Londra, una piccola istituzione residenziale per l’infanzia informata da criteri psicoanalitici. Da questa esperienza scaturiranno due articoli: “The influence of early environment in the development of neurosis and neurotic character”[L’influenza dell’ambiente nello sviluppo delle nevrosi e del carattere nevrotico] (1940) e “Forty-four juvenile thieves: their characters and home life”[Quarantaquattro ladri minorenni: loro caratteri e vita familiare] (1944). In questi articoli Bowlby già matura alcune delle convinzioni destinate a formare il nucleo centrale della sua futura teoria, come ad esempio il ruolo dell’ambiente nell’eziologia delle difficoltà psicologiche oppure la trasmissione transgenerazionale della nevrosi. Bowlby avvertiva già la forte sensazione che la psicoanalisi sottolineasse eccessivamente il mondo fantasmatico del bambino e riducesse oltremodo il peso degli eventi reali. 37 Finita la guerra, Bowlby entrò alla Tavistock Clinic e lì formò un gruppo di lavoro di cui facevano parte oltre che James Robertson e Mary Boston, anche Mary Ainsworth, la quale da poco in Inghilterra aveva appena risposto ad un annuncio per un posto alla Tavistock Clinic. Il risultato di questa collaborazione fu il famoso film “A Two-years-old Goes to Hospital”[Un bambino di due anni va all’ospedale] (Robertson, 1952), che mostrava l’intensa angoscia di una bambina separata da sua madre. Gli interessi di ricerca di Bowlby e i suoi articoli che già popolavano le riviste specializzate, non lasciarono dubbi quando si trattò di scegliere chi fosse il più adatto per preparare un rapporto, commissionato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, sulla salute mentale dei bambini abbandonati. Il risultato di un periodo di ricerche e viaggi di studio fu Maternal Care and Mental Health [Cure materne e salute mentale] (1951) dove l’autore espresse con forza un concetto che condivideva con tutti gli studiosi da lui interpellati, e cioè che è fondamentale per la salute mentale e l’armonioso sviluppo della personalità del bambino, che esso sperimenti :”un rapporto caldo, intimo e ininterrotto con la madre nel quale entrambi possano trovare soddisfazione e godimento.’’ (Bowlby,1951). A questo punto della sua carriera professionale Bowlby ha accumulato come clinico e come ricercatore, una messe di dati osservativi che avevano come denominatore comune qualcosa che attirò subito la sua attenzione, ovvero che i bambini che si trovavano a vivere esperienze di separazione o perdita della madre, soprattutto se a queste seguivano lunghi soggiorni in istituzioni ospedaliere o residenziali che non garantivano la possibilità di un rapporto stabile con un sostituto materno, non solo venivano colpiti da un evidente stato di profondo disagio, ma crescevano meno bene degli altri bambini, potendo essere seriamente colpiti nel loro sviluppo fisico, intellettuale, emozionale e sociale. Inoltre passando in rassegna la letteratura sull’argomento, a partire dal seminale lavoro svolto da Dorothy Burlingham e Anna Freud (1942) nelle Hampstead Nurseries, fino ad arrivare alle più recenti ricerche condotte da Heinicke e Westheimer (1966); e basandosi inoltre sui dati raccolti dal suo assistente James Robertson, Bowlby notò una curiosa costante che attraversava tutti gli studi. Tali ricerche variavano sotto molti aspetti, ma i dati emersi mostravano una notevole uniformità rispetto al fatto che bambini di oltre sei mesi, ma soprattutto tra i quindici e i trenta mesi, tendono a reagire con alcune modalità tipiche alla separazione dalla madre. I bambini infatti, all’inizio apparivano in preda ad un grave disagio per aver perso la madre e cercano di riaverla, sfruttando appieno le loro risorse, infatti piangevano e si agitavano rifiutando i tentativi degli operatori di distrarli. Successivamente sembrava 38 subentrare la rassegnazione e l’apatia, pur avendo ancora interesse verso la madre lontana i bambini sembravano aver perso la speranza di rivederla; si isolavano quindi dai loro coetanei, giocando e mangiando molto poco. Infine sembravano riprendersi da questo stato e diventare ancora una volta attivi. Il bambino in questa fase non rifiuta più le assistenti, accetta le cure, il cibo, i giocattoli e può anche sorridere ed essere sociale; è anche per questo che tali comportamenti vengono molto spesso erroneamente accolti come un segno di recupero. Bowlby (1969/1982), chiamò queste tre fasi protesta, disperazione e distacco. Reazioni di protesta, però, riemergevano anche quando questi bambini venivano riuniti ai loro genitori, che divenivano oggetto di un miscuglio di rifiuto, aggressioni adirate e abbracci stretti e prolungati nei giorni successivi. Dopo un certo tempo, però, il bambino inaspettatamente non saluta il ritorno della madre con calore e gioia, ma con distacco e freddezza, anzi spesso addirittura sembra a malapena riconoscerla; sembra che abbia perso ogni interesse per lei. Se la permanenza in ospedale o nel nido residenziale si prolunga nel tempo e se, come spesso accade il bambino rivive frequentemente il trauma iniziale dell’abbandono materno attraverso le assistenti che si avvicinano a lui temporaneamente, per poi riallontanarsi, non permettendo quindi al bambino di sviluppare un attaccamento stabile, egli darà presto l’impressione che né le cure materne, né il contatto con altri esseri umani abbiano più grande significato per lui. A questo punto Bowlby sottolinea anche che le sopra menzionate reazioni alla separazione possono essere mitigate da alcune variabili come ad esempio la presenza di un sostituto materno stabile, la familiarità dell’ambiente, la durata della separazione. Questi dati empirici portarono Bowlby alla convinzione che la perdita della figura materna, da sola o in concomitanza con altri fattori collaterali, possa condurre a reazioni di grande interesse per la psicopatologia. Mosso da questa consapevolezza, Bowlby avvertì la necessità di spiegare quello che aveva constatato, gettando luce sui processi che erano alla base dei comportamenti osservati nelle situazioni di separazione e deprivazione. Nel mettere in pratica i suoi intenti Bowlby, forse inconsapevolmente, valicò un confine invisibile che lo portò a rivoluzionare completamente il modo di guardare lo sviluppo infantile e il rapporto madre-bambino, valendogli anche l’etichetta di eretico da parte degli ambienti psicoanalitici inglesi, consapevoli che percorrere fino in fondo il sentiero tracciato da Bowlby avrebbe significato stravolgere i tratti somatici caratteristici della disciplina creata da Freud. Il risultato editoriale di questo imponente sforzo euristico, fu la pubblicazione, negli anni dal 1964 al 1979 della monumentale opera Attaccamento e 39 Perdita in tre volumi, Attaccamento (1969), Separazione (1973) e Perdita (1980), in cui Bowlby presenta la sua teoria dell’attaccamento includendo anche degli ultimi dati messi a disposizione da Ainsworth sui suoi studi effettuati in Uganda (1967) e a Baltimora (1969). Perché un bambino è così sconvolto dalla perdita della madre? Perché dopo il ritorno a casa sviluppa una grande paura di perderla di nuovo? Quali processi psicologici spiegano il suo turbamento e il fenomeno del distacco? Qual è dunque la natura del legame madrebambino? La teoria dell’attaccamento nasce come risposta a queste domande. ETOLOGIA E CIBERNETICA Bowlby (1969/1982) inizia l’esposizione della sua teoria sottolineando le differenze che la distinguono da quella di Sigmund Freud, senza volere tra l’altro prendere le distanze da quest’ultimo, ma sottolineando anzi che i punti di vista adottati nello studio dell’attaccamento erano già presenti in nuce negli scritti di Freud e sono stati da lui amplificati e sviluppati. Per punti di vista, Bowlby intendeva le caratteristiche sostanziali della sua impostazione, che si possono rapidamente sintetizzare in : l’impostazione in senso prospettico, la focalizzazione su un’esperienza patogena e sulle sue conseguenze, l’osservazione diretta dei bambini piccoli, l’uso di dati attinti dal mondo animale. In poche parole Bowlby studia il bambino reale tramite l’osservazione diretta, e non il bambino ricostruito tramite il lavoro analitico. Inoltre mentre l’approccio psicoanalitico classico, partiva da un sindrome o da un sintomo riscontrati nella clinica formulando ipotesi ed inferenze sulle possibili cause, secondo questa nuova prospettiva si parte da una classe di eventi (la perdita della figura materna dai sei mesi ai sei anni) per poi delineare i processi psicologici e psicopatologici che ne possono derivare. Infine l’approccio di Bowlby si distingue da quello classico anche perché attinge abbondantemente dall’etologia, utilizzando l’osservazione del comportamento di membri di altre specie relativamente alle situazioni di presenza e assenza della madre. Infatti Bowlby afferma che pur essendo possibile che nessuna idea derivante dallo studio degli animali, abbia qualche valore per lo studio dell’essere umano, questo è altamente improbabile. Nei campi dell’alimentazione dei piccoli, della riproduzione, del comportamento aggressivo l’uomo condivide importanti caratteristiche anatomiche, fisiologiche e comportamentali con gli altri mammiferi. Non solo, ma l’uomo non detiene neanche il monopolio del malessere, perché tra gli animali si verificano diversi tipi di patologia comportamentale e questo ha portato Bowlby ad ipotizzare che almeno alcune tendenze nevrotiche o deviazioni della personalità possano 40 essere il frutto di disturbi evolutivi precoci di certi processi bio-psicologici che l’uomo condivide con gli animali. Certo già in questo modo l’impostazione con cui Bowlby affronta lo sviluppo umano e la patologia è piuttosto eversiva rispetto al modello psicoanalitico classico, ma la vera rivoluzione avviene con la modifica della teoria della motivazione, aggredendo quindi alla base una delle fondamenta dell’edificio metapsicologico. Nel modello di funzionamento mentale, che i contributi dell’etologia e della cibernetica avevano aiutato Bowlby a costruire, non c’era più posto per una concezione di apparato psichico che descrive il comportamento come il prodotto di un’ipotetica energia psichica in cerca di scarica che lo psichiatra inglese considerava ormai come l’ingombrante retaggio del clima scientifico tardo ottocentesco. Così come Freud attinse il suo concetto di energia psichica dalla fisica dell’epoca, e cioè dalla termodinamica e dalla meccanica dei fluidi, analogamente la nuova teoria dell’istinto di Bowlby riflette il clima scientifico attuale. Egli fu infatti suggestionato da analisti inglesi come Klein, Balint, Winnicott e Fairbairn che diedero forte impulso all’affermazione della teoria delle relazioni oggettuali, come anche dalla biologia moderna che considerava gli organismi viventi come dei sistemi aperti e non chiusi, assegnando molta importanza non solo al concetto di energia ma anche a quelli di organizzazione e informazione. Quindi la sintesi ragionata di tutti questi contributi portarono Bowlby ad elaborare un modello di comportamento istintivo dove al posto dei concetti di energia psichica e della sua scarica, subentrano concetti come sistemi comportamentali e loro controllo, feedback nagativo ed omeostasi. Il comportamento in questa prospettiva viene considerato non come la scarica di tensioni interne, quanto l'espressione di piani esecutivi che a seconda della specie sono più o meno flessibili. L’esecuzione dei suddetti piani viene stimolato da particolari informazioni interne o esterne, cosi come la sua cessazione. Le informazioni che orientano e fanno cessare un comportamento hanno origine dai risultati dell’azione intrapresa. COMPORTAMENTO ISTINTIVO E SISTEMI COMPORTAMENTALI In etologia, all’interno di una prospettiva evoluzionistica, si parla di comportamenti istintivi innati o ereditari, facendo riferimento a quei comportamenti sistematicamente riscontrabili in quasi tutti i membri di una stessa specie, che svolgono una parte così importante nella sopravvivenza e conservazione dell’individuo e della specie, i quali non sarebbero tanto frutto dell’apprendimento quanto della selezione naturale, o per meglio 41 dire, sono proposti dalla natura e perfezionati dallo sviluppo. Tra questi gli etologi riconoscono comportamenti quali procurarsi il cibo, evitare i pericoli, riprodursi, accudire i propri piccoli e molti altri. Bowlby sostiene che anche il comportamento di attaccamento faccia parte di tali sistemi innati. In accordo con l’etologo Robert Hinde (Hinde e Stevenson-Hinde, 1991) egli ritiene che ogni carattere biologico sia il prodotto dell’interazione tra patrimonio genetico e ambiente; inoltre invece di continuare sterilmente a tentare di capire quali comportamenti siano innati e quali acquisiti questi autori distinguono i caratteri biologici diversificandoli in una scala che va da caratteri ambientalmente stabili, scarsamente influenzati da variazioni ambientali, a caratteri ambientalmente labili, invece molto influenzati da tali variazioni. I caratteri definiti innati e tra questi i comportamenti istintivi appartengono all’estremo più stabile della scala e si mantengono stabili finchè l’ambiente in cui l’individuo o l’animale vive non si discosta da quello in cui la specie ha vissuto o vive normalmente. Bowlby, assorbita la lezione darwiniana, comprese che più attentamente si studia una specie, tanto più appare chiaro come la sua struttura anatomica, fisiologica e comportamentale sia adattata in modo sorprendentemente preciso a quel dato ambiente, che Bowlby (1969/1982) chiama ambiente di adattamento evolutivo, in modo tale da assicurarne la sopravvivenza. La struttura biologica quindi non è comprensibile se non la si considera in termini di sopravvivenza all’interno di un determinato ambiente e di conseguenza lo scopo finale di tutti i tratti biologici, anche quelli comportamentali, è quello di ottenere la sopravvivenza della specie e cioè la possibilità di trasmettere, con maggiore probabilità, alla generazione successiva, il proprio patrimonio genetico. Anche se una impostazione di questo tipo è già da molto tempo applicata alla dotazione morfologica e fisiologica degli animali, solo in tempi recenti la si è applicata anche alla dotazione comportamentale, e questo secondo Bowlby è merito degli etologi, i quali hanno cercato di comprendere la dotazione comportamentale a partire dal contributo che essa fornisce alla sopravvivenza di una specie nel suo habitat naturale. Una delle tesi più rivoluzionarie dell’opera bowlbyana è affermare che tutto questo sia applicabile anche ai comportamenti istintivi dell’uomo, i quali vengono considerati come derivazioni di prototipi comuni ad altre specie animali, prototipi che naturalmente sono stati molto arricchiti ed elaborati in determinate direzioni. Bowlby per studiare le strutture prototipiche, quindi gli elementi comuni presenti nei comportamenti istintivi dell’uomo, come degli animali, si affida ai modelli sviluppati dalla cibernetica o teoria dei sistemi (Malagoli Togliatti e Cotugno, 1996). Tra i contributi di questa disciplina i più utilizzati sono quelli inerenti ai principi di funzionamento dei 42 sistemi di controllo, che Bowlby utilizza per dare conto di quelli che lui chiamò sistemi comportamentali, che vanno considerati come l’interfaccia cognitiva interna responsabile della mediazione ed organizzazione dei comportamenti visibili. Questi sistemi comportamentali funzionano come i sistemi di controllo, meccanici o fisiologici, di cui la cibernetica si è occupata. La caratteristica di un sistema di controllo è quella di avere un fine, chiamato da Bowlby meta stabilita, e dei meccanismi di feedback o retroazione. In altri termini si tratta di un processo attraverso il quale gli effetti di una prestazione attuale vengono continuamente riportati ad un apparato regolatore centrale dove vengono confrontate con le istruzioni iniziali; in questo modo le azioni successive del sistema sono così determinate dai risultati di tale confronto, e gli effetti della sua prestazione vengono a essere sempre più simili a quanto prevede l’istruzione iniziale. Questo meccanismo, seppur eccessivamente semplificato si trova alla base di attività molto diverse tra loro come: mantenere la glicemia ad un livello costante, il funzionamento di un termostato, colpire una palla da tennis in movimento ed anche naturalmente la gestione della distanza da un figura d’attaccamento. Un comportamento che abbia alla base un sistema comportamentale di questo tipo, tra l’altro molto frequente nell’uomo, viene definito da Bowlby come un comportamento corretto secondo uno scopo. Però non tutti i sistemi comportamentali sono così elaborati, molti di essi infatti sono assai più semplici; per questi Bowlby utilizza il termine di schemi fissi d’azione. Questo tipo di sistema piuttosto semplice governa degli schemi di movimento strutturato, che nonostante possano essere anche alquanto complessi, non sono lontani dai riflessi. Come indica il loro nome, gli schemi fissi d’azione sono estremamente stereotipati e, una volta avviati, seguono il loro decorso tipico fino al completamento, quasi indipendentemente da quello che accade nell’ambiente circostante. Questo sistema quindi non usufruisce del feedback proveniente dall’ambiente. Nello studio del comportamento umano gli schemi fissi d’azione, pur non essendo molto frequenti, sono interessanti per il ruolo importante che svolgono nel controllo dell’espressione facciale e, specialmente durante l’infanzia, prima che l’individuo disponga di un sistema più sofisticato. Nelle fasi più precoci dello sviluppo, la rotazione del capo, la prensione, il pianto, il sorriso, sono esempi di schemi fissi d’azione che svolgono tutti un ruolo importante nelle prime fasi dell’interazione sociale. Abbiamo quindi visto come ci siano diversi sistemi comportamentali che governano il comportamento animale, ora è necessario soffermarsi brevemente su come questi diversi sistemi possono coordinarsi per dare vita alle più diverse attività. 43 La forma più semplice di organizzazione del comportamento è rappresentato da una sequenza a catena, in cui ogni anello di questa catena è costituito da un sistema comportamentale, che solo quando ha cessato la sua attività, può consentire al sistema successivo di entrare in azione. In questa catena tutte le fasi intermedie devono essere rispettate perché possa avere luogo il comportamento desiderato, l’intera organizzazione fallisce il suo scopo se un solo anello della catena viene meno. Bisogna però sottolineare che sebbene l’intera sequenza a catena non sia corretta secondo uno scopo, i singoli anelli possono esserlo. Un altro modo di organizzazione, che solitamente garantisce una maggiore flessibilità della sequenza a catena, è quello che Miller, Galanter e Pribram (1960) chiamarono piano gerarchico organizzato. Con questo termine gli autori indicavano un’organizzazione comportamentale generale corretta secondo lo scopo e costituita da una gerarchia di strutture subordinate che possono però anche non essere corrette secondo lo scopo. Tutto questo significa che molti dei comportamenti complessi a cui assistiamo nel mondo animale e in quello umano in particolare, si basano su una organizzazione comportamentale sottostante, che prevede un piano generale corretto secondo lo scopo, composto da un insieme gerarchico di sottosistemi, o sottocomportamenti, la cui sequenza non è rigida, ma flessibile, cioè essi sono intercambiabili o addirittura anche un elemento può mancare senza alterare il risultato. A questo proposito Bowlby (1969/1982) amava portare l’esempio del comportamento organizzato secondo un piano gerarchico corretto secondo lo scopo di “andare a lavoro’’. Questo comportamento complesso è fomato da una serie di sottocomportamenti meno generali come uscire dal letto, lavarsi, vestirsi, fare colazione, spostarsi, questa è una serie di comportamenti che solitamente si ripete sempre in un certo modo, ma sarebbe un errore pensare che tutta l’operazione sia il frutto di una catena di eventi, infatti le attività potrebbero susseguirsi in un ordine diverso e poi le componenti di ogni attività possono essere ampiamente modificate senza alterare il piano generale. L’intera sequenza è concepita come governata da un piano principale strutturato per raggiungere uno scopo, e questo piano generale consiste di molti sottopiani, ognuno con il suo scopo più limitato. Naturalmente è inutile sottolineare le somiglianze tra questo modello di organizzazione comportamentale e il comportamento di attaccamento, somiglianze che verranno sviluppate nel seguito di questo lavoro. 44 IL COMPORTAMENTO DI ATTACCAMENTO Dopo aver preso in esame come la teoria dei sistemi, applicata all’etologia, possa dar conto dei processi alla base di molti comportamenti istintivi presenti nel mondo animale, è ora necessario concentrarsi su quel particolare tipo di comportamento istintivo a cui Bowlby ha dedicato particolare attenzione, cambiando radicalmente il modo di intendere il legame genitore-bambino: l’attaccamento. Bowlby aveva infatti compreso, basandosi sulla sua esperienza clinica con bambini deprivati e sulle osservazioni fatte dagli etologi su Primati e mammiferi, che l’accessibilità delle figure genitoriali ha una particolare capacità di sostenere le sensazioni di sicurezza del bambino e gioca un ruolo fondamentale nello sviluppo di una personalità sana e di un solido senso di sè. Il comportamento che Bowlby chiama di “attaccamento’’ viene solitamente ricondotto ad almeno tre caratteristiche di base (Weiss, 1991): ricerca della vicinanza, sensazione di una base sicura e proteste davanti alle separazioni. Per quanto riguarda la vicinanza Bowlby postula che il legame che il bambino ha con la madre, sia il frutto di diversi sistemi comportamentali, attivi già all’età di sei mesi, che hanno come meta stabilita il mantenimento della vicinanza alla figura materna. Quando un bambino è entrato nel secondo anno di vita, ed è quindi in grado di muoversi, si può quasi sempre riscontrare un comportamento di attaccamento abbastanza tipico che si esplicita nel seguire le sue figure di attaccamento ovunque vadano, non permettendo che la distanza che lo separa dai genitori, superi mai un certo livello. Il comportamento di attaccamento è innescato dalla separazione, reale o minacciata, dalla figura d’attaccamento o da esperienze ansiogene come la malattia o la paura. Un'altra caratteristica qualificante della relazione d’attaccamento è la percezione da parte del bambino, del genitore come “base sicura’’. Mary Ainsworth (1982) fu la prima ad usare questa espressione per descrivere l’atmosfera creata dalla figura di attaccamento; l’essenza di questa esperienza di base sicura è quella di fornire una presenza stabile esterna, ma anche interna, che possa consentire al bambino di esplorare con serenità e curiosità l’ambiente esterno, ben sicuro appunto che le sue figure di attaccamento saranno a sua disposizione quando e se ne avrà bisogno. Possiamo affrontare mari pericolosi se abbiamo la certezza di un porto sicuro a cui tornare (Holmes, 1993). Infine l’indicatore forse più eloquente della presenza di un legame d’attaccamento è la reazione alla separazione. Infatti pianti, urla ed espressioni cariche di angoscia è quello che dovrebbe aspettarsi chi volesse spezzare quella forza potente ed invisibile che lega madre e 45 bambino. Questi comportamenti dunque sono la reazione normale alla minaccia della rottura di una relazione di attaccamento ed hanno, come vedremo di seguito, la funzione di ristabilire quella vicinanza alterata dall’allontanamento, come anche una funzione di segnale per chi si prende cura del bambino di evitare ulteriori separazioni. Finora abbiamo parlato del comportamento di attaccamento al singolare, ma essendo quest’ultimo mediato da un piano gerarchico organizzato corretto secondo uno scopo, si avvale per raggiungere i propri fini di molteplici mezzi. A questo proposito Bowlby (1969/1982) descrive cinque modelli di comportamento che contribuiscono all’attaccamento: piangere, sorridere, seguire, aggrapparsi e succhiare. Questi sistemi sono organizzati e attivati in modo che il bambino tenda a mantenersi in prossimità della madre. Inoltre sempre attento ai parallellismi tra Uomo e animali inferiori, l’arguto psicoanalista inglese sottolinea sempre fortemente come il meccanismo della ricerca della vicinanza sia così frequente in natura. I piccoli di cavallo, agnello, vitello e anatra infatti, pur essendo alla nascita abbastanza sviluppati da potersi muovere liberamente nel giro di poche ore, quando la madre si muove in una certa direzione essi la seguono. In altre specie, compreso l’uomo, i neonati sono molto meno precoci ed hanno quindi bisogno di settimane o anche mesi prima di muoversi autonomamente, ma quando questo avviene è evidente la medesima tendenza a rimanere vicino alla madre. Questo tipo di osservazioni etologiche evidenzia con una certa chiarezza che in molte specie animali esiste un comportamento operante tra cuccioli e adulti reciprocamente, caratterizzato da due aspetti principali: il mantenimento della vicinanza con un altro animale con la tendenza a ristabilirla quando è venuta a mancare, e la specificità dell’altro, cioè la capacità di riconoscere quel particolare cucciolo o quel particolare adulto, in mezzo a tanti altri. Sono queste grandi quantità di dati comparati che fanno apparire indiscutibile agli occhi di Bowlby il fatto che il legame del bambino con la madre sia la versione umana del comportamento riscontrato comunemente in molte altre specie animali. Sempre rimanendo fedeli a questa prospettiva comparativa tanto cara a Bowlby, bisogna infine sottolineare che il comportamento di attaccamento così come gli altri comportamenti istintivi è elicitato da alcune cause ed adempie a precise funzioni. Per quanto riguarda gli stimoli che producono una attivazione del sistema dell’attaccamento è rilevante evidenziare come piccoli Primati allo stato selvaggio, ad ogni minimo allarme si precipitino dalla madre e quelli che le erano già vicino, le si aggrappano più strettamente. Questo accade in maniera assai simile nel piccolo di Uomo dove, come hanno messo in evidenza Ainsworth et al. (1978) nella Strange Situation, il 46 comportamento ludico ed esplorativo del bambino viene spesso interrotto dall’arrivo di un estraneo, che mettendo in ansia il bambino lo spinge a trovare riparo accanto alla madre. Ma l’ansia suscitata da una situazione poco conosciuta non è l’unica condizione in grado di stimolare l’attaccamento. Importanti a questo proposito sono anche le esigenze fisiologiche come fame, freddo e dolore fisico; queste infatti sono tutte esperienze che disgregano la sensazione di sicurezza del bambino e lo spingono a ristabilirla attraverso il contatto fisico con una figura d’attaccamento. Infine citiamo per ultimo quello che è forse il più potente attivatore dell’attaccamento ovvero l’allontanamento del genitore. Dopo quanto detto finora è superfluo aggiungere che essendo il genitore il garante della sicurezza e della serenità del bambino, un suo allontanamento è un avvenimento a dir poco catastrofico. Per meglio comprendere un comportamento istintivo e quello di attaccamento in particolare non è sufficiente ricondurlo alle sue cause, ma occorre anche interpretarne le funzioni. Secondo la biologia evoluzionista infatti le componenti di un organismo, che siano esse anatomiche, fisiologiche o, come in questo caso, comportamentali, assolvono ad una funzione, o si potrebbe anche dire sortiscono un effetto, che ha valore di sopravvivenza, sia a livello ontologico che filogenetico. Infatti gli organismi fisiologici e comportamentali in grado di assolvere alle loro funzioni in modo più efficiente nell’ambiente occupato dalla specie sopravvivono meglio e hanno prole più numerosa. Questo significa che le conseguenze funzionali prodotte da un comportamento istintivo sono plasmate dalla selezione naturale e contribuiscono alla sopravvivenza inscrivendosi stabilmente nella dotazione biologica dell’individuo e della specie. Per esempio il comportamento istintivo di suzione ha come conseguenza funzionale, con alto valore di sopravvivenza, quella di ottenere l’erogazione di cibo da parte della madre. Ma qual’è allora la conseguenza funzionale dell’attaccamento? Quali effetti tende a raggiungere? Bowlby (1969/1982) espone due ipotesi, ma ne caldeggia soprattutto una. L’ipotesi più debole secondo lui, sarebbe quella secondo cui il comportamento di attaccamento offra al bambino l’opportunità di apprendere dalla madre le attività necessarie alla sopravvivenza. La principale critica mossa a questa posizione è che l’attaccamento continua anche nella vita adulta quando l’apprendimento è ormai terminato e poi anche dal fatto che viene stimolato soprattutto da situazioni di allarme. Secondo Bowlby invece l’ipotesi più accreditata è quella che considera come funzione dell’attaccamento la protezione dai predatori. Se vi sono predatori nei dintorni il comportamento di attaccamento del piccolo certamente contribuisce alla sua sicurezza. Questa discussione delle cause ma soprattutto 47 delle funzioni dell’attaccamento ci conduce direttamente ad un'altra importante questione: la sua natura. PULSIONE PRIMARIA O SECONDARIA Quando Bowlby iniziò ad esporre la sua nuova concezione teorica alla fine degli anni Cinquanta si scontrò con quelle che erano le attuali teorie sulla natura e l’origine del legame madre bambino. Infatti da molto tempo gli psicologi e gli psicoanalisti concordavano sul fatto che la prima relazione umana del bambino ponesse le basi della sua personalità tuttavia non concordavano sui tempi né sulla natura dei processi che ne erano alla base. Le teorie vigenti si dividevano tra quelle che consideravano il contatto del bambino con la madre come una motivazione a sé stante con una sua autonomia ed un suo fine e quelle che lo consideravano solo funzionale alla soddisfazione di altre esigenze più basilari. A queste ultime appartiene la “teoria della pulsione secondaria’’ adottata da Freud (1978) e dai teorici dell’apprendimento sociale, la quale sostiene che il bambino ha alcuni bisogni fisiologici che devono essere soddisfatti, in particolare bisogni di cibo e di calore. Il bambino quindi s’interessa e si attacca a una figura umana affinchè questa figura soddisfi le sue esigenze fisiologiche. Bowlby invece, volendo assegnare uno statuto motivazionale autonomo all’attaccamento, sostiene che il bambino ha una tendenza innata ad entrare in contatto con un essere umano e lo fa inoltre in maniera sempre più specializzata e differenziata. Le prove che Bowlby porta a sostegno delle sue ipotesi sono anche questa volta in gran parte mutuate dall’etologia. Lorenz infatti già nel 1935, quando stava prendendo forma il suo concetto di Imprinting, raccolse una serie di osservazioni tendenti a dimostrare come il comportamento di attaccamento può svilupparsi nelle anatre e nelle oche senza che il giovane animale riceva cibo e altre ricompense convenzionali. Più recentemente Harlow (1958) attraverso gli ormai celebri esperimenti con le scimmie rhesus, raggiunse delle conclusioni analoghe. In questi esperimenti alcune scimmiette furono separate dalla madre alla nascita e si fornirono loro dei simulacri di madre; alcuni però erano ricoperti da filo spinato mentre altri da un panno morbido. Il cibo proveniva da una bottiglia che poteva essere posta in entrambi i simulacri. Questo consentiva di valutare separatamente gli effetti del cibo e di un oggetto gradevole a cui aggrapparsi. Tutti gli esperimenti mostrarono che il piacere del contatto stimolava comportamenti di attaccamento, mentre il cibo no. Per l’uomo sembrano valere le stesse conclusioni, infatti il piccolo umano nasce dotato di molte 48 capacità che gli consentono il contatto con chi se ne prende cura, come ad esempio la capacità di aggrapparsi. Inoltre i bambini piccoli godono della compagnia degli altri esseri umani anzi certe interazioni sociali lo calmano. Ancora, la risposta della lallazione come quella del sorriso aumentano d’intensità quando l’adulto vi reagisce in modo puramente sociale, dedicando un po’ di attenzione al bambino (Lichtenberg, 1989). Quanto detto testimonia a favore del fatto che il piacere che un bambino percepisce quando è in compagnia di un altro essere umano, sia qualcosa di diverso dal sollievo che prova quando le sue esigenze fisiologiche vengono soddisfatte. CRONOLOGIA DELL’ATTACCAMENTO Quando sono ravvisabili le prime tracce del comportamento di attaccamento? Subisce delle evoluzioni? Mantiene la stessa intensità con il passare del tempo? A queste domande Bowlby non si sottrae, anzi come abbiamo ormai imparato, le sue risposte hanno rivoluzionato le concezioni delle capacità del bambino allora vigenti. Già a quattro mesi infatti viene riconosciuta al bambino la capacità di discriminare percettivamente la madre, in quanto ad essa sorride, vocalizza più prontamente e la segue con gli occhi per un tempo più lungo di quanto non faccia con chiunque altro (Flavell, 1993). Ma il riconoscimento percettivo non basta, per qualificare il comportamento di attaccamento, è necessario che siano presenti delle strategie comportamentali che hanno lo scopo di mantenere la vicinanza con la madre. La Ainsworth (1967) osservando la popolazione africana dei Ganda afferma che un comportamento tendente a ristabilire la vicinanza con la madre è già chiaramente identificabile a sei mesi, ed ancora più evidente a nove mesi, e si manifesta non solo nel fatto che il bambino piange e cerca di seguire la madre quando questa esce dalla stanza ma anche dal fatto che al suo ritorno la accoglie sorridendo, sollevando le braccia ed emettendo grida di gioia. Tutti questi comportamenti non solo si ripetono e s’intensificano durante la seconda metà del primo anno, ma continuano per tutto il secondo anno. Aggiungendo a queste osservazioni, quelle molto simili di Schaffer e Emerson (1964 citato in Bowlby 1969/1982) sui bambini scozzesi, sembra essere ormai assodato che il comportamento di attaccamento si manifesta per la prima volta nella maggioranza dei bambini in un lasso di tempo che va dei sei ai nove mesi. Come evidenziato poc’anzi il comportamento di attaccamento si verifica costantemente ed intensamente per tutto il secondo e terzo anno di vita; cambiano però le circostanze che lo suscitano. Infatti l’aumento della portata percettiva del bambino e la sua maggiore capacità di riconoscere 49 gli eventi lo portano a divenire sempre più consapevole di un distacco imminente, questo significa che se durante il primo anno il bambino piangeva e protestava solo quando la madre usciva dalla stanza, nel secondo anno inizia a lamentarsi già quando la vede prepararsi. Quello dei tre anni sembra essere un passaggio molto importante perché a quest’epoca si verifica un cambiamento piuttosto netto. Infatti a quest’età i bambini sembrano molto più capaci di accettare una momentanea assenza della madre senza disperarsi, ma non solo, diventano sempre più capaci di sentirsi sicuri in un ambiente estraneo con figure di attaccamento secondarie come un parente o un insegnante. Quanto detto non significa che allo scoccare dei tre anni il comportamento di attaccamento si arresta automaticamente, ma soltanto che diviene più elastico e che aumenta la distanza all'interno della quale il bambino si sente sicuro; se qualcosa non va mentre gioca con altri bambini o è appena un po’ spaventato, cerca immediatamente il contatto con il genitore. Abbiamo visto come il comportamento d’attaccamento nel corso dei primi tre anni si evolva passando da una fase in cui alcune situazioni suscitano paura e insicurezza, fino ad un'altra fase in cui le stesse situazioni non appaiono più tanto angosciose. Leggendo tra le righe di questa evoluzione, è però possibile osservare in trasparenza un altro processo caratterizzato dal passaggio da uno stato di risposta indiscriminata ad uno stato dove solo alcuni stimoli possono elicitare alcune risposte. Bowlby (1969/1982) ha ben descritto questo processo che conduce il bambino a rispondere in maniera particolare soltanto a poche persone che egli stesso, per una serie di caratteristiche, ha eletto sue figure di attaccamento. A partire dalla nascita fino ad almeno otto settimane, il bambino è attratto in maniera particolare dagli esseri umani, tanto da seguirli con lo sguardo oppure cessando di piangere vedendo un viso, ma la capacità di discriminare una persona dall’altra è molto limitata o assente. Verso i tre mesi poi il bambino continua a comportarsi verso le persone nello stesso modo socievole della fase precedente, ma si inizia a riconoscere una tendenza più spiccata verso la figura materna. Superato poi il traguardo dei sei mesi il bambino è ormai capace di discriminare percettivamente la sua figura d’attaccamento dalle altre persone, ma non solo, è anche in grado di seguire la madre quando si allontana, di salutarla quando ritorna e di usarla come punto di partenza per le sue esplorazioni; insomma in una parola, ha sviluppato l’attaccamento. In questa fase gli estranei vengono trattati con cautela sempre maggiore, e all’incirca verso gli otto mesi tenderanno a suscitare allarme e allontanamento. Bowlby infine considera collocata dopo i due anni, l’ultima fase del 50 precoce sviluppo infantile, dove il bambino non solo tratta la figura di attaccamento diversamente dagli altri, e non ne tollera la lontananza, ma inizia a percepire sua madre come un oggetto indipendente avente propri scopi e sentimenti, ai quali egli tende ad adattarsi. In altri termini, si può dire che il bambino comincia ad intuire le motivazioni e i progetti della madre, quindi si può parlare a questo punto di una coppia madre-bambino legata da una relazione intersoggettiva dove entrambi i membri della relazione usufruiscono di strategie comunicative corrette secondo lo scopo. I MODELLI COMPORTAMENTALI DELL’ATTACCAMENTO Come già evidenziato l’attaccamento è mediato da alcuni modelli comportamentali che hanno lo scopo di incrementare la vicinanza tra il bambino e chi se ne prende cura. Questi tipi di comportamento sono diversi, ma i più evidenti sono il pianto, il sorriso, l’aggrapparsi, la suzione non alimentare e il seguire. Vediamo ora di approfondire ognuno di questi modelli attraverso l’intersezione di due assi teorici. Il primo riguarda la progressione dei sistemi comportamentali da livelli più primitivi a livelli più elaborati, mentre il secondo descrive il passaggio da una risposta sociale indiscriminata ad una tendenza di risposta sempre più circoscritta alla figura di attaccamento. Il Pianto Il pianto, insieme al sorriso ed alla lallazione sono annoverabili tra i comportamenti di segnalazione, che, hanno l’effetto di avvicinare la mamma al bambino. Il pianto può essere elicitato da situazioni diverse e di conseguenza può assumere anche forme diverse. Troviamo infatti il pianto per fame che ha inizio lento ma diviene con il tempo più intenso e ritmato; il pianto di dolore intenso fin dall’inizio; un pianto squillante interpretato come segnale di collera ed anche un pianto ritmico provocato da altri fattori oltre la fame, come un cambiamento interno o uno stimolo esterno come il freddo (Bowlby, 1969/1982). Nelle prime settimane il pianto non è un comportamento corretto secondo lo scopo, ma assomiglia più a un riflesso: viene emesso un segnale e quando un essere umano, qualunque esso sia, risponde, il pianto cessa. Verso i sei mesi però ha grande importanza chi è la persona che raccoglie il segnale del bambino e solo la madre ha il potere di calmarlo quando è presente e di agitarlo quando si allontana. 