Attaccamento e Disturbi Alimentari

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PRESENTAZIONE
Quando John Bowlby si interrogò, per la prima volta, sulla relazione tra deprivazione
materna e delinquenza giovanile, certamente non immaginava che il proprio lavoro
avrebbe prodotto uno dei settori della ricerca più vasto, profondo e innovativo della
psicologia del XX secolo. Né tanto meno poteva immaginarlo Mary Ainsworth,
rispondendo ad un annuncio pubblicato su un giornale di Londra che l’avrebbe portata a
collaborare con lo stesso Bowlby.
Quando Bowlby iniziò a presentare le sue idee dinanzi alla comunità psicoanalitica
inglese, fu, come accade spesso ai grandi innovatori, tacciato di eresia. Un analista
anonimo addirittura offeso dalla proposta di Bowlby durante una seduta plenaria della
Società Psicoanalitica Inglese disse: “Bowlby? No, dateci Barabba!”. Conducendo la
ricerca bibliografica sul tema “attaccamento”, allo scopo di raccogliere materiale per il
presente lavoro, ho avuto modo di apprezzare la presenza di più di 2.000 voci inerenti a
questo argomento, segno che, all’invocazione dell’anonimo psicoanalista sopracitato, i
ricercatori venuti successivamente non hanno risposto come fece Pilato.
Infatti attualmente la teoria dell’attaccamento rappresenta il più significativo quadro
concettuale, basato sui dati empirici, nel campo sociale e dello sviluppo emotivo. Va
inoltre assumendo un ruolo rilevante nella sempre più ampia letteratura clinica relativa
agli effetti delle relazioni precoci genitore-figlio, che comprendono il maltrattamento e le
relazioni disturbate. Il volume di Bowlby dedicato alla perdita rappresenta tuttora una fonte
inesauribile di intuizioni e ispirazione per tutti i ricercatori che si rivolgono allo studio del
lutto.
L’attuale teoria, benchè sostanzialmente simile a quella elaborata trent’anni fa, ha
acquistato specificità e consistenza, espandendosi in nuove direzioni, grazie ad una ricerca
accurata e creativa. Una parte di questa ricerca soprattutto nell’ultima decade si è
particolarmente occupata di questioni psicopatologiche cercando di evidenziare il ruolo
giocato dall’attaccamento in diversi quadri nosografici. I disturbi maggiormente
considerati da questa tradizione di ricerca sono stati quelli storicamente associati alla teoria
dell’attaccamento come i disturbi affettivi e di ansia, oppure quelli che solo negli ultimi
anni hanno avuto l’attenzione degli studiosi dell’attaccamento, come il Disturbo Borderline
di Personalità, i Disturbi Dissociativi e la Schizofrenia. Anche i Disturbi Alimentari
rientrano all’interno dei quadri patologici sottoposti al vaglio della teoria dell’attaccamento
I
anche se gli studi intrapresi in questo specifico campo sono ancora pochi se paragonati a
quelli effettuati negli altri domini della psicopatologia.
Il lavoro qui presentato si inscrive quindi, idealmente, all’interno di questa crescente
tradizione di ricerca tendente ad illuminare il coinvolgimento dell’attaccamento nel
complesso campo dei Disturbi del Comportamento Alimentare (DCA).
Per quanto riguarda lo studio qui presentato, l’associazione tra attaccamento e DCA non
scaturisce soltanto da una tradizione accademica, quanto piuttosto dall’incontro di due
persone. Infatti il mio interesse per i DCA e l’Anoressia in modo particolare, si è ben
conciliato con gli interessi teorici della professoressa De Coro relativi alle caratteristiche
dell’organizzazione mentale relativa all’attaccamento in gruppi clinici.
Il lavoro qui esposto infatti ha inteso applicare l’ “Intervista di Attaccamento nella
Latenza” (IAL) alle ragazze anoressiche per valutarne lo stato mentale attuale rispetto a
questa particolare esperienza. La IAL è uno strumento di misura messo a punto e
sviluppato nel 1990 da un’equipe di ricercatori e docenti dell’Università degli Studi di
Roma “La Sapienza” nel 1990, di cui la professoressa De Coro ha fatto parte. Nel corso
della fase di progettazione dell’impianto metodologico da attribuire alla ricerca, è maturata
anche la volontà di coinvolgere in qualche modo i genitori delle ragazze per
contestualizzare i risultati delle IAL in un quadro di riferimento familiare.
Per ottenere ciò è stato utilizzato il Parental Bonding Instrument (PBI) un questionario
autosomministrato che ha lo scopo di registrare in che modo l’intervistato percepisce le
proprie figure genitoriali.
Una volta definiti i confini del progetto il sottoscritto si è messo in contatto con il prof.
Cuzzolaro, responsabile del Servizio di Igiene Mentale del Dipartimento di Scienze
Neurologiche e Psichiatriche dell’Età Evolutiva dell’Università degli Studi di Roma “La
Sapienza”, il quale abilmente persuaso della bontà del progetto, mi ha introdotto all’interno
dell’Ambulatorio per i Disturbi del Comportamento Alimentare diretto dalla Dott.ssa
Piccolo, la quale mi ha pazientemente guidato lungo tutto il lungo periodo necessario alla
raccolta dei dati.
Sempre affiancando la Dott.ssa Piccolo durante i colloqui preliminari, ho avuto modo di
fare la prima conoscenza delle ragazze a cui poi, in un’altra occasione, avrei dovuto
somministrare la IAL. Durante l’intervista delle ragazze i genitori compilavano i PBI, che
sono stati da me codificati, a differenza delle IAL invece codificate dalla Prof.ssa De Coro.
II
I risultati di questo lavoro sono presentati nella terza ed ultima parte dedicata alla
ricerca mentre le prime due sono dedicate rispettivamente ai Disturbi del Comportamento
Alimentare e alla Teoria dell’Attaccamento.
Non era certo nelle intenzioni di questo elaborato fornire una esaustiva rassegna dei dati
e delle acquisizioni connesse all’universo dei DCA, però si è cercato di offrire una
panoramica globale dei segni clinici principali, così come delle diverse teorie che hanno
tentato una interpretazione di questa dolorosa esperienza umana.
La parte dedicata all’attaccamento comprende un omaggio ai fondatori Bowlby e
Ainsworth, che per primi hanno tracciato il sentiero, e ad alcuni studiosi come Main,
Bretherton, Cassidy, Hesse e Solomon che lo hanno approfondito e sviluppato.
Al termine del mio lavoro desidero ringraziare sinceramente tutti coloro che hanno
contribuito alla sua realizzazione.
In primo luogo vorrei esprimere la mia riconoscenza alla prof.ssa Alessandra De Coro
per il suo prezioso e puntuale aiuto, il supporto e la disponibilità dimostrata nei miei
confronti e soprattutto per aver scelto di seguire il mio progetto superando le difficoltà
della Cattedra nell’accettare nuovi tesisti.
Vorrei poi ringraziare il prof. Cuzzolaro che mi ha consentito l’accesso al servizio da lui
diretto e soprattutto la dott.ssa Piccolo che è stata per me una “base sicura” dalla quale ho
imparato importanti elementi utili alla conduzione di un colloquio clinico.
Colgo quest’occasione anche per esprimere la mia gratitudine alla dott.ssa Thouverai,
dott.ssa Cottone, dott. Corbelli e dott.ssa Committeri per aver sopportato, nei lunghi e
tormentati anni degli studi universitari, le albe e i tramonti del mio “attaccamento
ambivalente”. In particolare va alla dott.ssa Committeri la mia più genuina e rispettosa
gratitudine per aver reso possibile la realizzazione di questo lavoro, curando con affetto e
professionalità l’elaborazione statistica.
III
INDICE
PARTE PRIMA: Disturbi del Comportamento Alimentare
CAPITOLO I ................................................................................................................................................... 3
DISTURBI ALIMENTARI: MODERNE CLASSIFICAZIONI DIAGNOSTICHE .................................................. 1
INTRODUZIONE ....................................................................................................................................................... 1
CLASSIFICAZIONE ATTUALE DELL’ANORESSIA NERVOSA ............................................................................... 2
BULIMIA NERVOSA .................................................................................................................................................. 3
DISTURBO DA ALIMENTAZIONE INCONTROLLATA ........................................................................................... 6
DISTURBI ALIMENTARI ATIPICI ............................................................................................................................ 7
UNO SGUARDO CLINICO SULLA STORIA DELLA SINDROME ......................................................................... 10
EPIDEMOLOGIA ..................................................................................................................................................... 11
ALCUNI RIFERIMENTI SEMIOLOGICI PER L’ANORESSIA NERVOSA ............................................................. 13
CAPITOLO II ................................................................................................................................................ 22
IPOTESI EZIOLOGICHE ........................................................................................................................................ 22
UNA PROSPETTIVA BIOPSICOSOCIALE ............................................................................................................. 22
FATTORI PREDISPONENTI INDIVIDUALI ........................................................................................................... 23
FATTORI PREDISPONENTI FAMILIARI ............................................................................................................... 29
FATTORI PREDISPONENTI SOCIO-CULTURALI ................................................................................................ 31
FATTORI SCATENANTI E PERPETUANTI ............................................................................................................ 32
DISORDINI ALIMENTARI DELL’INFANZIA ......................................................................................................... 34
PARTE SECONDA : La Teoria dell'Attaccamento
CAPITOLO III .............................................................................................................................................. 36
LE ORIGINI ............................................................................................................................................................. 36
INTRODUZIONE ..................................................................................................................................................... 36
I FONDATORI .......................................................................................................................................................... 37
ETOLOGIA E CIBERNETICA .................................................................................................................................. 40
COMPORTAMENTO ISTINTIVO E SISTEMI COMPORTAMENTALI................................................................... 41
IL COMPORTAMENTO DI ATTACCAMENTO ...................................................................................................... 45
PULSIONE PRIMARIA O SECONDARIA ............................................................................................................... 48
CRONOLOGIA DELL’ATTACCAMENTO .............................................................................................................. 49
I MODELLI COMPORTAMENTALI DELL’ATTACCAMENTO ............................................................................. 51
SISTEMI DI RAPPRESENTAZIONE O MODELLI OPERATIVI INTERNI ............................................................. 53
CAPITOLO IV............................................................................................................................................... 55
GLI SVILUPPI ........................................................................................................................................................ 55
INTRODUZIONE ..................................................................................................................................................... 55
AD INTERIM ............................................................................................................................................................ 56
ATTACCAMENTO COME LEGAME AFFETTIVO ................................................................................................. 58
MODELLI DI ATTACCAMENTO E STRANGE SITUATION .................................................................................. 60
LE CONFIGURAZIONI DI ATTACCAMENTO VISTE DALL’INTERNO ............................................................... 62
VARIABILI CONNESSE CON GLI STILI DI ATTACCAMENTO ............................................................................ 63
NON C’E TRE SENZA QUATTRO ........................................................................................................................... 69
ATTACCAMENTO IN ETA’ ADULTA ..................................................................................................................... 72
TALIS MATER TALIS FILIUS .................................................................................................................................. 76
FUNZIONE RIFLESSIVA E MONITORAGGIO METACOGNITIVO ...................................................................... 79
CAPITOLO V ................................................................................................................................................ 84
ATTACCAMENTO ADOLESCENZA E PSICOPATOLOGIA .............................................................................. 84
INTRODUZIONE ..................................................................................................................................................... 84
ORIGINI DEL CONCETTO DI PATOLOGIA IN BOWLBY .................................................................................... 85
EVOLUZIONE DEL CONCETTO DI PATOLOGIA IN BOWLBY ........................................................................... 86
ATTACCAMENTO E PSICOPATOLOGIA OGGI ................................................................................................... 89
ADOLESCENZA SECONDO LA VISIONE PSICOANALITICA .............................................................................. 92
IV
ADOLESCENZA E ATTACCAMENTO .................................................................................................................... 97
ATTACCAMENTO E DISTURBI DEL COMPORTAMENTO ALIMENTARE ....................................................... 100
ADULT ATTACHMENT INTERVIEW E I DISTURBI ALIMENTARI .................................................................... 104
PARENTAL BONDING INSTRUMENT E DISTURBI ALIMENTARI .................................................................... 107
ALTRE MISURE DELL’ATTACCAMENTO E DISTURBI ALIMENTARI ............................................................. 110
ATTACCAMENTO E DISTURBI ALIMENTARI: CONCLUSIONI ........................................................................ 113
PARTE TERZA: La Ricerca
CAPITOLO VI............................................................................................................................................. 116
LA RICERCA ........................................................................................................................................................ 116
INTRODUZIONE ................................................................................................................................................... 116
METODO................................................................................................................................................................ 118
RISULTATI ............................................................................................................................................................. 126
DISCUSSIONE ....................................................................................................................................................... 147
BIBLIOGRAFIA ......................................................................................................................................... 153
V
CAPITOLO I
DISTURBI ALIMENTARI: MODERNE CLASSIFICAZIONI
DIAGNOSTICHE
INTRODUZIONE
I Disturbi del Comportamento Alimentare (DCA) rappresentano un gruppo di sindromi
patologiche che, secondo la definizione data dal Manuale Diagnostico Statistico dei
Disturbi Mentali DSM-IV (Rapaport e Ismond, 1996) pubblicato nel 1994 dalla American
Psychiatric Association, possiamo schematicamente raggruppare in tre aree: i due classici
quadri clinici della Anoressia Nervosa (AN) e della Bulimia Nervosa (BN) e l’ampia ed
eterogenea categoria dei Disturbi Atipici del Comportamento Alimentare, cioè quei
disturbi che, pur essendo clinicamente significativi, non soddisfano i criteri diagnostici
della AN e della BN così come descritte dal DSM-IV.
Anoressia Nervosa e Bulimia Nervosa sono due disturbi della condotta alimentare che
hanno in comune tra loro il fatto di essere diffusi prevalentemente tra giovani donne e il
fatto di comportare un’estrema preoccupazione per il peso e l’aspetto fisico. Questa
preoccupazione porta le persone colpite da un DCA a mettere in atto tutta una serie di
strategie (digiuno, attività fisica eccessiva, abuso di diuretici e lassativi, vomito autoindotto
ecc.) volte a limitare l’aumento del peso, anche in presenza di situazioni fisiologiche di
grave denutrizione.
Le definizioni e le classificazioni dei Disturbi del Comportamento Alimentare sono
passati, nel corso della loro storia, attraverso varie fasi. Per quanto riguarda l’Anoressia
Nervosa, soltanto in quest’ultimo secolo, è stata considerata dapprima una malattia
organica a coinvolgimento ipofisario, poi una variante non specifica di molti disturbi
psichiatrici, infine oggi è riconosciuta come una sindrome che ha una sua specifica entità
ed individuali caratteristiche.
Anche la Bulimia Nervosa ha attraversato varie vicissitudini, passando da sintomo
episodico, corollario dell’anoressia, a sindrome specifica.
1
CLASSIFICAZIONE ATTUALE DELL’ANORESSIA NERVOSA
Nel campo della classificazione dell’Anoressia Nervosa sono sempre esistite notevoli
controversie. Alcuni studiosi hanno accentuato l’importanza degli aspetti psicologici, altri
quelli socioculturali, altri ancora quelli biologici. Un punto fermo all’interno di questo
dibattito è stato sicuramente raggiunto nel 1970, quando Gerard Russel propose una
classificazione semplice ed esauriente che ha fortemente influenzato i criteri classificativi.
Secondo quest’autore la diagnosi d’Anoressia Nervosa si compone di almeno tre fattori: 1)
marcata perdita di peso corporeo; 2) profonda paura di diventare grassi; 3) amenorrea nelle
femmine e perdita d’interesse sessuale nei maschi. La validità e la comprensibilità di
questa classificazione è dimostrata dal fatto che la definizione di Anoressia Nervosa del
DSM IV (Tab. 1.1) non si discosta troppo da quella di Russel.
Come annunciato questa moderna classificazione ricorda a grandi linee quella originaria
di Russel, però, oltre a proporre come nuovo criterio diagnostico l’alterazione
dell’immagine corporea, presenta anche un’interessante specificazione tra due sottotipi di
Anoressia, quella restrittiva e quella bulimico-purgativa.
Successivamente molte ricerche hanno documentato significative differenze tra le
ragazze anoressiche che periodicamente hanno abbuffate compulsive (tipo bulimicopurgativo) e quelle che restringono costantemente la loro alimentazione senza mai perdere
il controllo (tipo restrittivo).
Le anoressiche di tipo bulimico-purgativo prima dell’insorgenza della malattia hanno un
peso corporeo più elevato e spesso hanno una storia d’obesità; nelle loro famiglie sono
ricorrenti l’obesità e vari problemi psichiatrici, il più tipico dei quali è la depressione;
usano più spesso lassativi e vomito autoindotto per controllare il peso corporeo; hanno
elevati livelli d’impulsività, non solo nel comportamento alimentare, ma anche in altre
aree; nella loro storia esiste un più elevato numero di tentativi di suicidio e spesso hanno
un’organizzazione di personalità di tipo borderline, narcisista o antisociale (Marcelli
Braconnier, 1999).
2
Tabella. 1.1 (Fonte: Rapaport e Ismond, 1996)
Anoressia Nervosa: criteri diagnostici
(DSM IV – Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders, 1994)
A. Rifiuto di mantenere il peso corporeo al livello minimo considerato normale in rapporto all’età
e alla statura o al di sopra di esso ( per es., perdita di peso che porta a mantenere il peso
corporeo al di sotto dell’85% rispetto a quanto previsto oppure durante il periodo di crescita in
altezza, mancanza dell’aumento di peso previsto, che porta a un peso corporeo inferiore
all’85% di quell’atteso).
B. Intensa paura di acquistare peso o di diventare grassi, anche quando si è sottopeso.
C. Disturbi nel modo di sentire il peso e le forme del proprio corpo, influenza eccessiva del peso e
delle forme del corpo sui livelli di autostima, o rifiuto di ammettere la gravità dell’attuale
condizione di sottopeso.
D. Nelle donne che hanno già avuto il menarca, amenorrea, cioè assenza di almeno 3 cicli
mestruali consecutivi. (Si considera amenorroica una donna i cui cicli avvengono solo in
seguito a somministrazione d’ormoni, per es., estrogeni).
Specificare il sottotipo:
RESTRITTIVO: durante l’episodio attuale di Anoressi Nervosa il soggetto non ha presentato
regolarmente abbuffate o condotte di eliminazione (per es., vomito autoindotto, abuso di lassativi,
diuretici o enteroclismi)
BULIMICO PURGATIVO: durante l’episodio di Anoressia Nervosa il soggetto ha presentato
regolarmente abbuffate o condotte di eliminazione (per es., vomito autoindotto, abuso di lassativi,
diuretici o enteroclismi)
BULIMIA NERVOSA
Nel vocabolario medico-psichiatrico “bulimia” indica da molti secoli un sintomo. solo
da pochi anni è anche una sindrome. La data di nascita del concetto di Bulimia Nervosa
come entità nosografica autonoma può essere collocata nel 1979. A quell’anno risale infatti
la pubblicazione di un articolo di Russel (Russell 1988) intitolato “Bulimia nervosa: an
ominous variant of anorexia nervosa” dove venivano presentati trenta casi clinici, due
3
maschi e ventotto femmine, che rispondevano al doppio criterio di presentare crisi
bulimiche e di soffrire di paura morbosa d’ingrassare. Russel, confrontando la Bulimia
Nervosa con quella che chiama la “vera Anoressia Nervosa” (non complicata da crisi
bulimiche), osserva che nella Bulimia Nervosa il peso corporeo è più elevato, è più
frequente la presenza di cicli mestruali fertili, è più comune una vita sessuale attiva, è alta
l’incidenza di crisi depressive con notevole rischio di suicidio. Conclude quindi che la
Bulimia Nervosa è una pericolosa variante dell’Anoressia Nervosa con una prognosi più
sfavorevole.
Russel basa la sua descrizione di bulimia nervosa su tre punti fondamentali: 1) impulsi
potenti e irresistibili a stramangiare; 2) uso di accorgimenti per evitare l’effetto ingrassante
del cibo, in particolare vomito autoindotto e/o lassativi; 3) paura morbosa d’ingrassare.
Come accaduto per l’Anoressia Nervosa vediamo che, anche in questo caso, la grande
acutezza e precisione di Russel hanno ampiamente ispirato il DSM-IV, il quale, per la
definizione della Bulimia Nervosa, presenta criteri diagnostici simili a quelli proposti dallo
psichiatra inglese (Tabella 1.2).
Quindi la bulimia intesa come il fatto di abbuffarsi e/o vomitare, è un quadro conosciuto
fin dall’antichità, forse ancor prima dell’anoressia, mentre la Bulimia Nervosa come noi
oggi la intendiamo, pare essere una patologia comparsa nosograficamente in tempi
piuttosto recenti.
Oggi la Bulimia Nervosa ha conquistato un proprio autonomo statuto psicopatologico e
può essere diagnosticata in assenza di una pregressa diagnosi di Anoressia Nervosa. Questa
differenziazione è confortata anche da sempre più crescenti contributi tendenti a
testimoniare un diverso quadro psicodinamico di base delle due sindromi (Marcelli e
Braconnier, 1999). Piccini (2000) sottolinea ulteriormente come le pazienti predisposte a
una Bulimia Nervosa abbiano una struttura di personalità diversa da quella delle pazienti
predisposte all’Anoressia Nervosa. Infatti mentre la potenziale anoressica appare
caratterizzata da un tratto o da un disturbo di personalità di tipo ossessivo-compulsivo, la
potenziale bulimica appare invece portatrice di un tratto di personalità di tipo impulsivo.
Per ragioni di spazio e di pertinenza nel lavoro qui presentato alla Bulimia Nervosa non
è concesso lo stesso spazio dedicato all’Anoressia Nervosa, ci sembra però doveroso
spendere qualche parola in più per riconoscere alla bulimia lo spessore che merita. A
questo proposito si intende proporre almeno un contributo riferito alla riflessione
psicodinamica applicata a questo antico e complesso disturbo.
4
Tab. 1.2 (Fonte: Rapaport e Ismond, 1996)
Bulimia nervosa: criteri diagnostici
(DSM IV)
A. Episodi ricorrenti di abbuffate. Un’abbuffata è definita tale dai due caratteri (entrambi
necessari) qui elencati:
1) Mangiare in un periodo di tempo circoscritto (per es., due ore) una quantità di cibo che è
significativamente maggiore di quello che la maggior parte delle persone mangerebbe nello
stesso periodo di tempo in circostanze simili;
2) Sensazione di perdere il controllo durante l’episodio (per es., sensazione di non riuscire a
smettere di mangiare o a controllare cosa e quanto si sta mangiando).
B. Ricorrenti e inappropriate condotte compensatorie per prevenire l’aumento di peso, come
vomito autoindotto, abuso di lassativi, diuretici o altri farmaci; digiuno o esercizio fisico
eccessivo;
C. Abbuffate e condotte compensatorie si verificano entrambe in media almeno due volte la
settimana per la durata di tre mesi;
D. La valutazione di sé è inappropriatamente influenzata dalle forme e dal peso del corpo;
E. Il disturbo non si riscontra soltanto nel corso di episodi di Anoressia Nervosa.
Specificare il sottotipo:
PURGATIVO: nell’episodio attuale di Bulimia Nervosa il soggetto ha presentato regolarmente
vomito autoindotto o uso inappropriato di lassativi, diuretici o enteroclismi
NON PURGATIVO: nell’episodio attuale il soggetto usa altri comportamenti compensatori
inappropriati, come il digiuno o l’esercizio fisico eccessivo, ma non ha l’abitudine di provocarsi il
vomito né quella di usare in modo inadeguato lassativi o diuretici.
In ambito psicoanalitico, i modelli teorici maggiormente accreditati, come quello del
conflitto pulsione-difesa, quello delle relazioni oggettuali, la Psicologia del Sé e più
recentemente anche la teoria dell’attaccamento si sono confrontati con l’universo dei DCA.
Tra questi abbiamo selezionato il contributo di Cuzzolaro (1988), particolarmente attento
5
alla funzione intrapsichica di quella che l’autore chiama la “sequenza bulimica”: dietaorgia alimentare-distensione-rimorso. In questa prospettiva, tale sequenza e, in
particolare, il passaggio crisi bulimica-vomito, risponde al compito di alleviare una
tensione interna insopportabile. Infatti l’esperienza clinica conferma come il bisogno di
stramangiare nasca come compenso piacevole ad una esperienza dolorosa, come ricerca di
una gratificazione in seguito ad una frustrazione. In realtà secondo Cuzzolaro la crisi
bulimica svolge una complessa funzione di “regolatore” delle tensioni interne, di qualsiasi
origine e natura. Cuzzolaro inoltre attinge anche dal contributo di Balint (1952), il quale
riconosce due modalità arcaiche di relazione oggettuale: atteggiamento ocnofilo e filobate.
Il primo è caratterizzato da apertura e dipendenza, mentre il secondo da autosufficienza e
superinvestimento delle abilità personali. La sequenza bulimica, può essere quindi letta
secondo Cuzzolaro (1988) come una vertiginosa oscillazione da una posizione filobate (la
dieta) ad una ocnofila (l’orgia alimentare, la ricerca dell’amore primario) ad una ancora
filobate (il vomito, che ha la funzione di alleviare il malessere fisico e, di restituire una
sensazione di dominio e di integrità del Sé minacciato dalla massiva regressione
precedente).
In conclusione, l’atto alimentare viene qui inteso come un regolatore di tensione, in
grado di ristabilire l’idea di un controllo onnipotente dell’unico oggetto importante, anzi
dell’unico esistente (il cibo), ogni qualvolta la realtà spiacevole smaschera l’impossibilità
di dominare la vita e i suoi effetti. Anche il vomito ha una funzione di controllo poiché una
volta finita l’abbuffata c’è qualche altra cosa che potrebbe sfuggire al controllo: il corpo (il
suo peso, la sua forma) che invece non deve ingrassare, non deve cambiare.
DISTURBO DA ALIMENTAZIONE INCONTROLLATA
Recentemente è stata introdotta una nuova categoria diagnostica, che è tuttora
sottoposta al vaglio del DSM-IV e quindi per il momento classificata tra i Disturbi del
Comportamento Alimentare Atipici: il Disturbo da Alimentazione Incontrollata (Rapaport
e Ismond, 1996).
Questo tipo di disturbo è diagnosticabile in soggetti in sovrappeso, i quali si abbuffano
con le stesse modalità e la stessa frequenza dei soggetti bulimici, ma che a differenza di
questi, non fanno uso, di alcun mezzo di compenso, quali il vomito, i lassativi, i diuretici,
le diete severe e l’eccessivo esercizio fisico, giungendo così a soffrire ben presto di obesità
di grado variabile. Sostanzialmente i soggetti affetti da Binge Eating Disorder continuano
6
ad abbuffarsi senza mai cercare un modo per compensare la propria alimentazione
eccessiva: questo spiega perché essi siano generalmente obesi, mentre quelli affetti da
Bulimia Nervosa sono generalmente normopeso (Piccini, 2000). Le abbuffate avvengono
con regolarità (con una frequenza di almeno due giorni alla settimana per un periodo di
almeno sei mesi) e molto spesso in solitudine, il cibo viene consumato con grande voracità
senza tenere conto del fatto di sentirsi già pieni oppure di non sentire affatto la sensazione
fisica della fame. Subito dopo queste abbuffate i pazienti si sentono fortemente in colpa e
si vergognano per quello che hanno fatto (Fairburn, 1994).
Il BED è spesso associato ad una rilevante quota di comormilità psichiatrica; in
particolare con Disturbi dell’Umore e Disturbi di Personalità di tipo Schizoide o
Schizotipico (Marcelli e Braconnier, 1999). Non a caso un tempo questi pazienti venivano
etichettati come “obesi egodistonici” o “obesi depressivi”, per distinguerli da quella quota
di obesi definiti egosintonici che invece non sembravano presentare alcuna patologia
psichiatrica significativa e in cui l’obesità appariva semplicemente legata a patologie di
tipo metabolico (Piccini, 2000). Nella Tabella 1.3 possiamo apprezzare i criteri diagnostici
necessari per individuare questo disturbo, secondo il DSM-IV.
DISTURBI ALIMENTARI ATIPICI
Oltre alla Anoressia Nervosa e Bulimia Nervosa, esiste un ampia ed eterogenea
categoria di Disturbi del Comportamento Alimentare cosiddetti “atipici o “non altrimenti
specificati” (DCA-NAS). In questa categoria diagnostica trovano posto tutti quei quadri
clinici che si configurano sicuramente come patologici, ma che non soddisfano i criteri
diagnostici necessari, oppure non sono abbastanza gravi, per essere inclusi in una delle due
categorie diagnostiche maggiori.
Ad esempio può configurarsi un DCA-NAS quando in un quadro clinico sono
soddisfatti tutti i criteri per una diagnosi di Anoressia Nervosa ma, nonostante la paziente
sia sottopeso, il peso non è inferiore all’85% del peso atteso e il BMI è superiore a 17,5 .
Un altro esempio di DCA-NAS può essere il caso di una ragazza che presenta tutti i criteri
diagnostici per l’Anoressia Nervosa, eccetto l’amenorrea. Ancora consideriamo DCA-NAS
il caso di una ragazza che presenti tutti i criteri per la Bulimia Nervosa tranne per il fatto
che la frequenza delle abbuffate è soltanto di una alla settimana.
Nella Tabella 1.4 possiamo ritrovare le caratteristiche necessarie ad individuare un
DCA-NAS, secondo la classificazione adottata dal DSM-IV.
7
Tab. 1.3 (Fonte: Rapaport e Ismond, 1996)
Disturbo da Alimentazione Incontrollata (binge eating disorder): criteri diagnostici
(DSM IV)
A. Episodi ricorrenti di abbuffate. Un’abbuffata è definita dai due caratteri seguenti:(vedi tab.
1.2).
B.
Gli episodi di abbuffate sono associati ad almeno tre dei seguenti caratteri:
1) Mangiare molto più rapidamente del normale;
2) Mangiare sino ad avere una sensazione dolorosa di stomaco eccessivamente pieno;
3) Mangiare grandi quantità di cibo pur non sentendo fisicamente la fame;
4) Mangiare in solitudine a causa dell’imbarazzo per le quantità di cibo ingerite;
5) Provare disgusto di sé, depressione o intensa colpa dopo aver mangiato troppo:
C.
Le abbuffate suscitano sofferenza e disagio;
D. Le abbuffate avvengono, in media, almeno due giorni la settimana per almeno sei mesi.
E. Il disturbo non si riscontra soltanto nel corso d’Anoressia Nervosa o di Bulimia Nervosa.
8
Tab. 1.4 (Fonte: Rapaport e Ismond, 1996)
Disturbi del comportamento alimentare non altrimenti specificati: criteri
diagnostici.
(DSM-IV)
Disturbi del comportamento alimentare che non soddisfano i criteri per uno specifico disturbo
del comportamento alimentare (Anoressia Nervosa o Bulimia nervosa).
Esempi:
1. Per femmine, sono soddisfatti tutti i criteri per l’Anoressia Nervosa, ma il soggetto ha cicli
mestruali regolari;
2. Sono soddisfatti tutti i criteri per l’Anoressia Nervosa, ma il peso, benché diminuito
significativamente, rientra nell’area della normalità;
3. Sono soddisfatti tutti i criteri per la Bulimia Nervosa, ma abbuffate compulsive e utilizzo
di mezzi di compenso impropri avvengono con frequenza inferiore a due volte la
settimana o per un periodo inferiore ai tre mesi;
4. Un soggetto normopeso ha l’abitudine d’utilizzare comportamenti impropri di compenso
dopo aver mangiato modeste quantità di cibo;
5. Un soggetto mastica e sputa ripetutamente, senza inghiottire, grandi quantità di cibo.
6. Disturbi d’abbuffate compulsive: episodio ricorrente d’abbuffate compulsive senza quei
comportamenti impropri di compenso che sono caratteristici della Bulimia Nervosa.
9
UNO SGUARDO CLINICO SULLA STORIA DELLA SINDROME
Alcuni studi recenti sull’Anoressia Nervosa pongono il problema se essa debba
considerarsi una “malattia nuova”, cioè un fenomeno peculiare della società moderna,
oppure un disturbo già conosciuto anche nei secoli passati (Brutti e Parlani, 1992). Scopo
del presente paragrafo è quello di raccoglire i diversi contributi in grado di testimoniare
tracce di comportamenti anoressici anche in epoche passate, mentre l’influenza socioculturale della moderna civiltà occidentale sull’insorgenza di questo disturbo, sarà vagliata
al momento di prendere in considerazione i fattori predisponenti alla malattia.
Nell’immaginario collettivo quanto viene designato con il termine “Anoressia” è un
fenomeno proprio del XX secolo: una sorta di peculiare epidemia, endemica nella società
del benessere, senza antecedenti di rilievo. In realtà, nella storia della medicina, possiamo
riconoscere che la prima descrizione di un quadro anoressico risale al 1694 quando
Richard Morton nel capitolo “De phthisi nervosa” nel suo trattato Phthisiologiae Liber
Primus, indicò come consunzione della costituzione corporea una sindrome in cui
l’appetito viene debilitato dal debole tono dello stomaco e l’assimilazione ritardata dallo
stato ammalato del cervello (Morton, 1988). Dalle sue incisive note cliniche inoltre,
emerge con chiarezza l’importanza che Morton attribuì all’amenorrea.
Dovranno passare due secoli perché questi “stati di consunzione” tornino ad essere
oggetto di attenzione da parte della medicina: a distanza di un anno, Lasègue nel 1873 in
Francia e Gull nel 1874 in Inghilterra, compiono uno sforzo di specificazione nosografica
della sindrome, che si è ormai imposta definitivamente all’attenzione della medicina, e che
viene inizialmente denominata “Anorexia histerique” da Lasègue, che poi nel 1883
Huchard modificherà in “Anoressia mentale” (Brutti e Parlani, 1992).
Al di là di questi diversi aggettivi però la rappresentazione successiva dell’Anoressia fu
profondamente segnata dal suo significato etimologico (dal greco Anoreksia, che significa
“non ho appetito”), che dette definitivamente al quadro, almeno fino alla metà del XX
secolo, il carattere di sindrome da inappetenza. Raramente, infatti, nelle descrizioni relative
alla sindrome, effettuate tra il 1873 e il 1950 viene riferita, rispetto alle anoressiche, la
paura di ingrassare (Dalle Grave, 1996).
Come abbiamo visto, attualmente, l’Anoressia Nervosa è considerata un disturbo con
delle caratteristiche specifiche che la distinguono da altre patologie psichiatriche; ma non è
stato sempre così, infatti, per molto tempo, è stata considerata variante o sintomo non
specifico d’altre malattie. Tomas infatti nel 1909 affermò che l’Anoressia Nervosa non era
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una singola malattia ma una sindrome comune a diversi stati come la paranoia, la
malinconia, l’ipocondria, la mania e le neurosi (Ruggieri e Fabrizio, 1994)
Per quanto riguarda la schizofrenia, il primo caso riscontrato in un soggetto anoressico
risale al 1913 ed è stato descritto da Dubois (Dalle Grave, 1996); d’allora alcuni autori
hanno creduto che l’Anoressia Nervosa fosse una variante della schizofrenia (Selvini
Palazzoli, 1981). Tuttavia, sebbene alcune caratteristiche presenti nell’Anoressia Nervosa,
quali il negativismo e l’isolamento sociale, si manifestino anche nella schizofrenia e
sebbene in taluni casi il disturbo dell’immagine corporea possa raggiungere nelle
anoressiche le dimensioni di un vero e proprio delirio, le caratteristiche fondamentali delle
due patologie, negli affetti e nei problemi di pensiero, sono significativamente differenti
(Segal, 1989).
Sempre con l’intento di ritrovare tracce del disturbo anche in epoche remote, Bell
(1987) esplora, analizzando pagine di diario, relazioni di confessori e testimonianze di
contemporanei, le biografie di alcune sante, vissute nell’Italia centrale tra il XIII e il XVII
secolo, tra le quali spiccano nomi di grande rilievo storico come quelli di S. Caterina da
Siena, S. Chiara d’Assisi, S. Margherita da Cortona. Bell tende a dimostrare che il
comportamento alimentare di queste sante era del tutto sovrapponibile a quello delle
odierne anoressiche. L’autore, inoltre, rispetto al contesto, ci ricorda che esso dinanzi al
comportamento alimentare delle sante esprimeva una duplice reazione: di idealizzazione
della loro eroica capacità di resistere all’impulso della fame e, al contrario di dubbio e
addirittura di sospetto.
I confessori di tali sante, nella loro inquietante ricerca di indizi per capire se si
trovavano di fronte ad un evento demoniaco da esorcizzare o ad una manifestazione del
divino, sono presi a rappresentanti del dilemma che quell’anomalo comportamento veniva
a creare. La tesi di Bell (1987) è dunque che anche le sante medievali erano anoressiche.
EPIDEMOLOGIA
Gli studi epidemiologici, fino ad ora eseguiti hanno dimostrato che la distribuzione
dell’Anoressia Nervosa all’interno della popolazione non è casuale, ma che il gruppo più
vulnerabile è rappresentato dalle giovani donne, infatti i maschi rappresentano solo il 510% dei soggetti affetti da questo disturbo (Piccini, 2000).
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Il disturbo appare più frequentemente tra i 12 e i 25 anni, con un incremento tra i 14 e i
18 anni, anche se negli ultimi anni sono stati diagnosticati molti casi ad incidenza più
tardiva, dopo i 20 - 30 anni (Bruch, 1978).
L’Anoressia Nervosa è considerata da alcuni autori una sindrome legata alla cultura
(culture – bond) e quindi presente in alcuni paesi e culture ed assente in altre. E’ ormai
chiaro che il disturbo mostra una netta predominanza nei paesi industrializzati e sviluppati,
soprattutto occidentali (Gordon, 1991).