51 Il sorriso Il sorriso, a differenza del pianto che è efficace fin dalla nascita, riesce ad influenzare il comportamento della madre solo dopo le quattro settimane di vita del bambino. Diversa è anche la risposta prevedibile: infatti mentre il pianto spinge la madre a nutrire o confortare il suo bambino, il sorriso la stimola ad entrare in relazione con lui soddisfacendo in entrambi il semplice piacere che proviene dallo scambio sociale. Anche il sorriso subisce una evoluzione progressiva lungo i due assi sopra esposti; relativamente alla complessità, all’inizio abbiamo un sorriso spontaneo e riflesso basato su uno schema fisso d’azione, che cederà il passo dopo le cinque settimane ad un sorriso sempre più corretto secondo lo scopo. Per quanto riguarda l’asse della discriminazione, fino ai tre mesi il bambino presenta un sorriso sociale non selettivo, scatenato cioè da qualunque essere umano. A questo si succede intorno ai sei mesi il sorriso sociale selettivo in cui il viso delle persone note che si prendono cura di lui è in grado di suscitare un sorriso più immediato e generoso che non il viso di persone meno note. Il seguire L’atto del seguire così come l’aggrapparsi ed il succhiare sono invece considerati comportamenti di avvicinamento che hanno cioè l’effetto di avvicinare il bambino alla madre. Non appena il bambino è in grado di muoversi, si può osservare la tendenza ad avvicinarsi alla madre e a seguirla. Per raggiungere questo scopo il piccolo umano può ricorrere a tutte le abilità motorie di cui dispone come: andare carponi, trascinarsi oppure camminare o correre quando sarà in grado. Tra i nove e i dodici mesi di solito questo comportamento viene ad organizzarsi in modo corretto secondo uno scopo, cioè a dire che se la madre cambia posizione anche il bambino cambia direzione. In questo tipo di comportamento a differenza degli altri sopracitati, non si distingue una fase precedente dove il bambino segue ogni essere umano senza distinzione prima di seguire precipuamente la madre, in quanto il bambino raggiunge uno sviluppo neuro-muscolare che gli consente uno spostamento autonomo, anche se carponi, verso i sei mesi, epoca in cui, come abbiamo visto, inizia già a stabilizzarsi l’attaccamento verso una singola figura di riferimento. L’Aggrappamento Il bambino è in grado di aggrapparsi sin dalla nascita e questa capacità si perfeziona in maniera sempre crescente soprattutto nelle quattro settimane successive. Il comportamento 52 di aggrappamento si basa su alcuni riflessi primitivi di cui il bambino è dotato fin dall’inizio. Due di queste reazioni sono il riflesso di Moro e il riflesso di prensione (DeNegri, 1996). Il primo consiste in una serie automatica di movimenti che porta il bambino ad abbracciare un adulto che lo sostiene e si manifesta quando il piccolo viene bruscamente scosso, piegato, sollevato o fatto cadere. Il riflesso di prensione è invece qualcosa di più circoscritto alle estremità e consiste in una debole chiusura della mano o del piede a seguito di una stimolazione tattile del palmo. Quanto detto rimarca l’evidenza che l’aggrapparsi sembra all’inizio una risposta abbastanza semplice di tipo riflesso, ma in seguito diviene, come accade molto spesso nei comportamenti istintivi, un comportamento corretto secondo lo scopo. In particolare, ad esempio, la prensione viene ad essre controllata da stimoli visivi, il bambino quindi non afferra più automaticamente la prima cosa che gli entra nel palmo, ma è invece capace di afferrare selettivamente un oggetto che vede e preferisce. Infine l’aggrappamento differenziale alla madre è particolarmente evidente verso la fine del primo anno di vita, quando il bambino è stanco, affamato, ammalato o spaventato (Ainsworth, 1967). Suzione non alimentare Solitamente la suzione è immaginato come un comportamento avente come scopo principale il nutrimento. Il dato comune, però, che tutti i bambini trascorrono molto tempo afferrando e/o succhiando, il proprio pollice o il capezzolo, pur non ricevendone cibo, induce a pensare come l’attaccamento possa essere a ragione considerato una ulteriore funzione del comportamento di suzione, oltre quella alimentare. Questa distinzione viene anche legittimata dall’osservazione che il movimento della suzione non alimentare è più blando di quella alimentare e che il neonato umano si dedica alla suzione non alimentare specialmente quando è agitato o allarma. SISTEMI DI RAPPRESENTAZIONE O MODELLI OPERATIVI INTERNI Bowlby sostiene che un animale per raggiungere uno scopo stabilito deve possedere una mappa conoscitiva dell’ambiente e che tali mappe possono avere un grado di complessità assai diverso che va: ”dalle mappe elementari, come noi supponiamo si costruiscano le vespe, all’immagine del mondo immensamente complicata d’un uomo occidentale colto” (Bowlby, 1969/1982). Oltre alla conoscenza dell’ambiente però, queste mappe cognitive devono anche contenere una certa conoscenza operativa delle abilità e potenzialità 53 comportamentali dell’organismo a cui appartengono. Ogni individuo deve quindi disporre di un modello ambientale ed organismico, i quali vanno continuamente aggiornati. Raffinando questi concetti di base ed adeguandoli al funzionamento mentale umano, soprattutto in fase di sviluppo, Bowlby (1969/1982, 1973, 1980) teorizza la presenza di “modelli operativi interni”. Il bambino in fase di sviluppo costruisce una certa quantità di modelli di se stesso e degli altri basati su schemi ripetuti di esperienze interattive. Queste “rappresentazioni di interazioni generalizzate” (Stern, 1995) formano modelli rappresentazionali relativamente stabili che il bambino usa per predire il mondo e mettersi in relazione con esso. Ciò che spesso viene trascurato è che la concezione dei modelli operativi interni elaborata da Bowlby è molto generale. Essa infatti si applica a tutte le rappresentazioni e non è ristretta ai modelli operativi di sé e degli altri nelle relazioni di attaccamento. Comunque è soprattutto rispetto alle particolari rappresentazioni sé-altro che Bowlby applica le sue idee sulla costruzione, l’uso e la revisione dei modelli mentali. L’enfasi di Bowlby sulla funzione della rappresentazione nella condotta delle relazioni interpersonali, non è qualcosa che viene dal nulla. Egli, infatti, come membro della Società Psicoanalitica Inglese ben conosceva il pensiero di Freud sul mondo interiore (1978) come anche le idee di Klein (Segal, 1979) e Winnicott (1952), sulle relazioni interiorizzate. Il concetto di modello Bowlby lo mutuò da Craik (1943) il quale da una prospettiva evoluzionistica propose che gli organismi capaci di costruire un “modello operativo interno” del proprio ambiente hanno una migliorata capacità adattiva in quanto, saper costruire e usare modelli mentali per valutare le conseguenze potenziali dei corsi alternativi dell’azione, consente un comportamento più flessibile e adattabile. La qualifica di “operativo”, indica che si tratta di rappresentazioni su cui un individuo può mentalmente operare per generare previsioni. Intorno al concetto di “modello operativo”, come verrà approfondito in seguito, gravita l’attuale discussione scientifica volta a comprendere la collocazione teorica dell’opera di John Bowlby. Dall’interpretazione di cosa sia un modello operativo discendono i tentativi di relegare questa nuova teoria ai precedenti contributi oppure di assegnargli una autonomia teorica che poco ha da condividere con l’eredità psicoanalitica. 54 CAPITOLO IV GLI SVILUPPI INTRODUZIONE Come abbiamo visto nel capitolo precedente sono molti gli elementi che definiscono John Bowlby un innovatore geniale e coraggioso. Egli infatti sosteneva posizioni all’epoca poco popolari, come il fatto che l’attaccamento del bambino alla madre, essenziale per la sua sopravvivenza, fosse geneticamente predeterminato, e che, alla stregua di altri comportamenti istintivi, si manifesti prevedibilmente in tutti i bambini, in periodi fissi dello sviluppo (solitamente dai 6 ai 9 mesi) e durante tutto il primo anno di vita viene soddisfatto attraverso il contatto fisico con la madre. In questo senso l’attaccamento veniva considerato come l’espressione di una motivazione primaria alla socializzazione, indipendentemente dalla soddisfazione dei bisogni fisiologici, a cui tradizionalmente era associato. Anche se forse non è corretto affermare che Bowlby abbia fondato una Scuola depositaria del suo pensiero è invece difficile non notare come il suo contributo abbia attirato l’interesse di molti studiosi, che hanno voluto abbracciare questo modo nuovo di guardare allo sviluppo affettivo e si sono impegnati, nel corso degli ultimi vent’anni, ad amplificare e ad approfondire aspetti della teoria originaria particolarmente fertili o poco sviluppati. In questa prospettiva sono ormai familiari nomi come Main, Bretherton, Cassidy etc. i quali hanno spostato l’analisi verso aree poco investigate di questa teoria, come: il rapporto tra modello comportamentale dell’attaccamento e la sua rappresentazione mentale, lo studio degli effetti delle prime relazioni di attaccamento sulle relazioni successive, l’importanza degli attaccamenti precoci nello sviluppo della psicopatologia e la trasmissione intergenerazionale dei modelli d’attaccamento. Le pagine seguenti hanno lo scopo di fornire una ricognizione generale sui sviluppi moderni di questa interessante teoria. 55 AD INTERIM I detrattori di John Bowlby hanno accusato lo psicanalista inglese di aver proposto un modello di sviluppo troppo meccanicista e poco attento agli aspetti psicologici interni o rappresentazionali dell’attaccamento. Questa critica ingenerosa è in parte smorzata dal fatto che già lo stesso Bowlby (1969, 1980) si era posto il problema di concettualizzare il versante interno del comportamento di attaccamento postulando la presenza nel bambino di costrutti chiamati modelli operativi interni, di cui abbiamo precedentemente riferito. Ricordiamo che secondo Bowlby (1969,1980) il bambino già molto precocemente, si costruisce dei modelli interni di sé rispetto agli altri, i quali agendo soprattutto al di fuori della consapevolezza influenzano il comportamento nella costruzione di nuove relazioni. Negli ultimi vent’anni, questo come altri concetti fondamentali della teoria dell’attaccamento, è stato sviluppato (Bretherton, 1999), assumendo un ruolo importante nella ricerca così come nella clinica. Attualmente infatti i modelli operativi interni vengono intesi non solo come passive riproduzioni dell’esperienza, ma come organizzatori del comportamento individuale, che attivamente riproducono le esperienze più salienti della storia del soggetto. Un’altra differenza riguarda anche il piano organizzativo dei modelli operativi. Bowlby (1980), propose che i modelli operativi del Sé e delle figure di attaccamento emergono dalla ripetuta esperienza di modelli di interazione diadica e sono quindi sempre complementari. Per esempio un individuo che ha costruito un modello operativo interno delle sue figure d’attaccamento come amorevoli e disponibili, avrà come controaltare un modello operativo complementare del Sé come degno di sostegno e di amore. Cambiano però le cose secondo Bowlby, quando l’esperienza di attaccamento non è soddisfacente. In questo caso si verifica una scissione, con un modello accessibile alla consapevolezza che valuta la figura di attaccamento rifiutante ed il Sé come cattivo ed un modello non consapevole che rappresenta la figura d’attaccamento come inefficiente ed il Sé come buono. Tutto questo è il frutto di un meccanismo di difesa che Bowlby chiama esclusione difensiva, che egli considera un caso particolare di un fenomeno più generale detto esclusione selettiva. Secondo la teoria dello Human Information Processing (Norman, 1976 citato in Bretherton 1999) da cui Bowlby ha attinto, gli esseri umani selettivamente escludono informazioni irrilevanti per focalizzare le loro limitate capacità processuali, su ciò che è effettivamente più saliente per il compito in corso. L’esclusione difensiva fa riferimento a 56 processi simili, ma con l’obiettivo di prevenire le percezioni, i sentimenti e i pensieri che potrebbero altrimenti causare forte ansia e sofferenza psicologica. Negli ultimi anni però, lo sviluppo della scienza cognitiva (Johnson-Laird, 1983); ha portato a considerare i modelli operativi interni come ad una trama concatenata di gerarchie di schemi, dove al livello più basso ci sarebbero schemi interattivi vicini all’esperienza (“quando mi faccio male mia madre accorre’’) e ad un livello più alto ci sarebbero schemi di tipo più generale (“mia madre è una persona affettuosa ed io mi sento amato”). Questi nuovi contributi spingono a revisionare l’idea che un individuo sottoposto a stress interazionali possa avere due modelli interni separati e ben organizzati della stessa relazione, uno consapevole ed uno no. Sembra più convincente la possibilità che in tali occasioni si possa sviluppare un modello operativo male organizzato dove molti schemi sono dissociati uno dall’altro al proprio interno e tra livelli gerarchici (Bretherton, 1999). Maggiore attenzione, inoltre, si pone oggi all’importanza della comunicazione nella creazione e nella trasmissione intergenerazionale dei pattern di attaccamento. I modelli di comunicazione verbale e non verbale sono processi per mezzo dei quali i modelli operativi interni delle relazioni di attaccamento sono generati, sostenuti e trasmessi di generazione in generazione (Crittenden, 1989). Già Mary Ainsworth (1978), attraverso accurate osservazioni naturalistiche di coppie madre-bambino a casa, evidenziò che quelle madri che erano capaci di rispondere appropriatamente e prontamente ai segnali sociali dei loro bambini a casa durante i primi tre mesi di vita, avrebbero avuto una relazione più armoniosa con loro negli ultimi quattro mesi del primo anno di vita. A loro volta i bambini mostravano di avere fiducia nella disponibilità delle loro madri per avere protezione e conforto. Essi frequentemente comunicavano con le madri in vari modi, ed erano più capaci di esplorare il mondo fisico. Nello stesso studio però Ainsworth (ibidem) registrò che una minoranza di madri non solo era relativamente poco responsiva quando i loro bambini piangevano a casa, ma raramente si mostrava affettuosa e limitava la vicinanza fisica nelle normali situazioni di accudimento. I loro bambini piangevano di più e mostravano a casa comportamenti spontanei più aggressivi verso le loro madri. Ma Ainsworth et al. trovarono dell’altro; c’erano infatti alcune madri che rispondevano con una inconsistente sensibilità ai segnali del bambino a casa durante i primi tre mesi di vita. Queste madri frequentemente ignoravano o rifiutavano i segnali sociali dei propri bambini, ma senza ridurre il contatto corporeo. Questi tre gruppi, basati su specifici modelli di comunicazione madre-bambino, individuati da Ainsworth furono poi riscontrati applicando, nello stesso studio, una 57 procedura sperimentale che cambiò il modo di fare ricerca sull’infanzia: la Strange Situation. ATTACCAMENTO COME LEGAME AFFETTIVO Negli ultimi anni si è smesso di guardare all’attaccamento soltanto come ad un comportamento e si è iniziato a pensare ad esso come a qualcosa di interiore, legato all’esperienza di intimità delle persone, in una parola, un legame affettivo. Se l’attaccamento è sicuramente un legame affettivo, non tutti i legami affettivi sono attaccamenti. Ainsworth (1989) prima di descrivere le caratteristiche del legame di attaccamento ha analizzato cosa rende tale un legame affettivo. Un legame affettivo è persistente, e non transitorio; inoltre coinvolge una persona specifica, una figura che non è interscambiabile con nessun altro. Ad esempio se stiamo soffrendo per un amore non corrisposto, le nostre pene non saranno alleviate dalle avances di altre persone che non ci interessano. Continuando diremo che un legame affettivo implica anche il desiderio di mantenere la prossimità o il contatto con la persona preferita. Importante segnale di legame affettivo è anche l’angoscia percepita in seguito ad una separazione involontaria dalla persona. Il legame di attaccamento è definito da tutti questi elementi sovraesposti, più uno, grazie al quale si può considerare un legame d’attaccamento come qualcosa di diverso da altri legami affettivi. Infatti nel legame d’attaccamento l’individuo cerca sicurezza e conforto nella relazione con quella specifica persona L’attaccamento è considerato “sicuro’’ se un individuo ottiene sicurezza, e “insicuro’’ se non la ottiene (Ainsworth, 1989). Ainsworth (ibidem) ha decritto il legame di attaccamento, in questi termini, come una caratteristica interna dell’individuo. Questo legame non è così soltanto il legame originario tra il bambino e il caregiver, ma un legame che ciascun individuo ha con altri individui percepiti come più forti e più saggi, proprio come venivano percepiti i genitori nell’infanzia. A questo punto è importante sottolineare, come suggerisce Lichtenberg (1989), che sarebbe un errore dare per scontato un isomorfismo assoluto, tra comportamento di attaccamento e legame di attaccamento o ancor peggio ridurre l’attaccamento alla sola manifestazione comportamentale. Infatti molti comportamenti possono servire a più di un sistema motivazionale-comportamentale. Così per esempio, non tutti gli avvicinamenti appartengono al sistema di attaccamento, ma possono anche esprimere un sistema 58 esplorativo o sociale. Nello stesso modo, anche quando non rivolge il comportamento di attaccamento verso i genitori, se ad esempio si trova in un ambiente confortevole con la madre presente, il bambino è ugualmente attaccato. In questo caso evidentemente il sistema di attaccamento non è attivato ad un livello tale da far scattare il comportamento di attaccamento. Quindi si può concludere che l’attivazione del comportamento di attaccamento è in gran parte situazionale; può o non può essere presente in ogni momento. Tuttavia si ritiene che il legame di attaccamento sia costante nel tempo anche se non è presente il relativo comportamento. In conclusione è bene rimarcare come recentemente sia cambiato anche l’atteggiamento degli studiosi nei confronti dello scopo del sistema d’attaccamento. Già Ainsworth (1989), come abbiamo già accennato, considerava il senso di sicurezza e non la ricerca della vicinanza, l’elemento peculiare in grado di descrivere un legame d’attaccamento. Lichtenberg (1989) parla del “piacere dell’intimità”, facendo riferimento alla esperienza soggettiva che l’individuo percepisce quando viene soddisfatto il sistema motivazionale d’attaccamento. A questo proposito, anche Sroufe e Waters (1977) si pongono delle domande: perché un bambino dovrebbe essere più addolorato durante una seconda separazione che durante la prima? Perché la comunicazione da lontano con la figura d’attaccamento dovrebbe essere rassicurante per un bambino? La loro risposta a tali quesiti, indica nel “senso di sicurezza” lo scopo del sistema di attaccamento. Ainsworth (1990), operando una sintesi di questi contributi, propone come scopo specifico del sistema di attaccamento un fattore che secondo lei è sottostante sia al senso di sicurezza, sia alla ricerca della vicinanza e cioè “la disponibilità di una figura di attaccamento responsiva’’. Con questa posizione Ainsworth recupera anche una riflessione già compiuta da Bowlby (1973) secondo il quale la sicurezza dell’attaccamento derivava dalla disponibilità dell’altro nella relazione di attaccamento primaria. Sentimenti di sicurezza accompagnano le valutazioni della disponibilità della figura di attaccamento e l’angoscia accompagna la percezione di minaccia riguardo alla disponibilità. A queste considerazioni Bowlby aggiunge anche che una “facile accessibilità’” non è sufficiente a dare sicurezza al bambino, infatti un genitore può essere fisicamente accessibile ma “emotivamente assente”; quindi, conclude Bowlby, il bambino ha bisogno di sentire che un genitore è non solo accessibile ma anche responsivo. Questo aspetto della sicurezza è incluso nelle conclusioni di Ainsworth, secondo la quale è la qualità delle interazioni quotidiane, e non solo le separazioni maggiori, a influire sulle aspettative di attaccamento del bambino. 59 MODELLI DI ATTACCAMENTO E STRANGE SITUATION Molti e preziosi sono stati i contributi di Mary Ainsworth (1967, 1969, 1991) allo sviluppo della teoria dell’attaccamento, ma forse quello a cui il suo nome viene più frequentemente associato è quello relativo all’individuazione di diversi modelli di attaccamento e al metodo per evidenziarli. Infatti le classificazioni attualmente esistenti sui diversi tipi di attaccamento si basano sulle ricerche e sul modello di Ainsworth et al (1978), che ha delineato una tipologia d’attaccamento, fondata sulla discriminazione sicurezza/insicurezza. La “sicurezza dell’attaccamento” viene definita da Ainsworth, Blehar, Waters e Wall (ibidem) come il sentirsi sicuri o l’essere senza preoccupazioni riguardo alla disponibilità della figura di attaccamento. La sicurezza in quanto costrutto non è direttamente osservabile e deve essere perciò inferita da ciò che è osservabile. Per misurare allora questa variabile Ainsworth ha elaborato una situazione sperimentale da lei definita Strange Situation, in cui vengono registrate le reazioni del bambino, generalmente in età compresa tra i 12 e i 20 mesi, ad una serie di separazioni/riunificazioni con la madre, in situazioni che sono progressivamente sempre più stressanti. Questa procedura standard viene somministrata in un apposito laboratorio, allestito come una sala giochi, in cui si può osservare e filmare, tramite uno specchio unidirezionale, quanto accade durante il susseguirsi di otto episodi preordinati della durata di tre minuti ciascuno (tranne il primo della durata di un minuto) organizzati intorno alle dinamiche di allontanamento e riunificazione: In una prima separazione il bambino è lasciato solo con un estraneo, che aveva, però, conosciuto nell’episodio precedente, in compagnia della madre; successivamente, la madre rientra, dando vita alla prima riunione. In una seconda fase, il bambino viene lasciato, sempre per tre minuti, completamente solo. A questa seconda separazione che avviene nel corso del sesto episodio, segue un episodio in cui l’estraneo entra nella stanza e rimane col bambino interagendo se necessario. Infine nell’ottavo episodio il genitore ritorna e l’estraneo esce in silenzio, è quindi possibile osservare la seconda riunione. Il dispositivo sperimentale della Strange Situation è fondato sul presupposto che l’intensità e la sicurezza dell’attaccamento si rivelino massimamente in situazioni stressanti, come sono appunto le separazioni dalla madre, o anche l’incontro con una figura estranea. L’analisi del comportamento durante i primi trenta secondi di entrambi i ricongiungimenti fornisce le indicazioni più importanti per individuare uno stile d’attaccamento. Questa metodica fu formulata come una procedura di laboratorio 60 controllata, in modo che le differenze individuali nel comportamento dei bambini potessero essere evidenziate dal fatto che essi venivano esposti alla stessa situazione, con gli stessi episodi, nello stesso ordine. Il comportamento del bambino durante la riunione, viene poi codificato rispetto a quattro parametri di interazione madre-bambino che vengono utilizzati nel processo di classificazione: la ricerca della vicinanza, la ricerca del contatto, l’evitamento del caregiver, la resistenza al contatto e all’interazione. L’applicazione di questi parametri ai differenti comportamenti manifestati durante le separazioni e soprattutto durante le riunificazioni con la madre, hanno condotto Ainsworth et al (1978) a suddividere i bambini esaminati in tre gruppi principali: un gruppo “sicuro’’ (B) e due gruppi “insicuri’’, il gruppo evitante (A) e il gruppo “resistente’’ o “ambivalente’’ (C). Vediamoli nel dettaglio: Attaccamento sicuro (B) La denominazione “sicuro’’ deriva dalla constatazione che il bambino appare fiducioso di ottenere, dalla figura d’attaccamento, un’attenzione pronta, perciò si allontana senza timore da lei per esplorare con sicurezza ambienti nuovi e si mostra socievole con gli estranei, quando sua madre è presente. Il bambino quindi si serve della madre come base sicura per l’esplorazione. Quando lei si allontana, nel corso della prima separazione e soprattutto nella seconda, il bambino dà segnali di avvertire la mancanza del genitore e quindi protesta, piange e cerca il contatto della figura d’attaccamento, finchè questa non ritorna e lo prende in braccio. Quando questo accade, nelle situazioni di riunione, il bambino sicuro saluta in modo attivo il genitore con sorrisi, vocalizzazioni o gesti, dopo di che si calma e ricomincia tranquillamente il gioco e l’esplorazione. Attaccamento Insicuro-Evitante (A) Questi bambini mostrano una esplorazione rigida dell’ambiente estraneo e sembrano indifferenti alla figura d’attaccamento. Durante gli episodi di separazione il bambino risponde in maniera minima, senza apparente disagio, quando viene lasciato solo. Quando la madre ritorna, il bambino guarda altrove e volontariamente evita il genitore; spesso si concentra sui giocattoli. Se viene preso in braccio il bambino può irrigidirsi e tentare di divincolarsi e spesso tende ad allontanarsi dal genitore. Attaccamento Insicuro-Ambivalente (C) La maggior parte di questi bambini entra nella stanza dove si terrà l’osservazione, già visibilmente a disagio, spesso irritati o passivi. Quando la figura d’attaccamento si allontana, essi protestano, piangono intensamente e la loro protesta continua anche quando il genitore si riavvicina e li prende 61 in braccio. Molto spesso il bambino può alternare offerte di contatto con segnali di rifiuto, rabbia e capricci; oppure appare passivo o troppo alterato per segnalare o stabilire un contatto. Tutto ciò indica che questi bambini si oppongono alla rassicurazione della figura d’attaccamento e non riescono a trovare conforto nella presenza del genitore. Per concludere, citiamo brevemente che nel lavoro di Ainsworth et al. (1978), da cui è stata tratta la precedente classificazione, sono presenti le istruzioni necessarie per designare anche dei sottogruppi per ciascuna categoria. Ad esempio, l’attaccamento sicuro o B è suddiviso nelle sottoclassi B1, B2, B3 e B4. Il sottogruppo B3 rappresenta il prototipo del bambino sicuro che abbiamo già visto. I bambini B1 e B2 presentano qualche aspetto del comportamento evitante: mentre i B1 non richiedono il contatto fisico in nessuno dei due ricongiungimenti, ma si accontentano di una interazione a distanza di tipo vocale, i B2 sono invece decisamente evitanti durante la prima riunione, tuttavia manifestano un comportamento di attaccamento ad alta intensità nel secondo ricongiungimento. I bambini B4 sono i più apprensivi rispetto alla presenza o meno della figura di attaccamento e già nei primi episodi possono manifestare un certo grado di paura, esplorando meno rispetto agli altri bambini del gruppo B e richiedono più attenzioni affinchè si calmino dopo le separazioni per poi riprendere ad esplorare. Anche l’attaccamento insicuro-ambivalente o C può essere scomposto in due sottoclassi, C1 e C2. Mentre i bambini C1 sono più attivi e vanno incontro al genitore durante le riunioni, quelli classificati come C2, sono passivi e si limitano a piangere, tenendo le braccia come se chiedessero di essere presi, restando però seduti. Una volta presi in braccio, però, i bambini di entrambi i sottogruppi C si divincolano, allontanandosi col corpo dal genitore e sporgendosi all’indietro. LE CONFIGURAZIONI DI ATTACCAMENTO VISTE DALL’INTERNO Nella Strange Situation i bambini vengono assegnati alle diverse categorie in base a come si comportano nelle circostanze di allontanamento/riunione. Questo però non deve farci dimenticare che questa situazione sperimentale è un dispositivo inferenziale e cioè ha lo scopo, partendo da comportamenti manifesti, di descrivere strutture cognitivo-affettive interiorizzate che mediano il vissuto del bambino nei confronti delle proprie figure di attaccamento. I modelli individuali di attaccamento sono stati divisi, a grandi linee, in due categorie: “sicuri’’ e “insicuri’’ (Ainsworth et al., 1978). Questi due termini non descrivono 62 semplicemente i comportamenti manifesti del bambino, ma descrivono piuttosto l’evidente percezione di quest’ultimo circa la disponibilità della figura d’attaccamento in caso di necessità. A ciascun tipo di attaccamento corrisponde uno specifico “modello operativo interno’’ che secondo Bowlby e Ainsworth equivale ad una immagine interna che ogni bambino si è fatto della madre e di se stesso e che scaturisce dalla storia delle cure ricevute. I bambini sicuri hanno un modello della madre come persona disponibile e degna di fiducia e un corrispondente modello di Sé come persona meritevole di amore e attenzione (Cassidy, 1988). Viceversa, i bambini insicuri valutano la madre come inaffidabile e se stessi come indegni di amore. Secondo questo modello le aspettative sociali che gli individui si creano, sono un riflesso abbastanza accurato delle esperienze infantili di attaccamento. Quando, in seguito ad una situazione minacciosa, emergono sentimenti di apprensione, i bambini con attaccamento sicuro sono capaci di dirigere i comportamenti di attaccamento e di ricevere conforto nella rassicurazione offerta dal genitore. Questi bambini possiedono una immagine interna di responsiva e sensibile disponibilità delle proprie figure d’attaccamento e conseguentemente sono fiduciosi nelle proprie interazioni con il mondo circostante, come si nota da uno spiccato comportamento esplorativo. Questa fiducia non fa parte dell’esperienza dei bambini che hanno relazioni d’attaccamento insicure con i loro genitori, in quanto non hanno sperimentato la disponibilità costante ed il conforto quando l’ambiente è percepito pericoloso. Il risultato di queste storie evolutive è la paura radicata in questi bambini che le persone che si prendono cura di loro non rispondano o siano incapaci di rispondere adeguatamente nel caso loro ne avessero bisogno. Quando non c’è un apparente pericolo nell’ambiente, alcuni bambini insicuri possono continuare ad indirizzare i propri comportamenti verso il genitore, ma quando la minaccia è percepibile, molti di loro possono essere incapaci di rivolgere comportamenti di attaccamento adeguati verso quelle figure di attaccamento che non state affidabili in passato. Ciò che i bambini si aspettano è ciò che è accaduto prima. VARIABILI CONNESSE CON GLI STILI DI ATTACCAMENTO La teoria dell’attaccamento così come è stata espressa chiaramente da Bowlby e Ainsworth, fornisce alcune predizioni chiave rispetto alla relazione tra sicurezza e altre variabili che sono centrali alla teoria stessa. Vediamo ora di approfondire nel dettaglio alcune di queste variabili particolarmente significative. 