L’Anoressia Nervosa ha una frequenza ed una distribuzione abbastanza uniformi sul
territorio italiano: va dal 0,36-0,4% nel Centro Nord allo 0,2-0,3% nel Centro Sud. Tale
frequenza è andata costantemente aumentando negli ultimi dieci anni (Piccini, 2000).
Anche la sua distribuzione appare omogenea a livello sociale: le classi agiate appaiono in
fatti colpite con la stessa frequenza delle classi meno agiate.
La Bulimia Nervosa, ha conosciuto negli ultimi dieci anni una crescita esponenziale,
fino a raggiungere una incidenza nella popolazione italiana che si situa attualmente tra
l’1% al Centro-Nord e l’1,7% al Centro-Sud, con criteri di distribuzione piuttosto
omogenei sia per aree territoriali, sia per ceti sociali. Anche per la BN l’età di esordio si
situa tra i 12 e i 25 anni con un picco di maggior frequenza tra i 17 e i 18 anni (Cuzzolaro,
1988).
L’esatta incidenza del Binge Eating Disorder nella popolazione italiana non è ancora del
tutto nota, ma sembra essere compresa tra il 20/30% dei pazienti che richiedono un
trattamento per l’obesità. Questo quindi permetterebbe di stimare l’incidenza di BED
variabile tra lo 0,7 e il 4% degli individui obesi (Dalle Grave, 1996). Cuzzolaro (1988) ha
condotto a Roma una ricerca dalla quale sono emerse prevalenze dello 0,4 e dello 0,34%.
La sua prevalenza nella popolazione generale degli individui obesi, sembra inoltre
aumentare con il crescere del peso corporeo (ad esempio nei soggetti con obesità di grado
elevato è presente in circa il 40% dei casi) (Piccini, 2000).
Il BED insorge di solito tra i 20 e i 30 anni, spesso a seguito di una significativa perdita
di peso ottenuta mediante una dieta drastica. Una patologia dunque non rara, anche se di
difficile individuazione diagnostica rispetto alla Bulimia Nervosa, cui si sovrappone in
parte dal punto di visto sintomatologico.
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ALCUNI RIFERIMENTI SEMIOLOGICI PER L’ANORESSIA NERVOSA
L’Anoressia Nervosa, considerata una volta una malattia rara e bizzarra, costituisce un
problema molto grave che affligge attualmente in prevalenza i paesi occidentali o
comunque industrializzati. Infatti l’Anoressia Nervosa in passato rarissima e quasi
esclusiva delle classi sociali più elevate, è diventata un disturbo frequente anche in altri
strati della popolazione. L’aumento di casi d’Anoressia Nervosa iniziata dopo la Seconda
Guerra Mondiale, è divenuto molto più intenso negli anni ’70, ’80 e ’90.
L’Anoressia Nervosa è considerata un Disturbo del Comportamento Alimentare, anche
se questa definizione rischia d’oscurare il nucleo centrale del problema, che non consiste
solo in un’alimentazione disturbata ma nell’eccessiva preoccupazione nei confronti del
peso e delle forme corporee. Questa preoccupazione si esprime con due modalità che sono
presto diventate dei segni patognomonici specifici di questa sindrome e che sono: la paura
d’ingrassare e una costante ricerca della magrezza. Naturalmente oltre questo nucleo
centrale, largamente accettato, sono presenti molti altri segni e sintomi cui è stata attribuita
maggiore o minore importanza a seconda degli autori che li hanno descritti.
A questo proposito è necessario sottolineare che nonostante questi punti fermi, la
descrizione del quadro clinico dell’Anoressia Nervosa presenta delle difficoltà in quanto
diventa difficile distinguere tra alcune caratteristiche del disturbo e gli effetti fisici e
psicologici del digiuno e della denutrizione (Dalle Grave, 1996). Dopo questa premessa
generale vediamo ora più in dettaglio gli elementi che possono aiutarci a comprendere e
descrivere meglio questa complessa patologia.
Paura d’ingrassare e ricerca della magrezza
La preoccupazione nei riguardi del peso e delle forme corporee è considerata dalla
maggioranza degli autori come il nucleo psicopatologico specifico dell’Anoressia Nervosa.
Infatti, questa sindrome è stata alternativamente definita come “paura morbosa del grasso”
oppure “inseguimento della magrezza” (Garfinkel e Garner et. al, 1983).
Dopo aver individuato queste due modalità elettive d’espressione della preoccupazione
inerente al peso e alle forme corporee, è interessante capire in che rapporto sono tra loro.
La ricerca spasmodica della magrezza è presente soprattutto nelle prime fasi del
disturbo, mentre poi è gradualmente sostituita dalla paura d’ingrassare.
La paura d’ingrassare inoltre sottende e rende comprensibili la maggior parte degli
aspetti dell’Anoressia Nervosa. In questa sindrome infatti, gli elementi dietetici restrittivi,
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il vomito autoindotto, l’uso di lassativi o diuretici, la preoccupazione nei confronti del
cibo, l’enorme sensibilità alle modificazioni del peso, il pesarsi frequentemente oppure non
pesarsi affatto sono tutti fenomeni che scaturiscono dalla convinzione, comune a tutte le
ragazze anoressiche, che il peso e la forma fisica siano d’estrema importanza per giudicare
il proprio valore personale, ecco perché questi fattori vanno sempre tenuti sotto strettissimo
controllo (Dalle Grave, 1996).
Molto spesso una situazione di leggero sovrappeso può precedere l’insorgenza
dell’Anoressia Nervosa, in quanto porta ad iniziare una dieta sotto la spinta dei genitori o
del medico. L’obiettivo iniziale non è quasi mai quello di perdere molto peso ma solo
qualche chilo; tuttavia quando il dimagrimento ha avuto inizio difficilmente si arresta. La
paura d’ingrassare che subentra al desiderio di dimagrimento assume il completo controllo
della situazione e l’alimentazione è ristretta sempre di più.
Assumendo una prospettiva biopsicosociale (Swift et al 1986), indispensabile per
affrontare una patologia così complessa, è possibile sottolineare che la paura d’ingrassare è
accentuata dal fatto che, mentre il soggetto desidera raggiungere un certo peso, il suo corpo
oppone resistenza a questo progetto: infatti quando un soggetto si sottopone, per qualsiasi
motivo, ad una restrizione alimentare l’organismo mette in atto svariati meccanismi
difensivi, tra cui un aumento della fame e della preoccupazione nei confronti
dell’alimentazione. Questa pressione psicologica ad assumere cibo, in una ragazza che
consideri il controllo del peso corporeo come il metro più importante per esprimere il suo
valore, aumenta ancor più la paura di perdere il controllo e d’ingrassare (Moriconi et al.
1992).
In questo modo si viene ad instaurare un circolo vizioso caratterizzato da: dieta severa –
pressione biologica ad assumere cibo – paura d’ingrassare – dieta ancor più severa.
In questo contesto il termine anoressia, con la sua accentuazione etimologica sulla
mancanza di appetito, sembra perciò inadeguato a descrivere quello che accade, in quanto
la maggior parte dei soggetti affetti da tale patologia soffre di una fame così intensa che per
ridurla devono assumere farmaci anoressizzanti o grandi quantità di liquidi.
A questa paura d’ingrassare e alla profonda restrizione dell’apporto alimentare, fa da
contraltare nelle ragazze anoressiche un interesse nei confronti del cibo che si manifesta
attraverso comportamenti tipici come la conoscenza delle calorie d’ogni alimento, il
collezionare libri di cucina, cucinare per gli altri, etc.
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Negazione della malattia e disturbo dell’immagine corporea
Nelle fasi della malattia, nonostante la severa perdita di peso, quasi tutte le ragazze
anoressiche negano la fame, la perdita di peso e la presenza di qualsivoglia problema,
affermando di sentirsi bene e che non c’è nulla di cui preoccuparsi.
A quest’atteggiamento s’associa assai frequentemente quello che sta diventando insieme
alla paura d’ingrassare e al desiderio di dimagrire, una caratteristica importante
dell’Anoressia Nervosa e cioè il disturbo dell’immagine corporea. Infatti molte ragazze
con evidente emaciazione si vedono e si sentono normali, se non addirittura grasse in tutto
il corpo o in alcune sue parti (Ruggieri e Fabrizio, 1994)
Partendo da questo dato, negli ultimi anni, sono state messe a punto diverse
metodologie per valutare la percezione dell’immagine corporea, ed il fenomeno è apparso
molto complesso. Non in tutti i soggetti affetti da Anoressia è presente una distorsione
dell’immagine corporea ed inoltre tale fenomeno non riguarda esclusivamente questa
patologia.
Probst et al. (1995)) hanno messo a punto una metodica che misura il grado di
distorsione della percezione dell’immagine corporea, denominata videodistorsione. Il
soggetto posa in bikini di fronte ad una videocamera collegata ad uno schermo ed agisce su
una manopola attraverso la quale la sua immagine nello schermo può essere allargata o
ristretta. Infine la paziente sottoposta al test deve stimare la misura di un oggetto (
solitamente un cerchio), perché si possa valutare s’esista o meno un deficit generale della
percezione.
Durante l’esperimento sono presentate tre richieste:
1. Modificare l’immagine sullo schermo fino al momento in cui rifletta quella reale;
2. Modificare l’immagine sullo schermo fino al punto in cui essa corrisponda a come la
paziente desidera essere;
3. Modificare l’immagine fino al momento in cui essa corrisponda a come la paziente si
sente.
Questa ricerca ha in parte confermato le aspettative, poiché le immagini desiderate dai
soggetti erano molto più magre del normale, ma d’altronde ha stupito verificare che le
ragazze anoressiche, nella maggior parte dei casi, non sovrastimano il proprio corpo; molto
spesso la valutazione percettiva delle proprie dimensioni corporee è simile a quella delle
ragazze non affette da Anoressia Nervosa.
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I dati di questi studi, in ultima analisi, evidenziano che il disturbo dell’immagine
corporea è un fenomeno complesso in quanto esso non è presente in tutti i soggetti affetti
da Anoressia Nervosa, ma solo in un sottogruppo, che ha però prognosi peggiori (Ventura
et al. 1992).
Abbuffate compulsive vomito e lassativi
In un largo sottogruppo di ragazze affette da Anoressia Nervosa sono presenti dei
comportamenti che diventano ormai sempre più tipici di questa sindrome: vomito
autoindotto, abuso di lassativi e abbuffate compulsive (Garfinkel e Garner et al., 1983).
Per abbuffate compulsive s’intende l’assunzione d’elevate quantità di cibo,
accompagnate dalla sensazione di perdita del controllo. Durante questi episodi vengono
ingeriti i cibi “proibiti” o ingrassanti, che sono solitamente evitati nelle fasi di restrizione
perché considerati troppo calorici.
Vengono solitamente preferiti cibi che non richiedono troppa preparazione per essere
cucinati, né masticazione per essere assunti, in particolare dolci, gelati, pane, toast,
cioccolata. L’entità di un episodio bulimico varia considerevolmente entro un range che va
dalle 1000 alle 2000 calorie (Russell, 1988). Spesso non si tratta di abbuffate compulsive
oggettive, bensì soggettive; il cibo ingerito non è oggettivamente molto rispetto al normale,
ma è soltanto superiore a quanto il soggetto aveva previsto (Piccini, 2000).
Tali episodi vengono vissuti in solitudine e seguono generalmente dei rituali
stereotipati.
Durante le abbuffate la maggior parte dei soggetti mangia velocemente, senza
apprezzare il gusto del cibo. La durata dell’attacco bulimico è estremamente variabile, ma
normalmente inferiore alle due ore.
Dopo l’abbuffata compulsiva alcune ragazze restringono la loro alimentazione per molti
giorni, mentre altre s’inducono il vomito oppure fanno uso di lassativi o diuretici, per
prevenire l’incremento del peso. Alcuni soggetti iniziano ad assumere lassativi con l’idea
irrazionale di ridurre il gonfiore addominale e prevenire l’assorbimento del cibo.
Iperattività fisica
Un’altra caratteristica, difficile da modificare e presente nella maggior parte delle
ragazze anoressiche, ma non in tutte, è costituita dall’iperattività accompagnata dalla
negazione della fatica. Tale comportamento non ha mai cessato di suscitare stupore e
sconcerto, poiché esso, realizzato da ragazze notevolmente sottopeso, appare paradossale e
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misterioso. La giovane anoressica, infatti, più è defedata e più sembra invasa da un sacro
fuoco che la rende incessantemente attiva.
L’obiettivo più lampante di quest’iperattività è bruciare calorie per evitare d’ingrassare.
Normalmente l’attività fisica è praticata in solitudine, seguendo una regolare e rigida
sequenza che ha delle caratteristiche ossessive. Se per qualsiasi motivo quest’allenamento
non ha luogo, le ragazze anoressiche si sentono fortemente in colpa. Questi comportamenti
costruiscono un credito verso il cibo, infatti ci si “guadagna” il diritto d’ingerire un certo
quantitativo di calorie svolgendo un determinato numero d’esercizi; al contrario si deve
pagare la colpa di aver mangiato qualcosa in più, eseguendo una quantità ancora maggiore
d’allenamento. Un altro tipo di iperattività si esprime con una persistente irrequietezza che
è tipica di quasi tutti gli individui fortemente emaciati, spesso associata a disturbi del
sonno ed apparentemente non sottoposta a controllo cosciente (Dalle Grave, 1996).
La scoperta delle endorfine che in certe situazioni di stress e sofferenza il nostro
organismo secerne, e l’effetto anestetico ed euforizzante da esse prodotto (Reitano, 1995)
illumina il risvolto biologico del fenomeno, senza però spiegarlo completamente.
Amenorrea
Il sintomo più caratteristico ed indicativo dell’Anoressia Nervosa è certamente
l’amenorrea (scomparsa delle mestruazioni), al punto tale che la sua presenza è considerata
necessaria per porre la diagnosi d’Anoressia Nervosa (Selvini Palazzoli, 1988).
Essa dipende largamente, ma non completamente, dalla perdita di peso conseguente alla
restrizione alimentare, anche se in un sottogruppo di soggetti (7% - 24%) compare prima
della riduzione ponderale (Dalle Grave, 1996). L’amenorrea regredisce, nella maggior
parte dei casi, con il recupero del peso, ma in un sottogruppo permane, nonostante esso sia
stato totalmente riacquistato.
Attualmente non è ancora chiaro se tale disfunzione sia conseguente soltanto alla
malnutrizione oppure sia associata ad anomalie biologiche o stress emotivi. Recentemente
alcuni studi di orientamento endocrinologico hanno rilevato che, anche quando
l’amenorrea precede la perdita di peso corporeo, si verifica in un periodo più o meno lungo
di restrizione dietetica associata a stress ambientali e talora ad iperattività fisica (Pelicci,
1987).
A questo proposito Brutti e Parlani (1992), in antitesi con l’atteggiamento organicista
espresso dagli studi di tipo endocrinologico, che attribuiscono l’amenorrea a generici
“stress emotivi” sostengono che quando nell’Anoressia Nervosa si stabilisce il rapporto tra
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diminuzione del peso corporeo e amenorrea, occorre tener presente che ciò vale
precisamente all’interno del processo anoressico in atto, non tutti i dimagrimenti, difatti,
provocano la sospensione del ciclo mestruale. Secondo gli autori la situazione è più
complessa, in quanto ad esempio, nelle anoressiche l’aumento di peso conseguente ad una
alimentazione forzata non provoca, automaticamente, la ricomparsa delle mestruazioni. Per
contro queste possono riprendere anche prima che la ragazza abbia riacquistato il peso
supposto compatibile con la ricomparsa del flusso mestruale.
Nelle ragazze prepuberi l’amenorrea incide negativamente sullo sviluppo delle
mammelle, nei maschi invece il corrispettivo dell’amenorrea è la perdita dell’interesse e
della potenza sessuale.
Isolamento euforia depressione
Nella maggior parte dei casi le ragazze affette da Anoressia Nervosa, con il progredire
della malattia riducono gradualmente le proprie attività e interessi, che rimangono
circoscritte a campi quali l’attività fisica, la scuola e la dieta.
Nelle ragazze anoressiche permane infatti, almeno nelle fasi iniziali, un grande impegno
nello studio e nel tentativo di raggiungere brillanti risultati scolastici, parallelamente
all’astensione assoluta dalle situazioni sociali che comportano l’assunzione di cibo. La
maggior parte dei soggetti perde l’interesse negli amici già nelle prime fasi della dieta e
questo può essere considerato, come sottolinea anche Hilde Bruch (1973), il più importante
segno precoce di Anoressia Nervosa.
Per quanto riguarda il tono dell’umore la situazione è molto variabile. Abbiamo infatti
una prima fase, quando c’è la negazione del problema, in cui si può assistere alla comparsa
di un vero e proprio stato d’euforia. In questa fase i soggetti si sentono bene, non avvertono
stanchezza, si concentrano meglio, si sentono “leggeri”, il tono dell’umore è elevato
(Kaplan et al. 1988).
La ragione di quest’euforia da digiuno può essere spiegata anche in termini
evoluzionistici, in quanto un soggetto che per qualsiasi motivo si trovi in una condizione di
prolungata assenza di cibo, almeno nelle fasi iniziali, riceve un grosso vantaggio dal fatto
d’avvertire meno dolore fisico, di non soffrire di stanchezza, di vedere e sentire meglio,
perché ciò gli consente di trovare più facilmente qualcosa da mangiare e quindi di
sopravvivere. Questo stato di benessere è purtroppo un’arma a doppio taglio, poiché è
anche uno dei principali meccanismi di rinforzo di pratiche dietetiche restrittive: la ragazza
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anoressica sente che attraverso la dieta e la perdita del peso può migliorare il tono
dell’umore e aumentare la propria autostima (Moriconi et al. 1992).
Con il progredire della malattia l’euforia cede il posto alla comparsa di sintomi di
depressione come umore depresso, disperazione, senso di colpa, autosvalutazione,
irritabilità, mancanza di concentrazione, disturbi del sonno. Spesso sono presenti anche
idee suicidarie (Kaplan et al. 1988).
Questa frequente comorbilità tra Anoressia e sintomi depressivi, ha suggerito la
possibilità che i Disturbi del Comportamento Alimentare altro non siano che una forma di
depressione. Questi sintomi depressivi però vanno considerati più come manifestazioni
secondarie dal disturbo alimentare che non fattori causali. Tale affermazione trova
conferma dalla comparsa di depressione anche in soggetti sottoposti a digiuno in
condizioni sperimentali e soprattutto dal fatto che con l’aumento ponderale del peso si
verifica, nella maggioranza dei casi, un netto miglioramento della sintomatologia
depressiva (Dalle Grave, 1996)
Ansia ossessioni compulsioni
L’ansia è comunemente presente in soggetti affetti da Anoressia Nervosa e si manifesta
soprattutto in presenza del cibo, infatti quest’ansia assume la forma di paura nei confronti
di alcuni cibi, la preoccupazione per le situazioni sociali che implicano il mangiare, il
timore che il proprio corpo venga osservato.
Visto che quest’ansia si lega principalmente a tematiche alimentari questi sintomi non
possono certamente essere considerati indicativi di un disturbo d’ansia indipendente
primario. Anche qui, come nella depressione, la normalizzazione del peso corporeo
determina un marcato miglioramento delle funzioni psicologiche e sociali, con un
complessivo miglioramento della sintomatologia ansiosa (Dalle Grave, 1996).
L’Anoressia Nervosa è frequentemente associata ad altri sintomi che hanno radici
profonde nell’ansia, ed anzi ne rappresentano la trasformazione, ossia le ossessioni ed il
loro equivalente comportamentale, le compulsioni.
Le ossessioni sono pensieri, immagini, impulsi, sperimentati come intrusivi, che creano
una marcata preoccupazione nel soggetto che li sperimenta. Nella maggior parte dei casi di
Anoressia Nervosa le ossessioni hanno per oggetto il cibo e il corpo (conteggio delle
calorie, preoccupazione per le forme del corpo, il peso, rimuginazioni riguardo al cibo)
mentre in una minoranza dei casi riguardano altri temi generali comunemente presenti
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nelle ossessioni (paura d’essere contaminati, di aver dimenticato il gas acceso, disporre
oggetti in un preciso ordine, lavarsi continuamente le mani) (Andreas Thiel et al., 1995).
C’è d’aggiungere che l’ossessione del cibo è stata osservata in quasi tutti i soggetti
denutriti, indipendentemente dalla causa che li ha portati a dimagrire, e può quindi essere
considerata un meccanismo difensivo normale in un soggetto a digiuno; essa aumenta
insieme alla perdita del peso e diminuisce con il suo recupero (Dalle Grave, 1996).
Tuttavia, in alcuni soggetti affetti da Anoressia Nervosa in particolare di tipo restrittivo,
esiste anche un disturbo ossessivo-compulsivo che presenta tematiche non inerenti alla
dieta, al cibo o all’immagine corporea; i più tipici fra di essi sono il continuare a pulire e a
lavarsi, l’automutilazione, dubbi patologici (Halmi et al., 1991).
Identità perfezionismo autostima
Alcuni autori hanno evidenziato che nei soggetti, prima dell’insorgenza della malattia,
esistono caratteristiche psicologiche abbastanza costanti come: elevato perfezionismo, alti
livelli d’introversione, scarsa capacità di relazione sociale, bassa autostima (Piccini, 2000).
I racconti più tipici descrivono le bambine pre-anoressiche come perfette, sempre
ubbidienti e disponibili ad offrire il loro aiuto (Brusset, 1998).
Con il progredire del disturbo si assiste ad un profondo mutamento della loro
personalità: reagiscono ad ogni tentativo altrui di modificare il loro atteggiamento con
rabbia, inganni e manipolazioni. Con lo sviluppo della malattia vengono poi totalmente
assorbite dal processo patologico e diventano enormemente dipendenti dalla famiglia o dal
terapeuta.
Hilde Bruch (1973, 1978) ha collegato questa patologia ad uno schiacciante senso
d’inefficacia e scarsa autostima. L’autrice sostiene che il desiderio di controllo del peso
rifletterebbe un fortissimo impulso al controllo della sessualità e degli impulsi aggressivi.
Tale senso d’inefficacia sarebbe legato ad altri due fattori principali: disturbo
dell’immagine corporea e disturbo dell’elaborazione degli stimoli che originano dal corpo
come fame, stanchezza, sazietà. Questo disconoscimento dei bisogni del corpo sarebbe
legato alle prime esperienze difettose del lattante: egli avrebbe ricevuto da parte della
propria madre risposte inadatte, caotiche, insufficienti o eccessive alle proprie diverse
richieste. Questi errati apprendimenti non permetterebbero al lattante, al bambino e poi
all’adolescente di riconoscere i bisogni del proprio corpo. Il bambino apprenderebbe a
rispondere esclusivamente alle sensazioni e ai bisogni corporei della madre e non ai suoi, e
ciò provocherebbe disturbi nella costruzione dell’identità fondamentale e dell’immagine
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del corpo. L’incapacità d’integrare gli stimoli che concernono la fame e la sazietà e gli stati
affettivi, spiegherebbe anche, secondo Bruch, l’assenza d’interesse per la sessualità.
Una caratteristica spesso presente nelle ragazze affette da Anoressia Nervosa è la
regolazione dell’autostima e del valore personale attraverso l’adesione a standard di
apparenza e di prestazione (Dalle Grave, 1996). Il gran desiderio di auto-affermazione non
sembra provenire da una genuina ricerca dell’autonomia, ma piuttosto dal desiderio
dell’essere approvato dagli altri. La ricerca dell’identità personale è espressa attraverso una
mimesi degli attuali modelli culturali. Questo spiegherebbe l’aumentata incidenza dei
disturbi alimentari verificatasi negli ultimi anni nei paesi occidentali, dove la pressione
sulle donne ad essere magre e a raggiungere il successo è aumentata in modo drammatico.
Sessualità
Con il progredire della denutrizione le ragazze anoressiche perdono del tutto l’interesse
nella sessualità ed evitano qualsiasi possibile incontro con il sesso opposto. In queste
ragazze c’è sempre un movimento di ritiro rispetto alle sollecitazioni che le trasformazioni
corporee della pubertà e il cambiamento di statuto familiare e sociale dell’adolescenza
comportano. Nel caso in cui abbiano esperienze sessuali, esse sono vissute senza provare
il minimo piacere, accompagnate anzi da sentimenti d’ansia e senso di colpa. Sul piano di
queste attività come sul piano delle fantasticherie, non c’è che poca implicazione affettiva
e corporea. Si tratta piuttosto, sia di fare come gli altri in una ricerca conformista di una
supposta normalità, sia di utilizzare gli altri a fini narcisistici (Brusset, 1998).
La coincidenza dell’Anoressia Nervosa con l’adolescenza ha fatto considerare questa
malattia come una sorta di nevrosi attuale in rapporto con la maturazione puberale. Infatti
l’arrivo della pubertà, con la maturazione corporea e l’incremento degli impulsi sessuali,
coglie un individuo fragile, profondamente minato nella sua autostima, che mette subito in
atto meccanismi di difesa che vanno dalla razionalizzazione fino a meccanismi più arcaici
come la scissione e l’identificazione proiettiva, che hanno lo scopo di dominare totalmente
le fantasie e gli impulsi sessuali nascenti (Laufer, 1984). Infatti i desideri sessuali e il
bisogno di un nuovo oggetto al di là di quelli infantili sono vissuti come minacciosi da
un’autostima fragile, quale quella delle ragazze anoressiche che, negando la dipendenza da
ogni investimento oggettuale, si collocano invece nella dipendenza dalle sensazioni, come
quella della fame, permettendo che il conflitto legato alla dipendenza si sposti sulla fame
(Blos, 1962).
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CAPITOLO II
IPOTESI EZIOLOGICHE
UNA PROSPETTIVA BIOPSICOSOCIALE
L’Anoressia Nervosa è un disturbo molto complesso, e questa complessità ha portato fin
dalle prime descrizioni, alla nascita di un largo ventaglio di ipotesi che avevano lo scopo di
trovare un fattore causale che spiegasse il disturbo. Nel corso del tempo, ciclicamente, si
sono prese maggiormente in considerazione ipotesi psicologiche, biologiche o culturali.
Le prime ad affermarsi all’inizio del XX secolo furono le ipotesi psicologiche proposte
da alcuni medici come Charcot, Dubois, e Janet (Piccini, 2000).
Non passò molto tempo, quando, nel 1914, la cattiva interpretazione di un decesso portò
in auge l’ipotesi biologica. Il caso in questione riguardava una donna che, arrivata ad
un’estrema cachessia e poi alla morte, sottoposta ad autopsia presentava un’atrofia del lobo
anteriore dell’ipofisi.
Negli anni ’30 si verificò un rilancio dell’origine psicogena dell’Anoressia Nervosa ad
opera di medici come Ryle, Sheldon e Venables; ipotesi che venne ad assumere contorni
più definiti negli anni ‘40, quando Berkman (1945) dimostrò definitivamente che
l’emaciazione non era una caratteristica comune nell’insufficienza ipofisaria e che questa
condizione poteva essere chiaramente distinta dall’Anoressia Nervosa.
Nel momento in cui l’ipotesi psicologica iniziava a diffondersi e a raccogliere consensi
negli ambienti scientifici, iniziarono a prosperare numerose teorie che, ispirate a concetti
psicoanalitici, ipotizzavano cause esclusivamente psicologiche.
Queste teorie influenzate dal pensiero freudiano avevano come chiave interpretativa il
concetto di regressione allo stato orale.
Negli anni ’60 le cause biologiche del disturbo, mai completamente abbandonate,
suscitarono un rinnovato interesse. Il fatto che in alcune ragazze l’amenorrea si verificasse
prima della perdita del peso corporeo, e che in altre si mantenesse anche dopo il recupero
ponderale, portò molti autori a postulare che esistesse un’alterazione endocrina alla base
del disturbo e che l’anomalia biologica risiedesse a livello dell’ipotalamo anteriore. Questa
teoria non ha raccolto però prove convincenti che la supportino.
22
Giungendo agli anni ’70 troviamo il contributo della psichiatra americana Hilde Bruch
(1973, 1978), che più di tutti influenzò la moderna concezione dell’Anoressia Nervosa.
Quest’autrice propose un modello psicologico centrato sull’importanza che la profonda
mancanza di autostima ha sull’Anoressia, e su come la malattia sia un tentativo per
riempire questo gran vuoto attraverso il corpo, il cui controllo può ricostruire il sentimento
d’auto-efficacia perduto.
Questo rapido escursus delle principali ipotesi eziologiche riguardanti l’Anoressia e in
particolare la ciclicità di alcune di esse tende a dimostrare che questa malattia è troppo
complessa per essere ricondotta ad un singolo fattore causale. Di fatto la ricerca attuale si
sta orientando verso ipotesi eziologiche di tipo multifattoriale. Secondo questa prospettiva
la malattia costituirebbe l’esito finale della combinazione di tre fattori:
1)Fattori predisponenti:

Individuali (biologici-psico-dinamici);

Familiari;

Socio-culturali.
2)Fattori scatenanti:

Dieta.
3)Fattori perpetuanti:

Rinforzi ambientali;

Sintomi da digiuno.
FATTORI PREDISPONENTI INDIVIDUALI
Lo studio delle cause dell’Anoressia Nervosa ha evidenziato che nello sviluppo della
patologia possono essere implicati numerosi fattori predisponenti.
Affrontiamo ora i fattori predisponenti di tipo individuale che possiamo distinguere
sommariamente in biologici e psicologici.
Fattori biologici
Da numerosi autori l’Anoressia Nervosa è stata considerata una patologia sostenuta da
alterazioni biologiche. Ad indirizzare il pensiero scientifico in questa direzione sono state
inizialmente le gravi alterazioni endocrine e le vistose alterazioni somatiche presenti in
questi pazienti. Questa concezione si alimentò, come abbiamo accennato, anche a causa di
un grossolano errore diagnostico. Essa fu confusa infatti con il “morbo di Simmonds” che
23
è una sindrome di panipopituarismo, cioè una grave insufficienza ipofisaria, in cui uno dei
sintomi più evidenti è costituito dall’imponente dimagrimento (Ruggieri e Fabrizio, 1994).
Tutto ciò orientò alla ricerca di cause endocrine nell’eziologia della malattia, mentre il
ruolo degli aspetti psicologici venne ripreso solamente negli anni ’30. Le più recenti
conoscenze circa il ruolo di controllo e di modulazione esercitato dal Sistema Nervoso
Centrale sul Sistema Endocrino hanno consentito di comprendere come le alterazioni
ormonali possano essere considerate conseguenze dell’alterata regolazione nervosa (Pinel,
1990). Quest’ultima a sua volta può essere strettamente collegata a più profonde alterazioni
di natura psicologica (intrapsichica e relazionale) (Ruggieri e Fabrizio, 1994). Questo certo
non significa che la prospettiva bio-medica di studio dell’Anoressia sia stata accantonata,
anzi essa non ha mai smesso di fornire interessanti spunti allo studio di questo complesso
fenomeno:

Genetica: L’idea di un’origine genetica dell’Anoressia Nervosa è presente già dal 1800.
Negli ultimi anni la ricerca sulla possibilità dell’origine genetica dell’Anoressia Nervosa
ha utilizzato principalmente tre metodi:
a)
tasso di prevalenza della malattia nei familiari (Fairburn et al. 1999)
b)
concordanza della malattia nei gemelli monozigoti e in quelli eterozigoti (Bulik et
al. 2000)
c)
studi di legame tra anoressia e altri disturbi psichiatrici (Crisp, 1970).
I risultati di questi studi suggeriscono la possibilità di una componente genetica del
disturbo, anche se non è ancora chiaro cosa venga trasmesso ereditariamente, se sia il
disturbo specifico, alcuni tratti di personalità o una generale vulnerabilità alla sofferenza
psicologica.

Anomalie neuroendocrine e neurotrasmettoriali : Negli anni ’60 iniziò l’interesse per i
neurotrasmettitori cerebrali nel controllo del comportamento alimentare quando alcuni
ricercatori documentarono che delle microiniezioni di noradrenalina nell’ipotalamo
ventromediale provocavano nel ratto sazio, un notevole aumento dell’assunzione di cibo,
mediante l’attivazione dei recettori alfa-1-adrenergici. L’azione mostrava anche un certo
grado di specificità in quanto altri neurotrasmettitori, come la serotonina e la dopamina,
non provocavano nessun effetto nelle stesse condizioni, essendo invece più associati alla
sensazione di sazietà (Moriconi et al. 1992). Evidenze recenti sembrano confermare
l’ipotesi che il comportamento alimentare dipende dall’attività coordinata di vari circuiti
cerebrali di cui le catecolamine (adrenalina, noradrenalina, dopamina) e la serotonina sono
elementi essenziali (Pinel, 1990). Nelle ragazze molto denutrite si riscontrano numerose
24
alterazioni dei neurotrasmettitori cerebrali. I sistemi noradrenergico e adrenergico
(stimolatori del senso della fame) sono ipofunzionanti nella fase acuta dell’AN. I sistemi
dopaminergico e serotoninergico (regolatori della sazietà) sono anch’essi ipofunzionanti
(Halmi et al. 1978). Si registra inoltre l’elevazione del neuropeptide y, della vasopressina e
una riduzione dei livelli di beta-endorfina e ossitocina. Tutte queste alterazioni sono
secondarie alla malnutrizione e alla perdita di peso corporeo e si normalizzano dopo il
recupero ponderale. Questa normalizzazione dei valori neurotrasmettitoriali al ristabilirsi
del peso sembra indicare che queste alterazioni biochimiche siano la conseguenza e non la
causa del processo morboso (Ruggieri e Fabrizio, 1994) anche se recentemente Kaye et al.
(1991) hanno collegato i sintomi anoressici ad un’anomalia intrinseca e primitiva
dell’attività serotoninergica cerebrale, anomalia che potrebbe essere il tratto biologico
predisponente al comportamento alimentare disturbato.
Relativamente agli aspetti neuroendocrini del disturbo, si è visto che nelle anoressiche vi
sono basse concentrazioni seriche di FSH e LH (ormone follicolo-stimolante ed ormone
luteinizzante) che non crescono neanche in seguito all’azione di releasing factor
ipotalamico (LRH). Inoltre vi sono bassi livelli di estrogeni che portano ad una riduzione
del volume delle ovaie, ad una fibrosi dell’endometrio e all’atrofia della mucosa vaginale.
(Dalle Grave, 1996).
Fattori psicologici
 Modello Cognitivo-Comportamentale: le ragazze affette da Anoressia Nervosa hanno
spesso valori, credenze e pensieri stereotipati e disfunzionali. Queste distorsioni possono
avere un ruolo significativo sia nel predisporre che nel perpetuare il disturbo.
Un esempio paradigmatico di queste idee disfunzionali è fornita da Liotti (1988) il quale
descrive nei pazienti anoressici dei particolari schemi cognitivi interpersonali. Liotti parte
dal dato di base che nella psicoterapia di persone affette da Disturbi Alimentari Psicogeni,
DAP (categoria elaborata da Liotti allo scopo di unificare Anoressia, Bulimia e Obesità
sotto un'unica etichetta) è molto frequente trovare uno stile comunicativo che mira a
stabilire
un
rapporto
cordiale
e
d’accettazione
con
lo
psicoterapeuta,
ma,
contemporaneamente, mira a prevenire qualunque espressione diretta del mondo interiore,
di pensieri, interessi o desideri profondi, sentimenti e memorie. Liotti vede in
quest’atteggiamento l’espressione di particolari schemi cognitivi, relativi allo scambio
interpersonale, che sembrano tipici dei soggetti anoressici. I tentativi di esperienze
personali si incontrano con figure genitoriali invadenti o invischianti o presenti solo in
25
modo alterato. Riflettendo e proponendo ai propri figli immagini vaghe e indefinite, i
genitori rendono difficile il processo di identificazione. L’attenzione del bambino rimarrà
focalizzata su quello che gli altri pensano e provano, alla ricerca di conferme e giudizi
esterni che sono, contemporaneamente, temuti e indispensabili.
Come tutti gli schemi cognitivi, gli schemi interpersonali, sono strutture mentali
astratte, costruite per generalizzazione e sintesi delle precedenti esperienze relazionali e
comprendono la rappresentazione di sé e dell’altro. Nelle persone affette da disturbi
alimentari è evidentemente operante uno schema interpersonale connesso ad una
rappresentazione dell’altro come inaffidabile e minaccioso quando si tratta di confidargli i
propri reali interessi, desideri e pensieri profondi. Parallelamente il Sé è rappresentato
come particolarmente vulnerabile nell’incontro con altre persone significative.
Secondo Guidano (1988) l’organizzazione cognitiva individuale
che caratterizza i
pazienti con un DAP si basa sull’ambiguità e l’indefinitezza che caratterizzano già i primi
rapporti di reciprocità tra madre e bambino. Si tratta di un tipo di adattamento invischiante
che ostacola l’emergere di un individuo autonomo. In tal modo si produce solo una
demarcazione precaria tra il proprio senso di sé e le rappresentazioni interne dei genitori.
I tentativi di esperienze personali, si incontrano anche secondo Guidano con figure
genitoriali invadenti o invischianti. In tal modo si produrrà un Sé confuso e indistinto. Il
non mangiare vuol dire controllare il proprio corpo e quindi dare un’illusione di
padroneggiare la realtà producendo una falsa sicurezza ed una pseudo-autonomia
(Guidano, 1988)
 Modello psicodinamico: forse più che modello psicodinamico di interpretazione
dell’Anoressia Nervosa è più appropriato parlare di modelli psicodinamici. Infatti sotto il
profilo teorico, gli psicoanalisti, all’interno del solco tracciato da Freud, oscillano tra il
considerare l’Anoressia come un sintomo, scelto a copertura di una situazione nevrotica o
psicotica sottostante (Freud, Abraham, Klein), e il considerarla una sindrome con una
propria dignità nosografica (Bruch, Chiozza, Brusset). Inoltre, mentre alcuni autori
scorgono nell’Anoressia una potente fissazione orale che impedisce al soggetto di accedere
ad una sessualità adulta, altri insistono nel vedere nell’Anoressia un antagonismo radicale
tra narcisismo e mondo oggettuale (Brusset, 1998).
Freud ha ipotizzato una regressione allo stadio “narcisistico” o alla fase dell’”oralitàattiva”. Esperienze traumatiche, legate all’allattamento, potrebbero provocare una
rimozione della libido, una fissazione alla fase pre-edipica dell’oralità e l’instaurarsi di un
legame tra pulsione di morte e alimentazione. Nel periodo della pubertà e dell’adolescenza,
26
il riemergere della libido potrebbe di nuovo rendere attuali le pulsioni legate al trauma
rimosso e portare a disturbi alimentari (Ruggieri e Fabrizio, 1994).
Le intuizioni freudiane troveranno avallo e sostegno nei lavori di K. Abraham il cui
contributo è legato all’approfondimento dello studio delle fasi pregenitali dello sviluppo
libidico. Abraham definisce l’Anoressia uno stato malinconico-depressivo; approfondisce
la relazione tra oralità e disturbo alimentare: in questi soggetti è proibita la soddisfazione
dei desideri oro-cannibalici per cui essi rifiutano ostinatamente il cibo (Basile, 1992).
Il contributo di M.Klein si inserisce nella scia degli studi di Abraham sulle fasi
pregenitali della libido e sullo stabilirsi delle relazioni di oggetto. A suo avviso le prime
difficoltà di alimentazione che si verificano nel neonato già nei primi giorni di vita sono da
collegarsi all’angoscia persecutoria e alla pulsione di morte presente sin dalla nascita. Se a
tutto ciò si aggiunge una carenza di sviluppo di relazioni oggettuali, si rafforzano i
meccanismi schizo-paranoidi: le pulsioni distruttive e l’angoscia persecutoria diventano in
questo caso predominanti (Segal, 1979).
Dopo un breve accenno a come la prima psicoanalisi ha pensato l’Anoressia passiamo al
contributo di alcuni esponenti della psicoanalisi moderna che hanno visto nell’Anoressia
un quadro nosografico con i suoi precisi confini.
Relativamente a quest’argomento è assolutamente illuminante il contributo di Bruch
(1973, 1978) che considera i deficit dell’autonomia e dell’autostima come componenti
centrali nello sviluppo dell’Anoressia Nervosa.
La studiosa affermò ripetutamente che la malattia rappresenta da un lato il tentativo del
soggetto di conquistare autoefficacia e rispetto da parte degli altri attraverso la magrezza,
mentre dall’altro è legata alla gestione dei propri sentimenti d’incapacità, inefficacia e
impotenza attraverso l’imposizione al proprio corpo di una severa autodisciplina. Il
disturbo anoressico sarebbe quindi legato ad un sottostante deficit del Sé, dell’identità e
dell’autonomia, in particolare in relazione al fatto che i genitori hanno sempre imposto la
loro volontà alla figlia senza porre attenzione alle sue necessità e desideri: la futura ragazza
anoressica è una bambina straordinariamente buona, che ottiene molti successi ed è fonte
di gratificazione per i genitori; quando arriva a dover affrontare i problemi
dell’adolescenza, diventa consapevole del proprio vuoto interiore provando un senso
d’impotenza. La ragazza anoressica quindi, attraverso la magrezza e la perdita di peso
corporeo, cerca disperatamente e dolorosamente di raggiungere un senso d’identità e
autonomia che non gli è stato concesso di raggiungere in altri modi.
27
Interessante ci appare anche il contributo di Chiozza (1992), che mira ad individuare,
pur nel rispetto di ogni percorso individuale, la “fantasia inconscia condivisa da tutte le
situazioni anoressiche”. Secondo l’autore l’astinenza dal cibo, comune nelle ragazze
anoressiche, è fondamentalmente collegata alla fantasia di base di svuotamento della
propria forma corporea che, appunto, le anoressiche sempre perseguono. Questo
svuotamento della propria forma corporea a sua volta nasconde un violento attacco “che la
giovane opera nei confronti della realizzazione della sua forma che ella denigra e
percepisce come repellente in una sorta di gioco bugiardo in cui, proprio in virtù della non
realizzazione della forma, ella può mantenere intatta l’aspettativa idealizzata ma sempre
differita della sua rivelazione” (Chiozza, 1992).

Abuso sessuale: Recentemente la relazione tra Anoressia Nervosa e abusi sessuali ha
subito una forte enfasi. Molti studi hanno dimostrato che le esperienze traumatiche. Ed in
particolare gli abusi sessuali, sono presenti in eguale misura anche in altre patologie
psichiatriche. Tali esperienze, quindi, sarebbero responsabili di una generale vulnerabilità
alle malattie psichiatriche e non un fattore di rischio specifico per lo sviluppo
dell’Anoressia Nervosa; tuttavia esse, interagendo con specifici fattori predisponenti
(biologici, psicologici e sociali), possono giocare un ruolo importante nello sviluppo di un
disturbo alimentare (Smolak e Murnen, 2002).
28
FATTORI PREDISPONENTI FAMILIARI
Negl’ultimi decenni della psicologia clinica si sono sviluppate linee di pensiero che non
pongono
più
l’accento
sul
singolo
individuo,
ma
sulla
relazione.
Secondo
quest’impostazione teorica la famiglia viene vista come un complesso sistema sociale,
caratterizzato da una matrice di fattori interagenti, dai quali scaturirebbe come
organizzazione emergente il disturbo alimentare. Alla luce della teoria sistemicorelazionale i comportamenti non sono più osservati solo in rapporto al soggetto che li
produce, ma in rapporto alle relazioni dinamiche tra le diverse componenti di un grupposistema (Malagoli Togliatti e Telfner, 1991). La causalità viene vista come un processo
circolare piuttosto che lineare, dove la famiglia non è considerata come la causa del
disturbo, ma come il suo contesto.
Da questo ambito culturale sono partite delle critiche alla Bruch ad opera di Minuchin
(1978) proprio in riferimento al suo modo di interpretare, secondo una stretta causalità
lineare e non circolare, la problematica dell’Anoressia Nervosa.
Il problema dell’Anoressia comincia dunque ad essere esaminato nel contesto della
famiglia, considerata come un sistema stabile in continuo interscambio con l’esterno, dove
ogni comportamento, specialmente quello sintomatico, è al servizio di un meccanismo che
regola la stabilità ed il cambiamento familiare, secondo processi dinamici di
autoregolazione (Malagoli Togliatti e Cotugno, 1996).
La maggior parte dei teorici sistemici hanno descritto la famiglia dell’anoressica come
un nucleo estremamente chiuso, con confini intergenerazionali offuscati, in cui sono evitati
conflitti e discussioni.
Minuchin et al. (1978) affermano che certi tipi di organizzazione familiare sono
strettamente collegati allo sviluppo ed al mantenimento di sindromi psicosomatiche e che,
a loro volta, sono gli stessi sintomi del figlio psicosomatico a mantenere l’omeostasi
familiare. Il sintomo diventa un modo di comunicare ed il suo significato dipende dal
contesto comunicativo nel quale si manifesta e delle regole familiari.
Secondo Minuchin et al. (1978) sarebbero presenti tre fattori principali:
1.
2.
La ragazza ammalata è fisicamente vulnerabile;
La
famiglia
ha
quattro
caratteristiche
transazionali:
invischiamento,
iperprotettività, rigidità, scarsa soluzione dei conflitti;
3.
La ragazza affetta da disturbo gioca un ruolo importante nella dinamica
familiare d’evitamento dei conflitti.
29
La Selvini Palazzoli (1981) osserva come in queste famiglie ogni diversità viene
azzerata mediante una costante opera di ridefinizione delle emozioni e dei desideri
individuali che non vengono “negati” bensì “disconfermati”. Questa autrice parla infatti di
“matrimonio a tre”, dove ogni membro della famiglia è come se fosse sposato con gli altri
due componenti. Tutto ciò non permette alla figlia una vita autonoma. Poiché la ragazza
occupa un posto centrale nei rapporti familiari, se il sistema è minacciato da un
cambiamento (come può accadere ad esempio durante l’adolescenza) la figlia presenterà
un comportamento disfunzionale visibile attraverso la comparsa di una particolare
sintomatologia, che avrà lo scopo di segnalare il disagio, pur consentendo alla famiglia di
mantenere inalterata la propria dinamica relazionale, in quanto la focalizzazione sulla sfera
del cibo gli consentirà di evitare i conflitti che potrebbero scatenarsi dal confronto diretto
su questioni sostanziali.
La Selvini Palazzoli (1981) descrive inoltre le madri di queste ragazze; il quadro che
emerge è quello di una donna insoddisfatta del marito, che si considera vittima di lui e
della famiglia estesa. Una donna che molto spesso ha rinunciato alle proprie affermazioni
personali per identificarsi con il ruolo di casalinga e di madre. L’accettazione del ruolo di
brave mogli passive è però solo esteriore giacchè interiormente covano idee di ribellione
ed abbandono che non vengono messe in atto solo per paura della disapprovazione sociale.
Nei confronti poi della propria figlia femmina è estremamente intrusiva, ambivalente e
dominante, in modo da impedire alla ragazza quella maturazione di esperienze cognitive ed
emotive necessarie per una normale crescita. Il padre è solitamente passivo, assente, poco
autorevole. Nei confronti della moglie si potrebbe definire come un “incassatore”, cioè
buono, bravo, lavoratore, intelligente, è assolutamente incapace di mettere un freno ai
comportamenti intrusivi della moglie.
In conclusione va sottolineato che, nonostante la ricchezza del contributo sistemicorelazionale, vanno comunque evitati facili riduzionismi, come ad esempio l’ipotesi di una
famiglia anoressogena, visto che alcune caratteristiche relazionali riscontrate in queste
famiglie potrebbero non essere specifiche del disturbo.
30
FATTORI PREDISPONENTI SOCIO-CULTURALI
L’ipotesi che i fattori socio-culturali possano svolgere un ruolo importante nel favorire
lo sviluppo dei Disturbi del Comportamento Alimentare è suffragata dal fatto che questi
ultimi sono poco frequenti nei Paesi non occidentali, e che l’aumento della loro incidenza
coincide con maggiore pressione culturale verso la magrezza, cambiamento del ruolo
sociale della donna, pregiudizi nei confronti dell’obesità.
Gordon (1990), all’interno della sua analisi dello studio “anatomico” dell’Anoressia e
Bulimia interpretate come epidemia sociale, suggerisce come i DCA possano essere
considerati “disturbi etnici”. Alcuni criteri fondamentali per potere qualificare un disturbo
etnico sono:
-
la maggiore frequenza, rispetto ad altri tipi di patologia psichica, nella cultura esaminata;
-
il rappresentare la tappa finale, comune, del disagio psichico;
-
l’inclusione di comportamenti che, in situazioni normali, vengono considerati altamente
positivi;
-
il costituire un “modello di cattiva condotta” che dà la possibilità a chi lo attua di
comportarsi in modo deviante ed irrazionale pur rimanendo nel socialmente accettabile;
-
il fondarsi su comportamenti accettabili, risultando pur tuttavia espressione di devianza,
provocando nell’ambiente risposte ambivalenti; modalità che ne permette una certa
notorietà all’interno della cultura di appartenenza; (Gordon, 1990)
E’difficile stabilire esattamente il momento in cui la moda della magrezza si è affacciata
alle società occidentali. Le ricerche che si sono cimentate in quest’impresa hanno basato le
loro conclusioni su dati come: dimensioni del petto, della vita e dei fianchi delle modelle
apparse su delle riviste di certi paesi in determinati periodi, oppure il peso corporeo delle
partecipanti a varie edizioni di famosi concorsi di bellezza.
In base a questi parametri, ricercatori come Silverstein et al. (1986) hanno stabilito che
nel nostro secolo il mito della magrezza androgina è comparso a partire dagli anni ’50 fino
agli anni ’80.
Dalla seconda metà degli anni ’70 una nuova enfasi è stata posta su un tipo di forma
fisica, che richiede alle donne occidentali di ricercare la costruzione di un corpo atletico
(molto muscoloso e con pochissimo grasso) parallelamente alla ricerca di magrezza.
Per quale motivo nella cultura occidentale è emerso in maniera così forte quest’ideale di
magrezza? La risposta non è certo facile, né univoca.
Alcuni sociologi ipotizzano che la pressione sociale verso la magrezza abbia potuto
accentuarsi nei momenti storici in cui la donna ha compiuto significativi progressi nel
31
raggiungimento di una maggiore libertà politica e personale, come ad esempio il diritto al
voto (Dalle Grave, 1996).
Anche il movimento femminista ha cercato d’interpretare il fenomeno considerandolo
invece come un momento di progresso e di liberazione delle donne. Il corpo femminile
magro sostituirebbe quello formoso, materno, accogliente del passato, esprimendo quindi
conquiste d’alto livello come l’indipendenza e l’autodeterminazione.
Come già annunciato il fenomeno non è facilmente inquadrabile, ma nel tentativo di
comprensione ricopre sicuramente uno spazio importante il cambiamento di ruolo sociale
della donna. Secondo Gordon (1991) negli anni ’60 è avvenuto un mutamento nella società
circa le aspettative sociali nei confronti delle donne che erano sollecitate verso il successo,
l’indipendenza e la competitività. Tale modello entrava però in conflitto con quello
tradizionale, per altri versi ancora presente, che vuole la donna sottomessa, brava moglie e
madre. Quindi la “donna moderna” è spesso intrappolata in questo conflitto che gli crea
angosce: mirare ad un ideale irraggiungibile di donna e fallire in questo tentativo. In questo
contesto la dieta severa e le preoccupazioni nei confronti del corpo assumono il significato
di risolvere il precedente conflitto, poiché se non riescono ad avere il controllo della
propria vita, riusciranno almeno ad avere il controllo del proprio corpo.
FATTORI SCATENANTI E PERPETUANTI
Uno dei fattori scatenanti più rilevanti e frequenti dell’esordio dell’Anoressia Nervosa è
sicuramente la dieta restrittiva. L’inizio della dieta può essere motivato da un leggero
sovrappeso, oppure in alcuni casi da uno stato depressivo. Molte volte l’inizio della dieta è
associato a momenti o situazioni problematiche tipiche dell’adolescenza, come lo sviluppo
puberale oppure lasciare la famiglia per fare un viaggio da soli, o ancora l’inizio o
l’interruzione di una relazione sentimentale (Garfinkel, Garner et al. 1983).
Altri possibili frangenti negativi che possono associarsi all’inizio di una dieta sono: la
morte di un familiare o un amico caro, una malattia (specialmente i traumi cranici),
commenti spiacevoli ricevuti riguardo al proprio aspetto fisico.
Naturalmente non tutti i soggetti che si sottopongono ad una dieta sviluppano in seguito
l’Anoressia, e questo sta a dimostrare quanto sia importante l’interazione tra fattori
scatenanti e un “terreno fertile”, formato dai fattori predisponenti, di varia natura, come
quelli sopra elencati. Anche questa certezza deve essere sempre soppesata con prudenza,
poiché non in tutti i soggetti che presentano gli elementi predisponenti che abbiamo visto,
32
la dieta rappresenta un elemento scatenante. In conclusione la prudenza è sempre
consigliata davanti ad una patologia così complessa.
Passiamo ora ad un aspetto dell’universo Anoressia che negli ultimi tempi sta attirando
un grande interesse da parte degli operatori e dei ricercatori: i fattori perpetuanti (Cooper,
1995). Una volta innescato, il sintomo anoressico si autoperpetua attraverso una
combinazione complessa di fattori che ora accenneremo. L’interesse sottolineato
precedentemente circa le modalità di perpetuazione del sintomo, scaturiscono dalla
necessità di capire perché alcuni soggetti sviluppino forme lievi di Anoressia Nervosa che
regrediscono rapidamente, mentre altri assumono un andamento cronico e ingravescente,
che può culminare con la morte.
Attualmente esistono tre modelli per tentare un’interpretazione dei meccanismi di
mantenimento del disturbo.
Il modello cognitivo enfatizza soprattutto i fattori cognitivi e comportamentali che
causano e mantengono il disturbo, e che sono individuabili nell’ossessionante pensiero
d’essere magri. Quindi le distorsioni cognitive riguardo al peso e alle forme corporee non
solo innescherebbero il disturbo, ma lo perpetuerebbero nel tempo (Garfinkel e Garner et
al. 1983).
Il modello sistemico suggerisce che i fattori più importanti per perpetuare la malattia
siano invece gli eventi interpersonali e le dinamiche familiari, che molto spesso
offrirebbero un rinforzo alle modalità alimentari disfunzionali del soggetto affetto (Selvini
Palazzoli, 1981).
Il modello biopsicosociale afferma che le complesse modificazioni biologiche e
psicologiche secondarie al digiuno agirebbero nel perpetuare e cronicizzare l’Anoressia
Nervosa. Vista la sua completezza e la sua fertilità, il modello biopsicosociale merita un
approfondimento.
Come abbiamo accennato, quest’approccio parte della considerazione di base che il
digiuno, qualunque siano le cause, procura, se molto prolungato, delle importanti
modificazioni psicologiche e biologiche, dimostrate ormai da molti studi (Hendren, 1983).
Le
principali
modificazioni
riguardano:
atteggiamenti
nei
confronti
del
cibo
(preoccupazione del cibo, collezione di ricette, incremento del consumo di tè, caffè,
spezie); sfera emotiva e sociale (depressione, ansia, irritabilità e rabbia), sfera cognitiva
(diminuita capacità di concentrazione, diminuita capacità di pensiero astratto), sfera
corporea (disturbi del sonno, debolezza, disturbi gastrointestinali, ipotemia, diminuzione
dell’interesse sessuale). Queste modificazioni scaturiscono da meccanismi biologici e
33
psicologici di difesa, messi in atto dall’organismo qualora sopraggiunga una severa
restrizione dietetica. Tra i meccanismi biologici più conosciuti si annoverano: la riduzione
del dispendio energetico e soprattutto uno straordinario aumento della fame.
Il meccanismo principale di difesa contro il digiuno è la controregolazione, in cui,
quando un soggetto perde momentaneamente il controllo e ingerisce una piccola quantità
di cibo, successivamente tutto il controllo sarà perduto ed il soggetto mangerà fino al
massimo della resistenza (Dalle Grave, 1996).
Arrivati a questo punto il quadro è quasi completo; ora è necessario riservare uno spazio
per inserire questi elementi appena esposti in un movimento dinamico, responsabile poi di
quel circolo vizioso che porta all’autoperpetuazione dei comportamenti anoressici.
Vediamo allora come un individuo, sotto la spinta dei fattori individuali, familiari e sociali
già descritti, decida d’iniziare una dieta che, dopo una certa perdita di peso, scatenerà i
meccanismi di difesa biologici e psicologici che aumentano nel soggetto il desiderio di
assumere cibo. Sotto la spinta dell’accresciuta fame la ragazza anoressica vedrà
riaffacciarsi le sue angosce circa il peso e le forme corporee che la porteranno a rafforzare
ancora la restrizione alimentare (Swift et al. 1986).
DISORDINI ALIMENTARI DELL’INFANZIA
Seppure nell’immaginario collettivo i Disturbi del Comportamento Alimentare siano
identificati con l’adolescenza, essi sono massicciamente presenti anche nella prima
infanzia.
Dobbiamo a Chatoor et al (1998) una precisa ricognizione e differenziazione dei diversi
quadri di disturbi alimentari presenti nel bambino.

Disturbo alimentare d’omeostasi. E’ un disturbo precoce, che tende a comparire nei
primi mesi di vita e riguarda gli aspetti regolativi dell’alimentazione, soprattutto in termini
di corrispondenza, ovvero di capacità della madre di sintonizzarsi con i segnali provenienti
del figlio.

Disturbo alimentare dell’attaccamento. Compare tra il secondo e il quarto-quinto
mese di vita e riguarda il legame d’attaccamento, che in questa fase va a precostituirsi.

Anoressia mentale. Questo quadro è stato riconosciuto recentemente dalla Chatoor
che, dopo aver osservato una serie di bambini che avevano questo disturbo, lo mise in
rapporto con il processo dì separazione-individuazione. L’autrice notò che esso tendeva ad
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instaurarsi più tardivamente rispetto ai quadri precedentemente descritti, comparendo fra i
sei mesi e i tre anni.
Le caratteristiche cliniche di questo quadro consistono nel fatto che il bambino si rifiuta
di mangiare, con un concomitante disturbo dell’accrescimento, nonostante la madre cerchi
d’alimentare il figlio utilizzando diverse strategie, come ad esempio raccontando delle
storie o insistendo con la forza.
Il risultato finale è un’estremo stato di conflitto della relazione madre-bambino sia in
ambito alimentare che relativamente agli aspetti dell’autonomia e dipendenza.
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CAPITOLO III
LE ORIGINI
INTRODUZIONE
Come tutti sanno Freud è il “padre” della Psicoanalisi, e come tutti i padri ha ricevuto
molte critiche da quelli che sono stati i suoi “figli”, cioè gli altri teorici che dopo di lui, si
sono cimentati con le tematiche più importanti della disciplina fondata dal geniale
neurologo austriaco. Gli scontri teorici più cruenti, ma anche più fertili, hanno riguardato
l’importanza da assegnare alle pulsioni istintuali o in alternativa alle relazioni
interpersonali, nella struttura, sviluppo e dinamica della personalità.
Freud, infatti, aveva costruito una psicologia monopersonale dove l’altro era il possibile
strumento per scaricare la tensione istintuale. Successivamente, molti autori postfreudiani
hanno messo in discussione, più o meno apertamente, la centralità delle pulsioni per
affermare una visione psicologica più propriamente relazionale cercando progressivamente
di elaborare una teoria bipersonale (Fairbairn, Klein, Winnicott, Jacobson, Mahler,
Kernberg, Kohut). Nelle recenti teorie psicoanalitiche il bisogno dell’oggetto è primario e
non subalterno al soddisfacimento pulsionale, ad esempio Kohut (1984) sostiene che lo
sviluppo maturativo del Sé avviene
solo in presenza di una alterità empaticamente
convalidante, poiché il rapporto empatico è la conditio sine qua non della maturazione
psicologica.
Nel corso di questa lunga e sofferta metamorfosi che ha segnato, usando le parole di
Greenberg e Mitchell (1983), lo spostamento da un modello strutturale delle pulsioni ad un
modello strutturale delle relazioni, ha ricoperto un ruolo fondamentale proprio il contributo
di John Bowlby. Infatti, la teoria dell’attaccamento di cui Bowlby è il principale, anche se
non unico fondatore, inserendosi nell’ottica sistemica, etologica ed evoluzionistica,
propone un nuovo modello di sviluppo normale e patologico in grado di fornire indicazioni
generali su come la personalità di un individuo inizi ad organizzarsi fin dai primi anni di
vita. Secondo questo autore nella specie umana, così come in altre specie animali, è attivo
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il sistema comportamentale di attaccamento del bambino nei confronti della madre,
costituendo un prerequisito per la sopravvivenza, come anche un’impronta importante per
tutti i successivi rapporti umani.
I FONDATORI
La teoria dell’attaccamento nella sua forma attuale è il frutto del lavoro congiunto di
John Bowlby e Mary Ainsworth. Bowlby ha formulato le linee di base della teoria
utilizzando contributi teorici di discipline come l’etologia, la cibernetica e la psicoanalisi.
Il risultato è stato un modo nuovo di concettualizzare il legame madre-bambino, come
anche l’eziopatogenesi di molti disturbi psicologici e psichiatrici.
Mary Ainsworth non solo ha messo a punto dei dispositivi sperimentali per
operazionalizzare i concetti di base della teoria proposta da Bowlby, ma ha anche
contribuito ad ampliare la teoria stessa: i suoi contributi di maggiore importanza,
riguardano la spiegazione delle differenze individuali nei modelli di attaccamento, come
anche il concetto del caregiver come base sicura.
Non è scopo di questo lavoro tracciare un profilo biografico fedele di questi importanti
teorici, è però utile ricordare come l’interesse di Bowlby verso le fasi precoci dello
sviluppo infantile risale già al periodo dei suoi studi universitari, quando inizia ad
avvicinarsi a quella che più tardi sarebbe stata conosciuta come psicologia dello sviluppo.
Dopo la laurea in medicina nel 1933 inizia a maturare la volontà di diventare uno
psichiatra infantile, proposito che inizia a realizzare entrando come tirocinante alla Child
Guidance Clinic di Londra, una piccola istituzione residenziale per l’infanzia informata da
criteri psicoanalitici. Da questa esperienza scaturiranno due articoli: “The influence of
early environment in the development of neurosis and neurotic character”[L’influenza
dell’ambiente nello sviluppo delle nevrosi e del carattere nevrotico] (1940) e “Forty-four
juvenile thieves: their characters and home life”[Quarantaquattro ladri minorenni: loro
caratteri e vita familiare] (1944). In questi articoli
Bowlby già matura alcune delle
convinzioni destinate a formare il nucleo centrale della sua futura teoria, come ad esempio
il ruolo dell’ambiente nell’eziologia delle difficoltà psicologiche oppure la trasmissione
transgenerazionale della nevrosi. Bowlby avvertiva già la forte sensazione che la
psicoanalisi sottolineasse eccessivamente il mondo fantasmatico del bambino e riducesse
oltremodo il peso degli eventi reali.
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Finita la guerra, Bowlby entrò alla Tavistock Clinic e lì formò un gruppo di lavoro di
cui facevano parte oltre che James Robertson e Mary Boston, anche Mary Ainsworth, la
quale da poco in Inghilterra aveva appena risposto ad un annuncio per un posto alla
Tavistock Clinic. Il risultato di questa collaborazione fu il famoso film “A Two-years-old
Goes to Hospital”[Un bambino di due anni va all’ospedale] (Robertson, 1952), che
mostrava l’intensa angoscia di una bambina separata da sua madre.
Gli interessi di ricerca di Bowlby e i suoi articoli che già popolavano le riviste
specializzate, non lasciarono dubbi quando si trattò di scegliere chi fosse il più adatto per
preparare un rapporto, commissionato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, sulla
salute mentale dei bambini abbandonati. Il risultato di un periodo di ricerche e viaggi di
studio fu Maternal Care and Mental Health [Cure materne e salute mentale] (1951) dove
l’autore espresse con forza un concetto che condivideva con tutti gli studiosi da lui
interpellati, e cioè che è fondamentale per la salute mentale e l’armonioso sviluppo della
personalità del bambino, che esso sperimenti :”un rapporto caldo, intimo e ininterrotto con
la madre nel quale entrambi possano trovare soddisfazione e godimento.’’ (Bowlby,1951).
A questo punto della sua carriera professionale Bowlby ha accumulato come clinico e
come ricercatore, una messe di dati osservativi che avevano come denominatore comune
qualcosa che attirò subito la sua attenzione, ovvero che i bambini che si trovavano a vivere
esperienze di separazione o perdita della madre, soprattutto se a queste seguivano lunghi
soggiorni in istituzioni ospedaliere o residenziali che non garantivano la possibilità di un
rapporto stabile con un sostituto materno, non solo venivano colpiti da un evidente stato di
profondo disagio, ma crescevano meno bene degli altri bambini, potendo essere seriamente
colpiti nel loro sviluppo fisico, intellettuale, emozionale e sociale.
Inoltre passando in rassegna la letteratura sull’argomento, a partire dal seminale lavoro
svolto da Dorothy Burlingham e Anna Freud (1942) nelle Hampstead Nurseries, fino ad
arrivare alle più recenti ricerche condotte da Heinicke e Westheimer (1966); e basandosi
inoltre sui dati raccolti dal suo assistente James Robertson, Bowlby notò una curiosa
costante che attraversava tutti gli studi. Tali ricerche variavano sotto molti aspetti, ma i
dati emersi mostravano una notevole uniformità rispetto al fatto che bambini di oltre sei
mesi, ma soprattutto tra i quindici e i trenta mesi, tendono a reagire con alcune modalità
tipiche alla separazione dalla madre.
I bambini infatti, all’inizio apparivano in preda ad un grave disagio per aver perso la
madre e cercano di riaverla, sfruttando appieno le loro risorse, infatti piangevano e si
agitavano rifiutando i tentativi degli operatori di distrarli. Successivamente sembrava
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subentrare la rassegnazione e l’apatia, pur avendo ancora interesse verso la madre lontana i
bambini sembravano aver perso la speranza di rivederla; si isolavano quindi dai loro
coetanei, giocando e mangiando molto poco. Infine sembravano riprendersi da questo stato
e diventare ancora una volta attivi. Il bambino in questa fase non rifiuta più le assistenti,
accetta le cure, il cibo, i giocattoli e può anche sorridere ed essere sociale; è anche per
questo che tali comportamenti vengono molto spesso erroneamente accolti come un segno
di recupero. Bowlby (1969/1982), chiamò queste tre fasi protesta, disperazione e distacco.
Reazioni di protesta, però, riemergevano anche quando questi bambini venivano riuniti ai
loro genitori, che divenivano oggetto di un miscuglio di rifiuto, aggressioni adirate e
abbracci stretti e prolungati nei giorni successivi. Dopo un certo tempo, però, il bambino
inaspettatamente non saluta il ritorno della madre con calore e gioia, ma con distacco e
freddezza, anzi spesso addirittura sembra a malapena riconoscerla; sembra che abbia perso
ogni interesse per lei.
Se la permanenza in ospedale o nel nido residenziale si prolunga nel tempo e se, come
spesso accade il bambino rivive frequentemente il trauma iniziale dell’abbandono materno
attraverso le assistenti che si avvicinano a lui temporaneamente, per poi riallontanarsi, non
permettendo quindi al bambino di sviluppare un attaccamento stabile, egli darà presto
l’impressione che né le cure materne, né il contatto con altri esseri umani abbiano più
grande significato per lui.
A questo punto Bowlby sottolinea anche che le sopra menzionate reazioni alla
separazione possono essere mitigate da alcune variabili come ad esempio la presenza di un
sostituto materno stabile, la familiarità dell’ambiente, la durata della separazione.
Questi dati empirici portarono Bowlby alla convinzione che la perdita della figura
materna, da sola o in concomitanza con altri fattori collaterali, possa condurre a reazioni di
grande interesse per la psicopatologia. Mosso da questa consapevolezza, Bowlby avvertì la
necessità di spiegare quello che aveva constatato, gettando luce sui processi che erano alla
base dei comportamenti osservati nelle situazioni di separazione e deprivazione. Nel
mettere in pratica i suoi intenti Bowlby, forse inconsapevolmente, valicò un confine
invisibile che lo portò a rivoluzionare completamente il modo di guardare lo sviluppo
infantile e il rapporto madre-bambino, valendogli anche l’etichetta di eretico da parte degli
ambienti psicoanalitici inglesi, consapevoli che percorrere fino in fondo il sentiero
tracciato da Bowlby avrebbe significato stravolgere i tratti somatici caratteristici della
disciplina creata da Freud. Il risultato editoriale di questo imponente sforzo euristico, fu la
pubblicazione, negli anni dal 1964 al 1979 della monumentale opera Attaccamento e
39
Perdita in tre volumi, Attaccamento (1969), Separazione (1973) e Perdita (1980), in cui
Bowlby presenta la sua teoria dell’attaccamento includendo anche degli ultimi dati messi a
disposizione da Ainsworth sui suoi studi effettuati in Uganda (1967) e a Baltimora (1969).
Perché un bambino è così sconvolto dalla perdita della madre? Perché dopo il ritorno a
casa sviluppa una grande paura di perderla di nuovo? Quali processi psicologici spiegano il
suo turbamento e il fenomeno del distacco? Qual è dunque la natura del legame madrebambino? La teoria dell’attaccamento nasce come risposta a queste domande.
ETOLOGIA E CIBERNETICA
Bowlby (1969/1982) inizia l’esposizione della sua teoria sottolineando le differenze che
la distinguono da quella di Sigmund Freud, senza volere tra l’altro prendere le distanze da
quest’ultimo, ma sottolineando anzi che i punti di vista adottati nello studio
dell’attaccamento erano già presenti in nuce negli scritti di Freud e sono stati da lui
amplificati e sviluppati. Per punti di vista, Bowlby intendeva le caratteristiche sostanziali
della sua impostazione, che si possono rapidamente sintetizzare in : l’impostazione in
senso prospettico, la focalizzazione su un’esperienza patogena e sulle sue conseguenze,
l’osservazione diretta dei bambini piccoli, l’uso di dati attinti dal mondo animale. In poche
parole Bowlby studia il bambino reale tramite l’osservazione diretta, e non il bambino
ricostruito tramite il lavoro analitico. Inoltre mentre l’approccio psicoanalitico classico,
partiva da un sindrome o da un sintomo riscontrati nella clinica formulando ipotesi ed
inferenze sulle possibili cause, secondo questa nuova prospettiva si parte da una classe di
eventi (la perdita della figura materna dai sei mesi ai sei anni) per poi delineare i processi
psicologici e psicopatologici che ne possono derivare. Infine l’approccio di Bowlby si
distingue da quello classico anche perché attinge abbondantemente dall’etologia,
utilizzando l’osservazione del comportamento di membri di altre specie relativamente alle
situazioni di presenza e assenza della madre. Infatti Bowlby afferma che pur essendo
possibile che nessuna idea derivante dallo studio degli animali, abbia qualche valore per lo
studio dell’essere umano, questo è altamente improbabile. Nei campi dell’alimentazione
dei piccoli, della riproduzione, del comportamento aggressivo l’uomo condivide importanti
caratteristiche anatomiche, fisiologiche e comportamentali con gli altri mammiferi. Non
solo, ma l’uomo non detiene neanche il monopolio del malessere, perché tra gli animali si
verificano diversi tipi di patologia comportamentale e questo ha portato Bowlby ad
ipotizzare che almeno alcune tendenze nevrotiche o deviazioni della personalità possano
40
essere il frutto di disturbi evolutivi precoci di certi processi bio-psicologici che l’uomo
condivide con gli animali.
Certo già in questo modo l’impostazione con cui Bowlby affronta lo sviluppo umano e
la patologia è piuttosto eversiva rispetto al modello psicoanalitico classico, ma la vera
rivoluzione avviene con la modifica della teoria della motivazione, aggredendo quindi alla
base una delle fondamenta dell’edificio metapsicologico. Nel modello di funzionamento
mentale, che i contributi dell’etologia e della cibernetica avevano aiutato Bowlby a
costruire, non c’era più posto per una concezione di apparato psichico che descrive il
comportamento come il prodotto di un’ipotetica energia psichica in cerca di scarica che lo
psichiatra inglese considerava ormai come l’ingombrante retaggio del clima scientifico
tardo ottocentesco. Così come Freud attinse il suo concetto di energia psichica dalla fisica
dell’epoca, e cioè dalla termodinamica e dalla meccanica dei fluidi, analogamente la nuova
teoria dell’istinto di Bowlby riflette il clima scientifico attuale. Egli fu infatti suggestionato
da analisti inglesi come Klein, Balint, Winnicott e Fairbairn che diedero forte impulso
all’affermazione della teoria delle relazioni oggettuali, come anche dalla biologia moderna
che considerava gli organismi viventi come dei sistemi aperti e non chiusi, assegnando
molta importanza non solo al concetto di energia ma anche a quelli di organizzazione e
informazione. Quindi la sintesi ragionata di tutti questi contributi portarono Bowlby ad
elaborare un modello di comportamento istintivo dove al posto dei concetti di energia
psichica e della sua scarica, subentrano concetti come sistemi comportamentali e loro
controllo, feedback nagativo ed omeostasi. Il comportamento in questa prospettiva viene
considerato non come la scarica di tensioni interne, quanto l'espressione di piani esecutivi
che a seconda della specie sono più o meno flessibili. L’esecuzione dei suddetti piani viene
stimolato da particolari informazioni interne o esterne, cosi come la sua cessazione. Le
informazioni che orientano e fanno cessare un comportamento hanno origine dai risultati
dell’azione intrapresa.
COMPORTAMENTO ISTINTIVO E SISTEMI COMPORTAMENTALI
In etologia, all’interno di una prospettiva evoluzionistica, si parla di comportamenti
istintivi innati o ereditari, facendo riferimento a quei comportamenti sistematicamente
riscontrabili in quasi tutti i membri di una stessa specie, che svolgono una parte così
importante nella sopravvivenza e conservazione dell’individuo e della specie, i quali non
sarebbero tanto frutto dell’apprendimento quanto della selezione naturale, o per meglio
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dire, sono proposti dalla natura e perfezionati dallo sviluppo. Tra questi gli etologi
riconoscono comportamenti quali procurarsi il cibo, evitare i pericoli, riprodursi, accudire i
propri piccoli e molti altri. Bowlby sostiene che anche il comportamento di attaccamento
faccia parte di tali sistemi innati. In accordo con l’etologo Robert Hinde (Hinde e
Stevenson-Hinde, 1991) egli ritiene che ogni carattere biologico sia il prodotto
dell’interazione tra patrimonio genetico e ambiente; inoltre invece di continuare
sterilmente a tentare di capire quali comportamenti siano innati e quali acquisiti questi
autori distinguono i caratteri biologici diversificandoli in una scala che va da caratteri
ambientalmente stabili, scarsamente influenzati da variazioni ambientali, a caratteri
ambientalmente labili, invece molto influenzati da tali variazioni. I caratteri definiti innati
e tra questi i comportamenti istintivi appartengono all’estremo più stabile della scala e si
mantengono stabili finchè l’ambiente in cui l’individuo o l’animale vive non si discosta da
quello in cui la specie ha vissuto o vive normalmente. Bowlby, assorbita la lezione
darwiniana, comprese che più attentamente si studia una specie, tanto più appare chiaro
come la sua struttura anatomica, fisiologica e comportamentale sia adattata in modo
sorprendentemente preciso a quel dato ambiente, che Bowlby (1969/1982) chiama
ambiente di adattamento evolutivo, in modo tale da assicurarne la sopravvivenza. La
struttura biologica quindi non è comprensibile se non la si considera in termini di
sopravvivenza all’interno di un determinato ambiente e di conseguenza lo scopo finale di
tutti i tratti biologici, anche quelli comportamentali, è quello di ottenere la sopravvivenza
della specie e cioè la possibilità di trasmettere, con maggiore probabilità, alla generazione
successiva, il proprio patrimonio genetico. Anche se una impostazione di questo tipo è già
da molto tempo applicata alla dotazione morfologica e fisiologica degli animali, solo in
tempi recenti la si è applicata anche alla dotazione comportamentale, e questo secondo
Bowlby è merito degli etologi, i quali hanno cercato di comprendere la dotazione
comportamentale a partire dal contributo che essa fornisce alla sopravvivenza di una specie
nel suo habitat naturale. Una delle tesi più rivoluzionarie dell’opera bowlbyana è affermare
che tutto questo sia applicabile anche ai comportamenti istintivi dell’uomo, i quali vengono
considerati come derivazioni di prototipi comuni ad altre specie animali, prototipi che
naturalmente sono stati molto arricchiti ed elaborati in determinate direzioni.