63 Sicurezza dell’attaccamento e accessibilità della figura materna Mentre il pensiero originario di Bowlby (1973) si concentrava sulle separazioni drammatiche dai genitori nell’infanzia, Ainsworth (1978) ha dedicato i propri sforzi empirici e teorici all’individuazione dei fattori che determinano un attaccamento sicuro o insicuro. Anche se ella non ha mai dichiarato che lo sviluppo della relazione madrebambino è determinato interamente dalla madre, era però convinta che la relazione in questione non fosse formata in modo uguale dai due partner. Generalmente, le caratteristiche materne sono state valutate osservando l’interazione madre-bambino in casa o in laboratorio, prima o dopo aver valutato la qualità dell’attaccamento nella Strange Situation. In questo modo sono state così identificate specifiche categorie di comportamento materno, messe poi in rapporto col tipo di attaccamento del bambino. Ainsworth (1978) a questo proposito ha anche elaborato delle scale per valutare la sensibilità/insensibilità materna, l’accettazione o il rifiuto, la cooperazione contrapposta all’invadenza, la disponibilità oppure l’assenza. Queste variabili secondo la studiosa canadese, discriminano il comportamento delle madri dei bambini con diverso tipo di attaccamento. Le madri dei bambini che successivamente sarebbero stati classificati come sicuri, risultarono più sensibili alle richieste del bambino di vicinanza e contatto, più reattive ed incoraggianti nell’interazione faccia a faccia, più calde e più accettanti nei dialoghi col bambino, rispetto alle madri dei bambini insicuri (Terlato, 1988). Per queste ultime si parla solitamente di una scarsa disponibilità psicologica che assume però forme diverse rispetto al tipo di attaccamento mostrato dal bambino. Infatti la figure di attaccamento di bambini evitanti, mostrano generalmente un rifiuto a rispondere alle richieste di protezione ed affetto del piccolo. La loro mimica nell’esprimergli emozioni è rigida, povera e spesso affermano di sentirlo come un peso, un ostacolo. Le richieste del piccolo sembrano degli insensati “capricci” a cui non rispondere per non creare un bambino “viziato” (Liotti, 1992). Invece i genitori di bambini insicuri-ambivalenti danno risposte imprevedibili alle richieste d’attaccamento dei piccoli: a volte non danno alcun conforto e li lasciano a se stessi, altre volte rispondono prontamente al loro pianto o si mostrano persino ipercontrollanti ed intrusivi nei loro confronti, bloccandone il gioco e l’esplorazione autonoma (ibidem). Il bambino non è considerato un centro autonomo d’iniziative dotate di significato e di valore, ma un oggetto passivo da controllare per evitare che procuri emozioni spiacevoli, o da utilizzare per ricavare emozioni piacevoli. Secondo alcuni autori (Goldsmith e Alansky, 1987), però, l’origine della sicurezza/insicurezza dell’attaccamento non risiederebbe nelle cure materne, ma nelle 64 caratteristiche temperamentali del bambino. Questa scuola di pensiero sostiene che il temperamento di un bambino influisce direttamente, tramite il suo impatto nell’interazione con la madre, sullo sviluppo del rapporto di attaccamento ed è la determinante principale delle variazioni individuali circa la sicurezza. Uno dei fattori temperamentali più studiati è la tolleranza allo stress. Secondo questa prospettiva un comportamento di resistenza del bambino alla Strange Situation non esprime un certo modello operativo interno, ma una certa suscettibilità temperamentale allo stress. Sebbene questi contributi sottolineino l’importanza dell’apporto di entrambi i partners alla definizione dei pattern individuali di attaccamento, l’importanza del comportamento della figura di attaccamento sul polo sicurezza/insicurezza è ormai supportato da molte evidenze. Stabilità dei modelli di attaccamento Gran parte della ricerca sull’attaccamento si è focalizzata sulla verifica di un punto specifico del pensiero di Bowlby (1980), che sottolinea la continuità dei “modelli operativi’’ elaborati nella prima infanzia per le figure di attaccamento. Malgrado cambino i comportamenti con cui si manifesta, la relazione di attaccamento secondo Bowlby rimane immutata nel corso del tempo ed influenza selettivamente le esperienze successive del bambino, attraverso i modelli stabili di rappresentazione che egli costruisce di sé e degli altri. Recenti contributi (Thompson 1999) però, mettono in guardia nel considerare quello della stabilità dell’attaccamento come un assioma assoluto. Infatti, poiché i modelli operativi vengono continuamente modificati e aggiornati nel corso dello sviluppo, il loro impatto sul funzionamento psicosociale di un bambino di qualsiasi età dipende anche dalla sicurezza della relazioni in quel particolare momento. Ad esempio un attaccamento sicuro all’età di sei anni può essere più predittivo rispetto alle rappresentazioni di sè di un attaccamento sicuro nella prima infanzia dato che gli aspetti rappresentazionali dei modelli operativi sembrano espandersi proprio in questo particolare periodo. Questa osservazione ci riconduce al fatto che i modelli operativi sono formati da almeno quattro sistemi rappresentazionali, ognuno con il suo programma di sviluppo e con il proprio periodo di influenza critica. Questi sistemi sono: (1) le aspettative sociali verso le figure di attaccamento formatesi durante il primo anno; (2) le rappresentazioni di eventi associati alle esperienze di attaccamento depositati nella memoria a lungo termine a iniziare dal terzo anno; (3) ricordi autobiografici dove questi eventi sono inseriti all’interno di una narrativa personale ad iniziare dal quarto anno; (4) comparsa di una “teoria della mente’’ a partire dai tre anni (Bretherton e Munholland, 1999). In poche parole, la ricerca mostra che 65 le esperienze del bambino con la propria figura di attaccamento avranno effetti a lungo termine diversi, a seconda delle modalità con cui il bambino organizza nella mente tali esperienze. Un altro garante della stabilità delle configurazioni di attaccamento è rappresentato dalla relazione attuale genitore bambino. Se, infatti, quelle cure sensibili che inizialmente contribuiscono ad un attaccamento sicuro vengono mantenute, con grande probabilità il modello di attaccamento rimarrà stabile nel tempo. Può accadere però che l’armonia della relazione genitore bambino nel corso del tempo subisca alterazioni. Le normali competenze sempre nuove, ad esempio, che emergono nel bambino portano a esigenze diverse e richiedono nuove abilità al genitore, il quale a sua volta può cambiare sotto la pressione degli eventi di vita. Quindi quei genitori che non hanno avuto problemi ad occuparsi di un neonato totalmente dipendente, potrebbero incontrare difficoltà ad entrare in contatto con un bambino autonomo che esprime esigenze ben precise. Quindi se la relazione genitore-bambino si modifica nel corso del tempo potrebbe essere rischioso fare previsioni sul futuro funzionamento psicosociale dell’individuo partendo dalle configurazioni di attaccamento descritte ad esempio a dodici mesi. In conclusione è necessario sottolineare che la compresenza di studi (Grossman e Grossman, 1991) che affermano la continuità tra le categorie individuate nella prima infanzia e quelle riscontrate in una successiva misurazione accanto a studi (Egeland e Sroufe, 1981) più scettici rispetto alla capacità predittiva dei primi attaccamenti non deve far pensare ad uno stato di confusione della ricerca, quanto al fatto che la costruzione dei modelli operativi è un processo sottoposto a continua rettifica ed intrecciato in modo complesso con l’ambiente di adattamento del bambino. Attaccamento e Sviluppo successivo Come abbiamo accennato nel paragrafo precedente, sarebbe quanto meno ingenuo aderire ad un modello che vede una relazione unilaterale e coattiva tra assetto psicologico precoce e sviluppo successivo, a discapito di una impostazione che consideri il comportamento come una sintesi complessa tra adattamenti passati ed attuali circostanze. La stessa prudenza teorica è auspicabile in questo campo dove forte è la tentazione di spiegare con le diverse configurazioni dell’attaccamento precoce, l’intero sviluppo della personalità. Infatti una grande varietà di comportamenti è stata messa in relazione alla sicurezza dell’attaccamento a partire dalle capacità sociali e il funzionamento cognitivo fino alla comprensione di se stessi e alle capacità linguistiche. Come poc’anzi accennato è 66 necessario in questo settore della ricerca non arroccarsi dietro facili posizioni ideologiche e domandarsi in quali campi del comportamento i ricercatori dovrebbero essere in grado di predire forti associazioni tra attaccamento ed il comportamento successivo del bambino prima e dell’adolescente poi, e dove invece è legittimo aspettarsi associazioni più deboli o addirittura inesistenti. Questo interrogativo però non è di facile soluzione in quanto i teorici dell’attaccamento sono in disaccordo riguardo agli aspetti comportamentali più direttamente pertinenti ai processi dell’attaccamento: è possibile distinguere tra descrizioni più circoscritte delle conseguenze dell’attaccamento e descrizioni più ampie. Secondo le posizioni più prudenti, l’attaccamento sicuro dovrebbe essere in grado di determinare la fiducia che il bambino ha del genitore in un periodo di tempo successivo e forse anche la fiducia nei futuri partners sentimentali. Secondo un punto di vista meno circoscritto invece l’attaccamento sarebbe alla base della socievolezza del bambino e della sua comprensione degli altri, fino ad arrivare allo sviluppo di abilità cognitive, della regolazione affettiva e dello stile comunicativo. A complicare il tutto poi, interviene la normale prudenza metodologica, in quanto anche quando viene ipotizzato che la sicurezza dell’attaccamento abbia una forte associazione causale con un certo comportamento, l’associazione può non risultare immediatamente evidente poiché i comportamenti sono determinati da molte variabili diverse. Sebbene, per esempio un attaccamento insicuro nel corso della prima infanzia possa contribuire all’insorgenza di problemi comportamentali nella scuola materna, molti altri fattori nell’esperienza vissuta dal bambino e nell’ecologia sociale possono portare al medesimo risultato. Tutto questo rende gli studi longitudinali che prevedono come singola variabile predittiva la sicurezza dell’attaccamento come sostanzialmente deboli per quanto riguarda il potere predittivo; ciò significa che il rapporto teorico tra l’attaccamento infantile e il futuro funzionamento psicologico non è né chiaro, né semplice, né diretto, ed è quindi necessaria una certa cautela soprattutto nell’associare la sicurezza nell’attaccamento con certi fenomeni comportamentali non strettamente riguardanti l’intimità nelle relazioni affettive e sessuali. Presentiamo ora alcuni dati riferiti al rapporto tra attaccamento e sviluppo nelle età successive. Secondo uno studio di Sroufe, Fox e Pancake (1983), i bambini con attaccamento sicuro mostrano una minore dipendenza emotiva dai loro insegnanti della scuola materna, rispetto ai bambini classificati come insicuri, dove la dipendenza emotiva viene inferita da comportamenti come la ricerca continua di essere guidati dall’insegnante e il bisogno 67 costante della sua attenzione. In età prescolare i bambini sicuri tendono alla comunicazione aperta e diretta, al negoziato e allo scambio affettivo con le figure d’attaccamento. Manifestano infatti ai genitori sia i sentimenti negativi che quelli positivi, e mostrano il proprio interesse a mantenere la relazione. Questi bambini sono in grado di regolare in modo flessibile le emozioni in rapporto alle contingenze ambientali. In questo contesto la disponibilità che ottengono dai genitori è un rinforzo al loro senso di efficacia nel modulare gli stati affettivi (Cassidy, 1994). A 6 anni, in ambiente scolare, questi bambini sono collaborativi con i coetanei come con gli insegnanti e giocano con piacere insieme agli altri. Nei confronti di coetanei che piangono o soffrono si mostrano solleciti o quantomeno sono capaci di tollerarne le espressioni emozionali senza irritazione. Gli adolescenti con attaccamento sicuro sono consapevoli di sé e delle proprie esperienze di attaccamento e dell’influsso che queste hanno avuto sullo sviluppo della propria identità. Sono anche in grado di fornire delle rappresentazioni coerenti di sé, hanno fiducia in se stessi ed una buona capacità introspettiva (Bartholomew e Horowitz, 1991). I bambini con attaccamento di tipo A invece si mostrano emotivamente dipendenti dagli insegnanti di scuola materna, anche se spesso ricercano il contatto in modo indiretto e solo se il livello di stress è basso (Sroufe, Fox, Pancake, 1983). Questi bambini in età prescolare, tendono a inibire sia l’espressione di emozioni negative come paura, tristezza e angoscia, sia l’espressione della gioia (Cassidy, 1994). In ambiente scolastico a 6 anni sono meno socievoli, meno collaborativi e meno capaci di comprendere e tollerare l’espressione della sofferenza negli altri bambini. Tendono inoltre al perfezionismo e mostrano una idealizzazione difensiva di sé e dell’altro. Quando raggiungono l’adolescenza tendono a negare il bisogno di essere protetti, mostrando di essere emozionalmente autosufficienti, inoltre forniscono descrizioni delle proprie storie di attaccamento meno coerenti, integrate e logiche, negando l’influsso che queste esperienze hanno avuto sullo sviluppo di sé (Main e Goldwyn, 1994). Questi ragazzi inoltre hanno difficoltà a creare legami intimi, ad adattarsi a situazioni nuove e a richiedere il supporto alle figure significative (Bartholomew e Horowitz, 1991). Infine i bambini classificati di tipo C sono molto dipendenti dalle loro insegnanti alla scuola materna, restano spesso vicino a loro durante il gioco e non sanno portare a termine in modo autonomo nessuna attività senza l’aiuto di un adulto (Sroufe, Fox, Pancake, 1983). In età prescolare manifestano parzialmente i propri sentimenti e cercano di influire sulle proprie figure d’attaccamento con comportamenti controllanti come ad esempio atteggiamenti di incapacità e inconsolabilità, timidezza e ritrosia. I sentimenti che 68 esprimono con maggior frequenza sono in prevalenza di tipo negativo come per esempio una paura costante ed esagerata (Cassidy, 1994). Anche questi adolescenti forniscono descrizioni delle proprie esperienze di attaccamento meno coerenti, logiche ed integrate rispetto ai coetanei con attaccamento sicuro. Quando parlano del proprio passato, il loro atteggiamento contraddice i ricordi, evidenziando ancora una notevole ambivalenza emotiva rispetto a tali esperienze e all’influenza che hanno avuto su di loro (Main e Goldwyn, 1994). Come i ragazzi evitanti, trovano difficoltà a creare legami intimi e mostrano disagio e ansia nelle situazioni interpersonali (Bartholomew e Horowitz, 1991). NON C’E TRE SENZA QUATTRO Main e Solomon (1990) hanno proposto per primi una nuova categoria di comportamento infantile alla Strange Situation, definito dagli stessi autori come “Disorganizzato/disorientato’’. L’osservazione che ha spinto i due studiosi a concepire una nuova categoria consiste nel fatto che alcuni bambini, provenienti sia da campioni a basso rischio, ma soprattutto da quelli ad alto rischio (come ad esempio i bambini maltrattati), risultavano “inclassificabili’’ secondo il sistema A, B, C di Ainsworth et al. (1978). Di qui allora la necessità di produrre una nuova categoria che tenesse conto di questa porzione di variabilità non spiegata dalla classificazione tripartita. Ciò che questi bambini “inclassificabili’’ avevano in comune era la manifestazione, negli episodi di allontanamento/riunione, di una serie di modelli comportamentali incoerenti, strani, disorganizzati o apertamente conflittuali. Esaminando quindi il comportamento di questi bambini nella situazione sperimentale, il tema che più colpì gli osservatori fu la disorganizzazione o la manifesta contraddizione nel movimento, che sembrava corrispondere a una contraddizione nell’intenzione o nel piano comportamentale. Molti di questi bambini però, oltre alla disorganizzazione, mostravano un profondo disorientamento rispetto all’ambiente circostante (come ad esempio rimanere immobilizzato con un espressione stupefatta) tanto da convincere i due studiosi ad inserire questa modalità nella denominazione stessa della categoria. Main e Solomon (ibidem) pur consapevoli di non poter compilare un elenco esaustivo di tutti i comportamenti disorganizzati, hanno però proposto sette raggruppamenti in grado di ricoprire abbastanza fedelmente la fenomenologia dei comportamenti “inclassificabili“. 1) Manifestazione sequenziale di modelli di comportamento contraddittori: il bambino prontamente saluta il genitore che ritorna, manifestando il desiderio di essere preso in 69 braccio, sollevando le braccia e correndogli incontro, ma poi all’improvviso cambia atteggiamento diventando triste ed evitante. 2) Manifestazione simultanea di modelli di comportamento contraddittori: durante il ricongiungimento certi bambini si avvicinano al genitore camminando all’indietro oppure con la testa voltata da un’altra parte o ancora alzandosi in piedi per accogliere il genitore, ricadevano proni sul pavimento. 3) Movimenti ed espressioni non diretti, mal diretti, incompleti, interrotti: Un movimento di riavvicinamento può essere interrotto a metà da una esplosione di rabbia, ad esempio verso un giocattolo o verso il pavimento; o ancora si allontanavano dal genitore andando verso il muro quando sembravano spaventati dall’estraneo. 4) Stereotipie, movimenti asimmetrici, posizioni anomale: quando non sono dovute a disfunzioni neurologiche, il ciondolarsi e il tirarsi i capelli sono considerati degli indici di stress, soprattutto quando insorgono nei momenti di ricongiungimento. 5) Congelamento, immobilità, espressioni e movimenti rallentati: quando la madre ritorna, molti di questi bambini piangono ad alta voce mentre cercano di raggiungerla, per poi tacere improvvisamente e rimanere “congelati’’ e immobili per diversi secondi. Altre volte invece interrompono un movimento restando poi immobili per diversi secondi in una posizione vigile che richiede un certo sforzo contro la forza di gravità. 6) Indici diretti di apprensione riguardante il genitore: certi bambini si avvicinano al genitore in modo esitante e poi se ne allontanano con le spalle sollevate o portandosi le mani in bocca e piangono rimanendo ad una certa distanza, esibendo espressioni facciali impaurite e cariche di angoscia. 7) Indici diretti di disorganizzazione e disorientamento: molti bambini reagiscono alla separazione con vocalizzi indefinibili, che sembrano una forma confusa e incompleta di protesta; quando la madre ritorna, possono andarle incontro con la testa voltata dall’altra parte, oppure con lo sguardo assente o fisso come fossero in trance sospesi tra il senso di sicurezza e la paura di qualcosa di terribile e molto doloroso. Main e Solomon (1990) partendo da queste osservazioni si sono domandati in che modo si potesse strutturare una risposta di questo tipo all’interno della relazione genitorebambino. Partendo dal fatto che la maggior parte dei bambini maltrattati presentavano questo tipo di attaccamento i due ricercatori ipotizzarono che questo tipo di organizzazione comportamentale fosse associata ai comportamenti genitoriali che suscitano paura. Il bambino può vivere con angoscia la relazione con il proprio genitore sia perché questo è apertamente maltrattante e abusante, sia perché il genitore stesso è traumatizzato e 70 impaurito nell’interazione con il bambino. Infatti le figure di attaccamento di questi bambini rispondono in modo incoerente e confondente alle loro richieste di protezione e affetto, mostrando ad esempio con la mimica facciale dolore e paura di fronte al pianto oppure indietreggiando di fronte al bambino che lo segue pregandolo di non avvicinarsi o ancora assumendo espressioni impaurite quando il bambino si protende verso il viso del genitore (Liotti, 1992). Altre volte invece questi genitori sono più attivamente minacciosi mettendo in atto sequenze di inseguimento-caccia nei confronti del bambino; posizioni o improvvisi gesti minacciosi; invasioni imprevedibili dello spazio personale del bambino, come far scivolare silenziosamente da dietro le mani sulla sua gola o comparire all’improvviso di fronte al bambino (Main e Hesse, 1992). Basandosi su queste informazioni Main et el. (1992) hanno suggerito che una figura di attaccamento che suscita paura pone al bambino un paradosso irrisolvibile a livello comportamentale in quanto la figura da cui egli fugge perché fonte di pericolo è la stessa a cui deve rivolgersi per avere un rifugio sicuro. Proprio perché non risolvibile a livello comportamentale questo paradosso conduce alla disorganizzazione. Nondimeno anche il comportamento genitoriale impaurito pone il bambino in una situazione irrisolvibile, infatti una figura di attaccamento impaurita senza che siano chiari i motivi di questa paura, e che oltretutto mentre, segnala la presenza di un pericolo mostra contemporaneamente il desiderio di evitare la vicinanza del bambino, toglie al bambino la possibilità di mettere in atto una coerente strategia comportamentale conducendolo a comportamenti disorganizzati/disorientati. Anche se è stata raggiunta, in una serie di studi successivi (Main e Solomon, 1990), un’alta attendibilità nella classificazione dei modelli comportamentali disorganizzati/disorientati, alcuni autori, tra cui Crittenden (1992) offrono una definizione in qualche modo differente dei bambini che erano stati considerati all’origine “inclassificabili’’. In modo analogo a Main e ai suoi colleghi, ha evidenziato che alcuni di questi bambini esprimono un misto di strategie evitanti e resistenti, tuttavia li assegna a una categoria “difensivi/coercitivi” e suggerisce che molti di loro manifestano un modello di attaccamento organizzato, poiché stanno strategicamente adattando il loro comportamento alle limitazioni presenti nella relazione di accudimento. Da una prospettiva longitudinale, alcuni studi (Main e Cassidy, 1988), hanno dimostrato che il comportamento disorganizzato all’età di un anno, si modifica a 6 anni in comportamento “controllante”. Questi bambini mostrano un bisogno compulsivo di controllare il genitore, sia in senso punitivo che accudente, negando quindi i propri bisogni di cura e attenzione. Sembra che debbano smettere di mostrare attaccamento verso gli altri, 71 perché sono loro a dover rappresentare per gli altri una figura d’attaccamento. Nel corso dello sviluppo questi bambini arrivano a rappresentare una base sicura per gli altri membri della famiglia e per gli amici più intimi. Offrono il loro aiuto agli altri con molto piacere, ma sono riluttanti a mostrare le loro debolezze e a chiedere aiuto a loro volta. Gli adolescenti con attaccamento di tipo D (Bartholomew e Horowitz, 1991) hanno una minore auto consapevolezza rispetto alle persone con attaccamento sicuro e minore coerenza del Sé. Sono consapevoli in genere delle proprie problematiche interpersonali e mostrano minore autostima e fiducia in se stessi rispetto ai coetanei classiificati nei tre modelii più frequenti. ATTACCAMENTO IN ETA’ ADULTA In una prima fase la ricerca sull’attaccamento ha seguito la prima focalizzazione di Bowlby e di Ainswoth sui bambini e ha esplorato le complesse dinamiche interattive che si realizzano tra comportamento di attaccamento esibito dal bambino e le più diverse risposte parentali. A partire, però, dalla metà degli anni Ottanta ha preso vita un interessante filone di studi avente lo scopo di esaminare il sistema d’attaccamento nella seconda infanzia e nell’età adulta. Lo spostamento dell’interesse teorico e sperimentale dall’infanzia all’età adulta, che qui prenderemo in esame, è avvenuto sotto la spinta di due idee guida tra loro intrecciate: la consapevolezza che l’attaccamento è un sistema attivo per tutta la vita e l’importanza sempre maggiore data ai modelli operativi interni. Questo interesse della ricerca verso le dinamiche di attaccamento in età matura ha prodotto contributi diversi e promettenti. Alcuni studiosi, come ad esempio Weiss (1991) hanno cercato di mettere in risalto le caratteristiche di attaccamento dei legami affettivi adulti, mentre altri invece si sono cimentati nella sfida di mettere a punto uno strumento di misura in grado di operazionalizzare l’attaccamento adulto, così come la Strange Situation di Ainsworth aveva fatto per quello infantile. Quest’ ultima serie di sforzi ha prodotto uno strumento che ha allargato gli orizzonti della teoria ed ha fornito una nuova chiave di lettura per la trasmissione intergenerazionale dei modelli di relazione: la Adult Attachment Interview (AAI). La AAI si è sviluppata con lo scopo di completare quello che nel dispositivo di Ainsworth era mancante, e cioè l’attenzione per il livello rappresentazionale del soggetto. Prima della messa a punto della AAI infatti, non era ancora stato pienamente compreso che il probabile mediatore delle differenze del comportamento di accudimento del genitore 72 risiedesse nei suoi processi rappresentativi, né questi erano accessibili alla ricerca. Il protocollo della AAI è stato sviluppato a metà degli anni ottanta da George, Kaplan e Main (1985) e comprendeva anche un sistema di codifica e un sistema di classificazione (Main e Goldwyn, 1994). L’AAI è un’intervista semistrutturata della durata di circa un’ora, formata da diciotto domande, che hanno lo scopo di indagare nel modo più completo possibile, non solo le esperienze di attaccamento vissute dal soggetto, ma soprattutto il modo in cui egli le racconta e le ricorda. L’intervista comincia con un invito a descrivere in generale il rapporto con i genitori nell’infanzia cui segue la richiesta di cinque aggettivi che possono descrivere al meglio la relazione con ciascun genitore. Subito dopo, all’intervistato viene chiesto di circostanziare questi aggettivi con degli episodi specifici. Il protocollo prosegue con le domande relative a cosa faceva l’intervistato quando era turbato emotivamente, ferito fisicamente o malato e a come reagivano i suoi genitori a tutto questo. Il soggetto viene inoltre interrogato sulle separazioni importanti come anche sulle eventuali esperienze di rifiuto, sulle minacce rispetto alla disciplina e su ogni esperienza di abuso. All’intervistato vengono quindi domandati gli effetti di queste esperienze sulla sua personalità adulta e perché pensa che i genitori si siano comportati come hanno fatto. La parte finale del protocollo dell’AAI riguarda le esperienze di perdita dovute alla morte di persone significative, esperienze che vengono passate in rassegna in merito alle reazioni suscitate nell’intervistato, ai cambiamenti dei sentimenti nel corso del tempo e agli effetti sulla personalità adulta. Per concludere viene chiesto al soggetto quali pensa essere stati gli effetti delle proprie esperienze infantili sul suo comportamento come genitore e di quali desideri nutre nei confronti del proprio figlio o figlia. La narrazione che ne deriva viene trascritta ed esaminata per il suo contenuto così come viene espresso direttamente dal soggetto, ma anche per le qualità non intenzionali del discorso come ad esempio la coerenza e le eventuali incongruenze. Infatti il ritmo dell’intervista e la complessità delle domande forniscono agli intervistati ampie opportunità di contraddirsi, di non riuscire a rispondere ad alcune domande o di spingersi in discussioni eccessivamente lunghe e non pertinenti. Il compito da affrontare quindi per un intervistato è quello di ricordare e riflettere sulla propria storia di attaccamento riuscendo allo stesso tempo a mantenere un discorso coerente e collaborativo con l’intervistatore. A questo proposito possiamo sintetizzare i fattori che sono alla base della misurazione in: 1) qualità delle esperienze vissute dall’individuo durante l’infanzia; 2) linguaggio usato durante l’intervista; 3) coerenza e integrazione del discorso. Gli ultimi due punti, il linguaggio e lo stile del discorso, vengono considerati come indicatori dello “stato mentale” rispetto 73 all’attaccamento (Main e Goldwyn, 1994). In sostanza dunque ci sono due gruppi di scale, un primo che valuta il comportamento del genitore in base ai ricordi del soggetto, e un secondo che misura lo stato mentale. Le 5 scale che indicano la “probabile esperienza” infantile del soggetto con il padre e la madre considerati separatamente, sono: amorevolezza, rifiuto, pressione a raggiungere obiettivi, inversione dei ruoli e coinvolgimento, trascuratezza. Le 9 scale che misurano lo stato mentale valutano lo stile e la coerenza del discorso basandosi su: idealizzazione, svalutazione dell’attaccamento, incapacità di ricordare, rabbia, mancata risoluzione di lutti e/o traumi, passività del pensiero, coerenza della mente, coerenza del trascritto e il monitoraggio metacognitivo. I punteggi derivanti dalle scale appena menzionate, vengono utilizzati per assegnare un soggetto adulto ad una delle quattro classificazioni principali: Sicuro/autonomo rispetto all’attaccamento (F) Questi soggetti producono un discorso con buona coerenza interna e si mostrano collaborativi con l’intervistatore. Danno valore all’attaccamento indipendentemente dal fatto che le esperienze raccontate siano favorevoli o meno. Seguendo questo sistema di regole quindi sarà valutato sicuro/autonomo anche un soggetto che racconti di abusi fisici o sessuali subiti da un genitore, purchè la sua narrazione sia coerente. Questo è possibile perché egli è relativamente indipendente e “autonomo’’ rispetto alla relazione ed in grado di esplorare senza troppa difficoltà pensieri e sentimenti durante l’intervista. Inoltre nel resoconto di queste persone è apprezzabile una certa linearità tra giudizi e ricordi; ad esempio se i genitori sono descritti come affettuosi, ci sono ricordi sufficienti a suffragio di questa impressione, così come nel caso in cui i genitori siano raffigurati negativamente. Infine questi soggetti mostrano spesso una buona capacità di monitoraggio metacognitivo del pensiero e del ricordo che consente loro di commentere con un certo distacco contraddizioni logiche, pregiudizi erronei o la fallibilità della prospettiva personale. Distanziante-Svalutante rispetto all’attaccamento (Ds) Un intervista è classificata “distanziante’’, quando il soggetto tende a minimizzare e a considerare con distacco le proprie relazioni di attaccamento. Questi trascritti molto spesso sono al proprio interno incongruenti, quando ad esempio non riescono a produrre un ricordo specifico legato ad un giudizio precedentemente espresso. Infatti questi soggetti molto frequentemente presentano delle idealizzazioni delle proprie figure genitoriali (“mia madre è una persona eccezionale’’) non comprovate o, a volte addirittura contraddette, dagli episodi raccontati. Non è raro infatti per gli individui distanzianti rispondere alle domande successive dell’intervista in modi chiaramente discordanti con l’impressione positiva presentata all’inizio. C’è quindi in questi protocolli un implicita affermazione di forza, normalità, i genitori, come abbiamo visto sono spesso presentati in 74 termini molto positivi, ma nonostante questo lo stato mentale dell’intervistato sembra indicare un tentativo di limitare l’influenza delle relazioni di attaccamento sui pensieri e sui sentimenti. Se invece, come a volte capita, qualcuno di questi soggetti riconosce la presenza di elementi negativi nell’accudimento ricevuto, questi effetti vengono sminuiti e minimizzati. Altro elemento che conferma la forte conflittualità che questi soggetti provano nei confronti dell’attaccamento è la rilevante frequenza dei “Non ricordo’’ che nasconde tutta l’amarezza derivata dal fatto di avere un genitore che ha deluso le aspettative. Preoccupato-Invischiato nelle passate esperienze di attaccamento (E) La caratteristica peculiare dei soggetti appartenenti a questa categoria è quella, appunto, di essere preoccupati, invischiati, dalle passate esperienze di attaccamento. Essi producono narrazioni spesso, ma non necessariamente, incoerenti; quello però che più distingue queste narrazioni è la mancata collaborazione con l’intervistatore. L’intervistato è spesso incapace di mantenere un tema o di limitare la sua risposta ad una data domanda; i ricordi evocati più che la domanda sembrano attrarre l’attenzione del soggetto e guidare il suo discorso. Questi adulti mostrano confusione e continue oscillazioni nella descrizione degli eventi passati e le descrizioni dei rapporti con i genitori sono intrise di passività e rabbia. A questo proposito sono frequenti frasi espresse tutte di seguito, confuse dal punto di vista grammaticale, che descrivono i torti subiti da un genitore o il rivolgersi con rabbia al genitore come se fosse presente. In alcuni di questi soggetti, queste espressioni attive, seppur colleriche, lasciano il posto alla passività ed alla vaghezza del discorso. L’intervistato sembra incapace di trovare le parole, di afferrare un significato o di concentrarsi su un argomento. Queste manifestazioni sia attive che passive, comunque tengono a tenere in scarsa considerazione la presenza dell’intervistatore così come gli scopi dell’intervista, dando l’impressione che il soggetto sia ancora troppo assorbito, invischiato, da esperienze di attaccamento non metabolizzate, per essere in grado di sviluppare un discorso conciso e coerente. Irrisolto/disorganizzato rispetto a lutti o a traumi (U) Il nucleo centrale di questa categoria, scoperta successivamente (Main e Hesse, 1990), consiste nel fatto che questi soggetti presentano errori rilevanti, lapsus, nel monitoraggio metacognitivo del discorso e del ragionamento durante il racconto di perdite di figure di attaccamento, o di abusi fisici subiti. Questi lapsus del discorso/ragionamento sembrano indicare delle alterazioni temporanee della coscienza o della memoria di lavoro e si pensa che rappresentino (Liotti,1994) un’interferenza da parte di sistemi di ricordi o di convinzioni di solito dissociate, nella narrazione attuale. Anche se non è possibile indicare in modo completo tutte le affermazioni indicative di tali processi è però possibile identificare almeno due raggruppamenti. Durante il racconto dell’esperienza, possono infatti presentarsi dei Lapsus nei processi di ragionamento, in cui vengono violate le usuali regole della causalità fisica o delle relazioni spazio-temporali. Essi includono delle 75 convinzioni incompatibili, che emergono quando gli intervistati fanno affermazioni che indicano che il defunto è simultaneamente morto e non-morto in senso fisico più che metafisico-religioso: “è stato quasi meglio che morisse, perché così lei poteva andare avanti da morta e io potevo tirare su la mia famiglia’’ (Main e Goldwyn, 1994) Anche ritenere di averne in qualche modo provocato la morte, è considerato un lapsus nei processi di ragionamento. Oltre questi, sono possibili anche dei Lapsus nel discorso, i quali sembrano mostrare l’innesco di un “cambiamento di stato’’ indicativo di un considerevole assorbimento da parte di stati mentali segregati. (Main e Hesse,1992). Assistiamo in questo caso ad alterazioni formali del discorso che includono cambiamenti disorientati del modo di rispondere all’intervistatore, quali ad esempio una attenzione improvvisa a dettagli minimi su una morte oppure un cambiamento repentino in uno stile di discorso elogiativo, o infine il racconto di una esperienza traumatica in un contesto completamente privo di collegamenti. Con il passare del tempo si sono accumulati diversi interrogativi ed equivoci su questo strumento, soprattutto relativi al suo grado di validità; cioè che cosa misura in realtà l’AAI? Uno degli equivoci più frequenti è quello di considerare questa intervista come una misura della qualità dell’attaccamento (sicuro/insicuro) a un’altra persona specifica. L’AAI fornisce invece un mezzo per valutare lo stato mentale attuale del soggetto rispetto all’attaccamento complessivo. Forse la confusione è emersa dal fatto che la valutazione dell’attaccamento nei bambini più piccoli descrive la qualità del loro