Bowlby per studiare le strutture prototipiche, quindi gli elementi comuni presenti nei
comportamenti istintivi dell’uomo, come degli animali, si affida ai modelli sviluppati dalla
cibernetica o teoria dei sistemi (Malagoli Togliatti e Cotugno, 1996). Tra i contributi di
questa disciplina i più utilizzati sono quelli inerenti ai principi di funzionamento dei
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sistemi di controllo, che Bowlby utilizza per dare conto di quelli che lui chiamò sistemi
comportamentali, che vanno considerati come l’interfaccia cognitiva interna responsabile
della mediazione ed organizzazione
dei comportamenti visibili. Questi sistemi
comportamentali funzionano come i sistemi di controllo, meccanici o fisiologici, di cui la
cibernetica si è occupata. La caratteristica di un sistema di controllo è quella di avere un
fine, chiamato da Bowlby meta stabilita, e dei meccanismi di feedback o retroazione. In
altri termini si tratta di un processo attraverso il quale gli effetti di una prestazione attuale
vengono continuamente riportati ad un apparato regolatore centrale dove vengono
confrontate con le istruzioni iniziali; in questo modo le azioni successive del sistema sono
così determinate dai risultati di tale confronto, e gli effetti della sua prestazione vengono a
essere sempre più simili a quanto prevede l’istruzione iniziale. Questo meccanismo, seppur
eccessivamente semplificato si trova alla base di attività molto diverse tra loro come:
mantenere la glicemia ad un livello costante, il funzionamento di un termostato, colpire
una palla da tennis in movimento ed anche naturalmente la gestione della distanza da un
figura d’attaccamento.
Un comportamento che abbia alla base un sistema comportamentale di questo tipo, tra
l’altro molto frequente nell’uomo, viene definito da Bowlby come un comportamento
corretto secondo uno scopo. Però non tutti i sistemi comportamentali sono così elaborati,
molti di essi infatti sono assai più semplici; per questi Bowlby utilizza il termine di schemi
fissi d’azione. Questo tipo di sistema piuttosto semplice governa degli schemi di
movimento strutturato, che nonostante possano essere anche alquanto complessi, non sono
lontani dai riflessi. Come indica il loro nome, gli schemi fissi d’azione sono estremamente
stereotipati e, una volta avviati, seguono il loro decorso tipico fino al completamento, quasi
indipendentemente da quello che accade nell’ambiente circostante. Questo sistema quindi
non usufruisce del feedback proveniente dall’ambiente. Nello studio del comportamento
umano gli schemi fissi d’azione, pur non essendo molto frequenti, sono interessanti per il
ruolo importante che svolgono nel controllo dell’espressione facciale e, specialmente
durante l’infanzia, prima che l’individuo disponga di un sistema più sofisticato. Nelle fasi
più precoci dello sviluppo, la rotazione del capo, la prensione, il pianto, il sorriso, sono
esempi di schemi fissi d’azione che svolgono tutti un ruolo importante nelle prime fasi
dell’interazione sociale.
Abbiamo quindi visto come ci siano diversi sistemi comportamentali che governano il
comportamento animale, ora è necessario soffermarsi brevemente su come questi diversi
sistemi possono coordinarsi per dare vita alle più diverse attività.
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La forma più semplice di organizzazione del comportamento è rappresentato da una
sequenza a catena, in cui ogni anello di questa catena è costituito da un sistema
comportamentale, che solo quando ha cessato la sua attività, può consentire al sistema
successivo di entrare in azione. In questa catena tutte le fasi intermedie devono essere
rispettate perché possa avere luogo il comportamento desiderato, l’intera organizzazione
fallisce il suo scopo se un solo anello della catena viene meno. Bisogna però sottolineare
che sebbene l’intera sequenza a catena non sia corretta secondo uno scopo, i singoli anelli
possono esserlo.
Un altro modo di organizzazione, che solitamente garantisce una maggiore flessibilità
della sequenza a catena, è quello che Miller, Galanter e Pribram (1960) chiamarono piano
gerarchico organizzato. Con questo termine gli autori indicavano un’organizzazione
comportamentale generale corretta secondo lo scopo e costituita da una gerarchia di
strutture subordinate che possono però anche non essere corrette secondo lo scopo. Tutto
questo significa che molti dei comportamenti complessi a cui assistiamo nel mondo
animale e in quello umano in particolare, si basano su una organizzazione
comportamentale sottostante, che prevede un piano generale corretto secondo lo scopo,
composto da un insieme gerarchico di sottosistemi, o sottocomportamenti, la cui sequenza
non è rigida, ma flessibile, cioè essi sono intercambiabili o addirittura anche un elemento
può mancare senza alterare il risultato. A questo proposito Bowlby (1969/1982) amava
portare l’esempio del comportamento organizzato secondo un piano gerarchico corretto
secondo lo scopo di “andare a lavoro’’. Questo comportamento complesso è fomato da una
serie di sottocomportamenti meno generali come uscire dal letto, lavarsi, vestirsi, fare
colazione, spostarsi, questa è una serie di comportamenti che solitamente si ripete sempre
in un certo modo, ma sarebbe un errore pensare che tutta l’operazione sia il frutto di una
catena di eventi, infatti le attività potrebbero susseguirsi in un ordine diverso e poi le
componenti di ogni attività possono essere ampiamente modificate senza alterare il piano
generale. L’intera sequenza è concepita come governata da un piano principale strutturato
per raggiungere uno scopo, e questo piano generale consiste di molti sottopiani, ognuno
con il suo scopo più limitato. Naturalmente è inutile sottolineare le somiglianze tra questo
modello di organizzazione comportamentale e il comportamento di attaccamento,
somiglianze che verranno sviluppate nel seguito di questo lavoro.
44
IL COMPORTAMENTO DI ATTACCAMENTO
Dopo aver preso in esame come la teoria dei sistemi, applicata all’etologia, possa dar
conto dei processi alla base di molti comportamenti istintivi presenti nel mondo animale, è
ora necessario concentrarsi su quel particolare tipo di comportamento istintivo a cui
Bowlby ha dedicato particolare attenzione, cambiando radicalmente il modo di intendere il
legame genitore-bambino: l’attaccamento.
Bowlby aveva infatti compreso, basandosi sulla sua esperienza clinica con bambini
deprivati e sulle osservazioni fatte dagli etologi su Primati e mammiferi, che l’accessibilità
delle figure genitoriali ha una particolare capacità di sostenere le sensazioni di sicurezza
del bambino e gioca un ruolo fondamentale nello sviluppo di una personalità sana e di un
solido senso di sè. Il comportamento che Bowlby chiama di “attaccamento’’ viene
solitamente ricondotto ad almeno tre caratteristiche di base (Weiss, 1991): ricerca della
vicinanza, sensazione di una base sicura e proteste davanti alle separazioni. Per quanto
riguarda la vicinanza Bowlby postula che il legame che il bambino ha con la madre, sia il
frutto di diversi sistemi comportamentali, attivi già all’età di sei mesi, che hanno come
meta stabilita il mantenimento della vicinanza alla figura materna. Quando un bambino è
entrato nel secondo anno di vita, ed è quindi in grado di muoversi, si può quasi sempre
riscontrare un comportamento di attaccamento abbastanza tipico che si esplicita nel seguire
le sue figure di attaccamento ovunque vadano, non permettendo che la distanza che lo
separa dai genitori, superi mai un certo livello. Il comportamento di attaccamento è
innescato dalla separazione, reale o minacciata, dalla figura d’attaccamento o da esperienze
ansiogene come la malattia o la paura.
Un'altra caratteristica qualificante della relazione d’attaccamento è la percezione da
parte del bambino, del genitore come “base sicura’’. Mary Ainsworth (1982) fu la prima
ad usare questa espressione per descrivere l’atmosfera creata dalla figura di attaccamento;
l’essenza di questa esperienza di base sicura è quella di fornire una presenza stabile
esterna, ma anche interna, che possa consentire al bambino di esplorare con serenità e
curiosità l’ambiente esterno, ben sicuro appunto che le sue figure di attaccamento saranno
a sua disposizione quando e se ne avrà bisogno. Possiamo affrontare mari pericolosi se
abbiamo la certezza di un porto sicuro a cui tornare (Holmes, 1993).
Infine l’indicatore forse più eloquente della presenza di un legame d’attaccamento è la
reazione alla separazione. Infatti pianti, urla ed espressioni cariche di angoscia è quello che
dovrebbe aspettarsi chi volesse spezzare quella forza potente ed invisibile che lega madre e
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bambino. Questi comportamenti dunque sono la reazione normale alla minaccia della
rottura di una relazione di attaccamento ed hanno, come vedremo di seguito, la funzione di
ristabilire quella vicinanza alterata dall’allontanamento, come anche una funzione di
segnale per chi si prende cura del bambino di evitare ulteriori separazioni.
Finora abbiamo parlato del comportamento di attaccamento al singolare, ma essendo
quest’ultimo mediato da un piano gerarchico organizzato corretto secondo uno scopo, si
avvale per raggiungere i propri fini di molteplici mezzi. A questo proposito Bowlby
(1969/1982)
descrive
cinque
modelli
di
comportamento
che
contribuiscono
all’attaccamento: piangere, sorridere, seguire, aggrapparsi e succhiare. Questi sistemi sono
organizzati e attivati in modo che il bambino tenda a mantenersi in prossimità della madre.
Inoltre sempre attento ai parallellismi tra Uomo e animali inferiori, l’arguto psicoanalista
inglese sottolinea sempre fortemente come il meccanismo della ricerca della vicinanza sia
così frequente in natura. I piccoli di cavallo, agnello, vitello e anatra infatti, pur essendo
alla nascita abbastanza sviluppati da potersi muovere liberamente nel giro di poche ore,
quando la madre si muove in una certa direzione essi la seguono. In altre specie, compreso
l’uomo, i neonati sono molto meno precoci ed hanno quindi bisogno di settimane o anche
mesi prima di muoversi autonomamente, ma quando questo avviene è evidente la
medesima tendenza a rimanere vicino alla madre. Questo tipo di osservazioni etologiche
evidenzia con una certa chiarezza che in molte specie animali esiste un comportamento
operante tra cuccioli e adulti reciprocamente, caratterizzato da due aspetti principali: il
mantenimento della vicinanza con un altro animale con la tendenza a ristabilirla quando è
venuta a mancare, e la specificità dell’altro, cioè la capacità di riconoscere quel particolare
cucciolo o quel particolare adulto, in mezzo a tanti altri.
Sono queste grandi quantità di dati comparati che fanno apparire indiscutibile agli occhi
di Bowlby il fatto che il legame del bambino con la madre sia la versione umana del
comportamento riscontrato comunemente in molte altre specie animali.
Sempre rimanendo fedeli a questa prospettiva comparativa tanto cara a Bowlby, bisogna
infine
sottolineare che il comportamento di attaccamento così come gli altri
comportamenti istintivi è elicitato da alcune cause ed adempie a precise funzioni.
Per quanto riguarda gli stimoli che producono una attivazione del sistema
dell’attaccamento è rilevante evidenziare come piccoli Primati allo stato selvaggio, ad ogni
minimo allarme si precipitino dalla madre e quelli che le erano già vicino, le si aggrappano
più strettamente. Questo accade in maniera assai simile nel piccolo di Uomo dove, come
hanno messo in evidenza
Ainsworth et al. (1978) nella Strange Situation, il
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comportamento ludico ed esplorativo del bambino viene spesso interrotto dall’arrivo di un
estraneo, che mettendo in ansia il bambino lo spinge a trovare riparo accanto alla madre.
Ma l’ansia suscitata da una situazione poco conosciuta non è l’unica condizione in grado di
stimolare l’attaccamento. Importanti a questo proposito sono anche le esigenze fisiologiche
come fame, freddo e dolore fisico; queste infatti sono tutte esperienze che disgregano la
sensazione di sicurezza del bambino e lo spingono a ristabilirla attraverso il contatto fisico
con una figura d’attaccamento. Infine citiamo per ultimo quello che è forse il più potente
attivatore dell’attaccamento ovvero l’allontanamento del genitore. Dopo quanto detto
finora è superfluo aggiungere che essendo il genitore il garante della sicurezza e della
serenità del bambino, un suo allontanamento è un avvenimento a dir poco catastrofico.
Per meglio comprendere un comportamento istintivo e quello di attaccamento in
particolare non è sufficiente ricondurlo alle sue cause, ma occorre anche interpretarne le
funzioni. Secondo la biologia evoluzionista infatti le componenti di un organismo, che
siano esse anatomiche, fisiologiche o, come in questo caso, comportamentali, assolvono ad
una funzione, o si potrebbe anche dire sortiscono un effetto,
che ha valore di
sopravvivenza, sia a livello ontologico che filogenetico. Infatti gli organismi fisiologici e
comportamentali in grado di assolvere alle loro funzioni in modo più efficiente
nell’ambiente occupato dalla specie sopravvivono meglio e hanno prole più numerosa.
Questo significa che le conseguenze funzionali prodotte da un comportamento istintivo
sono plasmate dalla selezione naturale e contribuiscono alla sopravvivenza inscrivendosi
stabilmente nella dotazione biologica dell’individuo e della specie. Per esempio il
comportamento istintivo di suzione ha come conseguenza funzionale, con alto valore di
sopravvivenza, quella di ottenere l’erogazione di cibo da parte della madre. Ma qual’è
allora la conseguenza funzionale dell’attaccamento? Quali effetti tende a raggiungere?
Bowlby (1969/1982) espone due ipotesi, ma ne caldeggia soprattutto una. L’ipotesi più
debole secondo lui, sarebbe quella secondo cui il comportamento di attaccamento offra al
bambino l’opportunità di apprendere dalla madre le attività necessarie alla sopravvivenza.
La principale critica mossa a questa posizione è che l’attaccamento continua anche nella
vita adulta quando l’apprendimento è ormai terminato e poi anche dal fatto che viene
stimolato soprattutto da situazioni di allarme. Secondo Bowlby invece l’ipotesi più
accreditata è quella che considera come funzione dell’attaccamento la protezione dai
predatori. Se vi sono predatori nei dintorni il comportamento di attaccamento del piccolo
certamente contribuisce alla sua sicurezza. Questa discussione delle cause ma soprattutto
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delle funzioni dell’attaccamento ci conduce direttamente ad un'altra importante questione:
la sua natura.
PULSIONE PRIMARIA O SECONDARIA
Quando Bowlby iniziò ad esporre la sua nuova concezione teorica alla fine degli anni
Cinquanta si scontrò con quelle che erano le attuali teorie sulla natura e l’origine del
legame madre bambino. Infatti da molto tempo gli psicologi e gli psicoanalisti
concordavano sul fatto che la prima relazione umana del bambino ponesse le basi della sua
personalità tuttavia non concordavano sui tempi né sulla natura dei processi che ne erano
alla base. Le teorie vigenti si dividevano tra quelle che consideravano il contatto del
bambino con la madre come una motivazione a sé stante con una sua autonomia ed un suo
fine e quelle che lo consideravano solo funzionale alla soddisfazione di altre esigenze più
basilari. A queste ultime appartiene la “teoria della pulsione secondaria’’ adottata da Freud
(1978) e dai teorici dell’apprendimento sociale, la quale sostiene che il bambino ha alcuni
bisogni fisiologici che devono essere soddisfatti, in particolare bisogni di cibo e di calore.
Il bambino quindi s’interessa e si attacca a una figura umana affinchè questa figura soddisfi
le sue esigenze fisiologiche. Bowlby invece, volendo assegnare uno statuto motivazionale
autonomo all’attaccamento, sostiene che il bambino ha una tendenza innata ad entrare in
contatto con un essere umano e lo fa inoltre in maniera sempre più specializzata e
differenziata. Le prove che Bowlby porta a sostegno delle sue ipotesi sono anche questa
volta in gran parte mutuate dall’etologia. Lorenz infatti già nel 1935, quando stava
prendendo forma il suo concetto di Imprinting, raccolse una serie di osservazioni tendenti a
dimostrare come il comportamento di attaccamento può svilupparsi nelle anatre e nelle
oche senza che il giovane animale riceva cibo e altre ricompense convenzionali. Più
recentemente Harlow (1958) attraverso gli ormai celebri esperimenti con le scimmie
rhesus, raggiunse delle conclusioni analoghe.
In questi esperimenti alcune scimmiette furono separate dalla madre alla nascita e si
fornirono loro dei simulacri di madre; alcuni però erano ricoperti da filo spinato mentre
altri da un panno morbido. Il cibo proveniva da una bottiglia che poteva essere posta in
entrambi i simulacri. Questo consentiva di valutare separatamente gli effetti del cibo e di
un oggetto gradevole a cui aggrapparsi. Tutti gli esperimenti mostrarono che il piacere del
contatto stimolava comportamenti di attaccamento, mentre il cibo no. Per l’uomo
sembrano valere le stesse conclusioni, infatti il piccolo umano nasce dotato di molte
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capacità che gli consentono il contatto con chi se ne prende cura, come ad esempio la
capacità di aggrapparsi. Inoltre i bambini piccoli godono della compagnia degli altri esseri
umani anzi certe interazioni sociali lo calmano. Ancora, la risposta della lallazione come
quella del sorriso aumentano d’intensità quando l’adulto vi reagisce in modo puramente
sociale, dedicando un po’ di attenzione al bambino (Lichtenberg, 1989). Quanto detto
testimonia a favore del fatto che il piacere che un bambino percepisce quando è in
compagnia di un altro essere umano, sia qualcosa di diverso dal sollievo che prova quando
le sue esigenze fisiologiche vengono soddisfatte.
CRONOLOGIA DELL’ATTACCAMENTO
Quando sono ravvisabili le prime tracce del comportamento di attaccamento? Subisce
delle evoluzioni? Mantiene la stessa intensità con il passare del tempo? A queste domande
Bowlby non si sottrae, anzi come abbiamo ormai imparato, le sue risposte hanno
rivoluzionato le concezioni delle capacità del bambino allora vigenti. Già a quattro mesi
infatti viene riconosciuta al bambino la capacità di discriminare percettivamente la madre,
in quanto ad essa sorride, vocalizza più prontamente e la segue con gli occhi per un tempo
più lungo di quanto non faccia con chiunque altro (Flavell, 1993). Ma il riconoscimento
percettivo non basta, per qualificare il comportamento di attaccamento, è necessario che
siano presenti delle strategie comportamentali che hanno lo scopo di mantenere la
vicinanza con la madre. La Ainsworth (1967) osservando la popolazione africana dei
Ganda afferma che un comportamento tendente a ristabilire la vicinanza con la madre è già
chiaramente identificabile a sei mesi, ed ancora più evidente a nove mesi, e si manifesta
non solo nel fatto che il bambino piange e cerca di seguire la madre quando questa esce
dalla stanza ma anche dal fatto che al suo ritorno la accoglie sorridendo, sollevando le
braccia ed emettendo grida di gioia. Tutti questi comportamenti non solo si ripetono e
s’intensificano durante la seconda metà del primo anno, ma continuano per tutto il secondo
anno. Aggiungendo a queste osservazioni, quelle molto simili di Schaffer e Emerson (1964
citato in Bowlby 1969/1982) sui bambini scozzesi, sembra essere ormai assodato che il
comportamento di attaccamento si manifesta per la prima volta nella maggioranza dei
bambini in un lasso di tempo che va dei sei ai nove mesi. Come evidenziato poc’anzi il
comportamento di attaccamento si verifica costantemente ed intensamente per tutto il
secondo e terzo anno di vita; cambiano però le circostanze che lo suscitano. Infatti
l’aumento della portata percettiva del bambino e la sua maggiore capacità di riconoscere
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gli eventi lo portano a divenire sempre più consapevole di un distacco imminente, questo
significa che se durante il primo anno il bambino piangeva e protestava solo quando la
madre usciva dalla stanza, nel secondo anno inizia a lamentarsi già quando la vede
prepararsi.
Quello dei tre anni sembra essere un passaggio molto importante perché a quest’epoca
si verifica un cambiamento piuttosto netto. Infatti a quest’età i bambini sembrano molto
più capaci di accettare una momentanea assenza della madre senza disperarsi, ma non solo,
diventano sempre più capaci di sentirsi sicuri in un ambiente estraneo con figure di
attaccamento secondarie come un parente o un insegnante. Quanto detto non significa che
allo scoccare dei tre anni il comportamento di attaccamento si arresta automaticamente, ma
soltanto che diviene più elastico e che aumenta la distanza all'interno della quale il
bambino si sente sicuro; se qualcosa non va mentre gioca con altri bambini o è appena un
po’ spaventato, cerca immediatamente il contatto con il genitore.
Abbiamo visto come il comportamento d’attaccamento nel corso dei primi tre anni si
evolva passando da una fase in cui alcune situazioni suscitano paura e insicurezza, fino ad
un'altra fase in cui le stesse situazioni non appaiono più tanto angosciose. Leggendo tra le
righe di questa evoluzione, è però possibile osservare in trasparenza un altro processo
caratterizzato dal passaggio da uno stato di risposta indiscriminata ad uno stato dove solo
alcuni stimoli possono elicitare alcune risposte.
Bowlby (1969/1982) ha ben descritto questo processo
che conduce il bambino a
rispondere in maniera particolare soltanto a poche persone che egli stesso, per una serie di
caratteristiche, ha eletto sue figure di attaccamento.
A partire dalla nascita fino ad almeno otto settimane, il bambino è attratto in maniera
particolare dagli esseri umani, tanto da seguirli con lo sguardo oppure cessando di piangere
vedendo un viso, ma la capacità di discriminare una persona dall’altra è molto limitata o
assente. Verso i tre mesi poi il bambino continua a comportarsi verso le persone nello
stesso modo socievole della fase precedente, ma si inizia a riconoscere una tendenza più
spiccata verso la figura materna. Superato poi il traguardo dei sei mesi il bambino è ormai
capace di discriminare percettivamente la sua figura d’attaccamento dalle altre persone, ma
non solo, è anche in grado di seguire la madre quando si allontana, di salutarla quando
ritorna e di usarla come punto di partenza per le sue esplorazioni; insomma in una parola,
ha sviluppato l’attaccamento. In questa fase gli estranei vengono trattati con cautela
sempre maggiore, e all’incirca verso gli otto mesi tenderanno a suscitare allarme e
allontanamento. Bowlby infine considera collocata dopo i due anni, l’ultima fase del
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precoce sviluppo infantile, dove il bambino non solo tratta la figura di attaccamento
diversamente dagli altri, e non ne tollera la lontananza, ma inizia a percepire sua madre
come un oggetto indipendente avente propri scopi e sentimenti, ai quali egli tende ad
adattarsi. In altri termini, si può dire che il bambino comincia ad intuire le motivazioni e i
progetti della madre, quindi si può parlare a questo punto di una coppia madre-bambino
legata da una relazione intersoggettiva dove entrambi i membri della relazione
usufruiscono di strategie comunicative corrette secondo lo scopo.
I MODELLI COMPORTAMENTALI DELL’ATTACCAMENTO
Come già evidenziato l’attaccamento è mediato da alcuni modelli comportamentali che
hanno lo scopo di incrementare la vicinanza tra il bambino e chi se ne prende cura. Questi
tipi di comportamento sono diversi, ma i più evidenti sono il pianto, il sorriso,
l’aggrapparsi, la suzione non alimentare e il seguire.
Vediamo ora di approfondire ognuno di questi modelli attraverso l’intersezione di due
assi teorici. Il primo riguarda la progressione dei sistemi comportamentali da livelli più
primitivi a livelli più elaborati, mentre il secondo descrive il passaggio da una risposta
sociale indiscriminata ad una tendenza di risposta sempre più circoscritta alla figura di
attaccamento.
Il Pianto
Il pianto, insieme al sorriso ed alla lallazione sono annoverabili tra i comportamenti di
segnalazione, che, hanno l’effetto di avvicinare la mamma al bambino.
Il pianto può essere elicitato da situazioni diverse e di conseguenza può assumere anche
forme diverse. Troviamo infatti il pianto per fame che ha inizio lento ma diviene con il
tempo più intenso e ritmato; il pianto di dolore intenso fin dall’inizio; un pianto squillante
interpretato come segnale di collera ed anche un pianto ritmico provocato da altri fattori
oltre la fame, come un cambiamento interno o uno stimolo esterno come il freddo
(Bowlby, 1969/1982).
Nelle prime settimane il pianto non è un comportamento corretto secondo lo scopo, ma
assomiglia più a un riflesso: viene emesso un segnale e quando un essere umano,
qualunque esso sia, risponde, il pianto cessa. Verso i sei mesi però ha grande importanza
chi è la persona che raccoglie il segnale del bambino e solo la madre ha il potere di
calmarlo quando è presente e di agitarlo quando si allontana.
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Il sorriso
Il sorriso, a differenza del pianto che è efficace fin dalla nascita, riesce ad influenzare il
comportamento della madre solo dopo le quattro settimane di vita del bambino. Diversa è
anche la risposta prevedibile: infatti mentre il pianto spinge la madre a nutrire o confortare
il suo bambino, il sorriso la stimola ad entrare in relazione con lui soddisfacendo in
entrambi il semplice piacere che proviene dallo scambio sociale.
Anche il sorriso subisce una evoluzione progressiva lungo i due assi sopra esposti;
relativamente alla complessità, all’inizio abbiamo un sorriso spontaneo e riflesso basato su
uno schema fisso d’azione, che cederà il passo dopo le cinque settimane ad un sorriso
sempre più corretto secondo lo scopo. Per quanto riguarda l’asse della discriminazione,
fino ai tre mesi il bambino presenta un sorriso sociale non selettivo, scatenato cioè da
qualunque essere umano. A questo si succede intorno ai sei mesi il sorriso sociale selettivo
in cui il viso delle persone note che si prendono cura di lui è in grado di suscitare un
sorriso più immediato e generoso che non il viso di persone meno note.
Il seguire
L’atto del seguire così come l’aggrapparsi ed il succhiare sono invece considerati
comportamenti di avvicinamento che hanno cioè l’effetto di avvicinare il bambino alla
madre. Non appena il bambino è in grado di muoversi, si può osservare la tendenza ad
avvicinarsi alla madre e a seguirla. Per raggiungere questo scopo il piccolo umano può
ricorrere a tutte le abilità motorie di cui dispone come: andare carponi, trascinarsi oppure
camminare o correre quando sarà in grado. Tra i nove e i dodici mesi di solito questo
comportamento viene ad organizzarsi in modo corretto secondo uno scopo, cioè a dire che
se la madre cambia posizione anche il bambino cambia direzione. In questo tipo di
comportamento a differenza degli altri sopracitati, non si distingue una fase precedente
dove il bambino segue ogni essere umano senza distinzione prima di seguire
precipuamente la madre, in quanto il bambino raggiunge uno sviluppo neuro-muscolare
che gli consente uno spostamento autonomo, anche se carponi, verso i sei mesi, epoca in
cui, come abbiamo visto, inizia già a stabilizzarsi l’attaccamento verso una singola figura
di riferimento.
L’Aggrappamento
Il bambino è in grado di aggrapparsi sin dalla nascita e questa capacità si perfeziona in
maniera sempre crescente soprattutto nelle quattro settimane successive. Il comportamento
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di aggrappamento si basa su alcuni riflessi primitivi di cui il bambino è dotato fin
dall’inizio. Due di queste reazioni sono il riflesso di Moro e il riflesso di prensione
(DeNegri, 1996). Il primo consiste in una serie automatica di movimenti che porta il
bambino ad abbracciare un adulto che lo sostiene e si manifesta quando il piccolo viene
bruscamente scosso, piegato, sollevato o fatto cadere. Il riflesso di prensione è invece
qualcosa di più circoscritto alle estremità e consiste in una debole chiusura della mano o
del piede a seguito di una stimolazione tattile del palmo. Quanto detto rimarca l’evidenza
che l’aggrapparsi sembra all’inizio una risposta abbastanza semplice di tipo riflesso, ma in
seguito diviene, come accade molto spesso nei comportamenti istintivi, un comportamento
corretto secondo lo scopo. In particolare, ad esempio, la prensione viene ad essre
controllata da stimoli visivi, il bambino quindi non afferra più automaticamente la prima
cosa che gli entra nel palmo, ma è invece capace di afferrare selettivamente un oggetto che
vede e preferisce. Infine l’aggrappamento differenziale alla madre è particolarmente
evidente verso la fine del primo anno di vita, quando il bambino è stanco, affamato,
ammalato o spaventato (Ainsworth, 1967).
Suzione non alimentare
Solitamente la suzione è immaginato come un comportamento avente come scopo
principale il nutrimento. Il dato comune, però, che tutti i bambini trascorrono molto tempo
afferrando e/o succhiando, il proprio pollice o il capezzolo, pur non ricevendone cibo,
induce a pensare come l’attaccamento possa essere a ragione considerato una ulteriore
funzione del comportamento di suzione, oltre quella alimentare. Questa distinzione viene
anche legittimata dall’osservazione che il movimento della suzione non alimentare è più
blando di quella alimentare e che il neonato umano si dedica alla suzione non alimentare
specialmente quando è agitato o allarma.
SISTEMI DI RAPPRESENTAZIONE O MODELLI OPERATIVI INTERNI
Bowlby sostiene che un animale per raggiungere uno scopo stabilito deve possedere una
mappa conoscitiva dell’ambiente e che tali mappe possono avere un grado di complessità
assai diverso che va: ”dalle mappe elementari, come noi supponiamo si costruiscano le
vespe, all’immagine del mondo immensamente complicata d’un uomo occidentale colto”
(Bowlby, 1969/1982). Oltre alla conoscenza dell’ambiente però, queste mappe cognitive
devono anche contenere una certa conoscenza operativa delle abilità e potenzialità
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comportamentali dell’organismo a cui appartengono. Ogni individuo deve quindi disporre
di un modello ambientale ed organismico, i quali vanno continuamente aggiornati.
Raffinando questi concetti di base ed adeguandoli al funzionamento mentale umano,
soprattutto in fase di sviluppo, Bowlby (1969/1982, 1973, 1980) teorizza la presenza di
“modelli operativi interni”. Il bambino in fase di sviluppo costruisce una certa quantità di
modelli di se stesso e degli altri basati su schemi ripetuti di esperienze interattive. Queste
“rappresentazioni
di
interazioni
generalizzate”
(Stern,
1995)
formano
modelli
rappresentazionali relativamente stabili che il bambino usa per predire il mondo e mettersi
in relazione con esso. Ciò che spesso viene trascurato è che la concezione dei modelli
operativi interni elaborata da Bowlby è molto generale. Essa infatti si applica a tutte le
rappresentazioni e non è ristretta ai modelli operativi di sé e degli altri nelle relazioni di
attaccamento. Comunque è soprattutto rispetto alle particolari rappresentazioni sé-altro che
Bowlby applica le sue idee sulla costruzione, l’uso e la revisione dei modelli mentali.
L’enfasi di Bowlby sulla funzione della rappresentazione nella condotta delle relazioni
interpersonali, non è qualcosa che viene dal nulla. Egli, infatti, come membro della Società
Psicoanalitica Inglese ben conosceva il pensiero di Freud sul mondo interiore (1978) come
anche le idee di Klein (Segal, 1979) e Winnicott (1952), sulle relazioni interiorizzate. Il
concetto di modello Bowlby lo mutuò da Craik (1943) il quale da una prospettiva
evoluzionistica propose che gli organismi capaci di costruire un “modello operativo
interno” del proprio ambiente hanno una migliorata capacità adattiva in quanto, saper
costruire e usare modelli mentali
per valutare le conseguenze potenziali dei corsi
alternativi dell’azione, consente un comportamento più flessibile e adattabile. La qualifica
di “operativo”, indica che si tratta di rappresentazioni su cui un individuo può mentalmente
operare per generare previsioni.
Intorno al concetto di “modello operativo”, come verrà approfondito in seguito, gravita
l’attuale discussione scientifica volta a comprendere la collocazione teorica dell’opera di
John Bowlby. Dall’interpretazione di cosa sia un modello operativo discendono i tentativi
di relegare questa nuova teoria ai precedenti contributi oppure di assegnargli una
autonomia teorica che poco ha da condividere con l’eredità psicoanalitica.
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CAPITOLO IV
GLI SVILUPPI
INTRODUZIONE
Come abbiamo visto nel capitolo precedente sono molti gli elementi che definiscono
John Bowlby un innovatore geniale e coraggioso. Egli infatti sosteneva posizioni all’epoca
poco popolari, come il fatto che l’attaccamento del bambino alla madre, essenziale per la
sua sopravvivenza, fosse geneticamente predeterminato, e che, alla stregua di altri
comportamenti istintivi, si manifesti prevedibilmente in tutti i bambini, in periodi fissi
dello sviluppo (solitamente dai 6 ai 9 mesi) e durante tutto il primo anno di vita viene
soddisfatto attraverso il contatto fisico con la madre. In questo senso l’attaccamento veniva
considerato come l’espressione di una motivazione primaria alla socializzazione,
indipendentemente dalla soddisfazione dei bisogni fisiologici, a cui tradizionalmente era
associato.
Anche se forse non è corretto affermare che Bowlby abbia fondato una Scuola
depositaria del suo pensiero è invece difficile non notare come il suo contributo abbia
attirato l’interesse di molti studiosi, che hanno voluto abbracciare questo modo nuovo di
guardare allo sviluppo affettivo e si sono impegnati, nel corso degli ultimi vent’anni, ad
amplificare e ad approfondire aspetti della teoria originaria particolarmente fertili o poco
sviluppati. In questa prospettiva sono ormai familiari nomi come Main, Bretherton,
Cassidy etc. i quali hanno spostato l’analisi verso aree poco investigate di questa teoria,
come: il rapporto tra modello comportamentale dell’attaccamento e la sua rappresentazione
mentale, lo studio degli effetti delle prime relazioni di attaccamento sulle relazioni
successive, l’importanza degli attaccamenti precoci nello sviluppo della psicopatologia e la
trasmissione intergenerazionale dei modelli d’attaccamento. Le pagine seguenti hanno lo
scopo di fornire una ricognizione generale sui sviluppi moderni di questa interessante
teoria.
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AD INTERIM
I detrattori di John Bowlby hanno accusato lo psicanalista inglese di aver proposto un
modello di sviluppo troppo meccanicista e poco attento agli aspetti psicologici interni o
rappresentazionali dell’attaccamento. Questa critica ingenerosa è in parte smorzata dal
fatto che già lo stesso Bowlby (1969, 1980) si era posto il problema di concettualizzare il
versante interno del comportamento di attaccamento postulando la presenza nel bambino di
costrutti chiamati modelli operativi interni, di cui abbiamo precedentemente riferito.
Ricordiamo che secondo Bowlby (1969,1980) il bambino già molto precocemente, si
costruisce dei modelli interni di sé rispetto agli altri, i quali agendo soprattutto al di fuori
della consapevolezza influenzano il comportamento nella costruzione di nuove relazioni.
Negli ultimi vent’anni, questo come altri concetti fondamentali della teoria
dell’attaccamento, è stato sviluppato (Bretherton, 1999), assumendo un ruolo importante
nella ricerca così come nella clinica.
Attualmente infatti i modelli operativi interni vengono intesi non solo come passive
riproduzioni dell’esperienza, ma come organizzatori del comportamento individuale, che
attivamente riproducono le esperienze più salienti della storia del soggetto.
Un’altra differenza riguarda anche il piano organizzativo dei modelli operativi. Bowlby
(1980), propose che i modelli operativi del Sé e delle figure di attaccamento emergono
dalla ripetuta esperienza di modelli di interazione diadica e sono quindi sempre
complementari. Per esempio un individuo che ha costruito un modello operativo interno
delle sue figure d’attaccamento come amorevoli e disponibili, avrà come controaltare un
modello operativo complementare del Sé come degno di sostegno e di amore. Cambiano
però le cose secondo Bowlby, quando l’esperienza di attaccamento non è soddisfacente. In
questo caso si verifica una scissione, con un modello accessibile alla consapevolezza che
valuta la figura di attaccamento rifiutante ed il Sé come cattivo ed un modello non
consapevole che rappresenta la figura d’attaccamento come inefficiente ed il Sé come
buono. Tutto questo è il frutto di un meccanismo di difesa che Bowlby chiama esclusione
difensiva, che egli considera un caso particolare di un fenomeno più generale detto
esclusione selettiva.