attaccamento ad una particolare figura (Ainsworth et al. 1978). La Strange Situation infatti non evidenzia se un bambino è sicuro o insicuro di per sé, ma sempre in riferimento ad un particolare genitore. Gli adulti valutati con la AAI non sono considerati attaccati in modo sicuro o insicuro, ma piuttosto sono considerati essere in uno stato mentale sicuro o insicuro, rispetto all’attaccamento (George et al. 1985). TALIS MATER TALIS FILIUS La leggenda narra che un giorno Mary Main esaminando il trascritto di un genitore, intuì che il suo bambino sarebbe stato classificato B4 alla Strange Situation. Nonostante Main non avesse ancora perfezionato le procedure operative in grado di classificare in un certo modo il resoconto di un adulto, cinque anni più tardi accadde proprio quello che lei aveva previsto. La scoperta di questa corrispondenza era così interessante che furono letti ulteriori trascritti e accadde spesso che la risposta del bambino alla Strange Situation venisse predetta correttamente. Questo risultato preliminare portò Main e Goldwyn (1994) 76 a sviluppare quel sistema formale di regole in grado di classificare le varie narrazioni nelle categorie dell’AAI. Questo curioso episodio evidenzia come l’AAI fosse l’anello mancante di un meccanismo parzialmente portato alla luce con la Strange Situation; questi due strumenti possono infatti considerarsi come le due classiche facce della stessa medaglia. Le implicazioni teoriche che scaturiscono dalla accertata corrispondenza tra stato mentale circa l’attaccamento dei genitori e le configurazioni di attaccamento dei figli, sono potentissime: infatti la forza della concordanza tra questi due strumenti fornisce una chiave interpretativa sempre più stabile e precisa per la comprensione dei sofisticati processi che presiedono alla trasmissione transgenerazionale dei legami di attaccamento. Questi dati iniziali hanno poi dato vita ad una cospicua messe di studi aventi lo scopo di replicarli e verificarli. Ainsworth e Eichberg (1991) a questo proposito, hanno replicato, con l’80% di corrispondenza, la correlazione tra le tre categorie organizzate dell’AAI e il comportamento del bambino alla Strange Situation, così come tra attaccamento Irrisolto nel genitore e attaccamento di tipo (D) nel bambino. In merito a quest’ultima categoria di attaccamento adulto, Ainsworth e Eichberg (ibidem) mostrano anche come la perdita di per sé non è predittiva della disorganizzazione del bambino, la quale è invece fortemente correlata con i lapsus nel ragionamento o nel discorso del genitore. Inoltre alcuni autori hanno intrapreso progetti di ricerca cercando di neutralizzare una variabile teorica potenzialmente perturbante la correlazione tra AAI e Strange Situation: l’influenza dei figli sullo stato mentale dei genitori. Per eliminare questa fonte di confusione, alcuni studi hanno somministrato l’intervista prima della nascita del primo figlio del soggetto. Fonagy, Steele e Steele (1991) hanno confrontato le Strange Situation a 12 mesi, di un campione di bambini con le AAI delle rispettive madri somministrate prima della nascita ed hanno trovato tra i due strumenti una concordanza globale molto significativa. Ammaniti et al. (1990) hanno presentato un complesso studio longitudinale con due coppie madre-bambino a cui venivano somministrati diversi strumenti di misura in diversi periodi di tempo. Al settimo mese di gravidanza le future mamme venivano sottoposte all’IRMAG (Intervista sulle Rappresentazioni Materne in Gravidanza) per raccogliere i loro atteggiamenti ed impressioni sulla gravidanza in atto. Quattro mesi dopo la gravidanza veniva presentata l’IRMAN ( Intervista sulle Rappresentazioni Materne dopo la Nascita) in cui la madre raccontava le proprie esperienze di interazione con il piccolo. Nel corso di questi primi quattro mesi inoltre sono state osservate, attraverso videoregistrazioni, le interazioni madre-bambino in fase di allattamento. Ad un anno infine 77 madri e bambini sono stati sottoposti rispettivamente all’AAI e alla Strange Situation. I risultati di questa ricerca hanno confermato l’ipotesi di una coerenza sostanziale tra rappresentazioni materne rilevate con IRMAG, IRMAN e AAI, e la sicurezza dei bambini di un anno alla Strange Situation, infatti le donne che si rappresentavano la propria gravidanza in maniera angosciata o addirittura ignorandola, che percepivano il proprio bambino come invadente ed eccessivamente esigente, risultavano Distanzianti alla AAI e i propri bambini presentavano un attaccamento di tipo A (evitante) alla Strange Situation. Invece le madri che avevano della gravidanza una percezione positiva, come qualcosa che le facesse sentire pienamente realizzate, che percepivano il proprio bambino come un soggetto con cui interagire piacevolmente, risultavano Sicure alla AAI ed i propri bambini presentavano un attaccamento di tipo B (sicuro) alla Strange Situation. Infine donne con percezioni di “amore-odio” nei confronti della gravidanza, che percepivano il proprio bambino come vivace, allegro, ma forse a volte un po’ troppo invadente, risultavano Preoccupate alla AAI ed i loro bimbi presentavano un attaccamento di tipo C (ambivalenti) alla Strange Situation. In conclusione questi ed altri studi hanno messo in evidenza la suggestiva specularità tra sicurezza del genitore e sicurezza del bambino. Sembra cioè che AAI e Strange Situation infatti fotografano, ognuna staticamente, delle condizioni che sono invece dinamicamente collegate in un processo fluido di reciproca influenzabilità. Il 60% dei bambini nella Strange Situation corrono incontro alla madre, al suo ritorno dopo la separazione, per essere consolati e assistiti. Questi bambini con attaccamento di tipo B hanno alle spalle un’esperienza per cui si aspettano che la madre fornisca una base sicura di conforto e di consolazione nei momenti critici. La base sicura procurata dagli agenti delle cure è il risultato di una disponibilità empatica priva di intrusività. I bambini piccoli che sviluppano un sano senso delle proprie intenzioni ed emozioni sono bambini i cui genitori hanno reso più facili i tentativi di iniziare delle attività organizzate in vista di una meta (Beebe e Lachmann, 1988). Gli adulti Sicuri/autonomi, genitori di questi bambini, hanno fiducia in se stessi e negli altri; manifestano una capacità di osservazione riflessiva quando si prendono cura dei figli, giocano e scambiano informazioni con loro. Pensano ai propri bambini come soggetti autonomi a cui riconoscere uno spazio per esprimere i propri sentimenti e bisogni. Il 10% dei bambini invece esprime un Attaccamento di tipo C. Questi bambini hanno sviluppato una strategia poco remunerativa in risposta alle oscillazioni imprevedibili tra accettazione e distacco. I genitori Preoccupati di questi bambini, hanno comunicato loro la 78 propria insicurezza derivata dall’essere tuttora invischiati nella relazione con i propri genitori. Questi adulti riconoscono ai loro figli i bisogni di protezione, ma tendono ad essere ansiosamente iperprotettivi, oppure colpevolizzanti o richiedenti a loro volta attenzione dai figli, come dei propri genitori (inversione di ruolo). Il 20% dei bambini che sanno già camminare non si avvicinano alla madre quando ritorna; la percepiscono come respingente, minacciosamente intrusiva, o quanto meno non disponibile a soddisfare i loro bisogni di sicurezza. I loro genitori Distanzianti hanno poco potenziale intuitivo per capire il proprio bisogno di calore affettivo e vicinanza amorevole e quello dei loro figli e tendono a spingerli precocemente verso l’autonomia. Questi bambini, in apparenza indifferenti all’attività dei genitori ,sono in realtà ipervigilanti: pieni di ansia osservano e calcolano la gamma della vicinanza o della distanza fisica ed emotiva dalle loro madri, distanza che devono mantenere. Il 10% infine dei bambini mostra risposte che mancano di una strategia coerente che organizzi il loro comportamento e le loro emozioni (tipo D). Molti di questi bambini hanno subito maltrattamenti diretti da parte dei genitori; altri possono non aver subito abusi, ma hanno dovuto subire l’influsso di madri depresse o terrorizzate. Avvicinarsi suscita la paura di venire terrorizzati invece che consolati; allontanarsi significa invece la perdita nel momento del bisogno. L’azione viene paralizzata e lo stato affettivo è caotico. Questi genitori Irrisolti/disorganizzati hanno avuto esperienze che li hanno resi vulnerabili a stati affettivi disorganizzati e a episodi dissociativi, ai loro figli sapranno comunicare solo l’imprevedibilità del proprio atteggiamento di cura, che si alterna a rapidi scoppi di rabbia, maltrattamenti e terrore. Gli studiosi dell’attaccamento descrivono modelli operativi interni multipli e contraddittori come eredità di un attaccamento insicuro. Il contenuto di questi modelli formerebbe dei pattern di organizzazione rappresentazionale che sottendono l’identità e le aspettative relazionali. La natura intrinsecamente diadica delle rappresentazioni di attaccamento implica che i pattern di attaccamento sono un codice reciprocamente organizzato e mutualmente compreso in cui qualsiasi ruolo implica il suo reciproco, né può essere rappresentato senza l’altro (Beebe, Lachmann, 1988). FUNZIONE RIFLESSIVA E MONITORAGGIO METACOGNITIVO Trattando dell’AAI abbiamo visto come uno degli elementi patognomonici necessari per assegnare un individuo alla categoria Irrisolto/disorganizzato sia la presenza nella 79 narrazione autobiografica di alcuni errori o lapsus nel funzionamento metacognitivo. Tra gli studiosi dell’attaccamento Mary Main e Peter Fonagy hanno sottolineato nell’ultimo decennio la funzione della conoscenza metacognitiva come possibile chiave di lettura dei fenomeni di trasmissione intergenerazionale dell’attaccamento. Fonagy (et al. 2001) chiama “funzione riflessiva’’ la capacità umana di comprendere se stessi e gli altri come esseri dotati di intenzionalità i cui comportamenti sono organizzati da stati mentali: pensieri e sentimenti. Se il bambino è in grado di spiegare un comportamento materno non responsivo che può sembrare di rifiuto, come una tristezza della madre a causa di qualcosa di esterno alla loro relazione, non si sentirà completamente disarmato di fronte a tale comportamento e non svilupperà uno stato di confusione e una visione di sé negativa. Fonagy (et al. 1995 citato in Target e Fonagy, 2001) hanno messo in evidenza che questa capacità è più precoce e solida nei bambini con attaccamento sicuro. Il segno distintivo della funzione riflessiva è la capacità del bambino verso i 3-4 anni di riconoscere che il comportamento può essere dettato da una credenza sbagliata. Gli studiosi dell’età evolutiva hanno realizzato molti test sulla qualità della comprensione delle false credenze e si riferiscono a questa capacità come alla “teoria della mente’’ (Camaioni, 1995). In poche parole il bambino di 3-4 anni inizia a capire che le persone agiscono non in base alla realtà, ma alla rappresentazione che hanno della realtà, anche se quest’ultima è sbagliata. Il bambino più piccolo invece, basa la propria previsione sulla sua rappresentazione della realtà, non concependo la possibilità di un altro punto di vista. In questa fase il bambino da più importanza alla realtà così come si presenta piuttosto che alla possibilità di attribuzioni di credenze rispetto alla realtà. Anche se la psicologia dello sviluppo considera i 3-4 anni l’epoca di acquisizione della “teoria della mente”, in questo periodo avviene solo il primo passo, perché anche nelle relazioni adulte e mature ci si rende conto che è veramente difficile rappresentarsi in modo accurato il mondo mentale dell’altro, e questo, come vedremo più avanti, è un fatto molto critico quando l’altro è il proprio figlio. Infatti Fonagy et al. (1991) hanno evidenziato come i punteggi relativi alla funzione riflessiva degli adulti, raccolti prima della nascita del bambino, hanno forte valore predittivo circa la sicurezza dell’attaccamento dei bambini nel secondo anno di vita. Quindi, tirando le somme di questi contributi, Fonagy propone un modello circolare in cui il genitore si sforza di comprendere e contenere lo stato mentale del bambino e il bambino, impara a capire la mente del genitore. In questo modo la capacità del genitore di osservare la mente del bambino accresce la possibilità di avere un bambino con 80 attaccamento sicuro, il che a sua volta facilita lo sviluppo della mentalizzazione o capacità riflessiva. Target e Fonagy (2001) nel proprio contributo contemplano anche gli elementi fondamentali che portano alla formazione della funzione riflessiva nel bambino. Secondo alcuni (Leslie, 1995) la funzione riflessiva è qualcosa che si sviluppa in seguito alla maturazione di moduli neuropsicologici di tipo meta-rappresentazionale. Fonagy invece considera questa capacità nella sua evoluzione all’interno delle relazioni di attaccamento. Il bambino vive una serie di emozioni ed esperienze fisiologiche caotiche e primitive. Questi elementi (“beta” come li chiamerebbe Bion), sono alla ricerca di una rappresentazione simbolica a cui essere legati. Questo processo di creazione di legami simbolici è essenziale affinchè il bambino diventi capace di far corrispondere l’esperienza ad una emozione specifica. Il ruolo centrale del genitore in questo processo è quello di rispecchiare questi segnali emotivi e rappresentarli nella propria mente per poi restituirli metabolizzati al bambino, il quale sarà così in grado di utilizzarli come elementi costitutivi del Sé. Questo è un genitore che attribuisce stati mentali al bambino e interpreta i suoi segnali (pianto, sorriso) in base a questi ultimi. Il bambino nel corso dell’esperienza quindi interiorizza la capacità di rispecchiamento del proprio genitore, passando lentamente da una fase di regolazione intersoggettiva delle risposte affettive ad una fase di autoregolazione, ricavando inoltre importanti informazioni sui suoi stati interni. Secondo il modello di Fonagy, in modo inconscio ed incisivo il genitore attribuisce al bambino uno stato mentale attraverso il proprio comportamento, tratta il bambino come un agente dotato di pensiero e tutto ciò viene percepito dal bambino e utilizzato nell’elaborazione di un senso del Sé mentale. Quando un genitore sarà in grado di fare quanto descritto ora, il suo accudimento sensibile darà luogo ad un attaccamento sicuro nel proprio bambino, al contrario il suo bambino strutturerà un attaccamento insicuro. Sulla base di questa teoria l’attaccamento si costruirebbe in relazione al livello di funzionamento della capacità riflessiva, del genitore e di conseguenza del bambino: difatti un bambino con attaccamento insicuro è un bambino che si trova a disagio con i propri stati mentali e con quelli degli altri. La figura di attaccamento però dà un ulteriore importante contributo anche in fasi successive. Infatti, quando il bambino cresce, coinvolgendolo nel gioco del far finta il genitore prende in considerazione il mondo interno del bambino, mantenendo allo stesso tempo una prospettiva “esterna” basata sulla realtà. L’adulto in questo modo crea un ponte tra la realtà e il vissuto del bambino indicando l’esistenza di una prospettiva alternativa, 81 che esiste al di fuori della mente del bambino. Queste riflessioni conducono Fonagy e Target a concludere che lo stabilizzarsi della funzione riflessiva ha un effetto protettivo e al contrario il suo stato relativamente fragile, può essere indice di vulnerabilità ad un possibile trauma. Tale conclusione, che stabilisce un legame tra fragilità della funzione riflessiva e possibile vulnerabilità in caso di trauma, ci consente di introdurre il contributo di Mary Main (1991) la quale, infatti, avanza l’ipotesi che se esperienze sfavorevoli di attaccamento si verificano quando le capacità metacognitive del bambino sono ancora immature, quest’ultimo avrà maggiori probabilità di sviluppare “modelli di attaccamento multipli”, cioè conflittuali e incompatibili, tipici delle modalità di attaccamento insicuro. Main definisce la conoscenza metacognitiva come la capacità di pensare al proprio pensiero, cioè non solo essere capaci di avere una rappresentazione mentale, ma anche avere la capacità di riflettere sulla validità, sulle caratteristiche e le fonti di questa rappresentazione. La ricerca sulla metacognizione riguarda ormai una fetta consistente della psicologia evolutiva (Flavell, 1993), ma negli ultimi anni studiosi dell’attaccamento come Fonagy (et al. 2001) e Main (1991) hanno stabilito feconde connessioni tra questi campi di studio. Secondo Main infatti soggetti che presentano una diversa organizzazione dell’attaccamento, non solo avranno differenti rappresentazioni (modelli operativi interni) ma anche diverse potenzialità metacognitive; quindi i processi mentali dei soggetti sicuri potranno essere distinti da quelli di individui insicuri non solo in base al contenuto ma anche per la loro flessibilità e per la facilità con cui è possibile esaminarli. L’AAI, difatti assegna i soggetti alle diverse categorie non solo in base al contenuto delle loro rappresentazioni ma soprattutto in base alla capacità del soggetto di pensare e raccontare la propria esperienza in modo coerente. In sintesi Main propone che per definire l’organizzazione individuale dell’attaccamento è necessario prendere in considerazione due livelli di funzionamento, quello cognitivo-rappresentazionale e quello metacognitivo. Tenendo allora sempre presenti questi due livelli, Main passa in rassegna le diverse configurazioni di attaccamento, ed afferma che nei soggetti insicuri, rispetto all’attaccamento, si osserva una carente integrazione dell’informazione o l’impossibilità di accedere all’informazione stessa. Sollecitati a descrivere e valutare le proprie esperienze di attaccamento, questi soggetti presentano un “guazzabuglio di pensieri, sentimenti ed intenzioni contraddittorie che solo approssimativamente possono essere descritti come modello” (Main, 1991). Per descrivere questa incoerenza Bowlby (1973) ha introdotto il termine di “modelli multipli” che sta ad indicare modelli incompatibili, riferiti alla stessa 82 realtà, presenti contemporaneamente. L’ipotesi dell’esistenza di modelli multipli di attaccamento viene collegata da Main direttamente al tema del monitoraggio metacognitivo, la cui immaturità evolutiva, secondo la studiosa americana, potrebbe essere alla base di modelli incoerenti. Le espressioni principali della conoscenza metacognitiva sono soprattutto due: la distinzione apparenza- realtà e la codifica duale dell’esperienza. La prima capacità si riferisce alla percezione di un mondo esterno fatto di eventi, cose, persone, che esiste indipendentemente dai pensieri soggettivi. La codifica duale invece si riferisce alla capacità di prendere in considerazione simultaneamente più livelli di realtà (una persona ad esempio può essere sia cordiale che impietosa). Molti di questi aspetti di conoscenza metacognitiva sono accessibili alla maggior parte dei bambini a 6 anni, mentre al di sotto dei 4 il bambino non possiede questi strumenti che gli consentono di indagare le rappresentazioni della realtà proprie e delle figure di attaccamento. L’ipotesi forte di Main è che il bambino ha maggiore possibilità di sviluppare un modello multiplo se subisce esperienze di attaccamento sfavorevoli quando le sue capacità metacognitive non sono ancora sufficientemente sviluppate. Benchè a qualsiasi età il modello operativo del Sé sia perturbato da esperienze sfavorevoli di attaccamento, un bambino più grande sarà avvantaggiato in quanto la sua maturità metacognitiva, gli consentirà di fare operazioni di secondo livello sulle rappresentazioni primarie (sono una persona cattiva forse perché mio padre mi tratta sempre male, però tratta male tutti allora lui deve avere qualcosa che non va). Il bambino più piccolo invece, che ancora non possiede una perfetta discriminazione apparenza-realtà e soprattutto ha difficoltà nella codifica duale (quindi ha problemi nel mantenere in memoria rappresentazioni o emozioni in conflitto), è particolarmente vulnerabile ad un genitore che tende a forti ed imprevedibili cambiamenti di umore o di responsività. In queste condizioni, un bambino piccolo non riuscendo ancora a far coabitare due tratti contrastanti nella stessa categoria, avrà poche probabilità di sviluppare una rappresentazione unitaria della propria figura di attaccamento (Main, 1991). 83 CAPITOLO V ATTACCAMENTO ADOLESCENZA E PSICOPATOLOGIA INTRODUZIONE Gli sviluppi delle ricerche e delle ipotesi relative alla teoria dell’attaccamento hanno prodotto una serie di studi innovativi nell’ambito della psicopatologia. Se nelle iniziali proposte di Bowlby le riflessioni sull’etiopatogenesi dei disturbi psichici in adolescenza e/o in età adulta erano più strettamente collegate all’incidenza negativa di fattori di rischio quali separazioni prolungate o perdite per morte delle figure di attaccamento, in seguito lo studio delle variabilità individuali dei modelli di attaccamento sospinge i ricercatori a cercare collegamenti tra diversi disturbi e le configurazioni più insicure di attaccamento. Alla prima concezione psicopatologica di Bowlby (1940, 1944, 1951) basata sulla separazione o perdita della figura di attaccamento, si succede la convinzione, maturata anche dallo stesso Bowlby (1973), che la qualità dell’interazione con la figura di attaccamento, (quando essa è presente quindi ) sia una chiave di interpretazione per lo studio della psicopatologia. L’importanza, già intuita da Ainswoth et al. (1978) dell’influenza del genitore sulla risposta dei bambini alla Strange Situation, è confermata e amplificata dalla corposa corrispondenza tra modelli di attaccamento nei bambini, così come evidenziati appunto nella Strange Situation e risultati dei genitori all'AAI, lo strumento di indagine dello stato mentale adulto nei confronti dell’attaccamento messo a punto da George et. al (1985). Il vissuto di attaccamento dei genitori consente di prevedere la configurazione dei figli ( vanIjzendoorn, 1995). Questo lungo itinerario teorico in continuo divenire culmina in una serie di contributi attuali (Lichtenberg, 1989) tesi a sottolineare l’importanza del rapporto intersoggettivo nello sviluppo normale e patologico. Secondo le ipotesi di fondo di questi studiosi, la madre e il bambino, costituiscono una unità relazionale autoregolantesi, cioè un sistema capace di autocorreggersi rispetto agli scopi e di scambiare informazioni sia al proprio interno che all’esterno e in cui entrambi i partner si influenzano reciprocamente in risposta ai feedback. Ciò significa che la diade madre-bambino non si comporta come un composto 84 di elementi indipendenti, ma come una totalità organizzata. Questo sistema complesso di regolazione affettiva interpersonale, viene poi gradualmente interiorizzato, dando vita alla specificità del comportamento individuale. Ambizione (almeno illusoria) di questa sezione è mostrare in che modo la teoria dell’attaccamento possa funzionare come chiave d’interpretazione di alcuni quadri psicopatologici, soprattutto di tipo alimentare e soprattutto in quel particolare periodo dello sviluppo che è l’adolescenza. ORIGINI DEL CONCETTO DI PATOLOGIA IN BOWLBY Può essere proficuo interpretare la posizione di Bowlby rispetto alla salute mentale e alla malattia, secondo tre punti di vista: le sue esperienze in fase di sviluppo, il contesto socio-culturale dell’epoca e la popolazione clinica con cui ha avuto a che fare. Come già accennato nella parte precedente Bowlby gettò le prime fondamenta della teoria dell’attaccamento immediatamente prima della II Guerra Mondiale e proseguì anche nel decennio successivo. Egli sviluppò le sue idee in un ambiente scientifico e politico che riconosceva scarsa importanza ai legami del bambino con i genitori. In campo scientifico, una delle teorie più accreditate dello sviluppo, quella dell’apprendimento sociale, rappresentava la relazione del bambino con l’oggetto primario come una conseguenza appresa in seguito al bisogno di nutrimento. Secondo questo paradigma se il bambino viene alimentato da diverse nutrici la relazione con la madre potrebbe non avere uno speciale significato per lui. Per quanto riguarda la sua storia personale Bowlby crebbe all’interno di una lunga tradizione della “middle class” britannica dove i figli e molte delle figlie venivano affidate, prima alle bambinaie e poi alle cure istituzionali di un collegio (Holmes, 1993). La grande importanza quindi, riconosciuta da Bowlby alla funzione materna va vista, almeno in parte, come un riflesso delle deprivazioni che lui e altri membri della sua classe avevano dovuto subire negli asili e nella scuola. Un simile atteggiamento infine influenzava le pratiche ospedaliere. Quando un bambino veniva ricoverato, era prassi ordinaria impedire o diradare (fino addirittura ad una sola alla settimana) le visite dei genitori. Quando Bowlby dunque iniziò la sua carriera lavorando in istituzioni ospedaliere ed orfanotrofi, che secondo la cultura dell’epoca erano più accorti alla salute fisica del bambino senza riconoscere la vitale necessità di una relazione primaria con la madre, si trovò a scontrarsi con gli effetti disgreganti della assenza genitoriale. Queste osservazioni si imposero con forza all’attenzione di Bowlby e lo portarono a sostenere con una certa fermezza la visione per cui bambini deprivati delle cure materne, 85 specialmente se cresciuti in istituzioni da una età inferiore ai sei anni, possono essere seriamente colpiti nel loro sviluppo fisico, intellettuale, emozionale e sociale. In uno studio ormai classico, Bowlby (1944) esaminò la biografia psicologica di 44 bambini che erano stati istituzionalizzati per aver rubato. In quasi tutti questi casi i soggetti avevano avuto delle esperienze parentali caratterizzate da abuso e violenza, ma oltre questo, a differenza di un gruppo di controllo di bambini ospedalizzati ugualmente maltrattati, avevano subito prolungate separazioni dai genitori, e questa differenza era particolarmente chiara in un sottogruppo di ladruncoli, che Bowlby chiamò “anaffettivi”. Proseguendo in questa direzione, Bowlby (1951) pubblica un rapporto commissionatogli dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, sulla relazione tra cure materne e salute mentale del bambino. Passando in rassegna diversi studi di vari paesi, Bowlby trovò un modello ricorrente: i bambini istituzionalizzati, e quindi gravemente deprivati di cure materne, tendevano a sviluppare gli stessi sintomi che aveva riscontrato nei suoi giovani ladri anaffettivi. A questo punto, pur mancando nella teoresi di Bowlby, una spiegazione dei meccanismi attraverso i quali la deprivazione materna produce effetti dannosi, quest’ultima affermazione appariva come molto accreditata. EVOLUZIONE DEL CONCETTO DI PATOLOGIA IN BOWLBY In epoche più recenti alcuni autori, come ad esempio Rutter (1981), hanno ridimensionato l’importanza attribuita da Bowlby al potenziale patogeno della deprivazione materna in quanto tale, sia essa intesa come separazione o perdita. Non c’è alcuna prova che un’unica breve separazione, per quanto possa essere stata dolorosa nel momento in cui è avvenuta, possa produrre effetti a lungo termine; piuttosto il modo in cui il bambino viene preparato alla separazione e la cura premurosa da parte di persone conosciute, riduce l’angoscia. Un altro punto importante sottolineato da Rutter (1981) è come gli effetti della separazione dipendano dalla relazione madre-bambino anteriore all’evento; quanto più la relazione era problematica tanto più la separazione sarà dannosa. Oltre la separazione, Bowlby considera la perdita di una figura di attaccamento come un evento foriero di sviluppi psicopatologici. Recentemente però anche questo legame sembra essersi un po’ allentato; Harris e Bifulco (1991) ad esempio suggerisce che di per sé la perdita e l’abbandono patite durante l’infanzia influenzano lo sviluppo di disturbi psichiatrici in età adulta, meno di quanto supponesse Bolwby. Anche qui, il modo in cui chi si occupa del bambino risponde al suo dolore, e la qualità della relazione con la persona 86 scomparsa, sono importanti variabili intervenienti. Questi approfondimenti indicano uno spostamento verso un maggiore apprezzamento della storia relazionale tra madre e bambino, e mettono in guardia da facili riduzionismi trauma-patologia. Sembra più plausibile che la deprivazione materna possa agire come un fattore di vulnerabilità generale. A questo punto è molto importante sottolineare come già lo stesso Bowlby avesse contribuito a mettere in discussione o, comunque ad arricchire, il modello da lui stesso proposto. Infatti, al suo vulcanico talento scientifico, apparve chiaro dopo un po’ come la semplice presenza o assenza di una figura di attaccamento era di per sé insufficiente per comprendere l’adattamento e le manifestazioni patologiche nei bambini più grandi e negli adulti. Dopo i tre o quattro anni le separazioni fisiche non sono più una serie minaccia per un bambino e di conseguenza non producono le stesse reazioni emotive (Marvin e Britner, 1999). Crescendo un bambino acquista delle capacità, come quella di rappresentare un genitore assente o di parlare delle separazioni imminenti, che riducono in gran parte il problema posto dalle separazioni (Kobak, 1999). Inoltre ci sono molte persone che pur avendo avuto un infanzia piuttosto difficile non presentano disturbi di tipo psichiatrico. Bowlby affida al secondo volume della sua imponente trilogia, intitolato La separazione dalla madre (1973), il frutto delle sue riflessioni su questo tema. In questa sede egli esprime un concetto di grande importanza e cioè che la qualità e la sicurezza dell’attaccamento del bambino non dipendono soltanto dalla presenza fisica del genitore, ma soprattutto dalla sua disponibilità e responsività nei confronti del bambino. Questa sottile ma enorme differenza implica che i bambini si sentono sicuri quando percepiscono le proprie figure di attaccamento come disponibili e responsive e che una scarsa comunicazione nelle relazioni di attaccamento crea un rischio per i problemi relativi all’adattamento. Questa enfasi sulla accessibilità piuttosto che sulla presenza fisica spiega anche la diminuzione del dolore alla separazione durante il terzo o quarto anno. Quando il bambino raggiunge la capacità di parlare con la sua figura di attaccamento e di capire i suoi scopi e i suoi progetti diventa allora possibile pianificare le separazioni per rassicurare il bambino circa la disponibilità e responsività continua della figura di attaccamento. Questo nuovo orientamento di Bowlby è chiaramente racchiuso nella frase: “Il fatto che un bambino o un adulto sia in uno stato di sicurezza, di angoscia o di dolore è determinato in gran parte dall’accessibilità e dalla capacità di rispondere della sua principale figura di attaccamento” (1973). 87 Secondo quest’ottica quindi, non solo separazioni prolungate e perdite, possono avere drammatici effetti sulla vita emotiva dei bambini piccoli, come dei grandi, ma anche profonde alterazioni del senso di disponibilità che un genitore suscita. Infatti fino a quel momento solo perdite o separazioni prolungate e ripetute si consideravano in grado di innescare la “sequenza di deterioramento”, composta da protesta, disperazione e distacco, con le emozioni ad esse correlate di angoscia, lutto e difesa (Bowlby 1973). Nel caso di separazioni più brevi il distacco sembrava cessare entro alcuni giorni e ad esso susseguiva una fase di decisa ambivalenza verso i genitori. Tali sequenze, secondo questo nuovo modello, possono essere provocate soprattutto dall’indisponibilità affettiva dei genitori. Bowlby scompone la disponibilità in tre elementi ad essa collegati: accessibilità fisica, comunicazione aperta e capacità di rispondere ai segnali. Minacce a queste tre componenti possono portare a molte delle risposte emotive evidenti nei bambini piccoli sottoposti a separazioni fisiche. La percezione della accessibilità fisica rimane l’aspetto più importante della disponibilità di una figura di attaccamento. Per esempio una separazione in cui un genitore lascia il figlio in maniera angosciante o inspiegabile, può distruggere la capacità del bambino di pianificare una riunione e lo lasciano incerto circa la disponibilità del genitore. La comunicazione verbale può creare nuove minacce alla disponibilità delle figure di attaccamento, quando ad esempio anche senza andarsene veramente un genitore minaccia di andarsene o di mandare via il bambino. Quando la comunicazione però è aperta e positiva può ridurre in gran parte il grado di percezione degli eventi distruttivi che minacciano la disponibilità di una figura di attaccamento. Per esempio la rabbia di uno o entrambi i genitori, può essere percepita da un bambino come un rifiuto o come paura di essere abbandonato; attraverso una buona comunicazione però la rabbia dei genitori è accompagnata da una spiegazione che fa comprendere al bambino la fonte della rabbia. Inoltre gli avvenimenti negativi, come ad esempio le separazioni, hanno un impatto diverso a seconda delle aspettative del bambino circa la capacità di rispondere positivamente della figura di attaccamento. Queste aspettative o modelli operativi sono costruiti in base all’esperienza precedente con il genitore nei momenti di angoscia. Bowlby (1973), in definitiva, con questo suo contributo intende aggiungere un ulteriore passaggio al suo primo modello psicopatologico fondato sulla deprivazione. Un evento di rottura può venire infatti blandito o amplificato dalla qualità della disponibilità genitoriale. Quando ad esempio, la comunicazione genitore-bambino, uno pilastri della disponobilità, è aperta e armoniosa, anche gli eventi più dolorosi possono essere discussi con i genitori e le 88 minacce alla disponibilità percepite dal bambino possono essere neutralizzate. Nei bambini più piccoli dove la comunicazione verbale è meno sofisticata, è maggiore la possibilità di percepire le separazioni fisiche come minacce all’accessibilità del genitore. I contenuti di questa nuova riflessione di Bowlby (1973), trovarono una continuazione naturale nel lavoro di Ainsworth et al. (1978) con la Strange Situation. Qui infatti le diverse aspettattive dei bambini circa la disponibilità dei genitori si cristallizza in tre differenti modelli di risposta individuale (Sicuro, Evitante, Ambivalente), scaturiti dalla stessa esperienza dei bambini con le madri durante il primo anno di vita. Così la semplice presenza o assenza di un genitore non forniva un’adeguata spiegazione di queste differenze individuali. Traducendo quanto affermato da Bowlby (1973) con la nuova terminologia proposta da Ainsworth, un evento traumatico avrà un impatto diverso a seconda del modello di attaccamento organizzato fino a quel momento dal bambino; un bambino con attaccamento insicuro sottoposto a deprivazione prolungata, avrà molte più probabilità di sviluppare manifestazioni psicopatologiche. In conclusione quindi è possibile affermare che secondo la teoria dell’attaccamento le relazioni e le loro difficoltà possono influenzare i disturbi psichiatrici in diversi modi distinti ma interconnessi (Gianoli, 1997): 1) Esperienza di separazioni significative e/o la perdita permanente di figure di attaccamento può predisporre all’insorgenza di un disturbo. 2) Il fallimento nel formare un legame di attaccamento tra i sei mesi e i tre anni (deprivazione materna). 3) Interiorizzazione di pattern di attaccamento “insicuri” costituisce un fattore di vulnerabilità psicologica. 4) Attaccamento disorganizzato in risposta a maltrattamento o abuso precoci. ATTACCAMENTO E PSICOPATOLOGIA OGGI Seppur confortati dall’aver individuato delle ipotesi forti rispetto allo sviluppo normale e patologico, i teorici dell’attaccamento che negli ultimi dieci anni si sono interessati alla psicopatologia non sono caduti nella trappola di ridurre tutti i disturbi alle vicissitudini dell’attaccamento. Attualmente infatti si è più inclini a considerare l’attaccamento come un fattore di rischio o di protezione che mostrerà probabilmente la sua maggiore influenza nel contesto di altri fattori di rischio e protezione, all’interno quindi di un ottica complessa di 89 approccio alla psicopatologia (Greenberg, Speltz, DeKlyen, 1993). Appare oggi assai improbabile che vi sia una causa singola per la maggior parte dei disturbi; ci sono infatti dei fattori che agiscono sull’eziologia, mentre altri influiscono sull’espressione come nel caso di quei disturbi dei quali è conosciuto il meccanismo biochimico o genetico, la cui espressione però è influenzata da altri eventi biologici o ambientali. In questa prospettiva appare improbabile che l’insicurezza dell’attaccamento da sola possa produrre un disturbo, benchè possa giocare un ruolo importante come amplificatore. La moderna psicopatologia dell’età evolutiva quindi considera la presenza di percorsi multipli in grado di condurre al disturbo, in quanto l’effetto di un fattore di rischio dipenderà dal momento in cui si è verificato e dalla relazione con altri fattori. Inoltre i modelli psicopatologici moderni sono caratterizzati dal fatto di non limitare l’influenza dei fattori di rischio al solo livello individuale o familiare. Per esempio rischi a livello del gruppo di coetanei (tessuto sociale, devianza) e del vicinato (densità, risorse) possono influire in modo significativo sul disturbo. A tutto questo bisogna poi aggiungere che molti fattori di rischio evolutivi non sono specifici di un particolare disturbo, ma sono piuttosto connessi ad una varietà di esiti disadattativi. Così la combinazione di povertà, violenza in famiglia e psicopatologia genitoriale è stata associata ad una varietà di disturbi infantili e adolescenziali (Greenberg, 1999). Infine è importante ricordare come determinati fattori di rischio possano avere un’azione differente in diversi periodi dello sviluppo. Per esempio la sicurezza dell’attaccamento può essere importante nel primo sviluppo, mentre la maturazione della capacità cognitiva può essere più decisiva nella seconda infanzia. Questo sembrerebbe ricordare un po’ l’idea di Bowlby (1973), secondo il quale episodi di deprivazione materna prolungati hanno effetti più devastanti nella prima infanzia e in misura minore successivamente, quando la dotazione cognitiva del bambino gli consente di fare previsioni e di contestualizzare le eventuali separazioni dai genitori. Precedentemente abbiamo anche anticipato che l’attaccamento ha gradualmente guadagnato importanza anche come fattore protettivo. Benchè la ricerca sui fattori protettivi sia meno sviluppata di quella sui fattori di rischio, ne sono stati identificati almeno tre. Questi includono: caratteristiche dell’individuo come temperamento e intelligenza, qualità delle relazioni del bambino e fattori ecologici più ampi come scuole frequentate e quartiere di abitazione (Rutter, 1985). Nell’ambito della qualità delle relazioni sociali del bambino si fa sempre più largo l’importanza dell’attaccamento sicuro ai genitori. 90 Tutte le ragioni esposte finora spingono alla cautela nello stabilire nessi di causa-effetto troppo semplicistici, ma, seppur con la necessaria prudenza sono sempre più numerosi gli studi che evidenziano l’influenza dell’attaccamento, intrecciato ad altri fattori, su diversi esiti psicopatologici. Ad esempio il Minnesota Parent-Child Project (Egeland e Sroufe 1981) è uno studio longitudinale che ha seguito un campione ad alto rischio sociale (figli di madri giovani nubili e in gran parte disoccupate) dalla nascita all’adolescenza. Questo studio ha messo in evidenza come i soggetti ad alto rischio sociale, che avevano strutturato delle relazioni precocemente insicure, avevano una probabilità significativamente maggiore, rispetto ai soggetti sicuri, di mostrare relazioni insoddisfacenti con i coetanei, variabilità dell’umore e sintomi di depressione ed aggressività. Un altro dato interessante di questo studio è che in età prescolare sono intervenuti dei fattori in grado di aumentare il comportamento dirompente anche dei bambini sicuri. Questi bambini sicuri con problemi infatti differivano dai bambini sicuri senza problemi di comportamento, per il fatto di avere madri meno capaci di sostegno e incoraggiamento, che avevano aspettattive confuse e ponevano limitazioni incoerenti. Inoltre a 30 mesi questi ambienti familiari avevano meno materiali di gioco e minore coinvolgimento materno nel gioco. Inoltre, i bambini con attaccamento insicuro senza problemi rispetto a quelli con problemi avevano madri più calde, più capaci di sostegno e di porre limiti a 42 mesi. L’ambiente domestico di questi bambini insicuri senza problemi successivi, conteneva più materiale di gioco ed era presente maggior coinvolgimento materno. Una volta adolescenti, molti dei ragazzi che nell’infanzia mostravano un attaccamento insicuro e precisamente ambivalente, avevano maggiori probabilità di sviluppare disturbi d’ansia. I ragazzi con attaccamento infantile sicuro, però, non erano più immuni dei ragazzi insicuri rispetto a questi disturbi. Confrontati con i bambini sicuri e ambivalenti erano quelli evitanti, tuttavia, a mostrare da adolescenti la più alta frequenza totale di disturbi. Il Minnesota Parent-Child Project (Egeland e Sroufe, 1981) è uno studio molto importante ai fini della nostra discussione, in quanto la maggior parte dei risultati da esso raggiunti sono spesso controintuitivi. Infatti la qualità dell’attaccamento nella primissima infanzia è ragionevolmente connessa a problemi comportamentali in età prescolare e a problemi d’ansia nell’adolescenza, ma questa associazione è in qualche caso mediata da aspetti successivi della relazione genitore-figlio e da circostanze familiari. I risultati dello studio appena presentato assumono ancora più valore se incrociati con altri studi effettuati su campioni a basso rischio sociale (Fagot e Kavanaugh, 1990) dove 91 non sono stati trovati effetti principali significativi dell’attaccamento insicuro rispetto a problemi successivi. Questi dati confortano l’idea di un modello multivariato della psicopatologia in cui l’esito disadattativo è il frutto di una complessa ragnatela in cui s’intrecciano in maniera non lineare diversi fattori di rischio e di protezione. In conclusione questi contributi pur invitando alla cautela, evidenziano come l’attaccamento abbia un ruolo, sebbene non esclusivo, nell’insorgenza di disturbi psicopatologici nell’infanzia e nell’adolescenza. Nell’ultimo decennio infatti, pur essendosi affermata con sempre maggiore convinzione l’idea che la psicopatologia scaturisca da percorsi multipli e interconnessi (Greenberg, Speltz e Deklyen, 1993)) sempre più ricerche mostrano l’esistenza di una associazione tra attaccamento insicuro e la vulnerabilità ai sintomi psichiatrici (vanIjzendoorn e Bakermans-Kranenburg, 1996). L’incremento però, evidenziato negli ultimi anni, di progetti di studio aventi lo scopo di mettere in evidenza il legame tra attaccamento e clinica ha radici ben più lontane, già a partire infatti dai primi lavori di Bowlby (1940, 1944, 1951). Non solo, ma è possibile individuare anche dei quadri clinici, come le fobie o la depressione che sono state, sempre grazie al lavoro di Bowlby (1973, 1980), storicamente associate all’attaccamento. Pur tenendo conto della necessaria cautela metodologica, prenderemo ora in considerazione quegli studi specificamente dedicati ai disturbi associati al comportamento alimentare, che solo negli ultimi tempi hanno avuto maggiore attenzione dalla teoria dell’attaccamento. ADOLESCENZA SECONDO LA VISIONE PSICOANALITICA Jung considerava la presenza di diverse posizioni teoriche rispetto ad un unico fenomeno come la testimonianza non di una confusione concettuale ma al contrario di fermento scientifico ed auspicava la salvaguardia di ogni indirizzo in quanto depositario di una parte di verità (Aversa, 1995) Questo prezioso precetto epistemologico sembra particolarmente pertinente allorchè ci si accosti ad un campo complesso e controverso come l’adolescenza, nel quale sono confluiti negli anni una messe incredibilmente vasta di contributi ed interpretazioni. Questo passaggio è però necessario ai fini della trattazione qui in oggetto in quanto l’adolescenza è ormai riconosciuta come lo scenario principale, seppur non esclusivo (Chatoor, 1998), dell’insorgenza di problematiche relative alle condotte alimentari. Naturalmente in questa sede non essendo possibile dare conto di tutti questi contributi, si è scelto di presentare soprattutto le riflessioni maturate in ambito psicoanalitico, il quale 92 si è occupato in maniera approfondita di questa particolare fase dello sviluppo umano. Verrà inoltre assegnata particolare attenzione a quei passaggi del processo adolescenziale che riguardano più specificamente le ragazze e che rappresentano dei momenti particolarmente significativi soprattutto per le ragazze anoressiche. Anche in questo caso, come spesso accade, è utile iniziare affidandosi all’etimologia, la quale indica come radice del termine adolescenza, adolescere che in latino significa crescere. Quindi da lungo tempo questa fase della vita viene considerata un passaggio tra l’infanzia e l’età adulta, la cui caratteristica più evidente è rappresentata dall’incipiente cambiamento in diverse aree dell’esistenza. Infatti in questo periodo è piuttosto esplicita la metamorfosi fisica ed emozionale durante le quali il giovane si sente estraniato dal Sé che fino a quel momento aveva conosciuto. Kestemberg (1962) a questo proposito sottolinea come una delle sensazioni più tipiche di questo periodo sia il vuoto percepito dall’adolescente, provocato dal non essere più un bambino, ma neanche ancora un adulto. Questo duplice movimento di rinnegamento dell’infanzia da una parte e di ricerca di uno status adulto dall’altra, danno ragione delle diverse manifestazioni osservate in questo periodo. In questo senso l’adolescenza è sicuramente un periodo di ricerca, sia interiore per riorganizzare la propria identità, sia esteriore per cercare il proprio posto nella vita. A questo si aggiunge anche il desiderio progressivo di un'altra persona con cui soddisfare le esigenze sempre crescenti di intimità e di appagamento. Per alcuni la stabilità emozionale raggiunta nella fanciullezza e la sicurezza degli attaccamenti familiari limitano l’ampiezza delle oscillazioni e permettono una direzione abbastanza costante; mentre altri, come ad esempio le ragazze anoressiche, devono lottare per conservare un senso di unità e un minimo di controllo dell’Io (Bruch, 1978). Il passaggio attraverso l’adolescenza quindi rappresenta un periodo critico, attraverso il quale un bambino ancora nella fase di gioco, fortemente dipendente dalla famiglia e con un futuro ancora poco definito, diventa responsabile di se stesso, la sua personalità ha assunto un modello stabile ed il suo futuro inizia a prendere forma. Il periodo che conduce alla risoluzione dell’adolescenza è particolarmente importante quindi, perché in questo momento la personalità deve condensarsi in una unità funzionante (Lidz, 1971). Il raggiungimento di una integrazione riuscita dipende da un passaggio ragionevolmente riuscito attraverso tutti i precedenti stadi di sviluppo (Blos, 1962), ma anche dalla soluzione di un certo numero di compiti specifici per l’adolescenza che conducono ad una reintegrazione e riorganizzazione della struttura della personalità per consentire all’individuo di funzionare come un adulto ragionevolmente autosufficiente. Infatti il 93 processo adolescenziale culmina, senza con questo voler tracciare un modello universalmente valido, nella formazione di una stabile identità dell'Io, che consiste secondo Erikson (1972), in un senso di coerenza unica di comportamento che permette agli altri di crearsi aspettative su come quella persona reagirà o si comporterà. Il raggiungimento poi di una identità dell’Io è profondamente collegata con l’acquisizione della capacità di dirigersi verso l’indipendenza con una persona del sesso opposto, un intimità che significa molto di più della capacità di avere rapporti sessuali, riguarda piuttosto la capacità di formare un rapporto significativo senza paura di perdita del Sé (Lidz, 1971). Ma l’adolescenza è un lungo periodo di sviluppo e vi sono diversi compiti da eseguire prima che possa essere raggiunta una identità dell’Io. Come già precedentemente sottolineato l’adolescenza è un processo talmente poliedrico che ciascuno degli studiosi che ad essa si sono affiancati, ha posto l’accento su un aspetto più specifico, come ad esempio: l’accesso alla genitalità, il lutto per la perdita degli oggetti infantili, i meccanismi di difesa, il narcisismo o ancora l’ideale dell’Io, le identificazioni e il corpo. Cercheremo ora di approfondire alcuni di questi compiti di sviluppo soprattutto in riferimento alla maturazione psicologica della ragazza.. Il corpo ricopre un ruolo speciale in questo momento dello sviluppo in quanto ad esso si ascrivono le prime trasformazioni tangibili. Infatti la crescita prepuberale e poi lo sviluppo puberale propriamente detto, impongono all’adolescente cambiamenti somatici di notevole portata. Nella ragazza di dieci o undici anni la crescita del seno, della statura, del peso e più tardi la comparsa delle mestruazioni, impongono necessariamente una profonda ristrutturazione della sua immagina corporea. In effetti, più che il profondo cambiamento del suo corpo, quello che più risulta disturbante o soddisfacente per la ragazza è di solito l’inizio della mestruazione. Il menarca è un momento critico nella vita di una donna e la frequenza delle difficoltà mestruali di origine emozionale, tra le quali può essere ricondotta anche l’amenorrea delle ragazze anoressiche, indica che è spesso anche una fonte di acuto disturbo. Secondo Jacobson (1974) il menarca può riattivare nella ragazza onnipresenti insoddisfazioni e preoccupazioni rispetto alla femminilità. Può realizzarsi in questo periodo una riattivazione dell’angoscia di castrazione, già sperimentata nella fanciullezza. Il modo in cui la ragazza accetta il cambiamento del suo fisico e la mestruazione dipende anche da altri elementi come: la stabilità della sua identità sessuale, la fermezza dell’assegnazione del genere da parte dei genitori durante i primi anni di vita, il passare attraverso il periodo edipico in maniera tale da giungere ad una ferma identificazione con 94 la madre, o ancora dalle identità di gruppo acquisite durante il periodo di latenza e dal rapporto dei genitori tra loro (Chasseguet-Smirgel, 1970)). Queste trasformazioni corporee portano anche ad influire notevolmente sullo sviluppo del narcisismo. In certa misura infatti l’attenzione e la preoccupazione dei giovani adolescenti sono assorbite narcisisticamente, mentre è diretto verso l’acquisto di una nuova immagine di sé mediante le rapide alterazioni nel fisico e nei sentimenti che portano a confronti e a intense relazioni con amici dello stesso sesso. Soprattutto nella prima adolescenza infatti il ragazzo si mantiene sempre all’interno degli stessi gruppi monosessuali come ha fatto nel periodo di latenza, qui poi inizia ad avere intensi coinvolgimenti soprattutto con persone dello stesso sesso. La persona adorata è qualcuno di molto simile a sé o qualcuno che il giovane vorrebbe diventare; in un certo senso è come se non ci fosse ancora una netta divisione tra identificazione e scelta d’oggetto (Lidz, 1971). Nel processo del muoversi dall’amore di sé all’amore di un’altra persona, l’amore per qualcuno simile a sé, è una stazione intermedia. Lo sviluppo e la successiva stabilizzazione del narcisismo adulto sono considerati necessari, l’adolescente deve scegliere nuovi oggetti ma deve anche scegliere se stesso in quanto oggetto di interesse, di rispetto e stima (Marcelli e Braconnier, 1999). Il modo in cui certi adolescenti maltrattano il proprio corpo, e questo è tragicamente evidente nell’anoressia nervosa, può essere considerato un segno delle loro difficoltà narcisistiche. Un altro momento critico dell’adolescenza, particolarmente spinoso per le ragazze anoressiche è l’accesso alla genitalità, in cui l’individuo si affranca dal primato delle pulsioni parziali pregenitali, per accedere ad una sessualità matura dove gli impulsi e i desideri vengono diretti verso una persona esterna alla famiglia con la quale poter instaurare un rapporto di intimità e scambio reciproco. Nel corso di questa evoluzione ricopre una certa importanza l’esito della riattivazione del complesso edipico, in quanto con l’insorgere dei sentimenti sessuali c’è anche un qualche risveglio degli investimenti edipici. Il lavoro del periodo edipico deve essere compiuto ancora una volta ma ad un livello differente, poiché questa volta i sentimenti sessuali non saranno rimossi quanto distolti dal genitore. Mentre il maschio in questo periodo inizia ad idealizzare la madre, la femmina invece si allontana dal padre ed il padre si allontana da lei. Ciò costituisce di solito la rinuncia primaria del suo attaccamento al padre piuttosto che una ripetizione (Lidz, 1971). In condizioni ottimali, uno stabile rapporto tra i genitori, i quali mantengono appropriati limiti tra loro stessi ed il figlio, guida l’adolescente ad una risoluzione inconscia dell’attrazione verso i genitori, proprio come ha aiutato a produrre la prima 95 risoluzione edipica. Questo processo di trasformazione esprime con chiarezza un altro passaggio doloroso ma cruciale per l’adolescente e cioè la perdita per i propri oggetti infantili. Sebbene sia molto comune assistere allo scontro tra un adolescente che richiede maggiore libertà e i genitori che esitano a concedergliela, gran parte dei conflitti implicano le stesse ambivalenze del ragazzo allorchè egli è combattutto tra un bisogno di svincolarsi e i suoi desideri di sicurezza ed affetto che sta lasciando dietro di sé. A questo proposito alcuni autori hanno paragonato l’adolescenza ad un lavoro di elaborazione del lutto, in quanto alle modificazioni fisiologiche e pulsionali si aggiunge un altro grande movimento intrapsichico legato all’esperienza di separazione dalle figure autorevoli dell’infanzia, ad un cambiamento nelle modalità di relazione e dei progetti e piaceri realizzati in comune. Il lavoro dell’adolescente, come quello legato all’elaborazione del lutto, consiste dunque in una “perdita d’oggetto” nel senso psicoanalitico del termine. Questa perdita si realizza su un duplice livello, come perdita dell’oggetto primario e come perdita dell’oggetto edipico. In entrambi i casi l’adolescente è indotto a conquistare la propria indipendenza liberandosi dell’ascendente che i genitori hanno su di lui. In conclusione, il prodotto finale del complesso lavoro adolescenziale è, o dovrebbe essere, il raggiungimento di una identità stabile e strutturata. Questo dipende in gran parte dall'esito delle “operazioni” che l’adolescente è chiamato a realizzare e che in questo paragrafo sono state succintamente sintetizzate. Ma il modo in cui l’adolescente affronta i compiti che questo delicato passaggio gli presenta, dipende molto dalla solidità dei diversi elementi dell’identità che via via si sono costruiti dalla nascita alla pubertà (Erikson, 1972). L’identità rimanda quindi alla qualità delle prime relazioni precoci, costitutive dell’identità stessa. Più queste relazioni precoci sono state soddisfacenti, più hanno permesso un investimento del Sé continuo ed equilibrato, più il sentimento d’identità sarà stabile e sicuro, e meno si farà sentire l’antagonismo tra il bisogno oggettuale e l’integrità narcisistica in quanto la relazione oggettuale è sempre stata un sostegno per l’identità e non una minaccia per essa. In questo caso l’avvento dell’adolescenza caratterizzata dalla necessità di nuovi contatti umani, non minaccerà la base narcisistica dell’individuo (Marcelli e Braconnier, 1999). In questa prospettiva i disturbi delle condotte alimentari, e su tutti l’Anoressia Nervosa, assumono nuovi significati, se considerati come una profonda chiusura nei confronti delle relazioni umane, vissute come minaccianti a causa di una struttura narcisistica estremamente fragile. 96 ADOLESCENZA E ATTACCAMENTO Dopo la psicoanalisi vediamo ora un’altra angolatura attraverso la quale è possibile osservare il processo adolescenziale: la teoria dell’attaccamento. Parlare di attaccamento nel corso dell’adolescenza può sembrare una cosa con poco senso, in quanto anche agli occhi di un osservatore profano, l’adolescente appare continuamente impegnato in un deciso allontanamento dalle proprie figure di attaccamento e sempre pronto a sottolineare come i legami con i suoi familiari siano qualcosa di opprimente invece che rassicurante. La preoccupazione maggiore dell’adolescente in questo periodo non sembra essere più quella dell’attaccamento, ma quella dell’autonomia e dall’affrancamento dall’influenza genitoriale. Eppure parlare di attaccamento rispetto all’adolescenza non è banale né infruttuoso, poiché sempre più lavori sembrano evidenziare che autonomia e attaccamento, in questa fase della vita, non sono due termini incompatibili, ma al contrario continuamente interconnessi poiché la ricerca dell’autonomia avviene spesso sullo sfondo di solide e sicure relazioni di attaccamento (Allen, Hauser, Bell e O’Connor, 1994). Tutto questo è anche teoricamente compatibile con le affermazioni di Bowlby (1969/1982) e Ainsworth (1972) i quali consideravano i sistemi comportamentali dell’attaccamento e dell’esplorazione, in equilibrio dinamico tra loro, equilibrio garantito dalla presenza di un genitore che funzioni da “base sicura” (Ainsworth, 1972) consentendo al bambino di esplorare l’ambiente circostante con tranquillità. Quindi non è l’attaccamento di per sé ad essere un nemico dell’esplorazione, quanto invece un attaccamento insicuro (Ainsworth et al., 1978). Una volta quindi stabilita la pertinenza dell’approccio, secondo il paradigma dell’attaccamento l’adolescente evolve dallo stato di colui che riceve cure dai genitori, allo stato di colui che potenzialmente rivolge le proprie cure a qualcun altro. In questo passaggio avvengono importanti metamorfosi a livello cognitivo, affettivo e comportamentale. Un cambiamento cognitivo importante di questo periodo e, foriero di sensibili conseguenze sul sistema di attaccamento, è l’avvento del pensiero formale e operazionale, che comprende la capacità di ragionamento logico e astratto (Flavell, 1996). Un importante precipitato di questa capacità a livello di attaccamento è ad esempio la possibilità di fare estese considerazioni e simulazioni astratte sui rapporti con le diverse figure di attaccamento sia tra loro che con ipotetiche relazioni ideali. In questo periodo l’accresciuta funzionalità cognitiva del ragazzo gli consente di produrre elaborazioni di secondo livello sui suoi schemi d’interazione con i genitori (“Mia madre mi aiuta quando 97 sto male” e “Mio padre mi ignora quando sono in difficoltà”), astraendone una rappresentazione integrata e complessiva (“Quando ne ho bisogno posso contare su alcune persone ma non su altre”). Inoltre l’accesso al pensiero formale permette all’adolescente di formarsi una posizione generale nei confronti dell’attaccamento, maturata grazie alla generalizzazione e astrazione, ora possibili, a partire dai molteplici modelli delle diverse relazioni di attaccamento posseduti durante l’infanzia e la fanciullezza (vanIjzendoorn, 1995). Nell’adolescente quindi i diversi modelli di attaccamento infantili manifestati con diverse persone che si prendono cura di loro, si ricompattano in un’unica prevalente organizzazione del sistema di attaccamento, altamente predittiva del comportamento futuro nelle nuove relazioni di attaccamento. Ma lo sviluppo delle capacità cognitive dell’adolescente non influisce solamente sul modo in cui il ragazzo si rappresenta l’attaccamento, ma anche sui suoi rapporti quotidiani con i genitori. Il cambiamento più evidente riguarda la capacità di instaurare con i genitori una relazione corretta secondo lo scopo (Bowlby, 1969/1982), in cui l’adolescente coordina i propri bisogni e desideri in base alle aspettative di risposta dei propri genitori formando così un sistema flessibile basato su evoluti meccanismi di feedback. La natura sempre più corretta secondo lo scopo della relazione genitori-adolescente rende possibile quella che può apparire come una inconciliabile contraddizione: maturare sempre di più il proprio senso di autonomia nel contesto di una stretta e durevole relazione con i genitori (Allen e Land, 1999). Sembra quindi che anche in adolescenza non venga affatto soppressa una delle caratteristiche più qualificanti l’attaccamento, e cioè il comportamento di “base sicura” (Ainsworth, 1972). La maggior parte dei giovani si rivolgerà ancora ai genitori in condizioni di forti stress e i genitori saranno ancora considerati figure di attaccamento fino alla giovane età adulta. Questa nozione trova conferma nella ricerca, che suggerisce che la presenza del comportamento rivolto ad ottenere l’autonomia dell’adolescente tende ad essere fortemente correlato con una positiva relazione genitoriale (Allen, Hauser, Bell e O’Connor, 1994). Questa osservazione ci riconduce al peso delle differenze individuali circa l’attaccamento sull’evolversi più o meno problematico del processo adolescenziale. Ad esempio l’uso da parte degli adolescenti di strategie preoccupate, secondo la classificazione di Main e Glodwyn (1994), è stato trovato più strettamente legato a problemi di tipo depressivo, come ad esempio è evidenziato da Kobak, Sudler e Gamble (1991). Altri studi, dopo aver confermato la prevalenza di modelli di attaccamento preoccupati/invischiati in adolescenti depressi, 98 mettono in evidenza anche la correlazione esistente tra strategie distanzianti e sintomi di tipo antisociale come l’abuso di sostanze o i disturbi della condotta (Rosenstein e Horowitz, 1996). Partendo da questi dati, Kobak (1999) suggerisce che le diverse strategie di attaccamento potrebbero predire differenti dimensioni psicopatologiche, in quanto le strategie riflettono diversi approcci nell’affrontare i fattori collegati allo stress. Secondo questa ipotesi gli adolescenti distanzianti potrebbero sviluppare sintomi che li distraggono da questi fattori, mentre gli individui preoccupati sviluppano sintomi che mettono in primo piano gli elementi stressanti e lasciano il sistema di attaccamento in uno stato di maggiore attivazione. Secondo gli autori la netta prevalenza di strategie distanzianti in adolescenti con disordini alimentari, supporta la loro ipotesi in quanto l’attenzione data ai comportamenti alimentari distrae gli individui dai sentimenti di disagio emotivo interno. Ma, a prescindere da eventuali sbocchi psicopatologici, le strategie di attaccamento in adolescenza sono anche fortemente collegate alle modalità comunicative e di risoluzione dei conflitti (Allen e Land, 1999). I giovani con strategie di attaccamento sicuro tendono a impegnarsi in discussioni produttive, cercando di mantenere un equilibrio fra ricerca di autonomia e bisogno di attaccamento. I giovani insicuri, al contrario, mostrano una maggiore tendenza all’evitamento del conflitto, così come un maggiore disimpegno nelle relazioni con i genitori. A questo punto del discorso, però, è importante sottolineare per non rimanere intrappolati in uno sterile monadismo, che l’alta concordanza tra l’organizzazione dell’attaccamento dei ragazzi e quella dei loro genitori, suggerisce l’opportunità di parlare più che di adolescenti sicuri o insicuri, di diadi sicure/insicure (Benoit e Parker, 1994). Infatti in questi casi l’evitamento e la rabbia disfunzionale vengono considerate come risposte comprensibili se le diadi stanno interpretando gli sforzi degli adolescenti per raggiungere l’autonomia come una reale minaccia alla relazione diadica. Queste modalità di interazione delle famiglie di adolescenti insicuri, possono essere potenzialmente problematiche ad ogni momento dello sviluppo, ma sono particolarmente critiche nell’adolescenza, quando le lotte per l’autonomia richiederebbero una certa sensibilità nella negoziazione della relazione con i genitori. Quanto detto sembra confermare per l’adolescenza quello che ormai appare abbastanza chiaro per l’infanzia e cioè che l’organizzazione di attaccamento dei figli sembra essere un interfaccia complementare di quella dei genitori. A questo punto però la domanda cruciale è: quando l’organizzazione dell’attaccamento diviene proprietà dell’individuo e smette di essere unicamente il riflesso delle maggiori relazioni di attaccamento della sua vita? Allen 99 e Land (1999), i quali sostengono che l’organizzazione dell’attaccamento rifletta primariamente una strategia per la gestione delle emozioni intense, sottolineano come, fino a quando è necessario per l’individuo fare ampiamente affidamento sulla figura di attaccamento per la regolazione affettiva, è inevitabile e adattativo che la strategia usata dall’adolescente nella regolazione affettiva sia compatibile con quella del genitore. Soltanto quando non si farà più affidamento in modo così rilevante sui genitori per regolare le emozioni sarà possibile che si sviluppi un approccio indipendente e personale nel farlo; e l’adolescenza secondo questi autori è uno stadio in cui questa trasformazione può più probabilmente avvenire. ATTACCAMENTO E DISTURBI DEL COMPORTAMENTO ALIMENTARE Come abbiamo sottolineato all’inizio di questa sezione, la premessa alle diverse applicazioni della teoria dell’attaccamento alla psicopatologia negli adulti e negli adolescenti risiede nel fatto che i tratti comportamentali, cognitivi e affettivi del sistema di attaccamento sono centrali per lo sviluppo complessivo della personalità e del funzionamento adattivo. La dimensione dell’attaccamento ha un impatto notevole sulla formazione delle credenze e delle competenze sociali, sull’emergente senso del Sé, sull’ autoefficacia e l’autostima, sulla capacità di regolare la vita affettiva e sulle motivazioni. Il risultato di un attaccamento insicuro include non solo il rischio di un deterioramento significativo in queste aree di funzionamento, ma anche la possibilità di una profonda rottura o ritardo nello sviluppo psicologico individuale attraverso i “periodi sensibili” (Cicchetti, 1993). Questo può essere particolarmente vero nei periodi che richiedono una trasformazione delle relazioni di attaccamento. Chiaramente l’adolescenza, con la sua enfasi sulla separazione dai genitori e sull’acquisizione dell’indipendenza, è un periodo sensibile chiave per il sistema dell’attaccamento (Holmbeck e Hill, 1986). Considerando che la maggior parte dei casi di disturbo alimentare hanno esordio durante l’adolescenza sembra evidente come questi sintomi possano essere una manifestazione di una negoziazione maladattiva dell’adolescenza come anche della rottura dei processi di attaccamento a questo livello di sviluppo (Striegel-Moore et al. 1993) Di fatto la prima studiosa che si accorse dell’esistenza di uno stretto legame tra attaccamento ed alimentazione fu Hilde Bruch (1973, 1978), una psicoanalista “classica” che intuì la significativa relazione intercorrente tra l’attaccamento e le precoci esperienze alimentari, sottolineando la natura fortemente interattiva della situazione di allattamento 100 (Bruch, 1973). Trovò inoltre particolarmente fruttuosi e coerenti con il suo atteggiamento teorico i lavori che intorno a quegli anni andava pubblicando la Ainsworth (1967, 1969), la quale, prima di mettere a punto la sua procedura per valutare la sicurezza dell’attaccamento nel bambino in laboratorio alla fine del primo anno (Ainsworth, 1978), stabilì dei punti fissi nel comportamento di accudimento del genitore particolarmente correlati con la sicurezza dell’attaccamento nel bambino. Qualità come sensibilità ai segnali, cooperazione piuttosto che interferenza, accettazione anziché rifiuto e disponibilità contro indisponibilità sembravano definire il profilo di una adeguata figura di attaccamento. Di questi contributi Bruch (1973) colse soprattutto le parti in cui Ainsworth (1969) sottolineava come bambini di dodici mesi i quali avevano sperimentato, negli episodi di nutrizione, interazioni con le loro madri appropriate e rispettose dei propri bisogni e cui era stata permessa una attiva partecipazione all’allattamento, mostravano un attaccamento più forte alle loro madri, con una chiara tendenza a cercare la loro vicinanza ed esprimendo stress durante la loro assenza. Al contrario bambini con esperienze di nutrimento inadeguate mostravano poca o addirittura assente ricerca della vicinanza o del contatto e non mostravano il consueto comportamento di aggrappamento quando venivano presi in braccio, anzi spesso resistevano a questa iniziativa della madre. Quando la madre tornava dopo una assenza, essi la ignoravano e in alcuni casi si allontanavano da lei. Bruch utilizzò queste osservazioni della Ainsworth, che qualche anno più tardi come abbiamo visto si sarebbero perfezionate nell’individuazione dei tre modelli di attaccamento, per perorare le proprie idee sull’eziopatogenesi dei disturbi alimentari, da essa attribuiti ad un mancato rispetto, da parte della madre nel corso delle precoci interazioni, soprattutto nelle situazioni di nutrizione, della autonomia e dei ritmi propri del bambino, imponendo invece i propri. Spesso, continua Bruch (1978), nelle storie cliniche dei soggetti affetti da problemi alimentari, si è cercato non sempre con successo, la presenza di grave negligenza, rifiuto e cronica mancanza di amore, mentre secondo questa studiosa il conflitto è più sottile e risiederebbe nel fatto che la risposta ai bisogni del bambino da parte della madre è spesso inappropriata, in quanto quest’ultima agisce in base a quello che lei crede siano i bisogni del bambino, spesso però sbagliando in questa sua valutazione ed imponendo i propri. Più o meno nello stesso periodo ci furono altri due autori che produssero contributi in qualche modo avvicinabili a quelli di Bruch. Palazzoli (1978), ad esempio ha descritto la relazione patologica tra il bambino e una madre intrusiva, emotivamente fredda ed esigente, la quale viene poi interiorizzata dal bambino come una rigida funzione di 101 controllo. Al momento dell’adolescenza l’individuo deve confrontarsi con l’insopprimibile esigenza di autonomia e con l’incremento delle urgenze libidiche legate alle trasformazioni del corpo. Attraverso l’identificazione con la propria relazione materna, la ragazza anoressica tenta di regolare l’ansia scaturita dalle proprie esigenze libidiche e di separazione psicologica controllando il proprio sviluppo fisico e quindi rimanendo magra. Analogamente Masterson (1977) ha sottolineato come nelle precoci interazioni con la madre la futura ragazza anoressica venisse attribuito grande valore alla dipendenza e come anche i minimi segni di separazione e indipendenza esponessero la bambina ad una intensa minaccia di abbandono da parte della madre. Questa dinamica relazionale porta ad una schiacciante paura dell’abbandono nella bambina e ad una profonda confusione nell’adolescente qualora ella tenti di realizzare