Secondo la teoria dello Human Information Processing (Norman, 1976 citato in
Bretherton 1999) da cui Bowlby ha attinto, gli esseri umani selettivamente escludono
informazioni irrilevanti per focalizzare le loro limitate capacità processuali, su ciò che è
effettivamente più saliente per il compito in corso. L’esclusione difensiva fa riferimento a
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processi simili, ma con l’obiettivo di prevenire le percezioni, i sentimenti e i pensieri che
potrebbero altrimenti causare forte ansia e sofferenza psicologica. Negli ultimi anni però,
lo sviluppo della scienza cognitiva (Johnson-Laird, 1983); ha portato a considerare i
modelli operativi interni come ad una trama concatenata di gerarchie di schemi, dove al
livello più basso ci sarebbero schemi interattivi vicini all’esperienza (“quando mi faccio
male mia madre accorre’’) e ad un livello più alto ci sarebbero schemi di tipo più generale
(“mia madre è una persona affettuosa ed io mi sento amato”). Questi nuovi contributi
spingono a revisionare l’idea che un individuo sottoposto a stress interazionali possa avere
due modelli interni separati e ben organizzati della stessa relazione, uno consapevole ed
uno no. Sembra più convincente la possibilità che in tali occasioni si possa sviluppare un
modello operativo male organizzato dove molti schemi sono dissociati uno dall’altro al
proprio interno e tra livelli gerarchici (Bretherton, 1999).
Maggiore attenzione, inoltre, si pone oggi all’importanza della comunicazione nella
creazione e nella trasmissione intergenerazionale dei pattern di attaccamento.
I modelli di comunicazione verbale e non verbale sono processi per mezzo dei quali i
modelli operativi interni delle relazioni di attaccamento sono generati, sostenuti e trasmessi
di generazione in generazione (Crittenden, 1989). Già Mary Ainsworth (1978), attraverso
accurate osservazioni naturalistiche di coppie madre-bambino a casa, evidenziò che quelle
madri che erano capaci di rispondere appropriatamente e prontamente ai segnali sociali dei
loro bambini a casa durante i primi tre mesi di vita, avrebbero avuto una relazione più
armoniosa con loro negli ultimi quattro mesi del primo anno di vita. A loro volta i bambini
mostravano di avere fiducia nella disponibilità delle loro madri per avere protezione e
conforto. Essi frequentemente comunicavano con le madri in vari modi, ed erano più
capaci di esplorare il mondo fisico. Nello stesso studio però Ainsworth (ibidem) registrò
che una minoranza di madri non solo era relativamente poco responsiva quando i loro
bambini piangevano a casa, ma raramente si mostrava affettuosa e limitava la vicinanza
fisica nelle normali situazioni di accudimento. I loro bambini piangevano di più e
mostravano a casa comportamenti spontanei più aggressivi verso le loro madri. Ma
Ainsworth et al. trovarono dell’altro; c’erano infatti alcune madri che rispondevano con
una inconsistente sensibilità ai segnali del bambino a casa durante i primi tre mesi di vita.
Queste madri frequentemente ignoravano o rifiutavano i segnali sociali dei propri bambini,
ma senza ridurre il contatto corporeo.
Questi tre gruppi, basati su specifici modelli di comunicazione madre-bambino,
individuati da Ainsworth furono poi riscontrati applicando, nello stesso studio, una
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procedura sperimentale che cambiò il modo di fare ricerca sull’infanzia: la Strange
Situation.
ATTACCAMENTO COME LEGAME AFFETTIVO
Negli ultimi anni si è smesso di guardare all’attaccamento soltanto come ad un
comportamento e si è iniziato a pensare ad esso come a qualcosa di interiore, legato
all’esperienza di intimità delle persone, in una parola, un legame affettivo.
Se l’attaccamento è sicuramente un legame affettivo, non tutti i legami affettivi sono
attaccamenti. Ainsworth (1989) prima di descrivere le caratteristiche del legame di
attaccamento ha analizzato cosa rende tale un legame affettivo. Un legame affettivo è
persistente, e non transitorio; inoltre coinvolge una persona specifica, una figura che non è
interscambiabile con nessun altro. Ad esempio se stiamo soffrendo per un amore non
corrisposto, le nostre pene non saranno alleviate dalle avances di altre persone che non ci
interessano. Continuando diremo che un legame affettivo implica anche il desiderio di
mantenere la prossimità o il contatto con la persona preferita. Importante segnale di legame
affettivo è anche l’angoscia percepita in seguito ad una separazione involontaria dalla
persona. Il legame di attaccamento è definito da tutti questi elementi sovraesposti, più uno,
grazie al quale si può considerare un legame d’attaccamento come qualcosa di diverso da
altri legami affettivi. Infatti nel legame d’attaccamento l’individuo cerca sicurezza e
conforto nella relazione con quella specifica persona L’attaccamento è considerato
“sicuro’’ se un individuo ottiene sicurezza, e “insicuro’’ se non la ottiene (Ainsworth,
1989).
Ainsworth (ibidem) ha decritto il legame di attaccamento, in questi termini, come una
caratteristica interna dell’individuo. Questo legame non è così soltanto il legame originario
tra il bambino e il caregiver, ma un legame che ciascun individuo ha con altri individui
percepiti come più forti e più saggi, proprio come venivano percepiti i genitori
nell’infanzia.
A questo punto è importante sottolineare, come suggerisce Lichtenberg (1989), che
sarebbe un errore dare per scontato un isomorfismo assoluto, tra comportamento di
attaccamento e legame di attaccamento o ancor peggio ridurre l’attaccamento alla sola
manifestazione comportamentale. Infatti molti comportamenti possono servire a più di un
sistema motivazionale-comportamentale. Così per esempio, non tutti gli avvicinamenti
appartengono al sistema di attaccamento, ma possono anche esprimere un sistema
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esplorativo o sociale. Nello stesso modo, anche quando non rivolge il comportamento di
attaccamento verso i genitori, se ad esempio si trova in un ambiente confortevole con la
madre presente, il bambino è ugualmente attaccato. In questo caso evidentemente il
sistema di attaccamento non è attivato ad un livello tale da far scattare il comportamento di
attaccamento. Quindi si può concludere che l’attivazione del comportamento di
attaccamento è in gran parte situazionale; può o non può essere presente in ogni momento.
Tuttavia si ritiene che il legame di attaccamento sia costante nel tempo anche se non è
presente il relativo comportamento.
In conclusione è bene rimarcare come recentemente sia cambiato anche l’atteggiamento
degli studiosi nei confronti dello scopo del sistema d’attaccamento. Già Ainsworth (1989),
come abbiamo già accennato, considerava il senso di sicurezza e non la ricerca della
vicinanza, l’elemento peculiare in grado di descrivere un legame d’attaccamento.
Lichtenberg (1989) parla del “piacere dell’intimità”, facendo riferimento alla esperienza
soggettiva che l’individuo percepisce quando viene soddisfatto il sistema motivazionale
d’attaccamento. A questo proposito, anche Sroufe e Waters (1977) si pongono delle
domande: perché un bambino dovrebbe essere più addolorato durante una seconda
separazione che durante la prima? Perché la comunicazione da lontano con la figura
d’attaccamento dovrebbe essere rassicurante per un bambino? La loro risposta a tali
quesiti, indica nel “senso di sicurezza” lo scopo del sistema di attaccamento. Ainsworth
(1990), operando una sintesi di questi contributi, propone come scopo specifico del sistema
di attaccamento un fattore che secondo lei è sottostante sia al senso di sicurezza, sia alla
ricerca della vicinanza e cioè “la disponibilità di una figura di attaccamento responsiva’’.
Con questa posizione Ainsworth recupera anche una riflessione già compiuta da Bowlby
(1973) secondo il quale la sicurezza dell’attaccamento derivava dalla disponibilità
dell’altro nella relazione di attaccamento primaria. Sentimenti di sicurezza accompagnano
le valutazioni della disponibilità della figura di attaccamento e l’angoscia accompagna la
percezione di minaccia riguardo alla disponibilità. A queste considerazioni Bowlby
aggiunge anche che una “facile accessibilità’” non è sufficiente a dare sicurezza al
bambino, infatti un genitore può essere fisicamente accessibile ma “emotivamente
assente”; quindi, conclude Bowlby, il bambino ha bisogno di sentire che un genitore è non
solo accessibile ma anche responsivo. Questo aspetto della sicurezza è incluso nelle
conclusioni di Ainsworth, secondo la quale è la qualità delle interazioni quotidiane, e non
solo le separazioni maggiori, a influire sulle aspettative di attaccamento del bambino.
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MODELLI DI ATTACCAMENTO E STRANGE SITUATION
Molti e preziosi sono stati i contributi di Mary Ainsworth (1967, 1969, 1991) allo
sviluppo della teoria dell’attaccamento, ma forse quello a cui il suo nome viene più
frequentemente associato è quello relativo all’individuazione di diversi modelli di
attaccamento e al metodo per evidenziarli. Infatti le classificazioni attualmente esistenti
sui diversi tipi di attaccamento si basano sulle ricerche e sul modello di Ainsworth et al
(1978), che ha delineato una tipologia d’attaccamento, fondata sulla discriminazione
sicurezza/insicurezza. La “sicurezza dell’attaccamento” viene definita da Ainsworth,
Blehar, Waters e Wall (ibidem) come il sentirsi sicuri o l’essere senza preoccupazioni
riguardo alla disponibilità della figura di attaccamento. La sicurezza in quanto costrutto
non è direttamente osservabile e deve essere perciò inferita da ciò che è osservabile. Per
misurare allora questa variabile Ainsworth ha elaborato una situazione sperimentale da lei
definita Strange Situation, in cui vengono registrate le reazioni del bambino, generalmente
in età compresa tra i 12 e i 20 mesi, ad una serie di separazioni/riunificazioni con la madre,
in situazioni che sono progressivamente sempre più stressanti. Questa procedura standard
viene somministrata in un apposito laboratorio, allestito come una sala giochi, in cui si può
osservare e filmare, tramite uno specchio unidirezionale, quanto accade durante il
susseguirsi di otto episodi preordinati della durata di tre minuti ciascuno (tranne il primo
della durata di un minuto) organizzati intorno alle dinamiche di allontanamento e
riunificazione: In una prima separazione il bambino è lasciato solo con un estraneo, che
aveva, però, conosciuto
nell’episodio
precedente, in
compagnia
della madre;
successivamente, la madre rientra, dando vita alla prima riunione. In una seconda fase, il
bambino viene lasciato, sempre per tre minuti, completamente solo. A questa seconda
separazione che avviene nel corso del sesto episodio, segue un episodio in cui l’estraneo
entra nella stanza e rimane col bambino interagendo se necessario. Infine nell’ottavo
episodio il genitore ritorna e l’estraneo esce in silenzio, è quindi possibile osservare la
seconda riunione.
Il dispositivo sperimentale della Strange Situation è fondato sul presupposto che
l’intensità e la sicurezza dell’attaccamento si rivelino massimamente in situazioni
stressanti, come sono appunto le separazioni dalla madre, o anche l’incontro con una figura
estranea. L’analisi del comportamento durante i primi trenta secondi di entrambi i
ricongiungimenti fornisce le indicazioni più importanti per individuare uno stile
d’attaccamento. Questa metodica fu formulata come una procedura di laboratorio
60
controllata, in modo che le differenze individuali nel comportamento dei bambini potessero
essere evidenziate dal fatto che essi venivano esposti alla stessa situazione, con gli stessi
episodi, nello stesso ordine.
Il comportamento del bambino durante la riunione, viene poi codificato rispetto a
quattro parametri di interazione madre-bambino che vengono utilizzati nel processo di
classificazione: la ricerca della vicinanza, la ricerca del contatto, l’evitamento del
caregiver, la resistenza al contatto e all’interazione.
L’applicazione di questi parametri ai differenti comportamenti manifestati durante le
separazioni e soprattutto durante le riunificazioni con la madre, hanno condotto Ainsworth
et al (1978) a suddividere i bambini esaminati in tre gruppi principali: un gruppo “sicuro’’
(B) e due gruppi “insicuri’’, il gruppo evitante (A) e il gruppo “resistente’’ o
“ambivalente’’ (C). Vediamoli nel dettaglio:
Attaccamento sicuro (B)
La denominazione “sicuro’’ deriva dalla constatazione che il bambino appare fiducioso di ottenere,
dalla figura d’attaccamento, un’attenzione pronta, perciò si allontana senza timore da lei per
esplorare con sicurezza ambienti nuovi e si mostra socievole con gli estranei, quando sua madre è
presente. Il bambino quindi si serve della madre come base sicura per l’esplorazione. Quando lei si
allontana, nel corso della prima separazione e soprattutto nella seconda, il bambino dà segnali di
avvertire la mancanza del genitore e quindi protesta, piange e cerca il contatto della figura
d’attaccamento, finchè questa non ritorna e lo prende in braccio. Quando questo accade, nelle
situazioni di riunione, il bambino sicuro saluta in modo attivo il genitore con sorrisi, vocalizzazioni
o gesti, dopo di che si calma e ricomincia tranquillamente il gioco e l’esplorazione.
Attaccamento Insicuro-Evitante (A)
Questi bambini mostrano una esplorazione rigida dell’ambiente estraneo e sembrano indifferenti
alla figura d’attaccamento. Durante gli episodi di separazione il bambino risponde in maniera
minima, senza apparente disagio, quando viene lasciato solo. Quando la madre ritorna, il bambino
guarda altrove e volontariamente evita il genitore; spesso si concentra sui giocattoli. Se viene preso
in braccio il bambino può irrigidirsi e tentare di divincolarsi e spesso tende ad allontanarsi dal
genitore.
Attaccamento Insicuro-Ambivalente (C)
La maggior parte di questi bambini entra nella stanza dove si terrà l’osservazione, già visibilmente
a disagio, spesso irritati o passivi. Quando la figura d’attaccamento si allontana, essi protestano,
piangono intensamente e la loro protesta continua anche quando il genitore si riavvicina e li prende
61
in braccio. Molto spesso il bambino può alternare offerte di contatto con segnali di rifiuto, rabbia e
capricci; oppure appare passivo o troppo alterato per segnalare o stabilire un contatto. Tutto ciò
indica che questi bambini si oppongono alla rassicurazione della figura d’attaccamento e non
riescono a trovare conforto nella presenza del genitore.
Per concludere, citiamo brevemente che nel lavoro di Ainsworth et al. (1978), da cui è
stata tratta la precedente classificazione, sono presenti le istruzioni necessarie per designare
anche dei sottogruppi per ciascuna categoria. Ad esempio, l’attaccamento sicuro o B è
suddiviso nelle sottoclassi B1, B2, B3 e B4. Il sottogruppo B3 rappresenta il prototipo del
bambino sicuro che abbiamo già visto. I bambini B1 e B2 presentano qualche aspetto del
comportamento evitante: mentre i B1 non richiedono il contatto fisico in nessuno dei due
ricongiungimenti, ma si accontentano di una interazione a distanza di tipo vocale, i B2
sono invece decisamente evitanti durante la prima riunione, tuttavia manifestano un
comportamento di attaccamento ad alta intensità nel secondo ricongiungimento. I bambini
B4 sono i più apprensivi rispetto alla presenza o meno della figura di attaccamento e già
nei primi episodi possono manifestare un certo grado di paura, esplorando meno rispetto
agli altri bambini del gruppo B e richiedono più attenzioni affinchè si calmino dopo le
separazioni per poi riprendere ad esplorare.
Anche l’attaccamento insicuro-ambivalente o C può essere scomposto in due
sottoclassi, C1 e C2. Mentre i bambini C1 sono più attivi e vanno incontro al genitore
durante le riunioni, quelli classificati come C2, sono passivi e si limitano a piangere,
tenendo le braccia come se chiedessero di essere presi, restando però seduti. Una volta
presi in braccio, però, i bambini di entrambi i sottogruppi C si divincolano, allontanandosi
col corpo dal genitore e sporgendosi all’indietro.
LE CONFIGURAZIONI DI ATTACCAMENTO VISTE DALL’INTERNO
Nella Strange Situation i bambini vengono assegnati alle diverse categorie in base a
come si comportano nelle circostanze di allontanamento/riunione. Questo però non deve
farci dimenticare che questa situazione sperimentale è un dispositivo inferenziale e cioè ha
lo scopo, partendo da comportamenti manifesti, di descrivere strutture cognitivo-affettive
interiorizzate che mediano il vissuto del bambino nei confronti delle proprie figure di
attaccamento.
I modelli individuali di attaccamento sono stati divisi, a grandi linee, in due categorie:
“sicuri’’ e “insicuri’’ (Ainsworth et al., 1978). Questi due termini non descrivono
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semplicemente i comportamenti manifesti del bambino, ma descrivono piuttosto l’evidente
percezione di quest’ultimo circa la disponibilità della figura d’attaccamento in caso di
necessità. A ciascun tipo di attaccamento corrisponde uno specifico “modello operativo
interno’’ che secondo Bowlby e Ainsworth equivale ad una immagine interna che ogni
bambino si è fatto della madre e di se stesso e che scaturisce dalla storia delle cure
ricevute. I bambini sicuri hanno un modello della madre come persona disponibile e degna
di fiducia e un corrispondente modello di Sé come persona meritevole di amore e
attenzione (Cassidy, 1988). Viceversa, i bambini insicuri valutano la madre come
inaffidabile e se stessi come indegni di amore. Secondo questo modello le aspettative
sociali che gli individui si creano, sono un riflesso abbastanza accurato delle esperienze
infantili di attaccamento.
Quando, in seguito ad una situazione minacciosa, emergono sentimenti di apprensione, i
bambini con attaccamento sicuro sono capaci di dirigere i comportamenti di attaccamento e
di ricevere conforto nella rassicurazione offerta dal genitore. Questi bambini possiedono
una immagine interna di responsiva e sensibile disponibilità delle proprie figure
d’attaccamento e conseguentemente sono fiduciosi nelle proprie interazioni con il mondo
circostante, come si nota da uno spiccato comportamento esplorativo. Questa fiducia non
fa parte dell’esperienza dei bambini che hanno relazioni d’attaccamento insicure con i loro
genitori, in quanto non hanno sperimentato la disponibilità costante ed il conforto quando
l’ambiente è percepito pericoloso. Il risultato di queste storie evolutive è la paura radicata
in questi bambini che le persone che si prendono cura di loro non rispondano o siano
incapaci di rispondere adeguatamente nel caso loro ne avessero bisogno. Quando non c’è
un apparente pericolo nell’ambiente, alcuni bambini insicuri possono continuare ad
indirizzare i propri comportamenti verso il genitore, ma quando la minaccia è percepibile,
molti di loro possono essere incapaci di rivolgere comportamenti di attaccamento adeguati
verso quelle figure di attaccamento che non state affidabili in passato. Ciò che i bambini si
aspettano è ciò che è accaduto prima.
VARIABILI CONNESSE CON GLI STILI DI ATTACCAMENTO
La teoria dell’attaccamento così come è stata espressa chiaramente da Bowlby e
Ainsworth, fornisce alcune predizioni chiave rispetto alla relazione tra sicurezza e altre
variabili che sono centrali alla teoria stessa. Vediamo ora di approfondire nel dettaglio
alcune di queste variabili particolarmente significative.
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Sicurezza dell’attaccamento e accessibilità della figura materna
Mentre il pensiero originario di Bowlby (1973) si concentrava sulle separazioni
drammatiche dai genitori nell’infanzia, Ainsworth (1978) ha dedicato i propri sforzi
empirici e teorici all’individuazione dei fattori che determinano un attaccamento sicuro o
insicuro. Anche se ella non ha mai dichiarato che lo sviluppo della relazione madrebambino è determinato interamente dalla madre, era però convinta che la relazione in
questione non fosse formata in modo uguale dai due partner.
Generalmente, le caratteristiche materne sono state valutate osservando l’interazione
madre-bambino in casa o in laboratorio, prima o dopo aver valutato la qualità
dell’attaccamento nella Strange Situation. In questo modo sono state così identificate
specifiche categorie di comportamento materno, messe poi in rapporto col tipo di
attaccamento del bambino. Ainsworth (1978) a questo proposito ha anche elaborato delle
scale per valutare la sensibilità/insensibilità materna, l’accettazione o il rifiuto, la
cooperazione contrapposta all’invadenza, la disponibilità oppure l’assenza. Queste variabili
secondo la studiosa canadese, discriminano il comportamento delle madri dei bambini con
diverso tipo di attaccamento. Le madri dei bambini che successivamente sarebbero stati
classificati come sicuri, risultarono più sensibili alle richieste del bambino di vicinanza e
contatto, più reattive ed incoraggianti nell’interazione faccia a faccia, più calde e più
accettanti nei dialoghi col bambino, rispetto alle madri dei bambini insicuri (Terlato,
1988). Per queste ultime si parla solitamente di una scarsa disponibilità psicologica che
assume però forme diverse rispetto al tipo di attaccamento mostrato dal bambino. Infatti la
figure di attaccamento di bambini evitanti, mostrano generalmente un rifiuto a rispondere
alle richieste di protezione ed affetto del piccolo. La loro mimica nell’esprimergli emozioni
è rigida, povera e spesso affermano di sentirlo come un peso, un ostacolo. Le richieste del
piccolo sembrano degli insensati “capricci” a cui non rispondere per non creare un
bambino “viziato” (Liotti, 1992). Invece i genitori di bambini insicuri-ambivalenti danno
risposte imprevedibili alle richieste d’attaccamento dei piccoli: a volte non danno alcun
conforto e li lasciano a se stessi, altre volte rispondono prontamente al loro pianto o si
mostrano persino ipercontrollanti ed intrusivi nei loro confronti, bloccandone il gioco e
l’esplorazione autonoma (ibidem). Il bambino non è considerato un centro autonomo
d’iniziative dotate di significato e di valore, ma un oggetto passivo da controllare per
evitare che procuri emozioni spiacevoli, o da utilizzare per ricavare emozioni piacevoli.
Secondo alcuni autori (Goldsmith e Alansky, 1987), però, l’origine della
sicurezza/insicurezza dell’attaccamento non risiederebbe nelle cure materne, ma nelle
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caratteristiche temperamentali del bambino. Questa scuola di pensiero sostiene che il
temperamento di un bambino influisce direttamente, tramite il suo impatto nell’interazione
con la madre, sullo sviluppo del rapporto di attaccamento ed è la determinante principale
delle variazioni individuali circa la sicurezza. Uno dei fattori temperamentali più studiati è
la tolleranza allo stress. Secondo questa prospettiva un comportamento di resistenza del
bambino alla Strange Situation non esprime un certo modello operativo interno, ma una
certa suscettibilità temperamentale allo stress. Sebbene questi contributi sottolineino
l’importanza dell’apporto di entrambi i partners alla definizione dei pattern individuali di
attaccamento, l’importanza del comportamento della figura di attaccamento sul polo
sicurezza/insicurezza è ormai supportato da molte evidenze.
Stabilità dei modelli di attaccamento
Gran parte della ricerca sull’attaccamento si è focalizzata sulla verifica di un punto
specifico del pensiero di Bowlby (1980), che sottolinea la continuità dei “modelli
operativi’’ elaborati nella prima infanzia per le figure di attaccamento. Malgrado cambino i
comportamenti con cui si manifesta, la relazione di attaccamento secondo Bowlby rimane
immutata nel corso del tempo ed influenza selettivamente le esperienze successive del
bambino, attraverso i modelli stabili di rappresentazione che egli costruisce di sé e degli
altri. Recenti contributi (Thompson 1999) però, mettono in guardia nel considerare quello
della stabilità dell’attaccamento come un assioma assoluto. Infatti, poiché i modelli
operativi vengono continuamente modificati e aggiornati nel corso dello sviluppo, il loro
impatto sul funzionamento psicosociale di un bambino di qualsiasi età dipende anche dalla
sicurezza della relazioni in quel particolare momento. Ad esempio un attaccamento sicuro
all’età di sei anni può essere più predittivo rispetto alle rappresentazioni di sè di un
attaccamento sicuro nella prima infanzia dato che gli aspetti rappresentazionali dei modelli
operativi sembrano espandersi proprio in questo particolare periodo. Questa osservazione
ci riconduce al fatto che i modelli operativi sono formati da almeno quattro sistemi
rappresentazionali, ognuno con il suo programma di sviluppo e con il proprio periodo di
influenza critica. Questi sistemi sono: (1) le aspettative sociali verso le figure di
attaccamento formatesi durante il primo anno; (2) le rappresentazioni di eventi associati
alle esperienze di attaccamento depositati nella memoria a lungo termine a iniziare dal
terzo anno; (3) ricordi autobiografici dove questi eventi sono inseriti all’interno di una
narrativa personale ad iniziare dal quarto anno; (4) comparsa di una “teoria della mente’’ a
partire dai tre anni (Bretherton e Munholland, 1999). In poche parole, la ricerca mostra che
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le esperienze del bambino con la propria figura di attaccamento avranno effetti a lungo
termine diversi, a seconda delle modalità con cui il bambino organizza nella mente tali
esperienze.
Un altro garante della stabilità delle configurazioni di attaccamento è rappresentato
dalla relazione attuale genitore bambino. Se, infatti, quelle cure sensibili che inizialmente
contribuiscono ad un attaccamento sicuro vengono mantenute, con grande probabilità il
modello di attaccamento rimarrà stabile nel tempo. Può accadere però che l’armonia della
relazione genitore bambino nel corso del tempo subisca alterazioni. Le normali
competenze sempre nuove, ad esempio, che emergono nel bambino portano a esigenze
diverse e richiedono nuove abilità al genitore, il quale a sua volta può cambiare sotto la
pressione degli eventi di vita. Quindi quei genitori che non hanno avuto problemi ad
occuparsi di un neonato totalmente dipendente, potrebbero incontrare difficoltà ad entrare
in contatto con un bambino autonomo che esprime esigenze ben precise. Quindi se la
relazione genitore-bambino si modifica nel corso del tempo potrebbe essere rischioso fare
previsioni
sul
futuro funzionamento
psicosociale dell’individuo partendo dalle
configurazioni di attaccamento descritte ad esempio a dodici mesi.
In conclusione è necessario sottolineare che la compresenza di studi (Grossman e
Grossman, 1991) che affermano la continuità tra le categorie individuate nella prima
infanzia e quelle riscontrate in una successiva misurazione accanto a studi (Egeland e
Sroufe, 1981) più scettici rispetto alla capacità predittiva dei primi attaccamenti non deve
far pensare ad uno stato di confusione della ricerca, quanto al fatto che la costruzione dei
modelli operativi è un processo sottoposto a continua rettifica ed intrecciato in modo
complesso con l’ambiente di adattamento del bambino.
Attaccamento e Sviluppo successivo
Come abbiamo accennato nel paragrafo precedente, sarebbe quanto meno ingenuo
aderire ad un modello che vede una relazione unilaterale e coattiva tra assetto psicologico
precoce e sviluppo successivo, a discapito di una impostazione che consideri il
comportamento come una sintesi complessa tra adattamenti passati ed attuali circostanze.
La stessa prudenza teorica è auspicabile in questo campo dove forte è la tentazione di
spiegare con le diverse configurazioni dell’attaccamento precoce, l’intero sviluppo della
personalità. Infatti una grande varietà di comportamenti è stata messa in relazione alla
sicurezza dell’attaccamento a partire dalle capacità sociali e il funzionamento cognitivo
fino alla comprensione di se stessi e alle capacità linguistiche. Come poc’anzi accennato è
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necessario in questo settore della ricerca non arroccarsi dietro facili posizioni ideologiche e
domandarsi in quali campi del comportamento i ricercatori dovrebbero essere in grado di
predire forti associazioni tra attaccamento ed il comportamento successivo del bambino
prima e dell’adolescente poi, e dove invece è legittimo aspettarsi associazioni più deboli o
addirittura inesistenti. Questo interrogativo però non è di facile soluzione in quanto i teorici
dell’attaccamento sono in disaccordo riguardo agli aspetti comportamentali più
direttamente pertinenti ai processi dell’attaccamento: è possibile distinguere tra descrizioni
più circoscritte delle conseguenze dell’attaccamento e descrizioni più ampie. Secondo le
posizioni più prudenti, l’attaccamento sicuro dovrebbe essere in grado di determinare la
fiducia che il bambino ha del genitore in un periodo di tempo successivo e forse anche la
fiducia nei futuri partners sentimentali. Secondo un punto di vista meno circoscritto invece
l’attaccamento sarebbe alla base della socievolezza del bambino e della sua comprensione
degli altri, fino ad arrivare allo sviluppo di abilità cognitive, della regolazione affettiva e
dello stile comunicativo.
A complicare il tutto poi, interviene la normale prudenza metodologica, in quanto anche
quando viene ipotizzato che la sicurezza dell’attaccamento abbia una forte associazione
causale con un certo comportamento, l’associazione può non risultare immediatamente
evidente poiché i comportamenti sono determinati da molte variabili diverse. Sebbene, per
esempio un attaccamento insicuro nel corso della prima infanzia possa contribuire
all’insorgenza di problemi comportamentali nella scuola materna, molti altri fattori
nell’esperienza vissuta dal bambino e nell’ecologia sociale possono portare al medesimo
risultato. Tutto questo rende gli studi longitudinali che prevedono come singola variabile
predittiva la sicurezza dell’attaccamento come sostanzialmente deboli per quanto riguarda
il potere predittivo; ciò significa che il rapporto teorico tra l’attaccamento infantile e il
futuro funzionamento psicologico non è né chiaro, né semplice, né diretto, ed è quindi
necessaria una certa cautela soprattutto nell’associare la sicurezza nell’attaccamento con
certi fenomeni comportamentali non strettamente riguardanti l’intimità nelle relazioni
affettive e sessuali.
Presentiamo ora alcuni dati riferiti al rapporto tra attaccamento e sviluppo nelle età
successive.
Secondo uno studio di Sroufe, Fox e Pancake (1983), i bambini con attaccamento sicuro
mostrano una minore dipendenza emotiva dai loro insegnanti della scuola materna, rispetto
ai bambini classificati come insicuri, dove la dipendenza emotiva viene inferita da
comportamenti come la ricerca continua di essere guidati dall’insegnante e il bisogno
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costante della sua attenzione. In età prescolare i bambini sicuri tendono alla comunicazione
aperta e diretta, al negoziato e allo scambio affettivo con le figure d’attaccamento.
Manifestano infatti ai genitori sia i sentimenti negativi che quelli positivi, e mostrano il
proprio interesse a mantenere la relazione. Questi bambini sono in grado di regolare in
modo flessibile le emozioni in rapporto alle contingenze ambientali. In questo contesto la
disponibilità che ottengono dai genitori è un rinforzo al loro senso di efficacia nel
modulare gli stati affettivi (Cassidy, 1994). A 6 anni, in ambiente scolare, questi bambini
sono collaborativi con i coetanei come con gli insegnanti e giocano con piacere insieme
agli altri. Nei confronti di coetanei che piangono o soffrono si mostrano solleciti o
quantomeno sono capaci di tollerarne le espressioni emozionali senza irritazione.
Gli adolescenti con attaccamento sicuro sono consapevoli di sé e delle proprie
esperienze di attaccamento e dell’influsso che queste hanno avuto sullo sviluppo della
propria identità. Sono anche in grado di fornire delle rappresentazioni coerenti di sé, hanno
fiducia in se stessi ed una buona capacità introspettiva (Bartholomew e Horowitz, 1991).
I bambini con attaccamento di tipo A invece si mostrano emotivamente dipendenti dagli
insegnanti di scuola materna, anche se spesso ricercano il contatto in modo indiretto e solo
se il livello di stress è basso (Sroufe, Fox, Pancake, 1983). Questi bambini in età
prescolare, tendono a inibire sia l’espressione di emozioni negative come paura, tristezza e
angoscia, sia l’espressione della gioia (Cassidy, 1994). In ambiente scolastico a 6 anni sono
meno socievoli, meno collaborativi e meno capaci di comprendere e tollerare l’espressione
della sofferenza negli altri bambini. Tendono inoltre al perfezionismo e mostrano una
idealizzazione difensiva di sé e dell’altro. Quando raggiungono l’adolescenza tendono a
negare il bisogno di essere protetti, mostrando di essere emozionalmente autosufficienti,
inoltre forniscono descrizioni delle proprie storie di attaccamento meno coerenti, integrate
e logiche, negando l’influsso che queste esperienze hanno avuto sullo sviluppo di sé (Main
e Goldwyn, 1994). Questi ragazzi inoltre hanno difficoltà a creare legami intimi, ad
adattarsi a situazioni nuove e a richiedere il supporto alle figure significative
(Bartholomew e Horowitz, 1991).
Infine i bambini classificati di tipo C sono molto dipendenti dalle loro insegnanti alla
scuola materna, restano spesso vicino a loro durante il gioco e non sanno portare a termine
in modo autonomo nessuna attività senza l’aiuto di un adulto (Sroufe, Fox, Pancake, 1983).
In età prescolare manifestano parzialmente i propri sentimenti e cercano di influire sulle
proprie figure d’attaccamento con comportamenti controllanti come ad esempio
atteggiamenti di incapacità e inconsolabilità, timidezza e ritrosia. I sentimenti che
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esprimono con maggior frequenza sono in prevalenza di tipo negativo come per esempio
una paura costante ed esagerata (Cassidy, 1994). Anche questi adolescenti forniscono
descrizioni delle proprie esperienze di attaccamento meno coerenti, logiche ed integrate
rispetto ai coetanei con attaccamento sicuro. Quando parlano del proprio passato, il loro
atteggiamento contraddice i ricordi, evidenziando ancora una notevole ambivalenza
emotiva rispetto a tali esperienze e all’influenza che hanno avuto su di loro (Main e
Goldwyn, 1994). Come i ragazzi evitanti, trovano difficoltà a creare legami intimi e
mostrano disagio e ansia nelle situazioni interpersonali (Bartholomew e Horowitz, 1991).
NON C’E TRE SENZA QUATTRO
Main e Solomon (1990) hanno proposto per primi una nuova categoria di
comportamento infantile alla Strange Situation, definito dagli stessi
autori come
“Disorganizzato/disorientato’’. L’osservazione che ha spinto i due studiosi a concepire una
nuova categoria consiste nel fatto che alcuni bambini, provenienti sia da campioni a basso
rischio, ma soprattutto da quelli ad alto rischio (come ad esempio i bambini maltrattati),
risultavano “inclassificabili’’ secondo il sistema A, B, C di Ainsworth et al. (1978). Di qui
allora la necessità di produrre una nuova categoria che tenesse conto di questa porzione di
variabilità non spiegata dalla classificazione tripartita. Ciò che questi bambini
“inclassificabili’’ avevano in comune era la manifestazione, negli episodi di
allontanamento/riunione, di una serie di modelli comportamentali incoerenti, strani,
disorganizzati o apertamente conflittuali. Esaminando quindi il comportamento di questi
bambini nella situazione sperimentale, il tema che più colpì gli osservatori fu la
disorganizzazione o la manifesta contraddizione nel movimento, che sembrava
corrispondere a una contraddizione nell’intenzione o nel piano comportamentale. Molti di
questi bambini però, oltre alla disorganizzazione, mostravano un profondo disorientamento
rispetto all’ambiente circostante (come ad esempio rimanere immobilizzato con un
espressione stupefatta) tanto da convincere i due studiosi ad inserire questa modalità nella
denominazione stessa della categoria. Main e Solomon (ibidem) pur consapevoli di non
poter compilare un elenco esaustivo di tutti i comportamenti disorganizzati, hanno però
proposto sette raggruppamenti in grado di ricoprire abbastanza fedelmente la
fenomenologia dei comportamenti “inclassificabili“.
1) Manifestazione sequenziale di modelli di comportamento contraddittori: il bambino
prontamente saluta il genitore che ritorna, manifestando il desiderio di essere preso in
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braccio, sollevando le braccia e correndogli incontro, ma poi all’improvviso cambia
atteggiamento diventando triste ed evitante.
2) Manifestazione simultanea di modelli di comportamento contraddittori: durante il
ricongiungimento certi bambini si avvicinano al genitore camminando all’indietro oppure
con la testa voltata da un’altra parte o ancora alzandosi in piedi per accogliere il genitore,
ricadevano proni sul pavimento.
3) Movimenti ed espressioni non diretti, mal diretti, incompleti, interrotti: Un
movimento di riavvicinamento può essere interrotto a metà da una esplosione di rabbia, ad
esempio verso un giocattolo o verso il pavimento; o ancora si allontanavano dal genitore
andando verso il muro quando sembravano spaventati dall’estraneo.
4) Stereotipie, movimenti asimmetrici, posizioni anomale: quando non sono dovute a
disfunzioni neurologiche, il ciondolarsi e il tirarsi i capelli sono considerati degli indici di
stress, soprattutto quando insorgono nei momenti di ricongiungimento.
5) Congelamento, immobilità, espressioni e movimenti rallentati: quando la madre
ritorna, molti di questi bambini piangono ad alta voce mentre cercano di raggiungerla, per
poi tacere improvvisamente e rimanere “congelati’’ e immobili per diversi secondi. Altre
volte invece interrompono un movimento restando poi immobili per diversi secondi in una
posizione vigile che richiede un certo sforzo contro la forza di gravità.
6) Indici diretti di apprensione riguardante il genitore: certi bambini si avvicinano al
genitore in modo esitante e poi se ne allontanano con le spalle sollevate o portandosi le
mani in bocca e piangono rimanendo ad una certa distanza, esibendo espressioni facciali
impaurite e cariche di angoscia.
7) Indici diretti di disorganizzazione e disorientamento: molti bambini reagiscono alla
separazione con vocalizzi indefinibili, che sembrano una forma confusa e incompleta di
protesta; quando la madre ritorna, possono andarle incontro con la testa voltata dall’altra
parte, oppure con lo sguardo assente o fisso come fossero in trance sospesi tra il senso di
sicurezza e la paura di qualcosa di terribile e molto doloroso.