i suoi fisiologici movimenti verso l’individuazione e la separazione. Tale paura e confusione viene risolta dalle anoressiche attraverso un evitamento della maturazione fisica che diventa il simbolo del rifiuto di un funzionamento psicologico autonomo. Malgrado quindi le differenze di enfasi, ognuno dei contributi sopracitati considera specifici disturbi nelle precoci relazioni madre-bambino, la lotta per l’autonomia durante l’adolescenza, il mantenimento di un corpo prepubere attraverso l’ossessiva ricerca della magrezza, come gli elementi costituenti del nucleo fondamentale alla base della Anoressia Nervosa. Anche nell’ambito della Bulimia Nervosa, però, possiamo trovare contributi in linea con quanto detto finora circa l’Anoressia. Infatti Sugarman e Kurash (1982) indicano che una inadeguata empatia nei confronti del bambino nelle precoci interazioni mina il normale processo di differenziazione corporea, portando ad una ostile o quantomeno ambivalente connessione tra il piccolo e le proprie funzioni corporee, così come ad una incompleta o attenuata separazione dalla madre. Il flusso dei cambiamenti corporei in adolescenza, insieme all’accresciuta necessità di autonomia psicologica e fisica, riportano il soggetto alla riattivazione di quei sentimenti ostili-ambivalenti che sono stati internalizzati ad un livello presimbolico e che vengono rivissuti a livello del corpo considerato come una incarnazione simbolica dell’oggetto primario. Tutti gli autori citati finora sono accomunati dall’importanza da essi attribuita al fallimento nello sviluppo del processo di separazione-individuazione come nucleo dinamico alla base dei disturbi alimentari. L’adeguata risoluzione di questo processo, così come era stato teorizzato da Mahler et al. (1975), porterebbe ad una stabile separazione sia fisica che cognitiva dall’oggetto materno, che mancherebbe invece nei soggetti affetti da Anoressia e Bulimia. Questo approccio nei confronti dei disturbi alimentari, basato sul 102 paradigma della separazione-individuazione, era il quadro di riferimento forte a livello psicodinamico, allorquando alcuni ricercatori si posero il problema di applicare la teoria dell’attaccamento ai disturbi alimentari. Sebbene sul piano teorico i due modelli di psicologia dello sviluppo presentino due concezioni dell’infanzia tra loro inconciliabili, sul piano clinico sembra possibile rintracciare alcune somiglianze. Nei termini della teoria dell’attaccamento, lo sviluppo dell’autonomia, fattore centrale per gli autori ispirati al modello di Mahler, è equivalente alla libertà di esplorazione dell’ambiente sociale e fisico, la quale è a sua volta direttamente proporzionale alla sicurezza delle relazioni di attaccamento e all’interiorizzazione di questo senso di sicurezza (Hazan e Ziefman, 1994). L’ipotizzata iperintrusività e presumibilmente una impropria tendenza alla protezione della madre dell’anoressica non consente alla bambina di sviluppare delle competenze adattive nel tollerare lo stress e l’angoscia associate alle minacce di separazione. La previsione, secondo la teoria dell’attaccamento, è che questi bambini presenteranno modelli insicuri quando il sistema di attaccamento verrà minacciato da una separazione. Sebbene vi siano stati risultati incoraggianti, finora non è stato possibile individuare uno specifico modello di attaccamento coinvolto nell’anoressia in quanto la ricerca patologica della magrezza e la valutazione dell’autostima completamente affidata al peso ed alle forme corporee, potrebbero essere interpretate come l’espressione sia di un attaccamento insicuro-evitante che insicuro-ambivalente (O’Kearney, 1996). Sarebbe possibile infatti ipotizzare che la preoccupazione della anoressica per il proprio corpo le permetta di limitare l’importanza della famiglia e delle relazioni con i pari evitando quindi l’ansia coinvolta nella separazione dalla famiglia e nelle nuove relazioni con gli altri (attaccamento Distanziante secondo Main e Goldwyn, 1994). Alternativamente, però, l’enfasi posta sulle forme del corpo, sul peso e sull’apparenza fisica, potrebbero essere viste come un’ ipervigilanza circa il giudizio degli altri e circa la possibilità di essere criticato, respinto o abbandonato (attaccamento preoccupato) (StriegelMoore, Silberstein e Rodin, 1993). Relativamente alla Bulimia, tratti fondamentali come la perdita del controllo e della volizione, associate alla frenetica assunzione di cibo, potrebbero riflettere in termini di attaccamento un’ incontrollabile angoscia di separazione collegata ad un modello di attaccamento insicuro-ambivalente. Infatti le oscillazioni tra periodi di restrizione e periodi di alimentazione caotica, molto comuni nella Bulimia, suggeriscono un parallelo movimento nelle funzioni di attaccamento. Anche qui però, come nel caso dell’anoressia, 103 non sono possibili più precisi collegamenti con un particolare modello di attaccamento insicuro sulla base dei dati attualmente disponibili. (O’Kearney, 1996). A cavallo tra gli anni ’80 e ’90, agli albori della ricerca sperimentale nel campo dei disturbi alimentari gli studiosi dell’attaccamento erano animati dalla speranza di costruire collegamenti specifici tra i diversi quadri clinici, come Anoressia e Bulimia, e gli stili di attaccamento. In particolare le previsioni teoriche consentite dalla teoria dell’attaccamento sottolineano le analogie tra Anoressia e attaccamento evitante-distanziante, e tra Bulimia e attaccamento ansioso-preoccupato. Come spesso accade i dati della ricerca hanno in parte messo in discussione le ipotesi di partenza, ma i risultati raccolti hanno comunque confermato la bontà dell’approccio. Passeremo ora in rassegna alcuni degli studi che hanno sottolineato la relazione tra attaccamento e disturbi alimentari e lo faremo facendo riferimento agli strumenti di misurazione più spesso utilizzati. Sebbene gli studi in questo campo siano numerosi, ma non numerosissimi, il quadro che ne emerge è piuttosto articolato, anche se qualche volta, è necessario ammetterlo, la complessità attraversa il sottile confine che la separa dalla confusione. ADULT ATTACHMENT INTERVIEW E DISTURBI ALIMENTARI Due studi (Cole-Detke e Kobak, 1996; Fonagy et al. 1996) hanno analizzato l’associazione tra stati della mente relativi alle esperienze di attaccamento e disturbi alimentari e sono addivenuti a risultati in qualche modo contrastanti. Cole-Detke e Kobak hanno somministrato ad un campione non clinico di giovani universitarie l’Eating Disorders Inventory (EDI) per la valutazione delle problematiche alimentari, il Beck Depression Inventory (BDI) per la valutazione dell’umore e la Adult Attachment Interview per la misurazione degli stati mentali riferiti all’attaccamento. Bisogna sottolineare che questo studio non prevedeva la quarta categoria Irrisolto/disorganizzato della AAI e che nessuna delle ragazze esaminate presentava problemi di tipo anoressico. Gli autori hanno riscontrato che il tipo di stati mentali differiva in modo significativo a seconda che le ragazze riferissero disturbi alimentari, depressione, una combinazione dei due o nessuno dei due. Le ragazze che riferivano soltanto disturbi alimentari venivano classificate con maggiore frequenza come Distanzianti; quelle invece che riferivano una combinazione di disturbi alimentari e depressione venivano classificate più frequentemente come Preoccupate, in modo analogo alle ragazze che riferivano soltanto depressione. 104 Fonagy et al. (1996) al contrario di Cole-Detke e Kobak, hanno somministrato l’AAI utilizzando tutte e quattro le categorie e ad essa hanno affiancato il Reflective SelfFunctioning (RSF) il quale valuta la qualità delle rappresentazioni individuali degli stati mentali, propri e degli altri. Dei 14 pazienti ricoverati per disturbi alimentari (di cui Fonagy et al. (1996) non specificano il tipo), uno risulta Sicuro/Autonomo, nove sono Preoccupati e quattro Distanzianti nella classificazione dell’AAI. Il dato peculiare di questo studio però è che dei 14 pazienti, 13 risultavano, oltre che Preoccupati o Distanzianti, anche Irrisolti rispetto ad un abuso o ad una perdita. Correlando i due strumenti, poi, gli autori hanno riscontrato una positiva associazione tra l’idealizzazione delle figure di attaccamento, quale emergeva dalla AAI, ed una bassa funzione riflessiva: indipendentemente dalla categoria di attaccamento, cioè, la dimensione “idealizzazione dei genitori” risultava predittiva di una scarsa capacità di riflettere sui propri stati emotivi. Questi due studi sono in parte contrastanti poiché in uno le persone con disturbi alimentari risultano più spesso Distanzianti mentre nell’altro risultano più spesso Preoccupate, ma anche perché lo studio di Fonagy et al. sottolinea l’importanza della categoria Irrisolto mentre lo studio di Cole-Detke e Kobak non prende neanche in considerazione questa dimensione. Però, ad una analisi più approfondita, non sono completamente assenti anche i punti di contatto: infatti grazie al riscontro di un’ alta percentuale di persone classificate come Distanzianti nel proprio campione, Cole-Detke e Kobak (1996) hanno dedotto che le donne con disturbi alimentari tentano di controllare il proprio mondo interno attraverso il disturbo alimentare e che il tipo di controllo esercitato è orientato esternamente. Questo tipo di controllo viene scelto secondo gli autori poiché le donne con disturbi alimentari non sono in grado di analizzare i propri stati psicologici e di fronteggiarli, invece di dirigere l’angoscia sui loro corpi. Quest’ultima conclusione però è piuttosto coerente con l’accento posto da Fonagy et al. (1996) sul fatto che le ragazze del proprio campione abbiano ricevuto dei punteggi piuttosto bassi sulla scala che misura la qualità della funzione riflessiva. Ramacciotti et al. (2001) hanno esaminato con l’AAI un campione di 13 soggetti (7 femmine e 6 maschi) con diagnosi di Anoressia ottenuta attraverso una Intervista Clinica Strutturata basata sui criteri del DSM IV. L’attaccamento insicuro è risultato essere il più frequente in questo campione e specificamente 5 soggetti sono stati classificati Distanzianti e 4 Preoccupati-Invischiati. Gli autori sottolineano come l’attaccamento insicuro, la paura dell’abbandono e le difficoltà con l’autonomia differenziano i giovani soggetti con disturbi alimentari dai loro coetanei normali. Le rappresentazioni di sé e degli altri sono 105 caratterizzate da insicurezza, disprezzo delle relazioni interpersonali e rabbia, tutti elementi che giocano un ruolo centrale nell’Anoressia. Questo studio apporta ulteriore sostegno all’idea che la mancanza di fiducia in sé stessi e l’insicurezza, che pervadono l’esperienza delle anoressiche e bulimiche, possono dipendere dalle relazioni sperimentate nel corso dell’infanzia durante la quale i genitori non sono stati in grado di fornire una base sicura. Sebbene questo di Ramacciotti et al. (2001) sia indubbiamente un contributo prezioso, ne vanno però sottolineati i limiti, tra l’altro molto comuni in questo campo di ricerca, come l’esiguità del campione e la mancanza di un gruppo di controllo, normale o con altri disturbi psichiatrici non alimentari. Piuttosto stimolante è anche la ricerca presentata da Ward et al. (2001) tendente a stabilire l’eventuale consistenza della trasmissione intergenerazionale dei modelli di attaccamento tra pazienti anoressiche e le loro madri. Le previsioni degli autori erano quelle di trovare: 1) un alto livello di insicurezza tra le pazienti anoressiche; 2) un più alto livello di insicurezza tra le madri rispetto a quello previsto nella popolazione normale; 3) la presenza di una associazione tra stati della mente relativi attaccamento all’interno delle coppie madre-figlia. Lo sfondo teorico di questo lavoro è rappresentato non solo dai dati che sostengono una stabilità dei pattern di attaccamento tra le generazioni (Benoit e Parker, 1994; Fonagy et al. 1996), ma anche da una intuizione della Bruch (1973) la quale suggeriva che le difficoltà interne della madre venivano proiettate sul bambino. Ward et al. (2001) hanno studiato 20 ragazze anoressiche e 12 delle loro madri. A tutti i partecipanti veniva chiesto di completare l'AAI, mentre le madri hanno dovuto completare anche la Clinical Interview Schedule Revised (CIS-R) per indagare una eventuale sintomatologia psichiatrica. I risultati confermano le prime due ipotesi di questo studio, ma non la terza. Il 95% delle ragazze (75% Distanzianti e 20% Preoccupate) ed il 66% delle madri (58% Distanzianti e 8% Preoccupate) presenta un modello di attaccamento insicuro. Non solo, un dato ancora più significativo è che 8 madri su dieci erano irrisolte rispetto esperienze di lutto e 8 ragazze su sedici (poiché in quattro casi non è stato possibile raccogliere informazioni sufficienti) erano classificate irrisolte rispetto a una perdita o a un trauma. In questo studio tuttavia non è emersa nessuna significativa associazione fra gli stati della mente relativi all’attaccamento all’interno delle coppie madre-figlia. Comunque la preponderanza dello stile distanziante sia tra le madri che tra le figlie consente a Ward et al. (2001) di sottolineare il parallellismo tra allontanamento difensivo di emozioni potenzialmente dolorose legate all’attaccamento, tipico del modello Distanziante, e la 106 negazione della fame nelle anoressiche. Queste pazienti risultano, secondo gli autori, più lente nel generare specifiche memorie autobiografiche in risposta a domande cariche di significato affettivo. Inoltre in questo gruppo i livelli autoriportati di abuso genitoriale correlano fortemente con la tendenza a produrre resoconti generali, piuttosto che specifici e circostanziati, rispetto ad eventi negativi. Secondo Ward et al. (2001) questo riflette una distorsione cognitiva dei processi difensivi che è collegata con precedenti esperienze avverse e suggerisce che non solo il modello Distanziante è molto diffuso ma che la mancata risoluzione del lutto può essere più comune in queste famiglie di quanto si sia abitualmente creduto. PARENTAL BONDING INSTRUMENT E DISTURBI ALIMENTARI Il Parental Bonding Instrument (PBI) (Parker et al. 1979), è un questionario che non fa esplicito rimando alla teoria dell’attaccamento, ma merita comunque di essere menzionato in questa sede, poiché diverse ricerche sui disturbi alimentari si sono avvalse di questo strumento, compreso il lavoro qui presentato. La presenza di un “legame” (bond) tra i genitori e i figli è ampiamente accettato, anche se già Bowlby (1969/1982) lamentava la mancanza di una soddisfacente definizione del concetto. Teoricamente si assume che il legame genitore-bambino sia ampiamente influenzato dalle caratteristiche individuali del bambino (temperamento/intelligenza), dalle caratteristiche dei genitori (fattori psicologici/culturali) e dalla dinamica interconnessione di questi due fattori (Caprara e Gennaro, 1994). Parker, Tupling e Brown (1979), si sono posti il problema di esaminare il contributo genitoriale al legame con il bambino e di isolarne i fattori principali. Secondo questi autori per raggiungere tale scopo era necessario misurare i comportamenti ed atteggiamenti genitoriali, per poi estrarne dei fattori. A questo proposito Parker et al. citano i lavori di Roe e Siegelman (1963) e Schaefer (1965) i quali dopo aver sottoposto un campione di bambini ad una serie di item relativi al comportamento dei loro genitori, attraverso analisi fattoriale hanno distinto due principali fattori bipolari: 1) Accettazione/Rifiuto; 2) Autonomia/Controllo. Alla luce di questi contributi Parker et al. (1979) decidono che il contributo genitoriale al legame può essere concettualizzato sulla base di due principali variabili: Cura e Iperprotezione. Questa posizione teorica porta alla creazione del PBI un questionario di autovalutazione che consente di apprezzare in che modo il soggetto percepisce i comportamenti e gli atteggiamenti dei genitori nei suoi confronti. Lo 107 strumento esprime due dimensioni, la Cura e la Iperprotezione, che vengono considerati congiuntamente rispetto a ciascun genitore. Un punteggio alto relativamente alla Cura e basso per la Iperprotezione, sono espressione di un livello ottimo di genitorialità. Russell et al. (1992) hanno voluto verificare, utilizzando proprio questo strumento la consistenza di alcune caratteristiche solitamente attribuite alle ragazze anoressiche ed alle proprie famiglie, soprattutto nella letteratura clinica (Bruch, 1973; Masterson, 1977). Le famiglie di queste pazienti infatti, vengono spesso descritte come rigide, invischiate, iperprotettive ed evitanti rispetto ai conflitti (Minuchin et al. 1978). I genitori di questi pazienti sono stati notati per essere più vecchi rispetto alla media e sono stati descritti come conformi ad un certo tipo di stereotipi, il più diffuso dei quali è quello che vuole le madri come dispotiche e dominanti ed i padri come deboli e remissivi. Questo studio ha confrontato i risultati di un gruppo di 54 ragazze anoressiche con quelli di un gruppo non clinico di adolescenti e di un gruppo con diversi disturbi psichiatrici, esclusi quelli alimentari. Tutte le ragazze anoressiche tranne due, vivevano con le proprie famiglie. I risultati hanno sostanzialmente disatteso le aspettative legittimate dalla letteratura tradizionale. Le pazienti con Anoressia Nervosa hanno riportato, sia rispetto alle madre che al padre, un più alto livello di Cura e un più basso livello di Iperprotezione, rispetto al gruppo di pazienti non anoressiche: i loro punteggi erano, cioè, assai più vicini al gruppo non clinico per quanto riguarda Iperprotezione e Cura. Inoltre, pur valutando l’esperienza con i genitori in modo analogo al gruppo non clinico rispetto alla dimensione della Cura, le pazienti anoressiche di questo studio hanno mostrato addirittura una tendenza a considerare i propri genitori come meno iperprotettivi. Questi risultati però sono stati messi in discussione da diversi studi che, sempre utilizzando il PBI, hanno invece posto in evidenza quanto l’entità delle cure genitoriali, soprattutto materne, fosse percepita come scarsa dalle adolescenti anoressiche. Palmer. Oppenheimer e Marshall (1988) in uno studio su 72 pazienti (35 con Anoressia e 37 con Bulimia) riportano che questi soggetti riferiscono di un atteggiamento materno lacunoso rispetto alle cure e quindi meno caloroso, affettuoso ed empatico. Solo le bulimiche di questo campione descrivevano anche i loro padri come meno affettuosi e interessati. Nessuno dei due gruppi però differiva da un campione di controllo nei termini della Iperprotezione percepita sia materna che paterna. Il riscontro, comune nei due studi appena presentati, di un basso livello di Iperprotezione nel campione con disturbi alimentari, trova argomentazioni contrarie nel lavoro di Pole, Waller, Stewart e Parkin-Feigenbaum (1988), dove una proporzione significativamente bassa del proprio campione di 56 bulimiche 108 percepiva entrambi i genitori con un alto livello di Cura ed un basso livello di Iperprotezione; in particolar modo le madri ricevevano punteggi più bassi nella Cura e i padri punteggi più alti nella Iperprotezione. Questi risultati sono stati parzialmente replicati da Calam, Waller, Slade e Newton (1989) i quali hanno preso in considerazione 98 donne con Anoressia e Bulimia, queste ultime distinte dagli autori tra quelle con o senza una storia di Anoressia. Questi soggetti e i 242 facenti parte del gruppo di controllo hanno completato il PBI. I punteggi relativi alle cure materne e paterne e quelli relativi alla iperprotezione paterna erano in grado attendibilmente di discriminare tra il gruppo di controllo ed il gruppo clinico, particolarmente nei confronti delle bulimiche con storie di Anoressia Nervosa. Questo aspetto è stato ulteriormente approfondito da Steiger, Van deer Feen, Goldstein e Leicher (1989) i quali hanno utilizzato il PBI con un gruppo clinico di 58 donne con Anoressia di tipo restrittivo, Bulimia con o senza storia di Anoressia, Bulimia di tipo anoressico ed un altro gruppo clinico di 24 donne con disturbi non alimentari. I risultati del PBI mettono in rilievo delle significative differenze tra i due gruppi, rispetto alle dimensioni di Cura e Iperprotezione paterne. Le pazienti con disturbi alimentari classificano i propri padri come più inadeguati rispetto alle cure di quanto non facciano i soggetti del gruppo clinico non alimentare. Inoltre una ragguardevole disuguaglianza circa la protezione paterna emergeva soprattutto a carico delle bulimiche di tipo anoressico le quali percepivano i loro padri come intensamente iperprotettivi. Non c’erano tra i due gruppi considerevoli differenze circa i punteggi di cura e protezione materne. Per concludere questa digressione sui contributi apportati dal PBI allo studio dei disturbi alimentari è opportuno citare il lavoro che Berger et al. (1995) hanno condotto in Giappone allo scopo di investigare la forza del legame tra abusi infantili e disturbi alimentari. La percezione del legame genitoriale è stata studiata in 52 ragazze giapponesi con disturbi alimentari, che avevano avuto o meno storie di abuso sessuale o fisico e che mostravano tratti di dissociazione. La strumentazione usata in questo studio comprendeva, oltre il PBI, la Dissociative Experiences Scale (DES) e la Dissociative Disorders Interview Schedule (DDIS). Il primo è un questonario autosomministrato che ha lo scopo di rilevare i disturbi dissociativi, mentre la seconda è una intervista usata per accertare la presenza di storie di abuso fisico o sessuale. I punteggi del PBI erano paragonati tra le ragazze che riportavano storie di abuso infantile e quelle che non ne riportavano. Uno dei risultati insieme interessante e controverso di questo studio è che i punteggi di Cura materna e quelli di Cura e 109 Iperprotezione paterni erano significativamente più bassi in quei soggetti che riportavano abuso fisico, ma non tra quelli in cui era stato riscontrato abuso sessuale. I punteggi di Iperprotezione materna non differivano sostanzialmente tra i due gruppi. Risultati analoghi apparivano sul versante della DES dove solo i soggetti con storia di abuso fisico fornivano un punteggio alto su questo strumento. Infine non sono state riscontrate importanti correlazioni tra i punteggi del PBI e quelli del DES. La scoperta fondamentale di questo studio è che le valutazioni del comportamento genitoriale differiscono cospicuamente tra pazienti con problemi alimentari che hanno conosciuto nell’infanzia l’abuso fisico e quelli senza tali esperienze. La Cura materna e paterna erano molto più basse e la Iperprotezione paterna molto più alta nei pazienti con abuso fisico, ma non in quelli con abuso sessuale. Il livello di Iperprotezione materna non differiva per ognuna delle categorie di abuso. Gli autori ipotizzano che uno dei motivi della discrepanza di punteggi al PBI e alla DES, tra individui con abuso fisico rispetto a quelli con abuso sessuale sia che la gravità dell’abuso sessuale non avesse lo stesso impatto traumatico dell’abuso fisico. Berger et al. (1995) poi sottolineano come, a causa della differenza osservata nei punteggi del PBI tra quelli che hanno o meno avuto storie di abuso nel loro passato, sia consigliabile per un clinico tenere in considerazione l’ipotesi di un abuso infantile, quando si trova ad interpretare il PBI di un paziente con disturbi alimentari. La maggioranza dei lavori presentati in questo paragrafo suggeriscono la possibilità di rivedere lo stereotipo della madre dominante e del padre debole e sottomesso poiché iniziano a divenire sempre più numerose le evidenze empiriche che mettono in risalto l’incidenza di un padre iperprotettivo e controllante nella storia di vita di queste persone. ALTRE MISURE DELL’ATTACCAMENTO E DISTURBI ALIMENTARI Quantunque la AAI (George, Kaplan e Main, 1985) venga da molti considerata la “gold standard” (Ward et al. 2000) degli strumenti per la valutazione dell’attaccamento nell’adulto, nel campo di ricerca dei disturbi alimentari diversi altri strumenti hanno fornito importanti contributi a questa area di studi. Salzman (1997) ha condotto uno studio in cui ha avuto la possibilità di osservare un legame piuttosto consistente tra un particolare pattern di attaccamento e due correlati clinici di una certa importanza: instabilità affettiva e disturbi alimentari. Utilizzando l’Adolescent Attacchment Interview (Salzman, 1988) ed una scala di valutazione delle 110 autodescrizioni e delle esperienze interpersonali, l’autrice ha avuto modo di constatare differenze statisticamente significative tra attaccamento Sicuro, Ambivalente ed Evitante rispetto a tre variabili di personalità come depressione, autostima e identificazione negativa con la madre. I soggetti con attaccamento Ambivalente mostrano drammatiche differenze in queste dimensioni rispetto ai soggetti Sicuri o Evitanti. Le scoperte in questo studio di Salzman però non finiscono qui, infatti inaspettatamente l’autrice ha riscontrato anche che degli 11 soggetti classificati con attaccamento Ambivalente 7 riportano disturbi alimentari ( soprattutto Anoressia Nervosa o Anoressia di tipo bulimico) e 9 testimoniano alti livelli di sentimenti intensamente dolorosi. Questa inaspettata correlazione tra attaccamento Ambivalente e disturbi alimentari conferisce forza alle osservazioni riportate da Cassidy (1988) la quale riscontrò una chiara tendenza, nei bambini e negli adolescenti Ambivalenti, ad esprimere ansia sotto forma di sintomi espliciti o di preoccupazioni per le forme corporee. L’analisi delle interviste di queste ragazze ha consentito a Salzman (1997) di ipotizzare che i sintomi alimentari siano un’ espressione trasfigurata della paradossale oscillazione tra amore e odio, calore e freddezza così tipiche del modello Ambivalente di attaccamento. Questi soggetti accusano infatti, durante l’adolescenza, la sensazione di non padroneggiare un solido senso di autoregolazione né una responsività condivisa all’interno delle relazioni di attaccamento. Piuttosto esse percepiscono se stesse come intrappolate nel paradosso tra bramosia verso la madre e la volontà di respingerla. Salzman, facendo eco a Bruch (1973) suppone che queste ragazze solo all’interno del sintomo anoressico, soprattutto di tipo bulimico, siano padrone di qualcosa, e cioè di orchestrare le proprie oscillazioni. Il comportamento anoressico delle figlie è lo specchio di quello che hanno vissuto nelle relazioni di attaccamento. La caratteristica comune delle precoci transazioni alimentari così come del modello Ambivalente di attaccamento è che ognuna di queste esperienze non era regolata dai bisogni di cura e di attenzione del bambino o dell’adolescente, ma dalle necessità materne. La stessa enfasi nei confronti del ruolo dell’attaccamento Ambivalente-Preoccupato nell’esordio dei disturbi alimentari è condiviso da Friedberg e Lyddon (1996), i quali hanno utilizzato il Relationship Questionnaire (RQ) di Bartholomew e Horowitz (1991) per testare le posizioni di Guidano (1988) in merito all’organizzazione cognitiva personale (P.C.Org.) di individui con disturbi alimentari. Guidano (1988) ha suggerito che l’organizzazione cognitiva personale di questi soggetti è caratterizzata da una debole demarcazione tra sé e gli altri, per cui l’identità individuale è organizzata intorno ad un forte bisogno di approvazione da parte degli altri significativi, congiunto con una pervasiva 111 paura di essere rifiutato dagli altri e con una scarsa consapevolezza dei propri desideri. Naturalmente è piuttosto evidente la somiglianza di questo assetto cognitivo interno con quello che in termini di attaccamento viene considerato lo stato della mente PreoccupatoInvischiato rispetto alle passate esperienze di attaccamento (Main e Golddwyn, 1994)). Il Relationship Questionnaire è una estensione empirica della concettualizzazione di Bartholomew (1990) il quale sviluppa quattro categorie di attaccamento basate sulla combinazione incrociata di diversi tipi di modelli operativi interni del Sé e degli altri: Sicuro (modello di sé positivo/modello degli altri positivo); Preoccupato (modello di sé negativo/ modello degli altri positivo); Distanziante (modello di sé positivo/modello degli altri negativo); Spaventato (modello di sé negativo/modello degli altri negativo). Freidberg e Lyddon (1996) amalgamando entrambi i contributi di Guidano e Bartholomew hanno confrontato un campione non clinico con uno clinico di 17 soggetti (7 con Anoressia Nervosa e 10 con Bulimia Nervosa) rispetto ai risultati ottenuti con la RQ. Una analisi discriminante ha consentito di rilevare che gli stili di attaccamento Sicuro e Preoccupato erano i più efficaci nel discriminare tra i soggetti che sarebbero stati inclusi nel gruppo non clinico rispetto a quelli assegnati al gruppo con disturbi alimentari. Secondo il pensiero di Bartholomew (1990) il modello Preoccupato è contraddistinto da personalità dipendente, ipercoinvolgimento nelle relazioni, continua ricerca di accettazione da parte di altri idealizzati e mantenimento di un basso livello di valore personale; tutti elementi che vengono attribuiti da diversi ricercatori (Freidberg e Lyddon, 1996), ai pazienti con disturbi alimentari soprattutto se bulimici.. Lynda Chassler (1997) utilizzando l’Attacchment History Questionnaire (Pottharst,1990) ha messo a confronto un gruppo composto da 30 donne sia Anoressiche che Bulimiche, con un gruppo di controllo di 31 studentesse universitarie, allo scopo di determinare la connessione tra relazioni di attaccamento e disturbi alimentari. L’AHQ è una intervista strutturata che esprime quattro fattori: 1) Base sicura di attaccamento; 2) Disciplina genitoriale; 3) Minacce di separazione; 4) Supporto affettivo dei pari. In questo lavoro i soggetti del gruppo clinico hanno riportato punteggi significativamente più bassi dei controlli sui fattori 1 e 4, mentre i punteggi erano più alti dei controlli sui fattori 2 e 3. Questi dati di Chassler aggiungono supporto empirico alla speculazione teorica secondo la quale le anoressiche e le bulimiche percepiscono una storia di attaccamento più fallimentare, sia in termini di natura che di qualità del proprio attaccamento alle figure primarie, rispetto ai soggetti normali. 112 ATTACCAMENTO E DISTURBI ALIMENTARI: CONCLUSIONI Presi nella loro totalità, i dati passati in rassegna in questa sezione supportano l’ipotesi che una certa quota di disturbi dell’attaccamento risultino evidenti in adolescenti con disturbi alimentari. Questi studi suggeriscono che ansia, attaccamento insicuro, paura dell’abbandono e difficoltà con lo sviluppo dell’autonomia, differenziano giovani donne con sintomi alimentari dalle loro coetanee normali. In aggiunta le loro rappresentazioni circa la qualità affettiva del proprio attaccamento ai genitori e il livello di supporto ricevuto dai genitori per l’autonomia sono associate con specifici tratti dei loro disturbi come la ricerca della magrezza e il comportamento bulimico. Queste associazioni sono conformi con il supposto legame teorico tra gli ostacoli posti dai genitori allo sviluppo dell’attaccamento Sicuro e dell’autonomia e gli aspetti chiave della patologia alimentare. Oltre a ciò alcuni dei diversi studi passati in rassegna tendono a sottolineare come il presunto legame tra intrusività ed iperprotettività materne e sintomi non sia sufficientemente supportato quando misurato attraverso il recupero di memorie relative alla Cura e Iperprotezione genitoriali (PBI). In realtà le ragazze con disturbi alimentari, soprattutto quando sono presenti tratti di tipo bulimico, ricordano più spesso i loro padri, che non le loro madri, come iperprotettivi. Malgrado poi l’evidente rilevanza dell’attaccamento insicuro in ragazze con patologia alimentare e la correlazione tra questo tipo di attaccamento ed elementi chiave dei disturbi alimentari, conclusioni circa il loro ruolo nello sviluppo di patologie psicologiche e comportamentali caratteristiche dei disturbi alimentari risultano ostacolate da significative limitazioni metodologiche presenti in diversi studi. L’ostacolo più evidente che impedisce di estrapolare ponderate inferenze a partire dai dati a disposizione, è la mancanza di appropriati gruppi di controllo. Troppo pochi studi, ad esempio, utilizzano gruppi di comparazione di tipo psichiatrico non alimentare, in modo da rafforzare le inferenze circa la specifica connessione tra organizzazione dell’attaccamento e patologia alimentare. Inoltre pochi studi hanno fatto dei tentativi di selezionare un adeguato gruppo di controllo che consentisse di non confondere la relazione tra misure dell’attaccamento e gli aspetti problematici dei disturbi alimentari che sono però presenti anche in gruppi di giovani donne senza problemi alimentari, come ad esempio le diete restrittive, la depressione e l’ansia. In aggiunta a questi ci sono poi altri problemi di campionamento che possono minacciare la validità interna degli studi e limitare la forza delle inferenze circa il coinvolgimento dell’attaccamento nei disturbi alimentari. Ad esempio l’enfasi evolutiva 113 della teoria dell’attaccamento e l’accento posto sulle rotture dell’attaccamento all’interno di periodi sensibili, come ad esempio l’adolescenza, suggerisce che l’età dovrebbe essere considerata una variabile più importante di quanto invece non accada nella maggioranza degli studi. La rilevanza degli esiti dell’attaccamento e i meccanismi psicologici individuali che gestiscono questi esiti sono probabilmente assai diversi in una ragazza di 14 anni con un esordio recente di Anoressia Nervosa, piuttosto che in una donna di 24 anni con alle spalle una storia lunga 7 anni di Anoressia. Viene anche spesso trascurata con una certa disinvoltura l’influenza dei fattori culturali, considerando che molti di questi studi vengono realizzati con l’ausilio di studenti universitari nordamericani e che l’applicabilità di questi risultati ad una più ampia popolazione non sono ancora stati verificati, anche se qualche tentativo si sta compiendo (Broberg, Hjalmers e Nevonen, 2001). Anche la terminologia adottata dai diversi autori può essere considerata un limite con cui questi studi si devono confrontare. Ci sono per esempio importanti differenze sul significato attribuito ad esempio alla categoria Anoressia/Bulimia nei diversi lavori. Per alcuni significa Anoressia con dei sintomi di Bulimia (Kenny e Hart, 1992), per altri Bulimia con una storia di Anoressia (Calam et. Al. 1989). Oppure comunemente il termine “ansioso” è usato con il significato di Ansioso-Ambivalente nell’accezione della Strange Situation o Preoccupato, indicando uno stato equivalente nell’adulto secondo la AAI. Sfortunatamente differenti strumenti definiscono il termine in maniera leggermente diversa. Comunque è ragionevole supporre che tra le differenti terminologie utilizzate Ansioso-Ambivalente/Preoccupato/Iperdipendente siano tra loro ampiamente sovrapponibili così come per le categorie Evitante/ Distanziante. In conclusione anche gli autori più scettici (O’Kearney, 1996) ammettono l’evidente presenza di modalità di attaccamento insicure nella popolazione di soggetti sofferenti di patologie alimentari come anche l'associazione tra queste modalità e gli aspetti chiave della psicopatologia alimentare. Autori più spregiudicati come Ward (et. al. 2000) pensano addirittura che si possano ragionevolmente stabilire delle specifiche relazioni tra Anoressia e attaccamento Evitante e, tra Bulimia e attaccamento Ansioso-Ambivalente/Preoccupato. Quantunque un pizzico di euforico ottimismo non guasti neanche nella ricerca scientifica, non è ancora opportuno considerare l’insicurezza dell’attaccamento il fattore eziologico definitivo nell’insorgenza delle psicopatologie alimentari soprattutto per tre motivi: 1) I limiti metodologici che come abbiamo visto ancora affliggono molti di questi studi; 2) Se è vero che la maggioranza dei soggetti con disturbi alimentari presentano un 114 tipo di attaccamento insicuro, è pur vero che non tutti i soggetti con attaccamento insicuro sviluppano patologie alimentari; 3) Non è ancora possibile discernere se l’attaccamento insicuro sia causa o effetto di disturbi alimentari, anche se sforzi in questo senso si stanno realizzando (Sharpe et al. 1998). Considerate tutte queste molteplici limitazioni, appare quantomeno insufficiente l’applicazione, nel dominio della psipatologia alimentare, così come per la psicopatologia generale, di un “modello ad unica via” in cui l’attaccamento funzioni come passe par tout. Come è stato sottolineato infatti nell’introduzione a questa sezione, la psicopatologia, soprattutto quella alimentare, deve utilizzare un modello esplicativo multivariato in cui trovino spazio diversi livelli di analisi come il temperamento, il comportamento attuale dei genitori, i conflitti coniugali, fattori ambientali, le relazioni con i coetanei, la disciplina genitoriale. A giudicare allora dai diversi fattori in gioco, ciascuno dei quali aumenta la complessità e diluisce la consistenza di effetti principali, sembra più fruttuoso studiare come specifici aspetti dell’attaccamento, piuttosto che globali stili di attaccamento, siano in relazione a comportamenti alimentari disturbati. 115 CAPITOLO VI LA RICERCA INTRODUZIONE Negli anni più recenti, la ricerca sulla possibile eziologia dei disturbi alimentari si è sviluppata seguendo diverse linee guida che hanno, di volta in volta, prediletto aspetti differenti del sintomo, come il livello neurochimico e neuropsichiatrico oppure dando più risalto ai fattori socioculturali, così come a quelli psicologici. La tradizione di ricerca che negli ultimi vent’anni si è impegnata ad evidenziare i fattori causali di tipo psicologico, ha enfatizzato in particolar modo le relazioni familiari e le relazioni interpersonali, con speciale attenzione per le relazioni madre-figlia. Rispetto a quest’ultimo filone, l’importanza del legame tra disturbi alimentari e difficoltà nelle relazioni più intime ha guadagnato nuova centralità grazie al fecondo contributo della teoria dell’attaccamento. Particolarmente pertinenti con il lavoro qui presentato sono tutti quei lavori che si sono focalizzati sulle differenze individuali degli stili di attaccamento, sia nell’infanzia, valutate attraverso le risposte presentate di fronte a minacce di separazione (Ainsworth et al. 1978), sia in età adulta attraverso l’apprezzamento dello stato mentale nei confronti delle esperienze di attaccamento (George, Kaplan e Main, 1985). In questi ed in altri studi, le categorie utilizzate per cristallizzare i diversi modelli di attaccamento hanno denominazioni diverse a seconda delle età, ma in ognuna di queste classificazioni si opera una distinzione fondamentale tra modalità sicure/insicure di attaccamento. Diverse ricerche empiriche scaturite dall’alveo della teoria dell’attaccamento hanno segnalato l’attaccamento insicuro come un fattore di rischio per lo sviluppo di diverse psicopatologie nell’infanzia e nell’adolescenza (Greenberg, 1999). Tra questi, hanno particolare rilevanza per il presente lavoro quegli studi, in parte citati nel precedente capitolo, da cui emerge un legame evidente tra modelli operativi interni insicuri dell’attaccamento e disturbi alimentari. Alcuni di questi studi hanno utilizzato come strumenti di misura la AAI (Ramacciotti et. al. 2001, Ward et al. 2001, Fonagy et al. 1996, Cole-Detke e Kobak, 1996) mentre altri si sono avvalsi di diversi strumenti per valutare le 116 differenze individuali rispetto all’attaccamento (Chassler, 1997, Sharpe et al. 1998, Freidberg e Lyddon, 1996, Salzman 1997, Kenny e Hart, 1992, Broberg et al. 2001). Comunque tutti questi contributi, sebbene diversi tra loro per tipo di campionamento, di misure e gruppi di controllo utilizzati, evidenziano con una certa vividezza il ruolo non trascurabile che le diverse organizzazioni dell’attaccamento ricoprono all’interno delle patologie alimentari e, costituiscono la cornice concettuale all’interno della quale sono maturati gli obiettivi teorici che animano il lavoro qui esposto: PRIMO OBIETTIVO : Nelle ragazze che compongono il gruppo qui preso in esame e che rispondono ai criteri diagnostici che qualificano l’Anoressia Nervosa, si dovrebbero riscontrare stati della mente insicuri relativamente all’attaccamento, valutati con l’ausilio della IAL. In termini più concreti il nostro gruppo di ragazze dovrebbe differenziarsi significativamente se confrontato con un campione non-clinico, mentre dovrebbe risultare più simile ad un campione clinico, in riferimento alla distribuzione dei pattern di attaccamento Distanziante-Ds, Preoccupato-E, Sicuro/Autonomo-F. SECONDO OBIETTIVO : I genitori delle ragazze che compongono il gruppo clinico dovrebbero produrre descrizioni di scarsa Cura e/o alta Iperprotezione nei confronti dei propri rispettivi genitori e presentare delle categorie non ottimali di genitorialità, soprattutto le madri delle ragazze rispetto alla propria madre. Queste variabili relative alla Cura ed alla Iperprotezione concernente il padre e la madre dei genitori vengono valutate attraverso il PBI. TERZO OBIETTIVO : Verificare in che modo le categorie espresse dai genitori al PBI si distribuiscono all’interno delle categorie generali di attaccamento rilevate nelle ragazze, con le IAL; in altri termini si vuole osservare la relazione che intercorre tra l’attaccamento rilevato nelle ragazze anoressiche e le esperienze riportate dai rispettivi genitori. In particolare dovremmo constatare la presenza di una genitorialità non ottimale nei genitori delle ragazze anoressiche che mostrano un attaccamento insicuro. 117 METODO Soggetti In questo studio sono stati utilizzati due gruppi di soggetti: Pazienti: La ricerca ha preso in esame 12 ragazze con Anoressia Nervosa che sono state selezionate tra le persone che si rivolgono all’Ambulatorio per i Disturbi del Comportamento Alimentare, il quale afferisce al Dipartimento di Scienze Neurologiche e Psichiatriche dell’età evolutiva dell’Università degli studi di Roma “la Sapienza”. L’età delle ragazze si distribuisce all’interno di un intervallo che va da 11 a 16 anni (media = 14,9). La diagnosi di Anoressia Nervosa è stata formulata seguendo i criteri del DSM-IV. Nessuna delle pazienti esaminate presentava comorbilità con altri disturbi relativi all’asse I o all’asse II. Tutte le ragazze esaminate avevano un esordio recente del sintomo, la maggior parte di loro si trovava ad affrontare il primo colloquio diagnostico, mentre alcune erano ritornate in ambulatorio dopo circa due settimane dal primo colloquio, per il controllo del peso e dello stato di salute da parte della pediatra responsabile del servizio. In sede di primo colloquio queste ragazze vengono sottoposte ad un esame obiettivo, da cui tra le altre cose si ricavano il peso e l’altezza, e ad una serie di test psicologici tra i quali abbiamo scelto l’EAT (Eating Attitude Test) (Garner e Garfinkel, 1979). Lavorando sui dati relativi ad altezza e peso e precisamente dividendo il peso per il quadrato dell’altezza si ottiene il BMI (Body Mass Index) un indice quantitativo del grado di deperimento delle ragazze; i punteggi inferiori a 17,5, indicano sottopeso. L’EAT è un questionario autosomministrato di 40 domande relative al rapporto del soggetto con il cibo, che utilizza per ogni item una scala Likert a 5 punti. Tutti i punteggi superiori a 30 indicano la presenza di un disturbo alimentare. Genitori: Lo studio ha anche preso in considerazione i 20 genitori (10 madri e 10 padri) delle ragazze, ciascuno dei quali ha compilato il PBI relativo all’esperienza di attaccamento con i propri genitori. Per quanto riguarda le madri di queste adolescenti l’età si distribuiva in un intervallo compreso tra 37 e 46 anni (media = 42,3) mentre i padri avevano età comprese tra i 45 e i 53 anni (media 49,6). 118 Procedura Per concludere la ricerca grazie alla disponibilità del Servizio di Igiene Mentale del Dipartimento delle Scienze Neurologiche e Psichiatriche dell'Età Evolutiva di via dei Sabelli e del suo direttore, prof. Cuzzolaro, sono stato introdotto nell’Ambulatorio per i Disturbi del Comportamento Alimentare, dove ho affiancato la pediatra responsabile del servizio, dott.ssa Piccolo, durante i colloqui diagnostici preliminari che ogni ragazza doveva affrontare. Alla fine di ogni colloquio, dopo il consolidamento della diagnosi di Anoressia Nervosa, si chiedeva la disponibilità delle ragazze e dei genitori circa la possibilità di sottoporsi rispettivamente ad una intervista e ad un questionario. La realizzazione di questa procedura ha incontrato però molti ostacoli; ad esempio due ragazze che avevano dato la loro disponibilità a partecipare all’intervista durante il successivo colloquio di controllo che si sarebbe svolto quindici giorni dopo, non sono più venute al centro. Altre due ragazze invece, tra quelle che avevano mostrato interesse nel compiere l’intervista in un momento successivo, non hanno potuto effettuarla poiché sono state ricoverate a causa del peggioramento del loro stato di salute. Concretamente quindi le famiglie con cui abbiamo preso contatto erano in tutto 16, mentre quelle che sono state realmente esaminate sono state 12. Alle ragazze è stato preventivamente comunicato che si chiedeva loro di rispondere ad una intervista individuale avente lo scopo di investigare le relazioni familiari infantili ed attuali. Dopo aver chiesto il permesso delle ragazze, data la minore età, abbiamo ottenuto anche il consenso dei loro genitori, garantendo naturalmente il massimo rispetto dell’anonimato e la riservatezza per i contenuti dell’intervista. La somministrazione dell’intervista ha avuto luogo immediatamente dopo il colloquio diagnostico o, quello di controllo, a cui anche il sottoscritto partecipava, per instaurare un minimo di contatto preliminare prima di intervistare i soggetti su contenuti intimi e potenzialmente dolorosi. La durata media di ogni intervista è stata di 60 minuti circa. Durante questo periodo ai genitori veniva chiesto di compilare il PBI, un questionario self-report, che misura la personale percezione del comportamento e dell’atteggiamento dei rispettivi genitori nei propri confronti, la cui compilazione non ha richiesto più di 15 minuti. La procedura standard di raccolta dei dati relativi alle IAL prevede di solito l’utilizzo di un apparecchio per la registrazione, che raccoglie l’intero colloquio svoltosi tra l’intervistatore e l’intervistato. Alla nostra richiesta però di registrare l’intera intervista su supporto magnetico, alcune ragazze e, la totalità dei genitori, hanno ritirato la propria disponibilità ad effettuare l’intervista. Per questo motivo siamo stati costretti ad affidare la 119 raccolta delle informazioni dell’intervista alle capacità di scrittura veloce dell’intervistatore. La mancanza di un trascritto integrale però ha compromesso la possibilità di ottenere dei punteggi attendibili per ogni sottoscala IAL, consentendo soltanto la classificazione globale del soggetto in una delle categorie generali di attaccamento. La codifica, inoltre è avvenuta “in cieco” in quanto le IAL sono state successivamente trascritte verbatim ed i protocolli sono stati codificati da siglatori esperti abilitati da Mary Main, mentre il sottoscritto si è occupato della codifica dei PBI. Strumenti di misura INTERVISTA SULL’ATTACCAMENTO IN ETA’ DI LATENZA (IAL): L’Intervista sull’Attaccamento in Età di Latenza (IAL) è una intervista semistrutturata concepita per valutare le rappresentazioni mentali delle relazioni di attaccamento in preadolescenza e adolescenza, elaborata da un gruppo di ricercatori e docenti dell’Università di Roma “La Sapienza” (Ammaniti et al., 1990), sulla base dell’Adult Attachment Interview (AAI) di George, Kaplan e Main (1985). La struttura e la sequenza delle domande rimangono le stesse, ma il linguaggio è stato semplificato e adattato a soggetti preadolescenti. Alcune domande sono state eliminate, perché inutilizzabili con questa fascia d’età, come ad esempio quella relativa alla paura di perdere un figlio, mentre ne sono state aggiunte altre soprattutto relative alle relazioni sociali dei soggetti con i pari. Ancora più corrispondenti poi sono le premesse e gli obiettivi delle due interviste; la IAL infatti, come l’AAI, si propone di esplorare la storia e la stabilità familiare del soggetto, le relazioni di attaccamento con la madre, con il padre e con altri significativi, le esperienze di crisi (malattie, turbamenti), di separazione (allontanamenti, primo giorno di scuola, etc.) e di perdita, compreso il tipo di risposta dei genitori ai bisogni di sostegno del figlio in questi momenti. Queste aree d’interesse condivise dai due strumenti esprimono le due ipotesi di base su cui si fonda già la prima stesura del manuale non pubblicato dell’AAI (George, Kaplan e Main, 1985): 1) le differenze individuali nel funzionamento dei modelli rappresentazionali può essere espressa nell’organizzazione del pensiero e del linguaggio in relazione all’attaccamento; 2) come gli episodi di allontanamento-riunione possiedono una grande forza nell’attivare la motivazione all’attaccamento nel bambino di 18/20 mesi e ad evidenziarne le differenze individuali, così le domande relative alle esperienze infantili nei rapporti con le figure di accudimento e di specifiche situazioni 120 connesse con la motivazione primaria di attaccamento (separazioni, perdite, situazioni di crisi, etc.), costituiscono, per l’adolescente/adulto, un potente stimolo che riattiva le emozioni e le rappresentazioni mentali relative alle relazioni di attaccamento, e consentono la rilevazione delle differenze individuali nello “stato della mente attuale” rispetto alle passate esperienze di attaccamento. Anche per quanto riguarda le procedure di analisi e di codifica del trascritto viene utilizzato il sistema di codifica elaborato da Main e Goldwyn (1994) per l’AAI. Sulla base delle ipotesi sopra enunciate l’attenzione delle autrici, a partire dalla prima stesura dell’intervista, si andò sempre più concentrando sulle variazioni relative alla valutazione dello “stato mentale attuale”, definite operativamente in termini di indicatori formali dell’organizzazione del discorso, fino a ritenere la valutazione delle variabili relative alla “probabile esperienza” del comportamento dei genitori durante l’infanzia, basata su indicatori di contenuto del resoconto, scarsamente determinanti nella formulazione dei profili assegnati alle diverse categorie di attaccamento e a considerare i ricordi autobiografici come rilevanti per tale valutazione solo attraverso la forma in cui l’autobiografia è presentata. In altre parole sebbene la IAL prenda in considerazione la storia personale relativa all’attaccamento, per la codifica viene data maggiore attenzione all’organizzazione formale e semantica della narrazione prodotta, cioè al modo in cui il soggetto organizza le sue risposte nelle diverse fasi dell’intervista e allo stesso tempo anche alla sua capacità di collaborare attivamente al compito propostogli dall’intervistatore. Rispetto alla codifica allora, il processo di analisi di ogni protocollo IAL consiste nell’estrapolazione di due serie di punteggi, una relativa al contenuto ed una relativa alla forma. Successivamente l’intervista viene valutata nel suo complesso per assegnare la categoria di attaccamento. Ognuna delle due dimensioni dell’intervista, forma e contenuto, viene valutata attraverso l’ausilio di una scala a 9 punti. La valutazione del contenuto dell’intervista, considerato da Main e Goldwyn (1994) come indice della “probabile esperienza infantile del soggetto con il padre e con la madre, considerati separatamente, avviene attraverso l’attribuzione di un punteggio da 1 a 9 alle seguenti 5 scale: 1. Loving: amorevolezza. 2. Rejecting: atteggiamento rifiutante. 3. Role-reversing/involving: inversione dei ruoli e coinvolgimento. 121 4. Pressure to achieve: pressione a raggiungere obiettivi esterni. 5. Neglecting: mancata presenza fisica, trascuratezza e noncuranza. Successivamente viene valutato lo stato mentale attraverso l’assegnazione dei punteggi ad altre 9 scale, che vengono valutate sulla base dell’intero trascritto: 1. Idealization of parents: idealizzazione dei genitori. 2. Derogation of parents: svalutazione dell’attaccamento. 3. Involving anger : rabbia coinvolgente. 4. Lack of recall: mancanza di ricordi. 5. Coherence of mind: coerenza della mente. 6. Coherence of trascript: coerenza del trascritto. 7. Passivity of thought: passività del pensiero. 8. Fear of loss: mancata risoluzione di lutti e/o traumi. 9. Reflective self: processi metacognitivi. Anche le prime tre scale dello “stato mentale”, come tutte quelle della “probabile esperienza”, sono valutate separatamente per il padre e la madre. Dopo aver assegnato i punteggi alle singole scale, viene effettuata la valutazione globale dell’intervista, in base alle categorie individuate da Main e Goldwyn (1994): categoria Ds-Distanziante; categoria F-Sicuro/Autonomo; categoria E-Preoccupato/Invischiato; categoria U-Irrisolto/Disorganizzato; categoria CC (Cannot Classify)-Non Classificabile (per la descrizione specifica di ogni categoria si rimanda il lettore al capitolo 5 pag. 69-71). Ognuna di queste categorie però possiede anche delle sottocategorie che hanno lo scopo di rendere lo strumento più efficace nell’abbracciare la complessità e le sfumature di cui ogni individuo è portatore. Queste sottocategorie che attraversano trasversalmente tutti i raggruppamenti principali si distribuiscono lungo un continuum che va dalla più distanziante alla più coinvolta: -Ds1-“distanziante l’attaccamento”: i soggetti assegnati a questo sottogruppo sembrano fare di tutto per allontanare dai propri ragionamenti tutte le esperienze di attaccamento, che probabilmente furono caratterizzate da mancanza di amore e/o da aperto rifiuto. La narrazione è contrassegnata da una mancanza di ricordi associati all’infanzia a cui fa seguito una forte idealizzazione delle figure di attaccamento, non accompagnata però 122 dal racconto di ricordi specifici che possano circostanziare o confermare il giudizio complessivo. -Ds2-“svalutante l’attaccamento”: il soggetto manifesta una fredda ed attiva svalutazione dell’esperienza di attaccamento, descrivendo il genitore con disprezzo e dichiarando di aver fatto sempre e solo affidamento sulle proprie forze. Questo atteggiamento però a volte può essere tradito da interesse e vitalità malcelati verso quelle esperienze di attaccamento tanto svalutate. A volte infatti, il soggetto può fare osservazioni inaspettatamente intuitive o appassionate riguardo ad alcuni aspetti e ricordi della propria infanzia. -Ds3-“inibito nelle emozioni”: questi individui non risparmiano storie di rifiuto o mancanza di disponibilità, ma non ritengono che esse abbiano influenzato in modo significativo lo sviluppo della loro personalità e pertanto ne parlano senza risentimento e in termini di influenza minima. Può sembrare che questi soggetti maneggino con serenità e benevolo distacco le proprie esperienze di attaccamento dopo aver compiuto un processo profondo di rielaborazione e di perdono, ma ad un osservatore esperto non sfugge che il lietmotiv delle narrazioni di queste persone sia al contrario la sistematica elusione dal confronto con le proprie emozioni. -F1-“tendenti a mettere da parte l’attaccamento”: queste narrazioni spesso comprendono esperienze difficili, moderato rifiuto dell’attaccamento da parte dei genitori oppure la presenza di una inversione di ruolo perpetrata da uno dei genitori, da cui il soggetto ha poi preso le distanze. L’atteggiamento di distacco è tuttavia consapevole e viene riconosciuto il valore delle esperienze di attaccamento. -F2-”in qualche misura distanziante o limitante l’attaccamento”: nel corso dell’intervista o di una sua parte questi soggetti sembrano ostentare una certa sufficienza nei confronti dell’attaccamento, posizione che però viene smentita dall’affetto e dalla stima comunque avvertite per i genitori. Spesso possono mostrare una certa difficoltà nel ricordare ed una relativa idealizzazione per uno o entrambi i genitori. -F3-“sicuro/autonomo”: questo sottogruppo incarna le qualità prototipiche dell’attaccamento sicuro. Gli individui appartenenti a questa categoria pur essendo tra loro più eterogenei di quelli appartenenti ad altre sottocategorie, condividono una elevata coerenza mentale e buone capacità metacognitive. Questi individui inoltre si distinguono per la completa assenza di idealizzazione dei genitori e per la vividezza dei ricordi dell’infanzia. Per alcuni di essi la propria autonomia è il frutto naturale di una infanzia sicura, mentre per altri è il risultato sofferto di un cammino personale iniziato da premesse 123 tutt’altro che favorevoli come esperienze di rifiuto, di perdita, di separazione o perfino di abuso. A livello di discorso un soggetto sicuro fornisce una narrazione coerente e collaborativa, dà valore all’attaccamento, ma sembra oggettivo rispetto ad ogni particolare evento o rapporto. -F4-“attribuiscono grande valore alle relazioni, con qualche residuo coinvolgimento nei confronti delle figure di attaccamento, di separazioni o traumi”: Tali soggetti dimostrano di apprezzare gli affetti e i sentimenti e di essere moderatamente coinvolti verso le passate esperienze di attaccamento. Sono presenti gli indici più “leggeri” di pensiero passivo e una tendenza all’analisi psicologica, particolarmente rilevante nei soggetti Preoccupati. Appartengono a questa categoria anche soggetti che hanno subito esperienze traumatiche nell’infanzia, come la morte di una figura di attaccamento oppure abusi fisici o sessuali in ambito familiare, ma che nel corso dell’intervista risultano sia razionali che consapevoli. -F5-“in qualche modo risentiti o conflittuali, pur accettando il proprio attuale coinvolgimento”: riguarda i soggetti moderatamente preoccupati o in collera con le figure di attaccamento, ma che nonostante il conflitto riescono ad essere coerenti, abbastanza concisi e a tratti ironici. Riconoscono l’influenza delle passate esperienze sulla personalità attuale ed accettano consapevolmente il proprio coinvolgimento più che rifiutarlo. I genitori possono essere stati coinvolgenti ed aver invertito i ruoli. -E1-“passivo”: la narrazione di questi individui è caratterizzata da passività nei processi di pensiero, vaghezza, confusione e incoerenza. Il soggetto durante l’intervista passa da un argomento all’altro senza approfondire, in modo tale che riesce assai complicato stabilire quali fossero le reali esperienze, anche se è piuttosto probabile un alto coinvolgimento nei rapporti familiari. Sembra anche essere presente una pervasiva sensazione di fallimento nei propri sforzi di compiacere i genitori. -E2-“arrabbiato/conflittuale”: come suggerisce la denominazione i soggetti appartenenti a questa sottocategoria esprimono una forte rabbia nei confronti di uno o di entrambi i genitori. L’esperienza familiare è all’insegna di un grande coinvolgimento e spesso si riscontra inversione dei ruoli. L'intervista è spesso molto lunga, in quanto raccoglie lo sfogo del soggetto, che descrive con ricchezza di particolari le difficoltà con i genitori, specificando i motivi di contrasto con il racconto minuzioso di episodi disturbanti e delle proprie reazioni emotive. Spesso l’intervistatore avverte di essere sottilmente sollecitato da questi individui a schierarsi dalla loro parte. 124 -E3-“spaventato e preoccupato da eventi traumatici”: questa sottocategoria si riscontra piuttosto raramente nei campioni normali, in quanto i soggetti assegnati a questo gruppo hanno vissuto esperienze terrorizzanti relative all’attaccamento, che invadono tuttora i processi di pensiero, provocando confusione e spavento. Le esperienze più frequentemente associate con questo tipo di stati sono l’abuso fisico o sessuale ad opera di genitori o di estranei, perdite traumatiche, psicosi di un genitore. L’individuo non appare né attivamente arrabbiato con un genitore né veramente passivo, ma gli eventi della sua vita passata appaiono talmente soverchianti che non riesce a sottrarsi da un pensiero e da una preoccupazione costante al riguardo. Considerato il rapporto di discendenza che intercorre tra l’AAI e lo strumento utilizzato in questo lavoro ci sembra opportuno accennare alle proprietà psicometriche di entrambi gli strumenti. L’AAI naturalmente ha ricevuto molta attenzione da questo punto di vista e diversi sono stati gli studi realizzati con lo scopo di testarne la stabilità e la validità discriminante. Per quel che concerne ad esempio la stabilità di interviste condotte a distanza di due mesi l’una dall’altra (n=83), Bakermans-Kranenburg e vanIjzendoorn (1993) hanno trovato il 78% di attendibilità (kappa = .63) per tre categorie (la categoria irrisolto è meno stabile) ed hanno altresì verificato come la AAI non sia correlata con la desiderabilità sociale o con l’influenza di un particolare intervistatore. Inoltre a causa del peso che ricoprono i punteggi della coerenza del discorso e della mancanza di ricordi infantili, nell’attribuzione dei soggetti a categorie sicure o insicure, alcuni studi si sono incaricati di dimostrare che la sicurezza dell’attaccamento adulto non è correlata con l’intelligenza o con la fluenza verbale (Crowell, Fraley e Shaver, 1999). Altri studi invece per scongiurare sovrapposizioni con le capacità generali di memoria hanno trovato che le categorie dell’AAI sono indipendenti dalla memoria relativa a episodi non correlati all’attaccamento (Bakermans-Kranenburg e vanIjzendoorn, 1993). Infine riguardo alla validità predittiva vanIjzendoorn (1995) propone una poderosa meta-analisi allo scopo di indagare la correlazione tra la classificazione all’AAI del genitore e la Strange Situation del figlio, dalla quale emerge un forte legame tra i due strumenti.. Anche la IAL ormai può vantare sempre più studi che ne verificano le qualità psicometriche. Ammaniti, vanIjzendoorn et al., (2000) hanno analizzato 31 ragazzi, prima a 10 ed in seguito a 14 anni ed hanno riscontrato una notevole stabilità dell’attaccamento tra i due periodi esaminati, sia con l’analisi a due vie (75% kappa = .48) sia con quella a 125 quattro vie (71% kappa = .48). Dazzi, De Coro, Ortu, Speranza (1999) con un campione di 65 soggetti dai 10 ai 12 anni hanno valutato la capacità discriminativa delle singole scale. PARENTAL BONDING INSTRUMENT (PBI): Il PBI è un questionario auto-somministrato, formato da 25 item ognuno dei quali utilizza per le risposte una scala Likert a 4 punti. Questi items consistono in affermazioni riguardanti ciascun genitore del tipo: “mi parlava con voce calda ed amichevole” oppure “ mi lasciava fare le cose che mi piaceva fare”, di cui il soggetto deve valutare l’applicabilità alla propria esperienza. I due principali costrutti bipolari attesi estratti dall’analisi fattoriale sono Cura e Iperprotezione. Il primo comprende items con contenuti di valutazione positiva, supporto emotivo e vicinanza ad un estremo ed indifferenza, rifiuto e negligenza all’altro estremo. Il secondo comprende items che segnalano intrusività e controllo psicologico ad un polo ed incoraggiamento all’autonomia ad all’altro polo. Particolarmente significativa per il lavoro qui presentato è la possibilità proposta da Parker et al. (1979) di combinare le due polarità di ogni fattore in modo da ottenere quattro categorie applicabili a ciascuno dei due genitori: 1) Optimal Parenting (Genitorialità ottimale): alta Cura/bassa Iperprotezione 2) Affectionate Constraint (Costrizione affettiva): alta Cura/alta Iperprotezione 3) Affectionless Control (Controllo senza affetto): bassa Cura/alta Iperprotezione 4) Neglectful Parenting (Assenza di cure): bassa Cura/bassa Iperprotezione Sul versante delle qualità psicometriche lo strumento presenta una coerenza interna ottenuta correlando due item identici attraverso il coefficiente di correlazione di Pearson, r = .704 (p < . 001). La somministrazione del questionario a 17 soggetti in due occasioni a tre settimane di distanza ha consentito di valutare l’attendibilità test-retest. Il coefficiente di Pearson ottenuto dalla scala della Cura è di .761 (p < .001) e per la scala dell’Iperprotezione era di .628 (p < .001). Il questionario è stato inoltre diviso in due parti per la misura dell’attendibilità split-half ( r = .879 p < .001 per la Cura e r = .739 p < .001 per la Iperprotezione). Gli effetti del sesso e della classe sociale sono stati esclusi. RISULTATI Per chiarezza espositiva i dati raccolti nello studio qui presentato verranno esposti separatamente rispetto ai due gruppi esaminati e ai due strumenti rispettivamente somministrati ad ogni gruppo. Per prima verrà proposta l’analisi descrittiva dei dati relativi alla IAL nel gruppo di ragazze anoressiche e la verifica dell’obiettivo teorico che riguarda 126 questo gruppo. La stessa cosa verrà ripetuta con il gruppo dei genitori relativamente ai risultati del PBI. Una volta presentate entrambe le analisi descrittive e le verifiche dei primi due obiettivi teorici, si cercherà di confrontare i due gruppi di dati in modo da conseguire il terzo obiettivo teorico che come abbiamo visto postula un legame tra i due gruppi di dati. Prima di iniziare questo percorso differenziato però, si ritiene opportuno presentare attraverso la Tabella. 6.1, una visione complessiva dei dati raccolti. Tabella 6.1 Sintesi complessiva dei dati Soggetto Età BMI EAT Diagnosi IAL 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 13,8 13,8 11 16,3 16,2 13 15,7 12 14 14,9 17,2 16,3 15,6 16,9 16,9 14,1 13,2 17 15,6 17,4 17 16 15 17,5 18 17 14,7 15,3 17 16,2 51 45 53 69 50 41 80 68 11 51 40 47 49 40 52 Anr Anr Anr Anbp Anr Anr Anr Anbp Anr Anr Anr Anr Anr Anr Anr CC F/U Ds E F F/U Ds E/U Ds Ds F/U Ds Ds Ds Ds IAL Sottocategorie Ds1/E1 F2 Ds3 E2 F5 F2 Ds3 E1 Ds2 Ds3 F2 Ds3 Ds3 Ds3 Ds1 PBI Madre PBI Padre Madre Padre Madre Padre C D C A C D C A C n.v. B C C B B B B A A B B B A A C C B C B B B A C B B D C C B C A B B A C D C C D C B C C C B C C C B C BMI = Body Mass Index, EAT = Eating Aptitude Test, Anr = Anoressia di tipo restrittivo, Anbp = Anoressia di tipo bulimico-purgativo, IAL: CC = cannot classify, F = sicuro/autonomo, Ds = distanziante, E = preoccupato, U = irrisolto/disorganizzato, PBI: A = Optimal parenting , B = Affectionate Constraint, C = Affectionless Control, D = Neglectuful parenting, n.v. = non valutabile 127 Punteggi grezzi Graf. 6.2 Indici BMI e EAT 87 80 73 66 59 52 45 38 31 24 17 10 BMI EAT 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 Soggetto ANALISI DESCRITTIVA DEL CAMPIONE CLINICO: Pur essendo, questo delle ragazze, un gruppo clinico piuttosto esiguo, può vantare delle particolarità certamente interessanti secondo i fini di questo studio, infatti sono presenti in questo gruppo ben due coppie di sorelle gemelle monozigote. Questo dato ha portato alla nostra attenzione l’importanza dell’ordine di nascita, che sebbene non rappresenti una variabile passata al vaglio di questo Graf. 6.1 Ordine di genitura 13% figlia unica gemelle 46% minore 27% medio maggiore 7% 7% studio è sembrato opportuno evidenziarne la distribuzione attraverso il Grafico 6.1.: 2 soggetti (13%) sono figlie uniche, 7 primogeniti (46%), 1 secondogenito (7%), 1 terzogenito (7%) e 4 gemelle (46%). Tutte le ragazze del gruppo hanno completato la IAL. Nel Grafico 6.2 invece si può apprezzare un confronto tra i dati ottenuti dalle ragazze al BMI e quelli ottenuti all’EAT. Entrambe le serie di dati sono state già presentate nella Tabella 6.1 128 ANALISI DESCRITTIVA DEI DATI RELATIVI ALLA IAL : Il nostro gruppo di 15 ragazze anoressiche, per quanto riguarda la classificazione delle quattro categorie di attaccamento, si distribuisce nel seguente modo: 8 soggetti Distanzianti-Ds (53%), 1 soggetto Sicuro-F (7%), 1 soggetto Preoccupato-E (7%) e 5 soggetti Irrisolti o Non Classificabili U/CC (33%) (Grafico 6.3a). Invece per quanto concerne la distribuzione delle tre categorie generali dell’attaccamento le ragazze del nostro gruppo hanno presentato la seguente distribuzione: 4 F (27%), 9 Ds (60%) e 2 soggetti E (13%), (Grafico 6.3b). Come abbiamo precedentemente sottolineato in sede di descrizione dello strumento, la IAL per rendere giustizia alle diverse sfumature presenti all’interno delle singole categorie Graf. 6.3a IAL: distribuzione a 4 categorie 33% Ds E 53% 7% F U/CC 7% generali di attaccamento, prevede anche alcune sottocategorie; vediamo quali sono le più ricorrenti all’interno del nostro gruppo di ragazze: 6 Ds3 (40%). 2 Ds1 (13.3%), 1 Ds2 (6,6%), 1 E1 (6,6%), 1 E2 (6,6%), 3 F2 (20%), 1 F5 (6,6%)*, (Grafico 6.3c). * Le analisi successive utilizzeranno le tre categorie generali dell’attaccamento. 