Main e Solomon (1990) partendo da queste osservazioni si sono domandati in che modo
si potesse strutturare una risposta di questo tipo all’interno della relazione genitorebambino. Partendo dal fatto che la maggior parte dei bambini maltrattati presentavano
questo tipo di attaccamento i due ricercatori ipotizzarono che questo tipo di organizzazione
comportamentale fosse associata ai comportamenti genitoriali che suscitano paura. Il
bambino può vivere con angoscia la relazione con il proprio genitore sia perché questo è
apertamente maltrattante e abusante, sia perché il genitore stesso è traumatizzato e
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impaurito nell’interazione con il bambino. Infatti le figure di attaccamento di questi
bambini rispondono in modo incoerente e confondente alle loro richieste di protezione e
affetto, mostrando ad esempio con la mimica facciale dolore e paura di fronte al pianto
oppure indietreggiando di fronte al bambino che lo segue pregandolo di non avvicinarsi o
ancora assumendo espressioni impaurite quando il bambino si protende verso il viso del
genitore (Liotti, 1992). Altre volte invece questi genitori sono più attivamente minacciosi
mettendo in atto sequenze di inseguimento-caccia nei confronti del bambino; posizioni o
improvvisi gesti minacciosi; invasioni imprevedibili dello spazio personale del bambino,
come far scivolare silenziosamente da dietro le mani sulla sua gola o comparire
all’improvviso di fronte al bambino (Main e Hesse, 1992). Basandosi su queste
informazioni Main et el. (1992) hanno suggerito che una figura di attaccamento che suscita
paura pone al bambino un paradosso irrisolvibile a livello comportamentale in quanto la
figura da cui egli fugge perché fonte di pericolo è la stessa a cui deve rivolgersi per avere
un rifugio sicuro. Proprio perché non risolvibile a livello comportamentale questo
paradosso conduce alla disorganizzazione. Nondimeno anche il comportamento genitoriale
impaurito pone il bambino in una situazione irrisolvibile, infatti una figura di attaccamento
impaurita senza che siano chiari i motivi di questa paura, e che oltretutto mentre, segnala la
presenza di un pericolo mostra contemporaneamente il desiderio di evitare la vicinanza del
bambino, toglie al bambino la possibilità di mettere in atto una coerente strategia
comportamentale conducendolo a comportamenti disorganizzati/disorientati.
Anche se è stata raggiunta, in una serie di studi successivi (Main e Solomon, 1990),
un’alta
attendibilità
nella
classificazione
dei
modelli
comportamentali
disorganizzati/disorientati, alcuni autori, tra cui Crittenden (1992) offrono una definizione
in qualche modo differente dei bambini che erano stati considerati all’origine
“inclassificabili’’. In modo analogo a Main e ai suoi colleghi, ha evidenziato che alcuni di
questi bambini esprimono un misto di strategie evitanti e resistenti, tuttavia li assegna a
una categoria “difensivi/coercitivi” e suggerisce che molti di loro manifestano un modello
di
attaccamento
organizzato,
poiché
stanno
strategicamente
adattando
il
loro
comportamento alle limitazioni presenti nella relazione di accudimento.
Da una prospettiva longitudinale, alcuni studi (Main e Cassidy, 1988), hanno dimostrato
che il comportamento disorganizzato all’età di un anno, si modifica a 6 anni in
comportamento “controllante”. Questi bambini mostrano un bisogno compulsivo
di
controllare il genitore, sia in senso punitivo che accudente, negando quindi i propri bisogni
di cura e attenzione. Sembra che debbano smettere di mostrare attaccamento verso gli altri,
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perché sono loro a dover rappresentare per gli altri una figura d’attaccamento. Nel corso
dello sviluppo questi bambini arrivano a rappresentare una base sicura per gli altri membri
della famiglia e per gli amici più intimi. Offrono il loro aiuto agli altri con molto piacere,
ma sono riluttanti a mostrare le loro debolezze e a chiedere aiuto a loro volta. Gli
adolescenti con attaccamento di tipo D (Bartholomew e Horowitz, 1991) hanno una minore
auto consapevolezza rispetto alle persone con attaccamento sicuro e minore coerenza del
Sé. Sono consapevoli in genere delle proprie problematiche interpersonali e mostrano
minore autostima e fiducia in se stessi rispetto ai coetanei classiificati nei tre modelii più
frequenti.
ATTACCAMENTO IN ETA’ ADULTA
In una prima fase la ricerca sull’attaccamento ha seguito la prima focalizzazione di
Bowlby e di Ainswoth sui bambini e ha esplorato le complesse dinamiche interattive che si
realizzano tra comportamento di attaccamento esibito dal bambino e le più diverse risposte
parentali. A partire, però, dalla metà degli anni Ottanta ha preso vita un interessante filone
di studi avente lo scopo di esaminare il sistema d’attaccamento nella seconda infanzia e
nell’età adulta. Lo spostamento dell’interesse teorico e sperimentale dall’infanzia all’età
adulta, che qui prenderemo in esame, è avvenuto sotto la spinta di due idee guida tra loro
intrecciate: la consapevolezza che l’attaccamento è un sistema attivo per tutta la vita e
l’importanza sempre maggiore data ai modelli operativi interni. Questo interesse della
ricerca verso le dinamiche di attaccamento in età matura ha prodotto contributi diversi e
promettenti. Alcuni studiosi, come ad esempio Weiss (1991) hanno cercato di mettere in
risalto le caratteristiche di attaccamento dei legami affettivi adulti, mentre altri invece si
sono cimentati nella sfida di mettere a punto uno strumento di misura in grado di
operazionalizzare l’attaccamento adulto, così come la Strange Situation di Ainsworth
aveva fatto per quello infantile. Quest’ ultima serie di sforzi ha prodotto uno strumento che
ha allargato gli orizzonti della teoria ed ha fornito una nuova chiave di lettura per la
trasmissione intergenerazionale dei modelli di relazione: la Adult Attachment Interview
(AAI).
La AAI si è sviluppata con lo scopo di completare quello che nel dispositivo di
Ainsworth era mancante, e cioè l’attenzione per il livello rappresentazionale del soggetto.
Prima della messa a punto della AAI infatti, non era ancora stato pienamente compreso che
il probabile mediatore delle differenze del comportamento di accudimento del genitore
72
risiedesse nei suoi processi rappresentativi, né questi erano accessibili alla ricerca. Il
protocollo della AAI è stato sviluppato a metà degli anni ottanta da George, Kaplan e Main
(1985) e comprendeva anche un sistema di codifica e un sistema di classificazione (Main e
Goldwyn, 1994). L’AAI è un’intervista semistrutturata della durata di circa un’ora, formata
da diciotto domande, che hanno lo scopo di indagare nel modo più completo possibile, non
solo le esperienze di attaccamento vissute dal soggetto, ma soprattutto il modo in cui egli le
racconta e le ricorda. L’intervista comincia con un invito a descrivere in generale il
rapporto con i genitori nell’infanzia cui segue la richiesta di cinque aggettivi che possono
descrivere al meglio la relazione con ciascun genitore. Subito dopo, all’intervistato viene
chiesto di circostanziare questi aggettivi con degli episodi specifici. Il protocollo prosegue
con le domande relative a cosa faceva l’intervistato quando era turbato emotivamente,
ferito fisicamente o malato e a come reagivano i suoi genitori a tutto questo. Il soggetto
viene inoltre interrogato sulle separazioni importanti come anche sulle eventuali esperienze
di rifiuto, sulle minacce rispetto alla disciplina e su ogni esperienza di abuso.
All’intervistato vengono quindi domandati gli effetti di queste esperienze sulla sua
personalità adulta e perché pensa che i genitori si siano comportati come hanno fatto. La
parte finale del protocollo dell’AAI riguarda le esperienze di perdita dovute alla morte di
persone significative, esperienze che vengono passate in rassegna in merito alle reazioni
suscitate nell’intervistato, ai cambiamenti dei sentimenti nel corso del tempo e agli effetti
sulla personalità adulta. Per concludere viene chiesto al soggetto quali pensa essere stati gli
effetti delle proprie esperienze infantili sul suo comportamento come genitore e di quali
desideri nutre nei confronti del proprio figlio o figlia. La narrazione che ne deriva viene
trascritta ed esaminata per il suo contenuto così come viene espresso direttamente dal
soggetto, ma anche per le qualità non intenzionali del discorso come ad esempio la
coerenza e le eventuali incongruenze. Infatti il ritmo dell’intervista e la complessità delle
domande forniscono agli intervistati ampie opportunità di contraddirsi, di non riuscire a
rispondere ad alcune domande o di spingersi in discussioni eccessivamente lunghe e non
pertinenti. Il compito da affrontare quindi per un intervistato è quello di ricordare e
riflettere sulla propria storia di attaccamento riuscendo allo stesso tempo a mantenere un
discorso coerente e collaborativo con l’intervistatore. A questo proposito possiamo
sintetizzare i fattori che sono alla base della misurazione in: 1) qualità delle esperienze
vissute dall’individuo durante l’infanzia; 2) linguaggio usato durante l’intervista; 3)
coerenza e integrazione del discorso. Gli ultimi due punti, il linguaggio e lo stile del
discorso,
vengono
considerati
come
indicatori
dello
“stato
mentale”
rispetto
73
all’attaccamento (Main e Goldwyn, 1994). In sostanza dunque ci sono due gruppi di scale,
un primo che valuta il comportamento del genitore in base ai ricordi del soggetto, e un
secondo che misura lo stato mentale. Le 5 scale che indicano la “probabile esperienza”
infantile del soggetto con il padre e la madre considerati separatamente, sono:
amorevolezza, rifiuto, pressione a raggiungere obiettivi, inversione dei ruoli e
coinvolgimento, trascuratezza. Le 9 scale che misurano lo stato mentale valutano lo stile e
la coerenza del discorso basandosi su: idealizzazione, svalutazione dell’attaccamento,
incapacità di ricordare, rabbia, mancata risoluzione di lutti e/o traumi, passività del
pensiero, coerenza della mente, coerenza del trascritto e il monitoraggio metacognitivo. I
punteggi derivanti dalle scale appena menzionate, vengono utilizzati per assegnare un
soggetto adulto ad una delle quattro classificazioni principali:
Sicuro/autonomo rispetto all’attaccamento (F)
Questi soggetti producono un discorso con buona coerenza interna e si mostrano collaborativi con
l’intervistatore. Danno valore all’attaccamento indipendentemente dal fatto che le esperienze
raccontate siano favorevoli o meno. Seguendo questo sistema di regole quindi sarà valutato
sicuro/autonomo anche un soggetto che racconti di abusi fisici o sessuali subiti da un genitore,
purchè la sua narrazione sia coerente. Questo è possibile perché egli è relativamente indipendente
e “autonomo’’ rispetto alla relazione ed in grado di esplorare senza troppa difficoltà pensieri e
sentimenti durante l’intervista. Inoltre nel resoconto di queste persone è apprezzabile una certa
linearità tra giudizi e ricordi; ad esempio se i genitori sono descritti come affettuosi, ci sono ricordi
sufficienti a suffragio di questa impressione, così come nel caso in cui i genitori siano raffigurati
negativamente. Infine questi soggetti mostrano spesso una buona capacità di monitoraggio
metacognitivo del pensiero e del ricordo che consente loro di commentere con un certo distacco
contraddizioni logiche, pregiudizi erronei o la fallibilità della prospettiva personale.
Distanziante-Svalutante rispetto all’attaccamento (Ds)
Un intervista è classificata “distanziante’’, quando il soggetto tende a minimizzare e a considerare
con distacco le proprie relazioni di attaccamento. Questi trascritti molto spesso sono al proprio
interno incongruenti, quando ad esempio non riescono a produrre un ricordo specifico legato ad un
giudizio precedentemente espresso. Infatti questi soggetti molto frequentemente presentano delle
idealizzazioni delle proprie figure genitoriali (“mia madre è una persona eccezionale’’) non
comprovate o, a volte addirittura contraddette, dagli episodi raccontati. Non è raro infatti per gli
individui distanzianti rispondere alle domande successive dell’intervista in modi chiaramente
discordanti con l’impressione positiva presentata all’inizio. C’è quindi in questi protocolli un
implicita affermazione di forza, normalità, i genitori, come abbiamo visto sono spesso presentati in
74
termini molto positivi, ma nonostante questo lo stato mentale dell’intervistato sembra indicare un
tentativo di limitare l’influenza delle relazioni di attaccamento sui pensieri e sui sentimenti. Se
invece, come a volte capita, qualcuno di questi soggetti riconosce la presenza di elementi negativi
nell’accudimento ricevuto, questi effetti vengono sminuiti e minimizzati. Altro elemento che
conferma la forte conflittualità che questi soggetti provano nei confronti dell’attaccamento è la
rilevante frequenza dei “Non ricordo’’ che nasconde tutta l’amarezza derivata dal fatto di avere un
genitore che ha deluso le aspettative.
Preoccupato-Invischiato nelle passate esperienze di attaccamento (E)
La caratteristica peculiare dei soggetti appartenenti a questa categoria è quella, appunto, di essere
preoccupati, invischiati, dalle passate esperienze di attaccamento. Essi producono narrazioni
spesso, ma non necessariamente, incoerenti; quello però che più distingue queste narrazioni è la
mancata collaborazione con l’intervistatore. L’intervistato è spesso incapace di mantenere un tema
o di limitare la sua risposta ad una data domanda; i ricordi evocati più che la domanda sembrano
attrarre l’attenzione del soggetto e guidare il suo discorso. Questi adulti mostrano confusione e
continue oscillazioni nella descrizione degli eventi passati e le descrizioni dei rapporti con i
genitori sono intrise di passività e rabbia. A questo proposito sono frequenti frasi espresse tutte di
seguito, confuse dal punto di vista grammaticale, che descrivono i torti subiti da un genitore o il
rivolgersi con rabbia al genitore come se fosse presente. In alcuni di questi soggetti, queste
espressioni attive, seppur colleriche, lasciano il posto alla passività ed alla vaghezza del discorso.
L’intervistato sembra incapace di trovare le parole, di afferrare un significato o di concentrarsi su
un argomento. Queste manifestazioni sia attive che passive, comunque tengono a tenere in scarsa
considerazione la presenza dell’intervistatore così come gli scopi dell’intervista, dando
l’impressione che il soggetto sia ancora troppo assorbito, invischiato, da esperienze di attaccamento
non metabolizzate, per essere in grado di sviluppare un discorso conciso e coerente.
Irrisolto/disorganizzato rispetto a lutti o a traumi (U)
Il nucleo centrale di questa categoria, scoperta successivamente (Main e Hesse, 1990), consiste nel
fatto che questi soggetti presentano errori rilevanti, lapsus, nel monitoraggio metacognitivo del
discorso e del ragionamento durante il racconto di perdite di figure di attaccamento, o di abusi fisici
subiti. Questi lapsus del discorso/ragionamento sembrano indicare delle alterazioni temporanee
della coscienza o della memoria di lavoro e si pensa che rappresentino (Liotti,1994)
un’interferenza da parte di sistemi di ricordi o di convinzioni di solito dissociate, nella narrazione
attuale. Anche se non è possibile indicare in modo completo tutte le affermazioni indicative di tali
processi è però possibile identificare almeno due raggruppamenti. Durante il racconto
dell’esperienza, possono infatti presentarsi dei Lapsus nei processi di ragionamento, in cui vengono
violate le usuali regole della causalità fisica o delle relazioni spazio-temporali. Essi includono delle
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convinzioni incompatibili, che emergono quando gli intervistati fanno affermazioni che indicano
che il defunto è simultaneamente morto e non-morto in senso fisico più che metafisico-religioso: “è
stato quasi meglio che morisse, perché così lei poteva andare avanti da morta e io potevo tirare su
la mia famiglia’’ (Main e Goldwyn, 1994) Anche ritenere di averne in qualche modo provocato la
morte, è considerato un lapsus nei processi di ragionamento.
Oltre questi, sono possibili anche dei Lapsus nel discorso, i quali sembrano mostrare l’innesco di
un “cambiamento di stato’’ indicativo di un considerevole assorbimento da parte di stati mentali
segregati. (Main e Hesse,1992). Assistiamo in questo caso ad alterazioni formali del discorso che
includono cambiamenti disorientati del modo di rispondere all’intervistatore, quali ad esempio una
attenzione improvvisa a dettagli minimi su una morte oppure un cambiamento repentino in uno
stile di discorso elogiativo, o infine il racconto di una esperienza traumatica in un contesto
completamente privo di collegamenti.
Con il passare del tempo si sono accumulati diversi interrogativi ed equivoci su questo
strumento, soprattutto relativi al suo grado di validità; cioè che cosa misura in realtà
l’AAI? Uno degli equivoci più frequenti è quello di considerare questa intervista come una
misura della qualità dell’attaccamento (sicuro/insicuro) a un’altra persona specifica. L’AAI
fornisce invece un mezzo per valutare lo stato mentale attuale del soggetto rispetto
all’attaccamento complessivo. Forse la confusione è emersa dal fatto che la valutazione
dell’attaccamento nei bambini più piccoli descrive la qualità del loro attaccamento ad una
particolare figura (Ainsworth et al. 1978). La Strange Situation infatti non evidenzia se un
bambino è sicuro o insicuro di per sé, ma sempre in riferimento ad un particolare genitore.
Gli adulti valutati con la AAI non sono considerati attaccati in modo sicuro o insicuro, ma
piuttosto sono considerati essere in uno stato mentale sicuro o insicuro, rispetto
all’attaccamento (George et al. 1985).
TALIS MATER TALIS FILIUS
La leggenda narra che un giorno Mary Main esaminando il trascritto di un genitore,
intuì che il suo bambino sarebbe stato classificato B4 alla Strange Situation. Nonostante
Main non avesse ancora perfezionato le procedure operative in grado di classificare in un
certo modo il resoconto di un adulto, cinque anni più tardi accadde proprio quello che lei
aveva previsto. La scoperta di questa corrispondenza era così interessante che furono letti
ulteriori trascritti e accadde spesso che la risposta del bambino alla Strange Situation
venisse predetta correttamente. Questo risultato preliminare portò Main e Goldwyn (1994)
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a sviluppare quel sistema formale di regole in grado di classificare le varie narrazioni nelle
categorie dell’AAI.
Questo curioso episodio evidenzia come l’AAI fosse l’anello mancante di un
meccanismo parzialmente portato alla luce con la Strange Situation; questi due strumenti
possono infatti considerarsi come le due classiche facce della stessa medaglia. Le
implicazioni teoriche che scaturiscono dalla accertata corrispondenza tra stato mentale
circa l’attaccamento dei genitori e le configurazioni di attaccamento dei figli, sono
potentissime: infatti la forza della concordanza tra questi due strumenti fornisce una chiave
interpretativa sempre più stabile e precisa per la comprensione dei sofisticati processi che
presiedono alla trasmissione transgenerazionale dei legami di attaccamento.
Questi dati iniziali hanno poi dato vita ad una cospicua messe di studi aventi lo scopo di
replicarli e verificarli. Ainsworth e Eichberg (1991) a questo proposito, hanno replicato,
con l’80% di corrispondenza, la correlazione tra le tre categorie organizzate dell’AAI e il
comportamento del bambino alla Strange Situation, così come tra attaccamento Irrisolto
nel genitore e attaccamento di tipo (D) nel bambino. In merito a quest’ultima categoria di
attaccamento adulto, Ainsworth e Eichberg (ibidem) mostrano anche come la perdita di per
sé non è predittiva della disorganizzazione del bambino, la quale è invece fortemente
correlata con i lapsus nel ragionamento o nel discorso del genitore.
Inoltre alcuni autori hanno intrapreso progetti di ricerca cercando di neutralizzare una
variabile teorica potenzialmente perturbante la correlazione tra AAI e Strange Situation:
l’influenza dei figli sullo stato mentale dei genitori. Per eliminare questa fonte di
confusione, alcuni studi hanno somministrato l’intervista prima della nascita del primo
figlio del soggetto. Fonagy, Steele e Steele (1991) hanno confrontato le Strange Situation a
12 mesi, di un campione di bambini con le AAI delle rispettive madri somministrate prima
della nascita ed hanno trovato tra i due strumenti una concordanza globale
molto
significativa. Ammaniti et al. (1990) hanno presentato un complesso studio longitudinale
con due coppie madre-bambino a cui venivano somministrati diversi strumenti di misura in
diversi periodi di tempo. Al settimo mese di gravidanza le future mamme venivano
sottoposte all’IRMAG (Intervista sulle Rappresentazioni Materne in Gravidanza) per
raccogliere i loro atteggiamenti ed impressioni sulla gravidanza in atto. Quattro mesi dopo
la gravidanza veniva presentata l’IRMAN ( Intervista sulle Rappresentazioni Materne dopo
la Nascita) in cui la madre raccontava le proprie esperienze di interazione con il piccolo.
Nel corso di questi primi quattro mesi inoltre sono state osservate, attraverso
videoregistrazioni, le interazioni madre-bambino in fase di allattamento. Ad un anno infine
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madri e bambini sono stati sottoposti rispettivamente all’AAI e alla Strange Situation. I
risultati di questa ricerca hanno confermato l’ipotesi di una coerenza sostanziale tra
rappresentazioni materne rilevate con IRMAG, IRMAN e AAI, e la sicurezza dei bambini
di un anno alla Strange Situation, infatti le donne che si rappresentavano la propria
gravidanza in maniera angosciata o addirittura ignorandola, che percepivano il proprio
bambino come invadente ed eccessivamente esigente, risultavano Distanzianti alla AAI e i
propri bambini presentavano un attaccamento di tipo A (evitante) alla Strange Situation.
Invece le madri che avevano della gravidanza una percezione positiva, come qualcosa che
le facesse sentire pienamente realizzate, che percepivano il proprio bambino come un
soggetto con cui interagire piacevolmente, risultavano Sicure alla AAI ed i propri bambini
presentavano un attaccamento di tipo B (sicuro) alla Strange Situation. Infine donne con
percezioni di “amore-odio” nei confronti della gravidanza, che percepivano il proprio
bambino come vivace, allegro, ma forse a volte un po’ troppo invadente, risultavano
Preoccupate alla AAI ed i loro bimbi presentavano un attaccamento di tipo C (ambivalenti)
alla Strange Situation.
In conclusione questi ed altri studi hanno messo in evidenza la suggestiva specularità tra
sicurezza del genitore e sicurezza del bambino. Sembra cioè che AAI e Strange Situation
infatti fotografano, ognuna staticamente, delle condizioni che sono invece dinamicamente
collegate in un processo fluido di reciproca influenzabilità. Il 60% dei bambini nella
Strange Situation corrono incontro alla madre, al suo ritorno dopo la separazione, per
essere consolati e assistiti. Questi bambini con attaccamento di tipo B hanno alle spalle
un’esperienza per cui si aspettano che la madre fornisca una base sicura di conforto e di
consolazione nei momenti critici. La base sicura procurata dagli agenti delle cure è il
risultato di una disponibilità empatica priva di intrusività. I bambini piccoli che sviluppano
un sano senso delle proprie intenzioni ed emozioni sono bambini i cui genitori hanno reso
più facili i tentativi di iniziare delle attività organizzate in vista di una meta (Beebe e
Lachmann, 1988). Gli adulti Sicuri/autonomi, genitori di questi bambini, hanno fiducia in
se stessi e negli altri; manifestano una capacità di osservazione riflessiva quando si
prendono cura dei figli, giocano e scambiano informazioni con loro. Pensano ai propri
bambini come soggetti autonomi a cui riconoscere uno spazio per esprimere i propri
sentimenti e bisogni.
Il 10% dei bambini invece esprime un Attaccamento di tipo C. Questi bambini hanno
sviluppato una strategia poco remunerativa in risposta alle oscillazioni imprevedibili tra
accettazione e distacco. I genitori Preoccupati di questi bambini, hanno comunicato loro la
78
propria insicurezza derivata dall’essere tuttora invischiati nella relazione con i propri
genitori. Questi adulti riconoscono ai loro figli i bisogni di protezione, ma tendono ad
essere ansiosamente iperprotettivi, oppure colpevolizzanti o richiedenti a loro volta
attenzione dai figli, come dei propri genitori (inversione di ruolo).
Il 20% dei bambini che sanno già camminare non si avvicinano alla madre quando
ritorna; la percepiscono come respingente, minacciosamente intrusiva, o quanto meno non
disponibile a soddisfare i loro bisogni di sicurezza. I loro genitori Distanzianti hanno poco
potenziale intuitivo per capire il proprio bisogno di calore affettivo e vicinanza amorevole
e quello dei loro figli e tendono a spingerli precocemente verso l’autonomia. Questi
bambini, in apparenza indifferenti all’attività dei genitori ,sono in realtà ipervigilanti: pieni
di ansia osservano e calcolano la gamma della vicinanza o della distanza fisica ed emotiva
dalle loro madri, distanza che devono mantenere.
Il 10% infine dei bambini mostra risposte che mancano di una strategia coerente che
organizzi il loro comportamento e le loro emozioni (tipo D). Molti di questi bambini hanno
subito maltrattamenti diretti da parte dei genitori; altri possono non aver subito abusi, ma
hanno dovuto subire l’influsso di madri depresse o terrorizzate. Avvicinarsi suscita la
paura di venire terrorizzati invece che consolati; allontanarsi significa invece la perdita nel
momento del bisogno. L’azione viene paralizzata e lo stato affettivo è caotico. Questi
genitori Irrisolti/disorganizzati hanno avuto esperienze che li hanno resi vulnerabili a stati
affettivi disorganizzati e a episodi dissociativi, ai loro figli sapranno comunicare solo
l’imprevedibilità del proprio atteggiamento di cura, che si alterna a rapidi scoppi di rabbia,
maltrattamenti e terrore.
Gli studiosi dell’attaccamento descrivono modelli operativi interni multipli e
contraddittori come eredità di un attaccamento insicuro. Il contenuto di questi modelli
formerebbe dei pattern di organizzazione rappresentazionale che sottendono l’identità e le
aspettative relazionali. La natura intrinsecamente diadica
delle rappresentazioni di
attaccamento implica che i pattern di attaccamento sono un codice reciprocamente
organizzato e mutualmente compreso in cui qualsiasi ruolo implica il suo reciproco, né può
essere rappresentato senza l’altro (Beebe, Lachmann, 1988).
FUNZIONE RIFLESSIVA E MONITORAGGIO METACOGNITIVO
Trattando dell’AAI abbiamo visto come uno degli elementi patognomonici necessari
per assegnare un individuo alla categoria Irrisolto/disorganizzato sia la presenza nella
79
narrazione autobiografica di alcuni errori o lapsus nel funzionamento metacognitivo. Tra
gli studiosi dell’attaccamento Mary Main e Peter Fonagy hanno sottolineato nell’ultimo
decennio la funzione della conoscenza metacognitiva come possibile chiave di lettura dei
fenomeni di trasmissione intergenerazionale dell’attaccamento.
Fonagy (et al. 2001) chiama “funzione riflessiva’’ la capacità umana di comprendere se
stessi e gli altri come esseri dotati di intenzionalità i cui comportamenti sono organizzati da
stati mentali: pensieri e sentimenti. Se il bambino è in grado di spiegare un comportamento
materno non responsivo che può sembrare di rifiuto, come una tristezza della madre a
causa di qualcosa di esterno alla loro relazione, non si sentirà completamente disarmato di
fronte a tale comportamento e non svilupperà uno stato di confusione e una visione di sé
negativa. Fonagy (et al. 1995 citato in Target e Fonagy, 2001) hanno messo in evidenza
che questa capacità è più precoce e solida nei bambini con attaccamento sicuro. Il segno
distintivo della funzione riflessiva è la capacità del bambino verso i 3-4 anni di riconoscere
che il comportamento può essere dettato da una credenza sbagliata. Gli studiosi dell’età
evolutiva hanno realizzato molti test sulla qualità della comprensione delle false credenze e
si riferiscono a questa capacità come alla “teoria della mente’’ (Camaioni, 1995). In poche
parole il bambino di 3-4 anni inizia a capire che le persone agiscono non in base alla realtà,
ma alla rappresentazione che hanno della realtà, anche se quest’ultima è sbagliata. Il
bambino più piccolo invece, basa la propria previsione sulla sua rappresentazione della
realtà, non concependo la possibilità di un altro punto di vista. In questa fase il bambino da
più importanza alla realtà così come si presenta piuttosto che alla possibilità di attribuzioni
di credenze rispetto alla realtà. Anche se la psicologia dello sviluppo considera i 3-4 anni
l’epoca di acquisizione della “teoria della mente”, in questo periodo avviene solo il primo
passo, perché anche nelle relazioni adulte e mature ci si rende conto che è veramente
difficile rappresentarsi in modo accurato il mondo mentale dell’altro, e questo, come
vedremo più avanti, è un fatto molto critico quando l’altro è il proprio figlio. Infatti Fonagy
et al. (1991) hanno evidenziato come i punteggi relativi alla funzione riflessiva degli adulti,
raccolti prima della nascita del bambino, hanno forte valore predittivo circa la sicurezza
dell’attaccamento dei bambini nel secondo anno di vita.
Quindi, tirando le somme di questi contributi, Fonagy propone un modello circolare in
cui il genitore si sforza di comprendere e contenere lo stato mentale del bambino e il
bambino, impara a capire la mente del genitore. In questo modo la capacità del genitore di
osservare la mente del bambino accresce la possibilità di avere un bambino con
80
attaccamento sicuro, il che a sua volta facilita lo sviluppo della mentalizzazione o capacità
riflessiva.
Target e Fonagy (2001) nel proprio contributo contemplano anche gli elementi
fondamentali che portano alla formazione della funzione riflessiva nel bambino.
Secondo alcuni (Leslie, 1995) la funzione riflessiva è qualcosa che si sviluppa in
seguito alla maturazione di moduli neuropsicologici di tipo meta-rappresentazionale.
Fonagy invece considera questa capacità nella sua evoluzione all’interno delle relazioni di
attaccamento. Il bambino vive una serie di emozioni ed esperienze fisiologiche caotiche e
primitive. Questi elementi (“beta” come li chiamerebbe Bion), sono alla ricerca di una
rappresentazione simbolica a cui essere legati. Questo processo di creazione di legami
simbolici è essenziale affinchè il bambino diventi capace di far corrispondere l’esperienza
ad una emozione specifica. Il ruolo centrale del genitore in questo processo è quello di
rispecchiare questi segnali emotivi e rappresentarli nella propria mente per poi restituirli
metabolizzati al bambino, il quale sarà così in grado di utilizzarli come elementi costitutivi
del Sé. Questo è un genitore che attribuisce stati mentali al bambino e interpreta i suoi
segnali (pianto, sorriso) in base a questi ultimi. Il bambino nel corso dell’esperienza quindi
interiorizza la capacità di rispecchiamento del proprio genitore, passando lentamente da
una fase di regolazione intersoggettiva delle risposte affettive ad una fase di
autoregolazione, ricavando inoltre importanti informazioni sui suoi stati interni.
Secondo il modello di Fonagy, in modo inconscio ed incisivo il genitore attribuisce al
bambino uno stato mentale attraverso il proprio comportamento, tratta il bambino come un
agente dotato di pensiero e tutto ciò viene percepito dal bambino e utilizzato
nell’elaborazione di un senso del Sé mentale. Quando un genitore sarà in grado di fare
quanto descritto ora, il suo accudimento sensibile darà luogo ad un attaccamento sicuro nel
proprio bambino, al contrario il suo bambino strutturerà un attaccamento insicuro. Sulla
base di questa teoria l’attaccamento si costruirebbe in relazione al livello di funzionamento
della capacità riflessiva, del genitore e di conseguenza del bambino: difatti un bambino con
attaccamento insicuro è un bambino che si trova a disagio con i propri stati mentali e con
quelli degli altri.
La figura di attaccamento però dà un ulteriore importante contributo anche in fasi
successive. Infatti, quando il bambino cresce, coinvolgendolo nel gioco del far finta il
genitore prende in considerazione il mondo interno del bambino, mantenendo allo stesso
tempo una prospettiva “esterna” basata sulla realtà. L’adulto in questo modo crea un ponte
tra la realtà e il vissuto del bambino indicando l’esistenza di una prospettiva alternativa,
81
che esiste al di fuori della mente del bambino. Queste riflessioni conducono Fonagy e
Target a concludere che lo stabilizzarsi della funzione riflessiva ha un effetto protettivo e al
contrario il suo stato relativamente fragile, può essere indice di vulnerabilità ad un
possibile trauma.
Tale conclusione, che stabilisce un legame tra fragilità della funzione riflessiva e
possibile vulnerabilità in caso di trauma, ci consente di introdurre il contributo di Mary
Main (1991) la quale, infatti, avanza l’ipotesi che se esperienze sfavorevoli di attaccamento
si verificano quando le capacità metacognitive del bambino sono ancora immature,
quest’ultimo avrà maggiori probabilità di sviluppare “modelli di attaccamento multipli”,
cioè conflittuali e incompatibili, tipici delle modalità di attaccamento insicuro. Main
definisce la conoscenza metacognitiva come la capacità di pensare al proprio pensiero, cioè
non solo essere capaci di avere una rappresentazione mentale, ma anche avere la capacità
di riflettere sulla validità, sulle caratteristiche e le fonti di questa rappresentazione. La
ricerca sulla metacognizione riguarda ormai una fetta consistente della psicologia evolutiva
(Flavell, 1993), ma negli ultimi anni studiosi dell’attaccamento come Fonagy (et al. 2001)
e Main (1991) hanno stabilito feconde connessioni tra questi campi di studio. Secondo
Main infatti soggetti che presentano una diversa organizzazione dell’attaccamento, non
solo avranno differenti rappresentazioni (modelli operativi interni) ma anche diverse
potenzialità metacognitive; quindi i processi mentali dei soggetti sicuri potranno essere
distinti da quelli di individui insicuri non solo in base al contenuto ma anche per la loro
flessibilità e per la facilità con cui è possibile esaminarli. L’AAI, difatti assegna i soggetti
alle diverse categorie non solo in base al contenuto delle loro rappresentazioni ma
soprattutto in base alla capacità del soggetto di pensare e raccontare la propria esperienza
in modo coerente. In sintesi Main propone che per definire l’organizzazione individuale
dell’attaccamento è necessario prendere in considerazione due livelli di funzionamento,
quello cognitivo-rappresentazionale e quello metacognitivo.
Tenendo allora sempre presenti questi due livelli, Main passa in rassegna le diverse
configurazioni di attaccamento, ed afferma che nei soggetti insicuri, rispetto
all’attaccamento, si osserva una carente integrazione dell’informazione o l’impossibilità di
accedere all’informazione stessa. Sollecitati a descrivere e valutare le proprie esperienze di
attaccamento, questi soggetti presentano un “guazzabuglio di pensieri, sentimenti ed
intenzioni contraddittorie che solo approssimativamente possono essere descritti come
modello” (Main, 1991). Per descrivere questa incoerenza Bowlby (1973) ha introdotto il
termine di “modelli multipli” che sta ad indicare modelli incompatibili, riferiti alla stessa
82
realtà, presenti contemporaneamente. L’ipotesi dell’esistenza di modelli multipli di
attaccamento viene collegata da Main direttamente al tema del monitoraggio
metacognitivo, la cui immaturità evolutiva, secondo la studiosa americana, potrebbe essere
alla base di modelli incoerenti. Le espressioni principali della conoscenza metacognitiva
sono soprattutto due: la distinzione apparenza- realtà e la codifica duale dell’esperienza.
La prima capacità si riferisce alla percezione di un mondo esterno fatto di eventi, cose,
persone, che esiste indipendentemente dai pensieri soggettivi. La codifica duale invece si
riferisce alla capacità di prendere in considerazione simultaneamente più livelli di realtà
(una persona ad esempio può essere sia cordiale che impietosa). Molti di questi aspetti di
conoscenza metacognitiva sono accessibili alla maggior parte dei bambini a 6 anni, mentre
al di sotto dei 4 il bambino non possiede questi strumenti che gli consentono di indagare le
rappresentazioni della realtà proprie e delle figure di attaccamento.
L’ipotesi forte di Main è che il bambino ha maggiore possibilità di sviluppare un
modello multiplo se subisce esperienze di attaccamento sfavorevoli quando le sue capacità
metacognitive non sono ancora sufficientemente sviluppate. Benchè a qualsiasi età il
modello operativo del Sé sia perturbato da esperienze sfavorevoli di attaccamento, un
bambino più grande sarà avvantaggiato in quanto la sua maturità metacognitiva, gli
consentirà di fare operazioni di secondo livello sulle rappresentazioni primarie (sono una
persona cattiva forse perché mio padre mi tratta sempre male, però tratta male tutti allora
lui deve avere qualcosa che non va). Il bambino più piccolo invece, che ancora non
possiede una perfetta discriminazione apparenza-realtà e soprattutto ha difficoltà nella
codifica duale (quindi ha problemi nel mantenere in memoria rappresentazioni o emozioni
in conflitto), è particolarmente vulnerabile ad un genitore che tende a forti ed imprevedibili
cambiamenti di umore o di responsività. In queste condizioni, un bambino piccolo non
riuscendo ancora a far coabitare due tratti contrastanti nella stessa categoria, avrà poche
probabilità di sviluppare una rappresentazione unitaria della propria figura di attaccamento
(Main, 1991).
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CAPITOLO V
ATTACCAMENTO ADOLESCENZA E PSICOPATOLOGIA
INTRODUZIONE
Gli sviluppi delle ricerche e delle ipotesi relative alla teoria dell’attaccamento hanno
prodotto una serie di studi innovativi nell’ambito della psicopatologia. Se nelle iniziali
proposte di Bowlby le riflessioni sull’etiopatogenesi dei disturbi psichici in adolescenza
e/o in età adulta erano più strettamente collegate all’incidenza negativa di fattori di rischio
quali separazioni prolungate o perdite per morte delle figure di attaccamento, in seguito lo
studio delle variabilità individuali dei modelli di attaccamento sospinge i ricercatori a
cercare collegamenti tra diversi disturbi e le configurazioni più insicure di attaccamento.