129 Graf 6.3b IAL: distribuzione a 3 categorie 27% Ds E 60% 13% F Graf. 6.3c IAL: distribuzione delle sottocategorie 6 F2 5 F5 4 E1 3 E2 2 Ds1 1 Ds2 0 Ds3 1 130 VERIFICA OBIETTIVO TEORICO RELATIVO AI DATI IAL : I dati riportati nei grafici 6.3a e 6.3b sopra esposti, già esprimono una certa supremazia della categoria Distanziante-Ds rispetto a tutte le altre categorie. Più specificamente all’interno della categoria stessa la sottocategoria più rappresentata è la Ds3 (40%). Per verificare la significatività di questi risultati però è opportuno confrontarli con le distribuzioni di soggetti adolescenti ottenute in altre ricerche in cui sono state utilizzate l’AAI e la IAL, ipotizzando una sostanziale uguaglianza con studi riguardanti campioni clinici e una sostanziale differenza con studi che riportano campioni di adolescenti normali. Gli studi su campioni normali con cui si è effettuato il confronto sono quelli di Ammaniti et al. (2000) e Dazzi et al. (1999), mentre gli studi relativi a campioni clinici con cui abbiamo effettuato il confronto sono: vanIjzendoorn e Bakermans-Kranenburg (1996) e Ward et al. (2001) (vedi Grafico 6.4). Mentre il primo di questi studi presenta un campione clinico di tipo generale quello di Ward et al. esprime le distribuzioni dell’attaccamento in un gruppo di ragazze anoressiche. I dati relativi a questi confronti statistici sono presentati nella Tabella 6.2. Tabella 6.2 Studio Gruppo Dazzi et al., 1999 Ammaniti et al., 2000 Van Ijzendoorn et al., 1996 Ward et al., 2001 Ricerca presente Adolescenti e pre-adolescenti normali Adolescenti normali Meta-analisi di studi clinici Ragazze anoressiche Adolescenti anoressiche N Categorie IAL F Ds 64 67 25 31 52 36 439 13 41 20 5 75 15 27 60 (%) E 8 12 46 20 13 Percentuali di categorie IAL riscontrate nel presente gruppo sperimentale e in ricerche precedenti. Le percentuali delle categorie F, Ds ed E si riferiscono ad una classificazione in tre categorie. La distribuzione delle categorie IAL all’interno del nostro gruppo di ragazze è risultata differire in maniera significativa da quella osservata da Dazzi et al. (1999) ( x (2) = 11.52; p < 0,01) e in maniera quasi significativa da quella di Ammaniti et al. (2000) (x (2) = 4.3). Per quanto riguarda il confronto con gruppi clinici, invece, la presente distribuzione è significativamente diversa da quella di vanIjzendoorn e Bakermans-Kranenburg (1996) (x (2) = 6.9; p < 0.05) a causa di un numero minore di ragazze Preoccupate-E, mentre risulta anche significativamente diversa da quella di Ward et al (2001) (x (2) = 14.8; p < 0.001) per una maggiore presenza di ragazze Sicure-F. 131 Graf. 6.4 Categorie IAL a confronto nei vari studi 100% 90% 80% 70% 60% 50% 40% 30% 20% 10% 0% E Ds Ricerca presente Ward Van Iyzendoorn Studi Ammaniti Dazzi F Il nostro gruppo di ragazze quindi differisce sostanzialmente dai campioni rappresentativi normali, soprattutto a causa dell’alto numero di soggetti Distanzianti-Ds presenti tra le ragazze da noi esaminate. Non solo, il nostro gruppo di ragazze si differenzia anche dal campione clinico misto di vanIjzendoorn e Bakermans-Kranenburg, anche questa volta a causa di una preponderanza di attaccamenti distanzianti. Infine, contrariamente a quanto atteso il nostro gruppo risulta significativamente diverso anche dal campione clinico di Ward et al. formato da ragazze anoressiche, soprattutto a causa di una maggiore percentuale di ragazze classificate Sicure-F nel nostro gruppo. ANALISI DESCRITTIVA DEL GRUPPO DEI GENITORI: Alla fine della somministrazione delle IAL per ciascuna delle ragazze del nostro gruppo, è emerso con una certa prepotenza un dato non atteso che ha attirato la nostra attenzione. Almeno uno dei genitori delle ragazze, ed in molti casi entrambi, avevano patito la morte di un proprio genitore (Grafico 6.5) 132 Graf. 6.5 Perdite subite dai genitori 3 2,5 1 2 2 Frequenze 1,5 3 4 1 5 0,5 6 0 M_m M_p P_m P_p 1 = Genitore morto entro i primi 3 anni di vita della ragazza; 2 = Entro i 3 anni precedenti la nascita della ragazza; 3 = Durante l'adolescenza dei genitori (della ragazza); 4 = Durante l'infanzia dei genitori (della ragazza); 5 = Negli ultimi 3 anni prima dell'intervista IAL; 6 = Genitore non conosciuto. ANALISI DESCRITTIVA DEI DATI DEL PBI: I dati qui di seguito esposti si riferiscono al gruppo di genitori delle ragazze anoressiche, ognuno dei quali ha compilato un PBI, riportando la propria personale percezione del proprio padre e della propria madre rispetto ai due fattori di Cura e Iperprotezione. Come abbiamo introdotto in sede di descrizione dello strumento, dalla combinazione di queste due variabili emergono quattro categorie che possono servire per sintetizzare con una etichetta linguistica la percezione di Cura e Iperprotezione esperite per quel dato genitore (vedi Tabella 6.1). Le madri delle ragazze anoressiche, in merito alla percezione della propria madre rispetto alla Cura e Iperprotezione, si distribuiscono nel seguente modo: 8 classificano la propria madre come Affectionless Control-C (61%), 1 come Neglectful Parenting-D (8%), 1 come Optimal Parenting-A (8%) e 3 come Affectionate Constraint-B (23%) (Grafico 6.6a)*. Invece i PBI materni rispetto al padre si distribuiscono nel modo seguente: 1 Optimal Parenting (8%), 5 Affectionate Constraint (42%), 4 Affectionless Control (33%) e 2 Neglectful Parenting (17%), (Grafico 6.6b). * Vedi Tabella 6.1 133 Graf. 6.6a 6.6c PBI PBI materno paterno rispetto alla madre: distribuzione delle categorie 15% 8% 0% 8% 15% 23% A A B B C C D D 61% 70% Graf. 6.6b PBI materno rispetto al padre: distribuzione delle categorie 17% 8% A B C 42% 33% D Passiamo ora ai padri delle ragazze, i quali riguardo alla percezione complessiva della propria madre rispetto alle dimensioni di Cura ed Iperprotezione, hanno espresso i seguenti risultati al PBI: 2 Optimal Parenting (15%), 9 Affectionate Constraint (70%), 2 Affectionless Control (15%) e nessun Neglectful Parenting (Grafico 6.6c). 134 Il Grafico 6.6d invece ci riporta le distribuzioni percentuali delle categorie dei PBI paterni rispetto al padre: 4 Optimal Parenting (31%), 2 Affectionate Constraint (15%), 6 Affectionless Control (46%) e 1 Neglectful Parenting (8%). Graf. 6.6d PBI paterno rispetto al padre: distribuzione delle categorie 8% 31% A B C D 46% 15% Le ultime quattro figure ci hanno consentito di rappresentare graficamente le distribuzioni di frequenza delle categorie del PBI riscontrate in ognuno dei genitori delle adolescenti anoressiche, in riferimento a ciascuno dei propri genitori (quindi i nonni delle ragazze). Tali distribuzioni di frequenze sono già piuttosto informative poiché emerge un quadro singolarmente complementare. Infatti mentre la madri delle ragazze percepiscono la propria madre come maggiormente Affectionless Control (61%) ed il padre come prevalentemente Affectionate Constraint (42%), i padri delle ragazze al contrario percepiscono la loro madre come maggiormente Affectionate Constraint (70%) e il proprio padre come sostanzialmente Affectionless Control (46%). Va anche sottolineato come i padri sperimentino con maggiore frequenza un atteggiamento complessivo di Optimal Parenting (46%) per entrambi i genitori, rispetto a quanto esperito globalmente dalle madri (16%). Finora abbiamo proposto, relativamente al PBI, le categorie all’interno delle quali i genitori delle ragazze anoressiche hanno collocato il proprio padre e la propria madre. Considerando però che tale attribuzione di categoria avviene in base al giudizio rispetto ai due fattori, Cura e Iperprotezione, sembra particolarmente remunerativo considerare come 135 Graf. 6.7a PBI: medie dei punteggi di entrambi i genitori 34 32 30 28 26 24 22 20 18 16 14 C I I M_m M_p C P_m P_p si distribuiscono i punteggi grezzi su queste due scale, rispettivamente alla madre e al padre dei genitori delle ragazze. A questo proposito si è fatto affidamento sulle medie e le deviazioni standard dei punteggi ottenuti da entrambi i genitori delle ragazze, sulle scale di Cura ed Iperprotezione, in riferimento ai propri madre e padre ( Tabella 6.3). Tabella 6.3 Media e deviazione standard dei punteggi alle scale di Cura e Iperprotezione PBI madre PBI padre Scala Madre Padre Madre Padre 17.20 (ds 7.6) 17.71 (ds 9.22) 25.20 (ds 6.53) 19.53 (ds 8.91) Cura 26.13 (ds 8.05) 22.79 (ds 10.40) 25.47 (ds 6.63) 22.67 (ds 10.39) Iperprotezione Il Grafico 6.7a ci aiuta a visualizzare i dati della tabella appena citata. In ordinata abbiamo i punteggi grezzi dei soggetti che hanno compilato il PBI, mentre sull’asse delle ascisse, da sinistra a destra, abbiamo i PBI materni rispetto alla madre (M-m) e al padre (M-p), seguiti dai PBI paterni rispetto alla madre (P-m) e al padre (P-p); sulla terza dimensione e in colori diversi (celeste e bordeaux), si hanno rispettivamente le dimensioni di Cura e di Iperprotezione. 136 Cerchiamo adesso di penetrare più in profondità le informazioni racchiuse nel Grafico 6.7a, operando una divisione tra il quadrante materno e quello paterno. Il Grafico 6.7b, che si riferisce alle medie dei punteggi delle madri delle ragazze anoressiche, ci informa del fatto che queste e donne percepiscono complessivamente i loro genitori come essere stati scarsamente efficaci nella Cura, ma altamente intrusivi e controllanti. Mentre la manchevolezza di cure e di calore affettivo sembra essere comune in entrambi i genitori di queste donne, le madri vengono ricordate come più ipercontrollanti dei padri, andando a configurare quella che a nostro modesto avviso è la categoria più “maligna” espressa dal PBI: la Affectionless Control (bassa Cura/alta Graf. 6.7b PBI: medie dei punteggi delle madri 34 32 30 28 26 24 22 20 18 16 14 C I I C 1 2 Iperprotezione). Invece i padri delle nostre ragazze riportano delle esperienze di Iperprotezione materna sostanzialmente sovrapponibili a quelle delle proprie mogli, ma al contrario di quest’ultime riferiscono anche esperienze di Cura materna qualitativamente superiori. Questi soggetti riportano inoltre delle esperienze paterne di Cura nettamente più deficitarie rispetto a quelle materne, mentre il livello di Iperprotezione paterno seppur inferiore a quello materno, sembra comunque ragguardevole. In altri termini i padri delle ragazze anoressiche, classificano, nella maggior parte dei casi, le proprie madri come Affectionate 137 Constraint (alta Cura/alta Iperprotezione) e i propri padri come Affectionless Control (alta Iperprotezione/bassa Cura) (Grafico 6.7c). In conclusione allora possiamo evidenziare come dai nostri dati emerga una percezione materna gravemente più sfavorevole rispetto alla madre con non al padre, mentre le percezioni paterne sembrano assai più negative nei confronti del padre che non della madre. Relativamente alle singole dimensioni, le madri delle ragazze accusano di aver ricevuto una Cura notevolmente più scarsa, da entrambi i genitori, rispetto ai padri delle ragazze, i quali possono affermare una cosa del genere solo rispetto al proprio padre. Relativamente al secondo fattore, un livello importante di Iperprotettività è stato denunciato sia dalle madri che dai padri del nostro gruppo, soprattutto in relazione con la propria madre. VERIFICA DELLA IPOTESI TEORICA RELATIVA AI DATI DEL PBI: Per conferire significatività statistica a quanto rilevato nel nostro gruppo di genitori, abbiamo condotto, sia sulla Cura che sull’Iperprotettività, un’analisi della varianza (ANOVA) con un fattore Between (genitore a cui è stato somministrato il PBI) a due livelli (madre-padre) e un fattore Within o ripetuto (nonno di cui si parla) a due livelli (nonna-nonno). Inoltre, abbiamo condotto dei tests statistici per confrontare le medie dei punteggi ottenuti dai genitori del nostro gruppo con quelle ottenute da campioni rappresentativi di soggetti normali cui è stato somministrato il test (Parker et al., 1983; Mancini et al., 2000). L’analisi condotta sulla dimensione Cura ha evidenziato un effetto significativo del fattore Genitore (F (1.27) = 4.14, p = 0.05), il quale mostra che le madri, in effetti, Graf. 6.7c PBI: medie dei punteggi dei padri 34 32 30 28 26 24 22 20 18 16 14 C I I C 1 2 138 percepiscono di aver ricevuto minor cura da parte dei propri genitori, rispetto a quanto non sia invece percepito dai loro mariti. Avendo poi chiaramente ipotizzato nel secondo obiettivo teorico, che eventuali differenze attese avrebbero riguardato la madre, e in particolare la madre rispetto alla propria madre (la nonna della ragazza anoressica), abbiamo condotto dei Confronti Pianificati (Planned Comparisons) tra i punteggi di Cura ottenuti dai due genitori rispetto alla propria madre (cioè all’interno del livello “nonna”) e rispetto al proprio padre (cioè all’interno del livello “nonno”). Tali confronti hanno evidenziato che le madri percepiscono un livello di Cura significativamente inferiore ai loro mariti solamente rispetto alle proprie madri (livello "nonna”) (F (i,27) = 8.47; p < 0,01) (vedi Grafico 6.8). Inoltre, essi hanno confermato che i padri riportano esperienze paterne di Cura nettamente più deficitarie rispetto a quelle materne (F (1.27) = 4,52; p < 0.05). A differenza di quanto sopra suggerito, invece, i Confronti Pianificati non hanno sostenuto l’idea che le madri delle ragazze ricordino le loro madri come più ipercontrollanti dei loro padri. Graf. 6.8 PBI_Cura: effetto del genitore e dei nonni 33 31 29 27 25 23 21 19 17 15 MADRE PADRE nonna nonno Per quanto riguarda il confronto con campioni rappresentativi di soggetti normali (Parker et al., 1983; Mancini et al., 2000), per entrambi i genitori delle ragazze (vedi Grafici 6.9a e 6.9b) sia la Cura materna che quella paterna sono risultate significativamente 139 Graf. 6.9b PBI paterno 40,0 35,0 30,0 25,0 20,0 40,0 15,0 35,0 10,0 30,0 5,0 0,0 25,0 20,0 15,0 10,0 5,0 0,0 Graf. 6.9a PBI materno Ricerca presente Mancini et al., 2000 Parker et al., 1983 M P M P Ricerca presente C C I I Mancini et al., 2000 Parker et al., 1983 M P M P C C I I inferiori (t(14) > -2,14; p < 0,01). Unica eccezione la Cura materna esperita dai padri delle ragazze, la quale non è risultata diversa da quella osservata da Parker e collaboratori. Passiamo ora a considerare la dimensione Iperprotettività. L’ANOVA 2X2 condotta sui punteggi ottenuti non ha mostrato nessun effetto significativo, a sostegno del fatto che il livello di controllo percepito dai genitori delle ragazze anoressiche, da parte dei rispettivi genitori, è sostanzialmente equivalente. Per quanto riguarda, invece, il confronto con campioni rappresentativi di soggetti normali (vedi Grafici 6.9a e 6.9b), per entrambi i genitori delle ragazze sia l'Iperprotettività materna che quella paterna sono risultate significativamente maggiori di quelle osservate da Parker e collaboratori (1983) (t(14) > 2,62; p < 0,001), mentre sostanzialmente simili a quelle osservate da Mancini e collaboratori (2000) in un campione di 170 soggetti italiani. VERIFICA DELLE IPOTESI OPERATIVE RELATIVE AL TERZO OBIETTIVO TEORICO: Dopo aver sviscerato i dati appartenenti ai due gruppi di genitori e figlie, presi in esame in questo lavoro, il nostro ultimo sforzo si concentrerà sulla possibilità di rintracciare una relazione, un collegamento, tra questi due gruppi di dati. A questo punto della nostra elaborazione siamo in grado di poter verificare la pertinenza del nostro TERZO OBIETTIVO 140 TEORICO, descrivendo in che modo i punteggi rilevati nei genitori delle ragazze rispetto alla Cura e alla Iperprotezione, si distribuiscono all’interno delle categorie di attaccamento presentate dalle ragazze. A questo proposito abbiamo operato una trasformazione Z in modo da standardizzare i punteggi grezzi relativi al PBI per rendere confrontabili le distibuzioni aventi scala diversa ( = dev. stand. Diversa). Dopo di che li abbiamo “incrociati” con le categorie della IAL. Il Grafico 6.10a ci mostra come le madri delle ragazze Distanzianti-Ds, più delle madri delle ragazze con attaccamento Sicuro-F o Preoccupato-E, percepiscono i propri genitori come scarsamente capaci rispetto alla Cura. Le madri delle ragazze Preoccupate-E percepiscono le proprie madri rispetto alla Cura, nello stesso modo delle madri delle ragazze Sicure-F, ma hanno una percezione dei propri padri come meno adeguata rispetto alle madri delle ragazze Sicure-F. punti z Graf. 6.10a Cura: madri 2,5 2 1,5 1 0,5 0 -0,5 -1 -1,5 -2 Madre Padre Ds E F Categorie IAL 141 Nel Grafico 6.10b invece possiamo vedere come anche i padri delle ragazze Distanzianti-Ds abbiano una percezione più negativa dei propri genitori, rispetto ai padri delle altre ragazze, relativamente alla Cura. Più specificamente, questi soggetti percepiscono i loro padri più che le loro madri come incapaci di profondere cure adeguate. Al contrario i padri delle ragazze Preoccupate-E avvertono le madri più che i padri come manchevoli nella Cura. Questo stesso andamento è ancora più accentuato nei padri delle ragazze Sicure-F. Graf. 6.10b Cura: padri punti z 2 1,5 1 0,5 0 -0,5 -1 -1,5 Madre Padre Ds E F Categorie IAL 142 Nel Grafico 6.10c possiamo vedere come le madri delle ragazze risultate Sicure-F abbiano sperimentato nei confronti di entrambi i genitori un livello di Iperprotettività notevolmente più basso di quello sperimentato dalle madri delle ragazze Distanzianti-Ds e Preoccupate-E. Quest’ultime in particolar modo hanno madri che riferiscono una maggiore Iperprotettività dei loro genitori anche in confronto con le madri delle ragazze DistanziantiDs. Il padre poi, è tra i due genitori, quello che le madri delle ragazze hanno giudicato più iperprotettivo. Graf. 6.10c Iperprotezione: madri 1,5 1 punti z 0,5 0 -0,5 Madre Ds E F Padre -1 -1,5 -2 Categorie IAL Infine nel Grafico 6.10d, troviamo rappresentato come i padri delle ragazze Distanzianti-Ds percepiscano i propri genitori come maggiormente Iperprotettivi rispetto ai padri delle ragazze Preoccupate-E, i quali a loro volta ricordano i propri genitori come più Iperprotettivi rispetto ai padri delle ragazze Sicure-F. Vediamo ora come le categorie dei PBI materni e paterni rispetto a ciascun genitore si distribuiscono percentualmente all’interno delle diverse categorie di attaccamento previste dalla IAL. Quasi il 90% (88.888) delle madri delle ragazze Distanzianti-Ds ha classificato la propria madre come Affectionless Control, mentre poco più del 10% (11.111) le ha classificate come Neglectful Parenting. Le madri delle ragazze Preoccupate-E si separano perfettamente tra coloro che assegnano la propria madre (nonna materna) alla categoria Affectionate Constraint (50%) e coloro che gli attribuiscono la categoria Affectionless Control (50%). Le madri delle ragazze Sicure-F sono l’unico gruppo all’interno del quale 143 compaiono delle categorie di Optimal Parenting (25%). I soggetti restanti esprimono classificazioni di Affectionate Constraint (50%) e Affectionless Control (25%) (Grafico 6.11a). punti z Graf. 6.10d Iperprotezione: padri 2 1,5 1 0,5 0 -0,5 -1 -1,5 -2 -2,5 Madre Ds E F Padre Categorie IAL Graf. 6.11a PBI materno rispetto alla madre e categorie IAL % 100 80 A 60 B C 40 D 20 0 Ds E F IAL Il Grafico 6.11b ci mostra come il gruppo delle madri delle ragazze Distanzianti-Ds, sia meno omogeneo al suo interno, quando si tratta di giudicare la qualità dell’esperienza relazionale con il proprio padre, sebbene anche qui il giudizio prevalente sia del tipo Affectionless Control (55%). Appare subito evidente che la totalità delle madri delle ragazze Preoccupate-E abbiano classificato il proprio padre come Affectionate Constraint 144 (100%). Anche tra le madri delle ragazze Sicure-F, la percezione di tipo Affectionate Constraint, nei confronti del padre, sembra prevalere (56%). % Graf. 6.11b PBI materno rispetto al padre e categorie IAL 120 100 80 60 40 20 0 A B C D n.v. Ds E F IAL Il Grafico 6.11c ci segnala come la percezione della propria madre, espressa dai padri delle ragazze Distanzianti-Ds, sia sostanzialmente all’insegna della categoria Affectionate Constraint (77%) ed in minor misura della categoria Affectionless Control (22%). Questa prevalenza diviene invece assoluta tra i padri delle ragazze Preoccupate-E (100%). La categoria più diffusa tra i padri delle ragazze Sicure-F è la Optimal Parenting (50%). % Graf. 6.11c PBI paterno rispetto alla madre e categorie IAL 120 100 80 60 40 20 0 A B C D Ds E F IAL 145 La maggioranza dei padri delle ragazze Distanzianti-Ds considera il proprio padre come Affectionless Control (77%). I padri delle Preoccupate-E si dividono perfettamente tra quelli che ricordano il proprio padre come Optimal Parenting (50%) e quelli che lo ricordano Affectionate Constraint (50%). La categoria di Optimal Parenting è assai diffusa tra i padri delle ragazze Sicure-F (Grafico 6.11d). Graf. 6.11d PBI paterno rispetto al padre e categorie IAL % 100 80 A 60 B 40 C D 20 0 Ds E F IAL 146 DISCUSSIONE Il PRIMO OBIETTIVO TEORICO della nostra ricerca, contemplava la possibilità di individuare nelle ragazze anoressiche, esaminate con la IAL, una predominanza di stati della mente insicuri relativamente all’attaccamento. L’analisi descrittiva dei dati raccolti attraverso l’utilizzo della IAL ha consentito di rilevare all’interno del gruppo di ragazze anoressiche, una schiacciante predominanza di stati mentali insicuri (sia Distanzianti che Preoccupati) rispetto all’attaccamento; delle 15 adolescenti intervistate, 11 (73%) presentavano un attaccamento insicuro e 4 (27%) erano classificate Sicure/Autonome nei confronti delle proprie esperienze di attaccamento. In effetti sono molte le somiglianze e le continuità, tra stati delle mente insicuri nei confronti dell’attaccamento e le caratteristiche cognitivo-affettivo-comportamentali degli individui con Anoressia Nervosa. Da un punto di vista teorico, l’influenza delle relazioni d’attaccamento dell’individuo è considerata essere particolarmente influente in alcune specifiche sfere di adattamento come ad esempio la dipendenza, la fiducia in se stessi, l’ansia, la rabbia e l’empatia, la competenza sociale. Tutte queste aree subiscono delle particolari alterazioni negli individui con Anoressia Nervosa alterazioni che ricordano molto da vicino le caratteristiche riconosciute alle organizzazzioni insicure dell’attaccamento. In uno studio longitudinale già citato precedentemente in questo lavoro, il Minnesota Parent-Child Project, gli autori mettono in risalto come adolescenti con storie di attaccamento Resistente, sia quelli con storie di attaccamento Evitante, continuarono a mostrare più dipendenza dagli adulti rispetto a quelli con storie Sicure (Egeland e Sroufe, 1981). La profonda preoccupazione delle ragazze anoressiche circa le forme del proprio corpo e, l’angoscia scatenata dalla possibilità di aumentare di peso, fanno dell’ansia uno degli elementi più riconoscibili dell’Anoressia Nervosa. Relativamente alle radici dell’ansia, la teoria dell’attaccamento postula che assenza di disponibilità cronica e rifiuto da parte del caregiver sono le caratteristiche di un attaccamento ansioso e pesano su un bambino prima e su un adolescente poi nel corso dello sviluppo. A differenza di un bambino sicuro che può contare sulla risposta del suo caregiver, un bambino con attaccamento ansioso si imbatte nella costante possibilità di aver bisogno di un caregiver non disponibile, così come la frustrazione che si accumula e con la disregolazione implicita nell’essere trattato in modo insensibile (Bowlby, 1973). Questi soggetti sono costantemente preoccupati 147 perché le loro figure di attaccamento possono non essere accessibili nel momento del bisogno e vivono nella perpetua paura di essere lasciati soli e vulnerabili. Un'altra caratteristica che colpisce immediatamente quando si ha a che fare con ragazze anoressiche, è che la loro regolazione affettiva, nonché l’autostima, sono estremamente dipendenti dalle forme corporee. Anche questo dominio sembra particolarmente influenzabile dall’attaccamento, diversi sono ormai i contributi che segnalano come la qualità dell’attaccamento abbia un ruolo decisivo nello sviluppo dell’autoregolazione delle emozioni. In particolare l’attaccamento Distanziante-Evitante essendo correlato ad una strategia che disattiva l’attenzione, è anche associato a inibizione o minimizzazione dell’affettività. L’attaccamento Preoccupato-Ambivalente, associato a ipervigilanza, è accompagnato da aumento o intensificazione dell’affettività (Magai, 1999). Il ritrovamento di un alta percentuale di stili d’attaccamento insicuro nel nostro gruppo di ragazze anoressiche, però, può essere ulteriormente scomposto poiché, delle 11 ragazze classificate come insicure, 9 (60%) erano Distanzianti-Ds, mentre 2 (13%) risultavano Preoccupate-E. In passaggi precedenti di questo lavoro (vedi pag. 102), menzionando gli studi sui Disturbi del Comportamento Alimentare che avevano utilizzato l’AAI, i risultati non erano certo univoci. Alcuni di questi sottolineavano una predominanza di stati della mente Preoccupati-E rispetto all’attaccamento, in campioni che però comprendevano anche disturbi alimentari diversi all’Anoressia Nervosa (Fonagy et al. 1996), altri denunciavano un certo equilibrio tra attaccamento Distanziane-Ds e Preoccupato-E, in un campione di ragazze anoressiche (Ramacciotti et al. 2001), altri ancora segnalavano una netta predominanza della categoria Distanziante-Ds rispetto a quella Preoccupato-E in un gruppo anch’esso formato esclusivamente da pazienti anoressiche (Ward et al. 2001). Anche tra i lavori che hanno utilizzato strumenti diversi dall’AAI per lo studio delle patologie alimentari, si possono distinguere ricerche che evidenziano la preponderanza del modello Distanziante-Ds tra le ragazze anoressiche (Broberg et al. 2001), da quelli che invece rimarcano l’importanza dell’attaccamento Ambivalente (Salzman,1997) o Preoccupato/Invischiato (Friedberg e Lyddon, 1996). I risultati della nostra ricerca ci portano a caldeggiare la possibilità, ventilata da alcuni autori, di associare l’Anoressia Nervosa ad una organizzazione dell’attaccamento di tipo Distanziante-Ds (Ward et al. 2000). Williams (citato da Ward et al. 2000), ha descritto le pazienti bulimiche come “porose”, cioè incapaci di proteggere se stesse dalle proiezioni tossiche delle proprie madri, mentre le pazienti anoressiche hanno sviluppato un sistema di difesa impenetrabile che non consente intrusioni a questo tipo di relazione materna. Queste 148 differenti modalità relazionali riscontrate nelle ragazze bulimiche e anoressiche rimandano abbastanza esplicitamente sia alle caratteristiche relazionali peculiari del modello Distanziante-Evitante, come la deattivazione del sistema dell’attaccamento, sia all’ipercoinvolgimento tipico dello stile di attaccamento Preoccupato. Salzman (1997) e Friedberg e Lyddon (1996) sono tra quegli autori che considerano lo stile di attaccamento Ambivalente-Preoccupato, come particolamente associato ai Disturbi del Comportamento Alimentare in senso generale ed alla Bulimia in senso più specifico. Come già avanzato nella parte terza di questo lavoro, ci sono autori come O’Kearney (1996) che pur riconoscendo un fondamentale ruolo agli stili di attaccamento insicuro, all’interno dei disturbi alimentari, non ritengono che ci siano ancora dati attendibili che permettano associazioni specifiche tra attaccamento Distanziante e Anoressia e tra attaccamento Preoccupato e Bulimia. Anche Ward (et al. 2000), il quale invece riponeva più fiducia sulla possibilità di riscontrare legami specifici tra stile di attaccamento e diversi disturbi alimentari, di fronte i tanti limiti presenti negli studi che si riproponevano di confermare queste corrispondenze, ha dovuto ridimensionare il suo ottimismo. Naturalmente il lavoro qui presentato, con tutte le sue limitazioni ed ingenuità, non è in grado di fornire risposte definitive in questo senso, però ci sembra opportuno sottolineare che le uniche due ragazze che nel nostro gruppo hanno presentato un attaccamento Preoccupato-E, erano anche le uniche due a presentare una diagnosi di Anorssia Nervosa con condotte di eliminazione di tipo bulimico. Lasciamo quindi a prossimi progetti di ricerca, la possibilità di approfondire questo dato. Rispetto al nostro SECONDO OBIETTIVO TEORICO i dati raccolti hanno messo in evidenza come tra i genitori delle ragazze intervistate con la IAL, fosse particolarmente diffusa una percezione di alta Iperprotettività dei propri genitori, senza particolari differenze tra madre e padre. Relativamente alla Cura invece sono state trovate significative differenze nelle madri delle ragazze, piuttosto che nei padri. Infatti queste donne testimoniavano attraverso il PBI, di una percezione dei propri genitori come sostanzialmente più scarsi nella Cura rispetto a quanto venisse percepito dai padri delle ragazze. Un ulteriore elaborazione dei dati ci ha consentito di mettere in evidenza quanto all’interno di una generalizzata mancanza di Cura di entrambi i genitori, la madri delle ragazze, percepissero soprattutto la loro madre come maggiormente scarsa rispetto alla Cura. I padri delle ragazze invece percepivano loro padre come maggiormente deficitario rispetto alla Cura. Il fatto che i genitori delle ragazze percepissero di aver ricevuto scarsa Cura soprattutto dal genitore dello stesso è uno spunto che merita di essere approfondito. 149 Ritornando alla Iperprotettività il nostro studio ha registrato una spiccata uniformità di alti punteggi su questa dimensione, assegnati dai genitori delle ragazze al proprio padre ed alla propria madre. I soggetti adulti del nostro lavoro quindi hanno maturato all’interno dell’interazione interpersonale con i genitori un “modello operativo interno” delle proprie figure di attaccamento all’insegna del controllo, dell’intrusività e della dipendenza. Tutto questo sembra essere teoricamente coerente con la visione espressa da quegli autori come Bruch e Masterson, che hanno visto nei disturbi alimentari una difficoltà dello sviluppo dell’autonomia e un arresto del processo di separazione-individuazione. Secondo Bruch (1974) le madri di queste ragazze impongono i propri bisogni su quelli delle figlie, soprattutto quelli relativi all’indipendenza e all’auto regolazione, le quali quindi crescono incapaci di differenziare le proprie necessità e desideri. Questa proposizione teorica trova un certo riscontro anche nel nostro lavoro, in quanto alla domanda n° 25 della IAL: “Adesso potresti esprimere tre desideri per quanto riguarda il tuo futuro?”, 9 delle 15 ragazze esaminate non riusciva a fornire una terna completa di desideri e manifestava tangibile imbarazzo di fronte a questa domanda, come se non ne capisse la pertinenza. Un’altra dimensione teoricamente associata all’Iperprotettività genitoriale è quella relativa alla disciplina educativa. Chassler (1997) ha condotto uno studio su un campione di ragazze anoressiche e bulimiche utilizzando l’Attachment History Questionnaire (AHQ) un questionario che esprime quattro fattori, di cui il secondo si riferisce alla qualità della disciplina genitoriale. Per quanto riguarda quest’ultimo fattore, molte di queste ragazze rivelavano come frequentemente i loro genitori minacciassero di picchiarle o le picchiassero realmente quando si comportavano male oppure, come spesso usassero altre forme di disciplina come mandarle nella loro stanza o minacciarle di mandarle in collegio. Nel nostro gruppo di ragazze alla domanda IAL n° 15: “I tuoi genitori hanno mai minacciato di darti una punizione? Ti hanno mai detto che ti avrebbero mandato via di casa o in collegio?” 12 ragazze hanno riferito di essere state picchiate più di una volta e la minaccia del collegio era in assoluto la più frequente. Per concludere questa discussione sui dati raccolti presso i genitori riteniamo utile spendere ancora qualche parola sulla dimensione della Cura. Le domande del PBI riconducibili a questo fattore sono domande del tipo: “Mi sembrava emotivamente fredda/o con me” oppure “Riusciva a farmi sentire meglio quando ero sconvolto” o ancora “Mi faceva sentire che non ero desiderato”. Queste affermazioni sembrano ricordare molto da vicino le dimensioni con cui Ainsworth ha voluto definire la qualità del comportamento di accudimento dei genitori come: sensibilità ai segnali, cooperazione-interferenza, 150 accettazione-rifiuto, disponibilità-non disponibilità. Visti i risultati dei nostri genitori soprattutto sulla dimensione della Cura e in particolare quelli delle madri rispetto alla loro madre, sembra auspicabile l’interessamento di futuri progetti di ricerca, relativamente alla relazione tra questi quattro elementi dell’accudimento genitoriale e i Disturbi del Comportamento Alimentare. Il TERZO OBIETTIVO TEORICO del presente lavoro è forse quello più stimolante poiché ha lo scopo di verificare eventuali relazioni tra le categorie di attaccamento delle ragazze e la percezione di Cura e Iperprotettività dei genitori e sebbene non sia stato possibile applicare a questi dati dei test di significatività statistica, a causa della scarsa numerosità del gruppo di ragazze, i risultati ottenuti sono comunque interessanti. Come abbiamo visto i dati relativi alla IAL evidenziano una preponderanza della categoria di attaccamento Distanziante-Ds tra le ragazze del nostro gruppo. Le madri di queste ragazze percepiscono una Cura più scarsa dei loro genitori rispetto alle madri delle ragazze Preoccupate-E; così anche i padri che al pari delle mogli, testimoniano di una più scarsa Cura dei loro genitori, rispetto ai padri delle ragazze Preoccupate-E. Riguardo all'Iperprotezione le madri delle ragazze Distanzianti-Ds cedono, seppur di poco, il passo alle madri delle ragazze Proeccupate-E che fanno registrare una Iperprotettività percepita maggiore rispetto a entrambi i genitori. I padri delle ragazze Distanzianti-Ds invece, percepiscono una Iperprotettività maggiore rispetto ai padri delle ragazze Preoccupate-E. In termini di categorie una netta maggioranza delle madri delle ragazze Ds attribuiscono i loro genitori alla categoria Affectionless Control (bassa Cura/alta Iperprotezione) mentre le madri delle ragazze E attribuiscono i genitori più frequentemente alla categoria Affectionless Constraint (alta Cura/ alta Iperprotezione). I padri delle ragazze Ds ricordano la loro madre come Affectionate Constraint e loro padre come Affectionless Control. I padri delle ragazze E ricordano invece i propri genitori in prevalenza Affectionate Constraint. Volendo ulteriormente semplificare i dati possiamo dire che le ragazze Distanzianti-Ds hanno dei genitori che globalmente ricordano i propri genitori come prevalentemente Affectionless Control, mentre le ragazze Preoccupate-E hanno genitori che globalmente ricordano i propri genitori come Affectionate Constraint. Rimanendo l’Ipeprotettività un punto condiviso da tutti genitori di tutte le ragazze, i dati a disposizione sembrano indicare che i genitori delle ragazze Distanzianti, nella loro esperienza relazionale non abbiamo potuto usufruire dell’intervento di un alto livello di Cura che fosse in grado di mitigare gli effetti di una elevata Iperprotettività, come invece è accaduto ai genitori delle ragazze Preoccupate. 151 In sintesi queste ragazze hanno avuto a che fare, nel corso della propria vita, con genitori che globalmente portavano dentro di sé la rappresentazione di un padre ed una madre fortemente intrusivi, controllanti ed intolleranti all’indipendenza della figlia. Le ragazze Distanzianti però hanno dei genitori che oltre ad aver sperimentato relazioni segnate dal forte controllo, hanno vissuto anche mancanza di attenzione, amore e disponibilità. Le ragazze Preoccupate al contrario hanno dei genitori che nella propria esperienza familiare oltre all’intrusività e al controllo hanno però anche provato la sensazione di essere desiderati e ben voluti. Questa presenza ubiquitaria dell’Iperprotettività nell’esperienza dei genitori di queste ragazze è coerente con il contributo teorico di Bruch, ma secondo il modesto parere di chi scrive, negli ultimi anni sembra essere sempre più maturato tra gli autori che si ispirano alla teoria dell’attaccamento, la volontà di elaborare concetti teorici, in grado di abbracciare la dimensione del controllo del genitore sul proprio figlio, come un elemento importante dell’attaccamento. A questo proposito, crediamo sia molto fruttuoso utilizzare anche nel campo dei disturbi alimentari un concetto che sta dimostrando la sua efficacia nei campi della teoria e della clinica: l’attaccamento forzoso (Nunziante-Cesaro, 1992). Secondo l’autrice l’attaccamento forzoso è un tipo di relazione madre-bambino fortemente pilotato dalla madre che usa inconsciamente il piccolo per i propri bisogni fusionali dilazionando la separazione tra sé e il proprio figlio. Lo sviluppo delle capacità di autoregolazione del Sé è ostacolato, le esplorazioni autonome del bambino vengono evitate, lo svezzamento è protratto oltre ogni limite. Spesso anche la deambulazione è ritardata in quanto la madre mostra al piccolo come pericoloso ed inaffidabile, quanto è esterno alla loro relazione. Lo stesso Bowlby (1973) accenna a questa condizione, che egli considera una sottocategoria dell’attaccamento ansioso, in relazione alla pressione esercitata dalla madre sul bambino affinchè questi agisca quale figura di attaccamento per lei. 152 BIBLIOGRAFIA AINSWORTH, M. D. S. (1989) Attachment beyond infancy. American Psychologist, 44, 709-716. AINSWORTH, M. D. S. (1990) Some considerations regarding theory and assesment relevant to attachment beyond infancy. In: GREENBERG, M. T., CICCHETTI, D. CUMMINGS, E. M. (a cura di), Attachment in the preschool years. Theory, research and intervention (pp. 463-488). Chicago: University of Chicago Press. AINSWORTH, M. D. S. (1967) Infancy in Uganda: Infant care and the growth of love. Baltimore: John Hopkins University Press. AINSWORTH, M. D. S. (1969) Object relations, dependency, and attachment: A theoretical review of infant-mother relationship. Child Development, 40, 969-1025. AINSWORTH, M. D. S. (1982) Attachment: retrospect and prospect. 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