Alla prima concezione psicopatologica di Bowlby (1940, 1944, 1951)
basata sulla
separazione o perdita della figura di attaccamento, si succede la convinzione, maturata
anche dallo stesso Bowlby (1973),
che la qualità dell’interazione con la figura di
attaccamento, (quando essa è presente quindi ) sia una chiave di interpretazione per lo
studio della psicopatologia. L’importanza, già intuita da Ainswoth et al. (1978)
dell’influenza del genitore sulla risposta dei bambini alla Strange Situation, è confermata e
amplificata dalla corposa corrispondenza tra modelli di attaccamento nei bambini, così
come evidenziati appunto nella Strange Situation e risultati dei genitori all'AAI, lo
strumento di indagine dello stato mentale adulto nei confronti dell’attaccamento messo a
punto da George et. al (1985). Il vissuto di attaccamento dei genitori consente di prevedere
la configurazione dei figli ( vanIjzendoorn, 1995).
Questo lungo itinerario teorico in continuo divenire culmina in una serie di contributi
attuali (Lichtenberg, 1989) tesi a sottolineare l’importanza del rapporto intersoggettivo
nello sviluppo normale e patologico. Secondo le ipotesi di fondo di questi studiosi, la
madre e il bambino, costituiscono una unità relazionale autoregolantesi, cioè un sistema
capace di autocorreggersi rispetto agli scopi e di scambiare informazioni sia al proprio
interno che all’esterno e in cui entrambi i partner si influenzano reciprocamente in risposta
ai feedback. Ciò significa che la diade madre-bambino non si comporta come un composto
84
di elementi indipendenti, ma come una totalità organizzata. Questo sistema complesso di
regolazione affettiva interpersonale, viene poi gradualmente interiorizzato, dando vita alla
specificità del comportamento individuale. Ambizione (almeno illusoria) di questa sezione
è mostrare in che modo la teoria dell’attaccamento possa funzionare come chiave
d’interpretazione di alcuni quadri psicopatologici, soprattutto di tipo alimentare e
soprattutto in quel particolare periodo dello sviluppo che è l’adolescenza.
ORIGINI DEL CONCETTO DI PATOLOGIA IN BOWLBY
Può essere proficuo interpretare la posizione di Bowlby rispetto alla salute mentale e
alla malattia, secondo tre punti di vista: le sue esperienze in fase di sviluppo, il contesto
socio-culturale dell’epoca e la popolazione clinica con cui ha avuto a che fare.
Come già accennato nella parte precedente Bowlby gettò le prime fondamenta della
teoria dell’attaccamento immediatamente prima della II Guerra Mondiale e proseguì anche
nel decennio successivo. Egli sviluppò le sue idee in un ambiente scientifico e politico che
riconosceva scarsa importanza ai legami del bambino con i genitori. In campo scientifico,
una delle teorie più accreditate dello sviluppo, quella dell’apprendimento sociale,
rappresentava la relazione del bambino con l’oggetto primario come una conseguenza
appresa in seguito al bisogno di nutrimento. Secondo questo paradigma se il bambino viene
alimentato da diverse nutrici la relazione con la madre potrebbe non avere uno speciale
significato per lui. Per quanto riguarda la sua storia personale Bowlby crebbe all’interno di
una lunga tradizione della “middle class” britannica dove i figli e molte delle figlie
venivano affidate, prima alle bambinaie e poi alle cure istituzionali di un collegio (Holmes,
1993). La grande importanza quindi, riconosciuta da Bowlby alla funzione materna va
vista, almeno in parte, come un riflesso delle deprivazioni che lui e altri membri della sua
classe avevano dovuto subire negli asili e nella scuola. Un simile atteggiamento infine
influenzava le pratiche ospedaliere. Quando un bambino veniva ricoverato, era prassi
ordinaria impedire o diradare (fino addirittura ad una sola alla settimana) le visite dei
genitori. Quando Bowlby dunque iniziò la sua carriera lavorando in istituzioni ospedaliere
ed orfanotrofi, che secondo la cultura dell’epoca erano più accorti alla salute fisica del
bambino senza riconoscere la vitale necessità di una relazione primaria con la madre, si
trovò a scontrarsi con gli effetti disgreganti della assenza genitoriale.
Queste osservazioni si imposero con forza all’attenzione di Bowlby e lo portarono a
sostenere con una certa fermezza la visione per cui bambini deprivati delle cure materne,
85
specialmente se cresciuti in istituzioni da una età inferiore ai sei anni, possono essere
seriamente colpiti nel loro sviluppo fisico, intellettuale, emozionale e sociale.
In uno studio ormai classico, Bowlby (1944) esaminò la biografia psicologica di 44
bambini che erano stati istituzionalizzati per aver rubato. In quasi tutti questi casi i soggetti
avevano avuto delle esperienze parentali caratterizzate da abuso e violenza, ma oltre
questo, a differenza di un gruppo di controllo di bambini ospedalizzati ugualmente
maltrattati, avevano subito prolungate separazioni dai genitori, e questa differenza era
particolarmente chiara in un sottogruppo di ladruncoli, che Bowlby chiamò “anaffettivi”.
Proseguendo
in
questa
direzione,
Bowlby
(1951)
pubblica
un
rapporto
commissionatogli dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, sulla relazione tra cure
materne e salute mentale del bambino. Passando in rassegna diversi studi di vari paesi,
Bowlby trovò un modello ricorrente: i bambini istituzionalizzati, e quindi gravemente
deprivati di cure materne, tendevano a sviluppare gli stessi sintomi che aveva riscontrato
nei suoi giovani ladri anaffettivi. A questo punto, pur mancando nella teoresi di Bowlby,
una spiegazione dei meccanismi attraverso i quali la deprivazione materna produce effetti
dannosi, quest’ultima affermazione appariva come molto accreditata.
EVOLUZIONE DEL CONCETTO DI PATOLOGIA IN BOWLBY
In epoche più recenti alcuni autori, come ad esempio Rutter (1981), hanno
ridimensionato l’importanza attribuita da Bowlby al potenziale patogeno della
deprivazione materna in quanto tale, sia essa intesa come separazione o perdita. Non c’è
alcuna prova che un’unica breve separazione, per quanto possa essere stata dolorosa nel
momento in cui è avvenuta, possa produrre effetti a lungo termine; piuttosto il modo in cui
il bambino viene preparato alla separazione e la cura premurosa da parte di persone
conosciute, riduce l’angoscia. Un altro punto importante sottolineato da Rutter (1981) è
come gli effetti della separazione dipendano dalla relazione madre-bambino anteriore
all’evento; quanto più la relazione era problematica tanto più la separazione sarà dannosa.
Oltre la separazione, Bowlby considera la perdita di una figura di attaccamento come un
evento foriero di sviluppi psicopatologici. Recentemente però anche questo legame sembra
essersi un po’ allentato; Harris e Bifulco (1991) ad esempio suggerisce che di per sé la
perdita e l’abbandono patite durante l’infanzia influenzano lo sviluppo di disturbi
psichiatrici in età adulta, meno di quanto supponesse Bolwby. Anche qui, il modo in cui
chi si occupa del bambino risponde al suo dolore, e la qualità della relazione con la persona
86
scomparsa, sono importanti variabili intervenienti. Questi approfondimenti indicano uno
spostamento verso un maggiore apprezzamento della storia relazionale tra madre e
bambino, e mettono in guardia da facili riduzionismi trauma-patologia. Sembra più
plausibile che la deprivazione materna possa agire come un fattore di vulnerabilità
generale.
A questo punto è molto importante sottolineare come già lo stesso Bowlby avesse
contribuito a mettere in discussione o, comunque ad arricchire, il modello da lui stesso
proposto. Infatti, al suo vulcanico talento scientifico, apparve chiaro dopo un po’ come la
semplice presenza o assenza di una figura di attaccamento era di per sé insufficiente per
comprendere l’adattamento e le manifestazioni patologiche nei bambini più grandi e negli
adulti. Dopo i tre o quattro anni le separazioni fisiche non sono più una serie minaccia per
un bambino e di conseguenza non producono le stesse reazioni emotive (Marvin e Britner,
1999). Crescendo un bambino acquista delle capacità, come quella di rappresentare un
genitore assente o di parlare delle separazioni imminenti, che riducono in gran parte il
problema posto dalle separazioni (Kobak, 1999). Inoltre ci sono molte persone che pur
avendo avuto un infanzia piuttosto difficile non presentano disturbi di tipo psichiatrico.
Bowlby affida al secondo volume della sua imponente trilogia, intitolato La separazione
dalla madre (1973), il frutto delle sue riflessioni su questo tema. In questa sede egli
esprime un concetto di grande importanza e cioè che la qualità e la sicurezza
dell’attaccamento del bambino non dipendono soltanto dalla presenza fisica del genitore,
ma soprattutto dalla sua disponibilità e responsività nei confronti del bambino. Questa
sottile ma enorme differenza implica che i bambini si sentono sicuri quando percepiscono
le proprie figure di attaccamento come disponibili e responsive e che una scarsa
comunicazione nelle relazioni di attaccamento crea un rischio per i problemi relativi
all’adattamento. Questa enfasi sulla accessibilità piuttosto che sulla presenza fisica spiega
anche la diminuzione del dolore alla separazione durante il terzo o quarto anno. Quando il
bambino raggiunge la capacità di parlare con la sua figura di attaccamento e di capire i suoi
scopi e i suoi progetti diventa allora possibile pianificare le separazioni per rassicurare il
bambino circa la disponibilità e responsività continua della figura di attaccamento. Questo
nuovo orientamento di Bowlby è chiaramente racchiuso nella frase: “Il fatto che un
bambino o un adulto sia in uno stato di sicurezza, di angoscia o di dolore è determinato in
gran parte dall’accessibilità e dalla capacità di rispondere della sua principale figura di
attaccamento” (1973).
87
Secondo quest’ottica quindi, non solo separazioni prolungate e perdite, possono avere
drammatici effetti sulla vita emotiva dei bambini piccoli, come dei grandi, ma anche
profonde alterazioni del senso di disponibilità che un genitore suscita. Infatti fino a quel
momento solo perdite o separazioni prolungate e ripetute si consideravano in grado di
innescare la “sequenza di deterioramento”, composta da protesta, disperazione e distacco,
con le emozioni ad esse correlate di angoscia, lutto e difesa (Bowlby 1973). Nel caso di
separazioni più brevi il distacco sembrava cessare entro alcuni giorni e ad esso susseguiva
una fase di decisa ambivalenza verso i genitori. Tali sequenze, secondo questo nuovo
modello, possono essere provocate soprattutto dall’indisponibilità affettiva dei genitori.
Bowlby scompone la disponibilità in tre elementi ad essa collegati: accessibilità fisica,
comunicazione aperta e capacità di rispondere ai segnali. Minacce a queste tre componenti
possono portare a molte delle risposte emotive evidenti nei bambini piccoli sottoposti a
separazioni fisiche.
La percezione della accessibilità fisica rimane l’aspetto più importante della
disponibilità di una figura di attaccamento. Per esempio una separazione in cui un genitore
lascia il figlio in maniera angosciante o inspiegabile, può distruggere la capacità del
bambino di pianificare una riunione e lo lasciano incerto circa la disponibilità del genitore.
La comunicazione verbale può creare nuove minacce alla disponibilità delle figure di
attaccamento, quando ad esempio anche senza andarsene veramente un genitore minaccia
di andarsene o di mandare via il bambino. Quando la comunicazione però è aperta e
positiva può ridurre in gran parte il grado di percezione degli eventi distruttivi che
minacciano la disponibilità di una figura di attaccamento. Per esempio la rabbia di uno o
entrambi i genitori, può essere percepita da un bambino come un rifiuto o come paura di
essere abbandonato; attraverso una buona comunicazione però la rabbia dei genitori è
accompagnata da una spiegazione che fa comprendere al bambino la fonte della rabbia.
Inoltre gli avvenimenti negativi, come ad esempio le separazioni, hanno un impatto
diverso a seconda delle aspettative del bambino circa la capacità di rispondere
positivamente della figura di attaccamento. Queste aspettative o modelli operativi sono
costruiti in base all’esperienza precedente con il genitore nei momenti di angoscia.
Bowlby (1973), in definitiva, con questo suo contributo intende aggiungere un ulteriore
passaggio al suo primo modello psicopatologico fondato sulla deprivazione. Un evento di
rottura può venire infatti blandito o amplificato dalla qualità della disponibilità genitoriale.
Quando ad esempio, la comunicazione genitore-bambino, uno pilastri della disponobilità, è
aperta e armoniosa, anche gli eventi più dolorosi possono essere discussi con i genitori e le
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minacce alla disponibilità percepite dal bambino possono essere neutralizzate. Nei bambini
più piccoli dove la comunicazione verbale è meno sofisticata, è maggiore la possibilità di
percepire le separazioni fisiche come minacce all’accessibilità del genitore.
I contenuti di questa nuova riflessione di Bowlby (1973), trovarono una continuazione
naturale nel lavoro di Ainsworth et al. (1978) con la Strange Situation. Qui infatti le
diverse aspettattive dei bambini circa la disponibilità dei genitori si cristallizza in tre
differenti modelli di risposta individuale (Sicuro, Evitante, Ambivalente), scaturiti dalla
stessa esperienza dei bambini con le madri durante il primo anno di vita. Così la semplice
presenza o assenza di un genitore non forniva un’adeguata spiegazione di queste differenze
individuali.
Traducendo quanto affermato da Bowlby (1973) con la nuova terminologia proposta da
Ainsworth, un evento traumatico avrà un impatto diverso a seconda del modello di
attaccamento organizzato fino a quel momento dal bambino; un bambino con attaccamento
insicuro sottoposto a deprivazione prolungata, avrà molte più probabilità di sviluppare
manifestazioni psicopatologiche.
In conclusione quindi è possibile affermare che secondo la teoria dell’attaccamento le
relazioni e le loro difficoltà possono influenzare i disturbi psichiatrici in diversi modi
distinti ma interconnessi (Gianoli, 1997):
1) Esperienza di separazioni significative e/o la perdita permanente di figure di
attaccamento può predisporre all’insorgenza di un disturbo.
2) Il fallimento nel formare un legame di attaccamento tra i sei mesi e i tre anni
(deprivazione materna).
3) Interiorizzazione di pattern di attaccamento “insicuri” costituisce un fattore di
vulnerabilità psicologica.
4) Attaccamento disorganizzato in risposta a maltrattamento o abuso precoci.
ATTACCAMENTO E PSICOPATOLOGIA OGGI
Seppur confortati dall’aver individuato delle ipotesi forti rispetto allo sviluppo normale
e patologico, i teorici dell’attaccamento che negli ultimi dieci anni si sono interessati alla
psicopatologia non sono caduti nella trappola di ridurre tutti i disturbi alle vicissitudini
dell’attaccamento. Attualmente infatti si è più inclini a considerare l’attaccamento come un
fattore di rischio o di protezione che mostrerà probabilmente la sua maggiore influenza nel
contesto di altri fattori di rischio e protezione, all’interno quindi di un ottica complessa di
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approccio alla psicopatologia (Greenberg, Speltz, DeKlyen, 1993). Appare oggi assai
improbabile che vi sia una causa singola per la maggior parte dei disturbi; ci sono infatti
dei fattori che agiscono sull’eziologia, mentre altri influiscono sull’espressione come nel
caso di quei disturbi dei quali è conosciuto il meccanismo biochimico o genetico, la cui
espressione però è influenzata da altri eventi biologici o ambientali. In questa prospettiva
appare improbabile che l’insicurezza dell’attaccamento da sola possa produrre un disturbo,
benchè possa giocare un ruolo importante come amplificatore. La moderna psicopatologia
dell’età evolutiva quindi considera la presenza di percorsi multipli in grado di condurre al
disturbo, in quanto l’effetto di un fattore di rischio dipenderà dal momento in cui si è
verificato e dalla relazione con altri fattori.
Inoltre i modelli psicopatologici moderni sono caratterizzati dal fatto di non limitare
l’influenza dei fattori di rischio al solo livello individuale o familiare. Per esempio rischi a
livello del gruppo di coetanei (tessuto sociale, devianza) e del vicinato (densità, risorse)
possono influire in modo significativo sul disturbo. A tutto questo bisogna poi aggiungere
che molti fattori di rischio evolutivi non sono specifici di un particolare disturbo, ma sono
piuttosto connessi ad una varietà di esiti disadattativi. Così la combinazione di povertà,
violenza in famiglia e psicopatologia genitoriale è stata associata ad una varietà di disturbi
infantili e adolescenziali (Greenberg, 1999).
Infine è importante ricordare come determinati fattori di rischio possano avere
un’azione differente in diversi periodi dello sviluppo. Per esempio la sicurezza
dell’attaccamento può essere importante nel primo sviluppo, mentre la maturazione della
capacità cognitiva può essere più decisiva nella seconda infanzia. Questo sembrerebbe
ricordare un po’ l’idea di Bowlby (1973), secondo il quale episodi di deprivazione materna
prolungati hanno effetti più devastanti nella prima infanzia e in misura minore
successivamente, quando la dotazione cognitiva del bambino gli consente di fare previsioni
e di contestualizzare le eventuali separazioni dai genitori.
Precedentemente abbiamo anche anticipato che l’attaccamento ha gradualmente
guadagnato importanza anche come fattore protettivo. Benchè la ricerca sui fattori
protettivi sia meno sviluppata di quella sui fattori di rischio, ne sono stati identificati
almeno tre. Questi includono: caratteristiche dell’individuo come temperamento e
intelligenza, qualità delle relazioni del bambino e fattori ecologici più ampi come scuole
frequentate e quartiere di abitazione (Rutter, 1985). Nell’ambito della qualità delle
relazioni sociali del bambino si fa sempre più largo l’importanza dell’attaccamento sicuro
ai genitori.
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Tutte le ragioni esposte finora spingono alla cautela nello stabilire nessi di causa-effetto
troppo semplicistici, ma, seppur con la necessaria prudenza sono sempre più numerosi gli
studi che evidenziano l’influenza dell’attaccamento, intrecciato ad altri fattori, su diversi
esiti psicopatologici.
Ad esempio il Minnesota Parent-Child Project (Egeland e Sroufe 1981) è uno studio
longitudinale che ha seguito un campione ad alto rischio sociale (figli di madri giovani
nubili e in gran parte disoccupate) dalla nascita all’adolescenza. Questo studio ha messo in
evidenza come i soggetti ad alto rischio sociale, che avevano strutturato delle relazioni
precocemente insicure, avevano una probabilità significativamente maggiore, rispetto ai
soggetti sicuri, di mostrare relazioni insoddisfacenti con i coetanei, variabilità dell’umore e
sintomi di depressione ed aggressività.
Un altro dato interessante di questo studio è che in età prescolare sono intervenuti dei
fattori in grado di aumentare il comportamento dirompente anche dei bambini sicuri.
Questi bambini sicuri con problemi infatti differivano dai bambini sicuri senza problemi di
comportamento, per il fatto di avere madri meno capaci di sostegno e incoraggiamento, che
avevano aspettattive confuse e ponevano limitazioni incoerenti. Inoltre a 30 mesi questi
ambienti familiari avevano meno materiali di gioco e minore coinvolgimento materno nel
gioco. Inoltre, i bambini con attaccamento insicuro senza problemi rispetto a quelli con
problemi avevano madri più calde, più capaci di sostegno e di porre limiti a 42 mesi.
L’ambiente domestico di questi bambini insicuri senza problemi successivi, conteneva più
materiale di gioco ed era presente maggior coinvolgimento materno. Una volta adolescenti,
molti dei ragazzi che nell’infanzia mostravano un attaccamento insicuro e precisamente
ambivalente, avevano maggiori probabilità di sviluppare disturbi d’ansia. I ragazzi con
attaccamento infantile sicuro, però, non erano più immuni dei ragazzi insicuri rispetto a
questi disturbi. Confrontati con i bambini sicuri e ambivalenti erano quelli evitanti,
tuttavia, a mostrare da adolescenti la più alta frequenza totale di disturbi.
Il Minnesota Parent-Child Project (Egeland e Sroufe, 1981) è uno studio molto
importante ai fini della nostra discussione, in quanto la maggior parte dei risultati da esso
raggiunti sono spesso controintuitivi. Infatti la qualità dell’attaccamento nella primissima
infanzia è ragionevolmente connessa a problemi comportamentali in età prescolare e a
problemi d’ansia nell’adolescenza, ma questa associazione è in qualche caso mediata da
aspetti successivi della relazione genitore-figlio e da circostanze familiari.
I risultati dello studio appena presentato assumono ancora più valore se incrociati con
altri studi effettuati su campioni a basso rischio sociale (Fagot e Kavanaugh, 1990) dove
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non sono stati trovati effetti principali significativi dell’attaccamento insicuro rispetto a
problemi successivi. Questi dati confortano l’idea di un modello multivariato della
psicopatologia in cui l’esito disadattativo è il frutto di una complessa ragnatela in cui
s’intrecciano in maniera non lineare diversi fattori di rischio e di protezione.
In conclusione questi contributi pur invitando alla cautela, evidenziano come
l’attaccamento abbia un ruolo, sebbene non esclusivo, nell’insorgenza di disturbi
psicopatologici nell’infanzia e nell’adolescenza. Nell’ultimo decennio infatti, pur essendosi
affermata con sempre maggiore convinzione l’idea che la psicopatologia scaturisca da
percorsi multipli e interconnessi (Greenberg, Speltz e Deklyen, 1993)) sempre più ricerche
mostrano l’esistenza di una associazione tra attaccamento insicuro e la vulnerabilità ai
sintomi psichiatrici (vanIjzendoorn e Bakermans-Kranenburg, 1996).
L’incremento però, evidenziato negli ultimi anni, di progetti di studio aventi lo scopo di
mettere in evidenza il legame tra attaccamento e clinica ha radici ben più lontane, già a
partire infatti dai primi lavori di Bowlby (1940, 1944, 1951). Non solo, ma è possibile
individuare anche dei quadri clinici, come le fobie o la depressione che sono state, sempre
grazie al lavoro di Bowlby (1973, 1980), storicamente associate all’attaccamento. Pur
tenendo conto della necessaria cautela metodologica, prenderemo ora in considerazione
quegli studi specificamente dedicati ai disturbi associati al comportamento alimentare, che
solo negli ultimi tempi hanno avuto maggiore attenzione dalla teoria dell’attaccamento.
ADOLESCENZA SECONDO LA VISIONE PSICOANALITICA
Jung considerava la presenza di diverse posizioni teoriche rispetto ad un unico
fenomeno come la testimonianza non di una confusione concettuale ma al contrario di
fermento scientifico ed auspicava la salvaguardia di ogni indirizzo in quanto depositario di
una parte di verità (Aversa, 1995) Questo prezioso precetto epistemologico sembra
particolarmente pertinente allorchè ci si accosti ad un campo complesso e controverso
come l’adolescenza, nel quale sono confluiti negli anni una messe incredibilmente vasta di
contributi ed interpretazioni. Questo passaggio è però necessario ai fini della trattazione
qui in oggetto in quanto l’adolescenza è ormai riconosciuta come lo scenario principale,
seppur non esclusivo (Chatoor, 1998), dell’insorgenza di problematiche relative alle
condotte alimentari.
Naturalmente in questa sede non essendo possibile dare conto di tutti questi contributi,
si è scelto di presentare soprattutto le riflessioni maturate in ambito psicoanalitico, il quale
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si è occupato in maniera approfondita di questa particolare fase dello sviluppo umano.
Verrà inoltre assegnata particolare attenzione a quei passaggi del processo adolescenziale
che riguardano più specificamente le ragazze e che rappresentano dei momenti
particolarmente significativi soprattutto per le ragazze anoressiche.
Anche in questo caso, come spesso accade, è utile iniziare affidandosi all’etimologia, la
quale indica come radice del termine adolescenza, adolescere che in latino significa
crescere. Quindi da lungo tempo questa fase della vita viene considerata un passaggio tra
l’infanzia e l’età adulta, la cui caratteristica più evidente è rappresentata dall’incipiente
cambiamento in diverse aree dell’esistenza. Infatti in questo periodo è piuttosto esplicita la
metamorfosi fisica ed emozionale durante le quali il giovane si sente estraniato dal Sé che
fino a quel momento aveva conosciuto. Kestemberg (1962) a questo proposito sottolinea
come una delle sensazioni più tipiche di questo periodo sia il vuoto percepito
dall’adolescente, provocato dal non essere più un bambino, ma neanche ancora un adulto.
Questo duplice movimento di rinnegamento dell’infanzia da una parte e di ricerca di uno
status adulto dall’altra, danno ragione delle diverse manifestazioni osservate in questo
periodo. In questo senso l’adolescenza è sicuramente un periodo di ricerca, sia interiore per
riorganizzare la propria identità, sia esteriore per cercare il proprio posto nella vita. A
questo si aggiunge anche il desiderio progressivo di un'altra persona con cui soddisfare le
esigenze sempre crescenti di intimità e di appagamento. Per alcuni la stabilità emozionale
raggiunta nella fanciullezza e la sicurezza degli attaccamenti familiari limitano l’ampiezza
delle oscillazioni e permettono una direzione abbastanza costante; mentre altri, come ad
esempio le ragazze anoressiche, devono lottare per conservare un senso di unità e un
minimo di controllo dell’Io (Bruch, 1978).
Il passaggio attraverso l’adolescenza quindi rappresenta un periodo critico, attraverso il
quale un bambino ancora nella fase di gioco, fortemente dipendente dalla famiglia e con un
futuro ancora poco definito, diventa responsabile di se stesso, la sua personalità ha assunto
un modello stabile ed il suo futuro inizia a prendere forma. Il periodo che conduce alla
risoluzione dell’adolescenza è particolarmente importante quindi, perché in questo
momento la personalità deve condensarsi in una unità funzionante (Lidz, 1971). Il
raggiungimento di una integrazione riuscita dipende da un passaggio ragionevolmente
riuscito attraverso tutti i precedenti stadi di sviluppo (Blos, 1962), ma anche dalla
soluzione di un certo numero di compiti specifici per l’adolescenza che conducono ad una
reintegrazione e riorganizzazione della struttura della personalità per consentire
all’individuo di funzionare come un adulto ragionevolmente autosufficiente. Infatti il
93
processo adolescenziale culmina, senza con questo voler tracciare un modello
universalmente valido, nella formazione di una stabile identità dell'Io, che consiste
secondo Erikson (1972), in un senso di coerenza unica di comportamento che permette agli
altri di crearsi aspettative su come quella persona reagirà o si comporterà. Il
raggiungimento poi di una identità dell’Io è profondamente collegata con l’acquisizione
della capacità di dirigersi verso l’indipendenza con una persona del sesso opposto, un
intimità che significa molto di più della capacità di avere rapporti sessuali, riguarda
piuttosto la capacità di formare un rapporto significativo senza paura di perdita del Sé
(Lidz, 1971). Ma l’adolescenza è un lungo periodo di sviluppo e vi sono diversi compiti da
eseguire prima che possa essere raggiunta una identità dell’Io. Come già precedentemente
sottolineato l’adolescenza è un processo talmente poliedrico che ciascuno degli studiosi
che ad essa si sono affiancati, ha posto l’accento su un aspetto più specifico, come ad
esempio: l’accesso alla genitalità, il lutto per la perdita degli oggetti infantili, i meccanismi
di difesa, il narcisismo o ancora l’ideale dell’Io, le identificazioni e il corpo. Cercheremo
ora di approfondire alcuni di questi compiti di sviluppo soprattutto in riferimento alla
maturazione psicologica della ragazza..
Il corpo ricopre un ruolo speciale in questo momento dello sviluppo in quanto ad esso si
ascrivono le prime trasformazioni tangibili. Infatti la crescita prepuberale e poi lo sviluppo
puberale propriamente detto, impongono all’adolescente cambiamenti somatici di notevole
portata. Nella ragazza di dieci o undici anni la crescita del seno, della statura, del peso e
più tardi la comparsa delle mestruazioni, impongono necessariamente una profonda
ristrutturazione della sua immagina corporea. In effetti, più che il profondo cambiamento
del suo corpo, quello che più risulta disturbante o soddisfacente per la ragazza è di solito
l’inizio della mestruazione. Il menarca è un momento critico nella vita di una donna e la
frequenza delle difficoltà mestruali di origine emozionale, tra le quali può essere ricondotta
anche l’amenorrea delle ragazze anoressiche, indica che è spesso anche una fonte di acuto
disturbo. Secondo Jacobson (1974) il menarca può riattivare nella ragazza onnipresenti
insoddisfazioni e preoccupazioni rispetto alla femminilità. Può realizzarsi in questo
periodo una riattivazione dell’angoscia di castrazione, già sperimentata nella fanciullezza.
Il modo in cui la ragazza accetta il cambiamento del suo fisico e la mestruazione dipende
anche da altri elementi come: la stabilità della sua identità sessuale, la fermezza
dell’assegnazione del genere da parte dei genitori durante i primi anni di vita, il passare
attraverso il periodo edipico in maniera tale da giungere ad una ferma identificazione con
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la madre, o ancora dalle identità di gruppo acquisite durante il periodo di latenza e dal
rapporto dei genitori tra loro (Chasseguet-Smirgel, 1970)).
Queste trasformazioni corporee portano anche ad influire notevolmente sullo sviluppo
del narcisismo. In certa misura infatti l’attenzione e la preoccupazione dei giovani
adolescenti sono assorbite narcisisticamente, mentre è diretto verso l’acquisto di una nuova
immagine di sé mediante le rapide alterazioni nel fisico e nei sentimenti che portano a
confronti e a intense relazioni con amici dello stesso sesso. Soprattutto nella prima
adolescenza infatti il ragazzo si mantiene sempre all’interno degli stessi gruppi
monosessuali come ha fatto nel periodo di latenza, qui poi inizia ad avere intensi
coinvolgimenti soprattutto con persone dello stesso sesso. La persona adorata è qualcuno
di molto simile a sé o qualcuno che il giovane vorrebbe diventare; in un certo senso è come
se non ci fosse ancora una netta divisione tra identificazione e scelta d’oggetto (Lidz,
1971). Nel processo del muoversi dall’amore di sé all’amore di un’altra persona, l’amore
per qualcuno simile a sé, è una stazione intermedia. Lo sviluppo e la successiva
stabilizzazione del narcisismo adulto sono considerati necessari, l’adolescente deve
scegliere nuovi oggetti ma deve anche scegliere se stesso in quanto oggetto di interesse, di
rispetto e stima (Marcelli e Braconnier, 1999). Il modo in cui certi adolescenti maltrattano
il proprio corpo, e questo è tragicamente evidente nell’anoressia nervosa, può essere
considerato un segno delle loro difficoltà narcisistiche.
Un altro momento critico dell’adolescenza, particolarmente spinoso per le ragazze
anoressiche è l’accesso alla genitalità, in cui l’individuo si affranca dal primato delle
pulsioni parziali pregenitali, per accedere ad una sessualità matura dove gli impulsi e i
desideri vengono diretti verso una persona esterna alla famiglia con la quale poter
instaurare un rapporto di intimità e scambio reciproco. Nel corso di questa evoluzione
ricopre una certa importanza l’esito della riattivazione del complesso edipico, in quanto
con l’insorgere dei sentimenti sessuali c’è anche un qualche risveglio degli investimenti
edipici. Il lavoro del periodo edipico deve essere compiuto ancora una volta ma ad un
livello differente, poiché questa volta i sentimenti sessuali non saranno rimossi quanto
distolti dal genitore. Mentre il maschio in questo periodo inizia ad idealizzare la madre, la
femmina invece si allontana dal padre ed il padre si allontana da lei. Ciò costituisce di
solito la rinuncia primaria del suo attaccamento al padre piuttosto che una ripetizione
(Lidz, 1971). In condizioni ottimali, uno stabile rapporto tra i genitori, i quali mantengono
appropriati limiti tra loro stessi ed il figlio, guida l’adolescente ad una risoluzione
inconscia dell’attrazione verso i genitori, proprio come ha aiutato a produrre la prima
95
risoluzione edipica. Questo processo di trasformazione esprime con chiarezza un altro
passaggio doloroso ma cruciale per l’adolescente e cioè la perdita per i propri oggetti
infantili. Sebbene sia molto comune assistere allo scontro tra un adolescente che richiede
maggiore libertà e i genitori che esitano a concedergliela, gran parte dei conflitti implicano
le stesse ambivalenze del ragazzo allorchè egli è combattutto tra un bisogno di svincolarsi
e i suoi desideri di sicurezza ed affetto che sta lasciando dietro di sé. A questo proposito
alcuni autori hanno paragonato l’adolescenza ad un lavoro di elaborazione del lutto, in
quanto alle modificazioni fisiologiche e pulsionali si aggiunge un altro grande movimento
intrapsichico legato all’esperienza di separazione dalle figure autorevoli dell’infanzia, ad
un cambiamento nelle modalità di relazione e dei progetti e piaceri realizzati in comune.
Il lavoro dell’adolescente, come quello legato all’elaborazione del lutto, consiste
dunque in una “perdita d’oggetto” nel senso psicoanalitico del termine. Questa perdita si
realizza su un duplice livello, come perdita dell’oggetto primario e come perdita
dell’oggetto edipico. In entrambi i casi l’adolescente è indotto a conquistare la propria
indipendenza liberandosi dell’ascendente che i genitori hanno su di lui.
In conclusione, il prodotto finale del complesso lavoro adolescenziale è, o dovrebbe
essere, il raggiungimento di una identità stabile e strutturata. Questo dipende in gran parte
dall'esito delle “operazioni” che l’adolescente è chiamato a realizzare e che in questo
paragrafo sono state succintamente sintetizzate. Ma il modo in cui l’adolescente affronta i
compiti che questo delicato passaggio gli presenta, dipende molto dalla solidità dei diversi
elementi dell’identità che via via si sono costruiti dalla nascita alla pubertà (Erikson,
1972). L’identità rimanda quindi alla qualità delle prime relazioni precoci, costitutive
dell’identità stessa. Più queste relazioni precoci sono state soddisfacenti, più hanno
permesso un investimento del Sé continuo ed equilibrato, più il sentimento d’identità sarà
stabile e sicuro, e meno si farà sentire l’antagonismo tra il bisogno oggettuale e l’integrità
narcisistica in quanto la relazione oggettuale è sempre stata un sostegno per l’identità e non
una minaccia per essa. In questo caso l’avvento dell’adolescenza caratterizzata dalla
necessità di nuovi contatti umani, non minaccerà la base narcisistica dell’individuo
(Marcelli e Braconnier, 1999). In questa prospettiva i disturbi delle condotte alimentari, e
su tutti l’Anoressia Nervosa, assumono nuovi significati, se considerati come una profonda
chiusura nei confronti delle relazioni umane, vissute come minaccianti a causa di una
struttura narcisistica estremamente fragile.
96
ADOLESCENZA E ATTACCAMENTO
Dopo la psicoanalisi vediamo ora un’altra angolatura attraverso la quale è possibile
osservare il processo adolescenziale: la teoria dell’attaccamento.
Parlare di attaccamento nel corso dell’adolescenza può sembrare una cosa con poco
senso, in quanto anche agli occhi di un osservatore profano, l’adolescente appare
continuamente impegnato in un deciso allontanamento dalle proprie figure di attaccamento
e sempre pronto a sottolineare come i legami con i suoi familiari siano qualcosa di
opprimente invece che rassicurante. La preoccupazione maggiore dell’adolescente in
questo periodo non sembra essere più quella dell’attaccamento, ma quella dell’autonomia e
dall’affrancamento dall’influenza genitoriale. Eppure parlare di attaccamento rispetto
all’adolescenza non è banale né infruttuoso, poiché sempre più lavori
sembrano
evidenziare che autonomia e attaccamento, in questa fase della vita, non sono due termini
incompatibili,
ma
al
contrario
continuamente
interconnessi
poiché
la
ricerca
dell’autonomia avviene spesso sullo sfondo di solide e sicure relazioni di attaccamento
(Allen, Hauser, Bell e O’Connor, 1994). Tutto questo è anche teoricamente compatibile
con le affermazioni di Bowlby (1969/1982) e Ainsworth (1972) i quali consideravano i
sistemi comportamentali dell’attaccamento e dell’esplorazione, in equilibrio dinamico tra
loro, equilibrio garantito dalla presenza di un genitore che funzioni da “base sicura”
(Ainsworth, 1972) consentendo al bambino di esplorare l’ambiente circostante con
tranquillità. Quindi non è l’attaccamento di per sé ad essere un nemico dell’esplorazione,
quanto invece un attaccamento insicuro (Ainsworth et al., 1978).
Una volta quindi stabilita la pertinenza dell’approccio, secondo il paradigma
dell’attaccamento l’adolescente evolve dallo stato di colui che riceve cure dai genitori, allo
stato di colui che potenzialmente rivolge le proprie cure a qualcun altro. In questo
passaggio
avvengono
importanti
metamorfosi
a
livello
cognitivo,
affettivo
e
comportamentale. Un cambiamento cognitivo importante di questo periodo e, foriero di
sensibili conseguenze sul sistema di attaccamento, è l’avvento del pensiero formale e
operazionale, che comprende la capacità di ragionamento logico e astratto (Flavell, 1996).
Un importante precipitato di questa capacità a livello di attaccamento è ad esempio la
possibilità di fare estese considerazioni e simulazioni astratte sui rapporti con le diverse
figure di attaccamento sia tra loro che con ipotetiche relazioni ideali. In questo periodo
l’accresciuta funzionalità cognitiva del ragazzo gli consente di produrre elaborazioni di
secondo livello sui suoi schemi d’interazione con i genitori (“Mia madre mi aiuta quando
97
sto male” e “Mio padre mi ignora quando sono in difficoltà”), astraendone una
rappresentazione integrata e complessiva (“Quando ne ho bisogno posso contare su alcune
persone ma non su altre”).
Inoltre l’accesso al pensiero formale permette all’adolescente di formarsi una posizione
generale nei confronti dell’attaccamento, maturata grazie alla generalizzazione e
astrazione, ora possibili, a partire dai molteplici modelli delle diverse relazioni di
attaccamento posseduti durante l’infanzia e la fanciullezza (vanIjzendoorn, 1995).
Nell’adolescente quindi i diversi modelli di attaccamento infantili manifestati con diverse
persone che si prendono cura di loro, si ricompattano in un’unica prevalente
organizzazione del sistema di attaccamento, altamente predittiva del comportamento futuro
nelle nuove relazioni di attaccamento.
Ma lo sviluppo delle capacità cognitive dell’adolescente non influisce solamente sul
modo in cui il ragazzo si rappresenta l’attaccamento, ma anche sui suoi rapporti quotidiani
con i genitori. Il cambiamento più evidente riguarda la capacità di instaurare con i genitori
una relazione corretta secondo lo scopo (Bowlby, 1969/1982), in cui l’adolescente
coordina i propri bisogni e desideri in base alle aspettative di risposta dei propri genitori
formando così un sistema flessibile basato su evoluti meccanismi di feedback.
La natura sempre più corretta secondo lo scopo della relazione genitori-adolescente
rende possibile quella che può apparire come una inconciliabile contraddizione: maturare
sempre di più il proprio senso di autonomia nel contesto di una stretta e durevole relazione
con i genitori (Allen e Land, 1999). Sembra quindi che anche in adolescenza non venga
affatto soppressa una delle caratteristiche più qualificanti l’attaccamento, e cioè il
comportamento di “base sicura” (Ainsworth, 1972). La maggior parte dei giovani si
rivolgerà ancora ai genitori in condizioni di forti stress e i genitori saranno ancora
considerati figure di attaccamento fino alla giovane età adulta. Questa nozione trova
conferma nella ricerca, che suggerisce che la presenza del comportamento rivolto ad
ottenere l’autonomia dell’adolescente tende ad essere fortemente correlato con una positiva
relazione genitoriale (Allen, Hauser, Bell e O’Connor, 1994). Questa osservazione ci
riconduce al peso delle differenze individuali circa l’attaccamento sull’evolversi più o
meno problematico del processo adolescenziale. Ad esempio l’uso da parte degli
adolescenti di strategie preoccupate, secondo la classificazione di Main e Glodwyn (1994),
è stato trovato più strettamente legato a problemi di tipo depressivo, come ad esempio è
evidenziato da Kobak, Sudler e Gamble (1991). Altri studi, dopo aver confermato la
prevalenza di modelli di attaccamento preoccupati/invischiati in adolescenti depressi,
98
mettono in evidenza anche la correlazione esistente tra strategie distanzianti e sintomi di
tipo antisociale come l’abuso di sostanze o i disturbi della condotta (Rosenstein e
Horowitz, 1996). Partendo da questi dati, Kobak (1999) suggerisce che le diverse strategie
di attaccamento potrebbero predire differenti dimensioni psicopatologiche, in quanto le
strategie riflettono diversi approcci nell’affrontare i fattori collegati allo stress. Secondo
questa ipotesi gli adolescenti distanzianti potrebbero sviluppare sintomi che li distraggono
da questi fattori, mentre gli individui preoccupati sviluppano sintomi che mettono in primo
piano gli elementi stressanti e lasciano il sistema di attaccamento in uno stato di maggiore
attivazione. Secondo gli autori la netta prevalenza di strategie distanzianti in adolescenti
con disordini alimentari, supporta la loro ipotesi in quanto l’attenzione data ai
comportamenti alimentari distrae gli individui dai sentimenti di disagio emotivo interno.
Ma, a prescindere da eventuali sbocchi psicopatologici, le strategie di attaccamento in
adolescenza sono anche fortemente collegate alle modalità comunicative e di risoluzione
dei conflitti (Allen e Land, 1999). I giovani con strategie di attaccamento sicuro tendono a
impegnarsi in discussioni produttive, cercando di mantenere un equilibrio fra ricerca di
autonomia e bisogno di attaccamento. I giovani insicuri, al contrario, mostrano una
maggiore tendenza all’evitamento del conflitto, così come un maggiore disimpegno nelle
relazioni con i genitori.
A questo punto del discorso, però, è importante sottolineare per non rimanere
intrappolati in uno sterile monadismo, che l’alta concordanza tra l’organizzazione
dell’attaccamento dei ragazzi e quella dei loro genitori, suggerisce l’opportunità di parlare
più che di adolescenti sicuri o insicuri, di diadi sicure/insicure (Benoit e Parker, 1994).
Infatti in questi casi l’evitamento e la rabbia disfunzionale vengono considerate come
risposte comprensibili se le diadi stanno interpretando gli sforzi degli adolescenti per
raggiungere l’autonomia come una reale minaccia alla relazione diadica. Queste modalità
di interazione delle famiglie di adolescenti insicuri, possono essere potenzialmente
problematiche ad ogni momento dello sviluppo, ma sono particolarmente critiche
nell’adolescenza, quando le lotte per l’autonomia richiederebbero una certa sensibilità
nella negoziazione della relazione con i genitori.
Quanto detto sembra confermare per l’adolescenza quello che ormai appare abbastanza
chiaro per l’infanzia e cioè che l’organizzazione di attaccamento dei figli sembra essere un
interfaccia complementare di quella dei genitori. A questo punto però la domanda cruciale
è: quando l’organizzazione dell’attaccamento diviene proprietà dell’individuo e smette di
essere unicamente il riflesso delle maggiori relazioni di attaccamento della sua vita? Allen
99
e Land (1999), i quali sostengono che l’organizzazione dell’attaccamento rifletta
primariamente una strategia per la gestione delle emozioni intense, sottolineano come, fino
a quando è necessario per l’individuo fare ampiamente affidamento sulla figura di
attaccamento per la regolazione affettiva, è inevitabile e adattativo che la strategia usata
dall’adolescente nella regolazione affettiva sia compatibile con quella del genitore.
Soltanto quando non si farà più affidamento in modo così rilevante sui genitori per regolare
le emozioni sarà possibile che si sviluppi un approccio indipendente e personale nel farlo; e
l’adolescenza secondo questi autori è uno stadio in cui questa trasformazione può più
probabilmente avvenire.
ATTACCAMENTO E DISTURBI DEL COMPORTAMENTO ALIMENTARE
Come abbiamo sottolineato all’inizio di questa sezione, la premessa alle diverse
applicazioni della teoria dell’attaccamento alla psicopatologia negli adulti e negli
adolescenti risiede nel fatto che i tratti comportamentali, cognitivi e affettivi del sistema di
attaccamento sono centrali per lo sviluppo complessivo della personalità e del
funzionamento adattivo. La dimensione dell’attaccamento ha un impatto notevole sulla
formazione delle credenze e delle competenze sociali, sull’emergente senso del Sé, sull’
autoefficacia e l’autostima, sulla capacità di regolare la vita affettiva e sulle motivazioni.
Il risultato di un attaccamento insicuro include non solo il rischio di un deterioramento
significativo in queste aree di funzionamento, ma anche la possibilità di una profonda
rottura o ritardo nello sviluppo psicologico individuale attraverso i “periodi sensibili”
(Cicchetti, 1993). Questo può essere particolarmente vero nei periodi che richiedono una
trasformazione delle relazioni di attaccamento. Chiaramente l’adolescenza, con la sua
enfasi sulla separazione dai genitori e sull’acquisizione dell’indipendenza, è un periodo
sensibile chiave per il sistema dell’attaccamento (Holmbeck e Hill, 1986). Considerando
che la maggior parte dei casi di disturbo alimentare hanno esordio durante l’adolescenza
sembra evidente come questi sintomi possano essere una manifestazione di una
negoziazione
maladattiva dell’adolescenza come anche della rottura dei processi di
attaccamento a questo livello di sviluppo (Striegel-Moore et al. 1993)
Di fatto la prima studiosa che si accorse dell’esistenza di uno stretto legame tra
attaccamento ed alimentazione fu Hilde Bruch (1973, 1978), una psicoanalista “classica”
che intuì la significativa relazione intercorrente tra l’attaccamento e le precoci esperienze
alimentari, sottolineando la natura fortemente interattiva della situazione di allattamento
100
(Bruch, 1973). Trovò inoltre particolarmente fruttuosi e coerenti con il suo atteggiamento
teorico i lavori che intorno a quegli anni andava pubblicando la Ainsworth (1967, 1969), la
quale, prima di mettere a punto la sua procedura per valutare la sicurezza dell’attaccamento
nel bambino in laboratorio alla fine del primo anno (Ainsworth, 1978), stabilì dei punti
fissi nel comportamento di accudimento del genitore particolarmente correlati con la
sicurezza dell’attaccamento nel bambino. Qualità come sensibilità ai segnali, cooperazione
piuttosto che interferenza, accettazione anziché rifiuto e disponibilità contro indisponibilità
sembravano definire il profilo di una adeguata figura di attaccamento. Di questi contributi
Bruch (1973) colse soprattutto le parti in cui Ainsworth (1969) sottolineava come bambini
di dodici mesi i quali avevano sperimentato, negli episodi di nutrizione, interazioni con le
loro madri appropriate e rispettose dei propri bisogni e cui era stata permessa una attiva
partecipazione all’allattamento, mostravano un attaccamento più forte alle loro madri, con
una chiara tendenza a cercare la loro vicinanza ed esprimendo stress durante la loro
assenza. Al contrario bambini con esperienze di nutrimento inadeguate mostravano poca o
addirittura assente ricerca della vicinanza o del contatto e non mostravano il consueto
comportamento di aggrappamento quando venivano presi in braccio, anzi spesso
resistevano a questa iniziativa della madre. Quando la madre tornava dopo una assenza,
essi la ignoravano e in alcuni casi si allontanavano da lei.
Bruch utilizzò queste osservazioni della Ainsworth, che qualche anno più tardi come
abbiamo visto si sarebbero perfezionate nell’individuazione dei tre modelli di
attaccamento, per perorare le proprie idee sull’eziopatogenesi dei disturbi alimentari, da
essa attribuiti ad un mancato rispetto, da parte della madre nel corso delle precoci
interazioni, soprattutto nelle situazioni di nutrizione, della autonomia e dei ritmi propri del
bambino, imponendo invece i propri. Spesso, continua Bruch (1978), nelle storie cliniche
dei soggetti affetti da problemi alimentari, si è cercato non sempre con successo, la
presenza di grave negligenza, rifiuto e cronica mancanza di amore, mentre secondo questa
studiosa il conflitto è più sottile e risiederebbe nel fatto che la risposta ai bisogni del
bambino da parte della madre è spesso inappropriata, in quanto quest’ultima agisce in base
a quello che lei crede siano i bisogni del bambino, spesso però sbagliando in questa sua
valutazione ed imponendo i propri.
Più o meno nello stesso periodo ci furono altri due autori che produssero contributi in
qualche modo avvicinabili a quelli di Bruch. Palazzoli (1978), ad esempio ha descritto la
relazione patologica tra il bambino e una madre intrusiva, emotivamente fredda ed
esigente, la quale viene poi interiorizzata dal bambino come una rigida funzione di
101
controllo. Al momento dell’adolescenza l’individuo deve confrontarsi con l’insopprimibile
esigenza di autonomia e con l’incremento delle urgenze libidiche legate alle trasformazioni
del corpo. Attraverso l’identificazione con la propria relazione materna, la ragazza
anoressica tenta di regolare l’ansia scaturita dalle proprie esigenze libidiche e di
separazione psicologica controllando il proprio sviluppo fisico e quindi rimanendo magra.
Analogamente Masterson (1977) ha sottolineato come nelle precoci interazioni con la
madre la futura ragazza anoressica venisse attribuito grande valore alla dipendenza e come
anche i minimi segni di separazione e indipendenza esponessero la bambina ad una intensa
minaccia di abbandono da parte della madre. Questa dinamica relazionale porta ad una
schiacciante paura dell’abbandono nella bambina e ad una profonda confusione
nell’adolescente qualora ella tenti di realizzare i suoi fisiologici movimenti verso
l’individuazione e la separazione. Tale paura e confusione viene risolta dalle anoressiche
attraverso un evitamento della maturazione fisica che diventa il simbolo del rifiuto di un
funzionamento psicologico autonomo. Malgrado quindi le differenze di enfasi, ognuno dei
contributi sopracitati considera specifici disturbi nelle precoci relazioni madre-bambino, la
lotta per l’autonomia durante l’adolescenza, il mantenimento di un corpo prepubere
attraverso l’ossessiva ricerca della magrezza, come gli elementi costituenti del nucleo
fondamentale alla base della Anoressia Nervosa.
Anche nell’ambito della Bulimia Nervosa, però, possiamo trovare contributi in linea con
quanto detto finora circa l’Anoressia. Infatti Sugarman e Kurash (1982) indicano che una
inadeguata empatia nei confronti del bambino nelle precoci interazioni mina il normale
processo di differenziazione corporea, portando ad una ostile o quantomeno ambivalente
connessione tra il piccolo e le proprie funzioni corporee, così come ad una incompleta o
attenuata separazione dalla madre. Il flusso dei cambiamenti corporei in adolescenza,
insieme all’accresciuta necessità di autonomia psicologica e fisica, riportano il soggetto
alla riattivazione di quei sentimenti ostili-ambivalenti che sono stati internalizzati ad un
livello presimbolico e che vengono rivissuti a livello del corpo considerato come una
incarnazione simbolica dell’oggetto primario.
Tutti gli autori citati finora sono accomunati dall’importanza da essi attribuita al
fallimento nello sviluppo del processo di separazione-individuazione come nucleo
dinamico alla base dei disturbi alimentari. L’adeguata risoluzione di questo processo, così
come era stato teorizzato da Mahler et al. (1975), porterebbe ad una stabile separazione sia
fisica che cognitiva dall’oggetto materno, che mancherebbe invece nei soggetti affetti da
Anoressia e Bulimia. Questo approccio nei confronti dei disturbi alimentari, basato sul
102
paradigma della separazione-individuazione, era il quadro di riferimento forte a livello
psicodinamico, allorquando alcuni ricercatori si posero il problema di applicare la teoria
dell’attaccamento ai disturbi alimentari. Sebbene sul piano teorico i due modelli di
psicologia dello sviluppo presentino due concezioni dell’infanzia tra loro inconciliabili, sul
piano clinico sembra possibile rintracciare alcune somiglianze.
Nei termini della teoria dell’attaccamento, lo sviluppo dell’autonomia, fattore centrale
per gli autori ispirati al modello di Mahler, è equivalente alla libertà di esplorazione
dell’ambiente sociale e fisico, la quale è a sua volta direttamente proporzionale alla
sicurezza delle relazioni di attaccamento e all’interiorizzazione di questo senso di sicurezza
(Hazan e Ziefman, 1994). L’ipotizzata iperintrusività e presumibilmente una impropria
tendenza alla protezione della madre dell’anoressica non consente alla bambina di
sviluppare delle competenze adattive nel tollerare lo stress e l’angoscia associate alle
minacce di separazione. La previsione, secondo la teoria dell’attaccamento, è che questi
bambini presenteranno modelli insicuri quando il sistema di attaccamento verrà minacciato
da una separazione. Sebbene vi siano stati risultati incoraggianti, finora non è stato
possibile individuare uno specifico modello di attaccamento coinvolto nell’anoressia in
quanto la ricerca patologica della magrezza e la valutazione dell’autostima completamente
affidata al peso ed alle forme corporee, potrebbero essere interpretate come l’espressione
sia di un attaccamento insicuro-evitante che insicuro-ambivalente (O’Kearney, 1996).
Sarebbe possibile infatti ipotizzare che la preoccupazione della anoressica per il proprio
corpo le permetta di limitare l’importanza della famiglia e delle relazioni con i pari
evitando quindi l’ansia coinvolta nella separazione dalla famiglia e nelle nuove relazioni
con
gli
altri
(attaccamento
Distanziante
secondo
Main
e
Goldwyn,
1994).
Alternativamente, però, l’enfasi posta sulle forme del corpo, sul peso e sull’apparenza
fisica, potrebbero essere viste come un’ ipervigilanza circa il giudizio degli altri e circa la
possibilità di essere criticato, respinto o abbandonato (attaccamento preoccupato) (StriegelMoore, Silberstein e Rodin, 1993).
Relativamente alla Bulimia, tratti fondamentali come la perdita del controllo e della
volizione, associate alla frenetica assunzione di cibo, potrebbero riflettere in termini di
attaccamento un’ incontrollabile angoscia di separazione collegata ad un modello di
attaccamento insicuro-ambivalente. Infatti le oscillazioni tra periodi
di restrizione e
periodi di alimentazione caotica, molto comuni nella Bulimia, suggeriscono un parallelo
movimento nelle funzioni di attaccamento. Anche qui però, come nel caso dell’anoressia,
103
non sono possibili più precisi collegamenti con un particolare modello di attaccamento
insicuro sulla base dei dati attualmente disponibili. (O’Kearney, 1996).
A cavallo tra gli anni ’80 e ’90, agli albori della ricerca sperimentale nel campo dei
disturbi alimentari gli studiosi dell’attaccamento erano animati dalla speranza di costruire
collegamenti specifici tra i diversi quadri clinici, come Anoressia e Bulimia, e gli stili di
attaccamento. In particolare le previsioni teoriche consentite dalla teoria dell’attaccamento
sottolineano le analogie tra Anoressia e attaccamento evitante-distanziante, e tra Bulimia e
attaccamento ansioso-preoccupato. Come spesso accade i dati della ricerca hanno in parte
messo in discussione le ipotesi di partenza, ma i risultati raccolti hanno comunque
confermato la bontà dell’approccio. Passeremo ora in rassegna alcuni degli studi che hanno
sottolineato la relazione tra attaccamento e disturbi alimentari e lo faremo facendo
riferimento agli strumenti di misurazione più spesso utilizzati. Sebbene gli studi in questo
campo siano numerosi, ma non numerosissimi, il quadro che ne emerge è piuttosto
articolato, anche se qualche volta, è necessario ammetterlo, la complessità attraversa il
sottile confine che la separa dalla confusione.
ADULT ATTACHMENT INTERVIEW E DISTURBI ALIMENTARI
Due studi (Cole-Detke e Kobak, 1996; Fonagy et al. 1996) hanno analizzato
l’associazione tra stati della mente relativi alle esperienze di attaccamento e disturbi
alimentari e sono addivenuti a risultati in qualche modo contrastanti. Cole-Detke e Kobak
hanno somministrato ad un campione non clinico di giovani universitarie l’Eating
Disorders Inventory (EDI) per la valutazione delle problematiche alimentari, il Beck
Depression Inventory (BDI) per la valutazione dell’umore e la Adult Attachment Interview
per la misurazione degli stati mentali riferiti all’attaccamento. Bisogna sottolineare che
questo studio non prevedeva la quarta categoria Irrisolto/disorganizzato della AAI e che
nessuna delle ragazze esaminate presentava problemi di tipo anoressico. Gli autori hanno
riscontrato che il tipo di stati mentali differiva in modo significativo a seconda che le
ragazze riferissero disturbi alimentari, depressione, una combinazione dei due o nessuno
dei due. Le ragazze che riferivano soltanto disturbi alimentari venivano classificate con
maggiore frequenza come Distanzianti; quelle invece che riferivano una combinazione di
disturbi alimentari e depressione venivano classificate più frequentemente come
Preoccupate, in modo analogo alle ragazze che riferivano soltanto depressione.
104
Fonagy et al. (1996) al contrario di Cole-Detke e Kobak, hanno somministrato l’AAI
utilizzando tutte e quattro le categorie e ad essa hanno affiancato il Reflective SelfFunctioning (RSF) il quale valuta la qualità delle rappresentazioni individuali degli stati
mentali, propri e degli altri. Dei 14 pazienti ricoverati per disturbi alimentari (di cui
Fonagy et al. (1996) non specificano il tipo), uno risulta Sicuro/Autonomo, nove sono
Preoccupati e quattro Distanzianti nella classificazione dell’AAI. Il dato peculiare di
questo studio però è che dei 14 pazienti, 13 risultavano, oltre che Preoccupati o
Distanzianti, anche Irrisolti rispetto ad un abuso o ad una perdita. Correlando i due
strumenti, poi, gli autori hanno riscontrato una positiva associazione tra l’idealizzazione
delle figure di attaccamento, quale emergeva dalla AAI, ed una bassa funzione riflessiva:
indipendentemente dalla categoria di attaccamento, cioè, la dimensione “idealizzazione dei
genitori” risultava predittiva di una scarsa capacità di riflettere sui propri stati emotivi.
Questi due studi sono in parte contrastanti poiché in uno le persone con disturbi
alimentari risultano più spesso Distanzianti mentre nell’altro risultano più spesso
Preoccupate, ma anche perché lo studio di Fonagy et al. sottolinea l’importanza della
categoria Irrisolto mentre lo studio di Cole-Detke e Kobak non prende neanche in
considerazione questa dimensione. Però, ad una analisi più approfondita, non sono
completamente assenti anche i punti di contatto: infatti grazie al riscontro di un’ alta
percentuale di persone classificate come Distanzianti nel proprio campione, Cole-Detke e
Kobak (1996) hanno dedotto che le donne con disturbi alimentari tentano di controllare il
proprio mondo interno attraverso il disturbo alimentare e che il tipo di controllo esercitato
è orientato esternamente. Questo tipo di controllo viene scelto secondo gli autori poiché le
donne con disturbi alimentari non sono in grado di analizzare i propri stati psicologici e di
fronteggiarli, invece di dirigere l’angoscia sui loro corpi. Quest’ultima conclusione però è
piuttosto coerente con l’accento posto da Fonagy et al. (1996) sul fatto che le ragazze del
proprio campione abbiano ricevuto dei punteggi piuttosto bassi sulla scala che misura la
qualità della funzione riflessiva.
Ramacciotti et al. (2001) hanno esaminato con l’AAI un campione di 13 soggetti (7
femmine e 6 maschi) con diagnosi di Anoressia ottenuta attraverso una Intervista Clinica
Strutturata basata sui criteri del DSM IV. L’attaccamento insicuro è risultato essere il più
frequente in questo campione e specificamente 5 soggetti sono stati classificati Distanzianti
e 4 Preoccupati-Invischiati. Gli autori sottolineano come l’attaccamento insicuro, la paura
dell’abbandono e le difficoltà con l’autonomia differenziano i giovani soggetti con disturbi
alimentari
dai loro coetanei normali. Le rappresentazioni di sé e degli altri sono
105
caratterizzate da insicurezza, disprezzo delle relazioni interpersonali e rabbia, tutti elementi
che giocano un ruolo centrale nell’Anoressia. Questo studio apporta ulteriore sostegno
all’idea che la mancanza di fiducia in sé stessi e l’insicurezza, che pervadono l’esperienza
delle anoressiche e bulimiche, possono dipendere dalle relazioni sperimentate nel corso
dell’infanzia durante la quale i genitori non sono stati in grado di fornire una base sicura.
Sebbene questo di Ramacciotti et al. (2001) sia indubbiamente un contributo prezioso, ne
vanno però sottolineati i limiti, tra l’altro molto comuni in questo campo di ricerca, come
l’esiguità del campione e la mancanza di un gruppo di controllo, normale o con altri
disturbi psichiatrici non alimentari.
Piuttosto stimolante è anche la ricerca presentata da Ward et al. (2001) tendente a
stabilire l’eventuale consistenza della trasmissione intergenerazionale dei modelli di
attaccamento tra pazienti anoressiche e le loro madri. Le previsioni degli autori erano
quelle di trovare: 1) un alto livello di insicurezza tra le pazienti anoressiche; 2) un più alto
livello di insicurezza tra le madri rispetto a quello previsto nella popolazione normale; 3) la
presenza di una associazione tra stati della mente relativi attaccamento all’interno delle
coppie madre-figlia. Lo sfondo teorico di questo lavoro è rappresentato non solo dai dati
che sostengono una stabilità dei pattern di attaccamento tra le generazioni (Benoit e Parker,
1994; Fonagy et al. 1996), ma anche da una intuizione della Bruch (1973) la quale
suggeriva che le difficoltà interne della madre venivano proiettate sul bambino. Ward et al.
(2001) hanno studiato 20 ragazze anoressiche e 12 delle loro madri. A tutti i partecipanti
veniva chiesto di completare l'AAI, mentre le madri hanno dovuto completare anche la
Clinical Interview Schedule Revised (CIS-R) per indagare una eventuale sintomatologia
psichiatrica.
I risultati confermano le prime due ipotesi di questo studio, ma non la terza. Il 95%
delle ragazze (75% Distanzianti e 20% Preoccupate) ed il 66% delle madri (58%
Distanzianti e 8% Preoccupate) presenta un modello di attaccamento insicuro. Non solo, un
dato ancora più significativo è che 8 madri su dieci erano irrisolte rispetto esperienze di
lutto e 8 ragazze su sedici (poiché in quattro casi non è stato possibile raccogliere
informazioni sufficienti) erano classificate irrisolte rispetto a una perdita o a un trauma. In
questo studio tuttavia non è emersa nessuna significativa associazione fra gli stati della
mente relativi all’attaccamento all’interno delle coppie madre-figlia. Comunque la
preponderanza dello stile distanziante sia tra le madri che tra le figlie consente a Ward et
al. (2001) di sottolineare il parallellismo tra allontanamento difensivo di emozioni
potenzialmente dolorose legate all’attaccamento, tipico del modello Distanziante, e la
106
negazione della fame nelle anoressiche. Queste pazienti risultano, secondo gli autori, più
lente nel generare specifiche memorie autobiografiche in risposta a domande cariche di
significato affettivo. Inoltre in questo gruppo i livelli autoriportati di abuso genitoriale
correlano fortemente con la tendenza a produrre resoconti generali, piuttosto che specifici e
circostanziati, rispetto ad eventi negativi. Secondo Ward et al. (2001) questo riflette una
distorsione cognitiva dei processi difensivi che è collegata con precedenti esperienze
avverse e suggerisce che non solo il modello Distanziante è molto diffuso ma che la
mancata risoluzione del lutto può essere più comune in queste famiglie di quanto si sia
abitualmente creduto.
PARENTAL BONDING INSTRUMENT E DISTURBI ALIMENTARI
Il Parental Bonding Instrument (PBI) (Parker et al. 1979), è un questionario che non fa
esplicito rimando alla teoria dell’attaccamento, ma merita comunque di essere menzionato
in questa sede, poiché diverse ricerche sui disturbi alimentari si sono avvalse di questo
strumento, compreso il lavoro qui presentato.
La presenza di un “legame” (bond) tra i genitori e i figli è ampiamente accettato, anche
se già Bowlby (1969/1982) lamentava la mancanza di una soddisfacente definizione del
concetto. Teoricamente si assume che il legame genitore-bambino sia ampiamente
influenzato dalle caratteristiche individuali del bambino (temperamento/intelligenza),
dalle caratteristiche dei genitori (fattori psicologici/culturali) e dalla dinamica
interconnessione di questi due fattori (Caprara e Gennaro, 1994).
Parker, Tupling e Brown (1979), si sono posti il problema di esaminare il contributo
genitoriale al legame con il bambino e di isolarne i fattori principali. Secondo questi autori
per raggiungere tale scopo era necessario misurare i comportamenti ed atteggiamenti
genitoriali, per poi estrarne dei fattori. A questo proposito Parker et al. citano i lavori di
Roe e Siegelman (1963) e Schaefer (1965) i quali dopo aver sottoposto un campione di
bambini ad una serie di item relativi al comportamento dei loro genitori, attraverso analisi
fattoriale hanno distinto due principali fattori bipolari: 1) Accettazione/Rifiuto; 2)
Autonomia/Controllo. Alla luce di questi contributi Parker et al. (1979) decidono che il
contributo genitoriale al legame può essere concettualizzato sulla base di due principali
variabili: Cura e Iperprotezione. Questa posizione teorica porta alla creazione del PBI un
questionario di autovalutazione che consente di apprezzare in che modo il soggetto
percepisce i comportamenti e gli atteggiamenti dei genitori nei suoi confronti. Lo
107
strumento esprime due dimensioni, la Cura e la Iperprotezione, che vengono considerati
congiuntamente rispetto a ciascun genitore. Un punteggio alto relativamente alla Cura e
basso per la Iperprotezione, sono espressione di un livello ottimo di genitorialità.
Russell et al. (1992) hanno voluto verificare, utilizzando proprio questo strumento la
consistenza di alcune caratteristiche solitamente attribuite alle ragazze anoressiche ed alle
proprie famiglie, soprattutto nella letteratura clinica (Bruch, 1973; Masterson, 1977).
Le famiglie di queste pazienti infatti, vengono spesso descritte come rigide, invischiate,
iperprotettive ed evitanti rispetto ai conflitti (Minuchin et al. 1978). I genitori di questi
pazienti sono stati notati per essere più vecchi rispetto alla media e sono stati descritti
come conformi ad un certo tipo di stereotipi, il più diffuso dei quali è quello che vuole le
madri come dispotiche e dominanti ed i padri come deboli e remissivi. Questo studio ha
confrontato i risultati di un gruppo di 54 ragazze anoressiche con quelli di un gruppo non
clinico di adolescenti e di un gruppo con diversi disturbi psichiatrici, esclusi quelli
alimentari. Tutte le ragazze anoressiche tranne due, vivevano con le proprie famiglie.
I risultati hanno sostanzialmente disatteso le aspettative legittimate dalla letteratura
tradizionale. Le pazienti con Anoressia Nervosa hanno riportato, sia rispetto alle madre che
al padre, un più alto livello di Cura e un più basso livello di Iperprotezione, rispetto al
gruppo di pazienti non anoressiche: i loro punteggi erano, cioè, assai più vicini al gruppo
non clinico per quanto riguarda Iperprotezione e Cura. Inoltre, pur valutando l’esperienza
con i genitori in modo analogo al gruppo non clinico rispetto alla dimensione della Cura, le
pazienti anoressiche di questo studio hanno mostrato addirittura una tendenza a considerare
i propri genitori come meno iperprotettivi.
Questi risultati però sono stati messi in discussione da diversi studi che, sempre
utilizzando il PBI, hanno invece posto in evidenza quanto l’entità delle cure genitoriali,
soprattutto materne, fosse percepita come scarsa dalle adolescenti anoressiche. Palmer.
Oppenheimer e Marshall (1988) in uno studio su 72 pazienti (35 con Anoressia e 37 con
Bulimia) riportano che questi soggetti riferiscono di un atteggiamento materno lacunoso
rispetto alle cure e quindi meno caloroso, affettuoso ed empatico. Solo le bulimiche di
questo campione descrivevano anche i loro padri come meno affettuosi e interessati.
Nessuno dei due gruppi però differiva da un campione di controllo nei termini della
Iperprotezione percepita sia materna che paterna. Il riscontro, comune nei due studi appena
presentati, di un basso livello di Iperprotezione nel campione con disturbi alimentari, trova
argomentazioni contrarie nel lavoro di Pole, Waller, Stewart e Parkin-Feigenbaum (1988),
dove una proporzione significativamente bassa del proprio campione di 56 bulimiche
108
percepiva entrambi i genitori con un alto livello di Cura ed un basso livello di
Iperprotezione; in particolar modo le madri ricevevano punteggi più bassi nella Cura e i
padri punteggi più alti nella Iperprotezione. Questi risultati sono stati parzialmente replicati
da Calam, Waller, Slade e Newton (1989) i quali hanno preso in considerazione 98 donne
con Anoressia e Bulimia, queste ultime distinte dagli autori tra quelle con o senza una
storia di Anoressia. Questi soggetti e i 242 facenti parte del gruppo di controllo hanno
completato il PBI. I punteggi relativi alle cure materne e paterne e quelli relativi alla
iperprotezione paterna erano in grado attendibilmente di discriminare tra il gruppo di
controllo ed il gruppo clinico, particolarmente nei confronti delle bulimiche con storie di
Anoressia Nervosa.
Questo aspetto è stato ulteriormente approfondito da Steiger, Van deer Feen, Goldstein
e Leicher (1989) i quali hanno utilizzato il PBI con un gruppo clinico di 58 donne con
Anoressia di tipo restrittivo, Bulimia con o senza storia di Anoressia, Bulimia di tipo
anoressico ed un altro gruppo clinico di 24 donne con disturbi non alimentari. I risultati del
PBI mettono in rilievo delle significative differenze tra i due gruppi, rispetto alle
dimensioni di Cura e Iperprotezione paterne. Le pazienti con disturbi alimentari
classificano i propri padri come più inadeguati rispetto alle cure di quanto non facciano i
soggetti del gruppo clinico non alimentare. Inoltre una ragguardevole disuguaglianza circa
la protezione paterna emergeva soprattutto a carico delle bulimiche di tipo anoressico le
quali percepivano i loro padri come intensamente iperprotettivi. Non c’erano tra i due
gruppi considerevoli differenze circa i punteggi di cura e protezione materne.
Per concludere questa digressione sui contributi apportati dal PBI allo studio dei
disturbi alimentari è opportuno citare il lavoro che Berger et al. (1995) hanno condotto in
Giappone allo scopo di investigare la forza del legame tra abusi infantili e disturbi
alimentari. La percezione del legame genitoriale è stata studiata in 52 ragazze giapponesi
con disturbi alimentari, che avevano avuto o meno storie di abuso sessuale o fisico e che
mostravano tratti di dissociazione. La strumentazione usata in questo studio comprendeva,
oltre il PBI, la Dissociative Experiences Scale (DES) e la Dissociative Disorders Interview
Schedule (DDIS). Il primo è un questonario autosomministrato che ha lo scopo di rilevare i
disturbi dissociativi, mentre la seconda è una intervista usata per accertare la presenza di
storie di abuso fisico o sessuale.
I punteggi del PBI erano paragonati tra le ragazze che riportavano storie di abuso
infantile e quelle che non ne riportavano. Uno dei risultati insieme interessante e
controverso di questo studio è che i punteggi di Cura materna
e quelli di Cura e
109
Iperprotezione paterni erano significativamente più bassi in quei soggetti che riportavano
abuso fisico, ma non tra quelli in cui era stato riscontrato abuso sessuale. I punteggi di
Iperprotezione materna non differivano sostanzialmente tra i due gruppi. Risultati analoghi
apparivano sul versante della DES dove solo i soggetti con storia di abuso fisico fornivano
un punteggio alto su questo strumento.
Infine non sono state riscontrate importanti correlazioni tra i punteggi del PBI e quelli
del DES. La scoperta fondamentale di questo studio è che le valutazioni del
comportamento genitoriale
differiscono cospicuamente tra pazienti con problemi
alimentari che hanno conosciuto nell’infanzia l’abuso fisico e quelli senza tali esperienze.
La Cura materna e paterna erano molto più basse e la Iperprotezione paterna molto più alta
nei pazienti con abuso fisico, ma non in quelli con abuso sessuale. Il livello di
Iperprotezione materna non differiva per ognuna delle categorie di abuso. Gli autori
ipotizzano che uno dei motivi della discrepanza di punteggi al PBI e alla DES, tra individui
con abuso fisico rispetto a quelli con abuso sessuale sia che la gravità dell’abuso sessuale
non avesse lo stesso impatto traumatico dell’abuso fisico. Berger et al. (1995) poi
sottolineano come, a causa della differenza osservata nei punteggi del PBI tra quelli che
hanno o meno avuto storie di abuso nel loro passato, sia consigliabile per un clinico tenere
in considerazione l’ipotesi di un abuso infantile, quando si trova ad interpretare il PBI di un
paziente con disturbi alimentari.
La maggioranza dei lavori presentati in questo paragrafo suggeriscono la possibilità di
rivedere lo stereotipo della madre dominante e del padre debole e sottomesso poiché
iniziano a divenire sempre più numerose le evidenze empiriche che mettono in risalto
l’incidenza di un padre iperprotettivo e controllante nella storia di vita di queste persone.
ALTRE MISURE DELL’ATTACCAMENTO E DISTURBI ALIMENTARI
Quantunque la AAI (George, Kaplan e Main, 1985) venga da molti considerata la “gold
standard” (Ward et al. 2000) degli strumenti per la valutazione dell’attaccamento
nell’adulto, nel campo di ricerca dei disturbi alimentari diversi altri strumenti hanno
fornito importanti contributi a questa area di studi.
Salzman (1997) ha condotto uno studio in cui ha avuto la possibilità di osservare un
legame piuttosto consistente tra un particolare pattern di attaccamento e due correlati
clinici di una certa importanza: instabilità affettiva e disturbi alimentari. Utilizzando
l’Adolescent Attacchment Interview (Salzman, 1988) ed una scala di valutazione delle
110
autodescrizioni e delle esperienze interpersonali, l’autrice ha avuto modo di constatare
differenze statisticamente significative tra attaccamento Sicuro, Ambivalente ed Evitante
rispetto a tre variabili di personalità come depressione, autostima e identificazione negativa
con la madre. I soggetti con attaccamento Ambivalente mostrano drammatiche differenze
in queste dimensioni rispetto ai soggetti Sicuri o Evitanti. Le scoperte in questo studio di
Salzman però non finiscono qui, infatti inaspettatamente l’autrice ha riscontrato anche che
degli 11 soggetti classificati con attaccamento Ambivalente 7 riportano disturbi alimentari
( soprattutto Anoressia Nervosa o Anoressia di tipo bulimico) e 9 testimoniano alti livelli
di sentimenti intensamente dolorosi. Questa inaspettata correlazione tra attaccamento
Ambivalente e disturbi alimentari conferisce forza alle osservazioni riportate da Cassidy
(1988) la quale riscontrò una chiara tendenza, nei bambini e negli adolescenti Ambivalenti,
ad esprimere ansia sotto forma di sintomi espliciti o di preoccupazioni per le forme
corporee. L’analisi delle interviste di queste ragazze ha consentito a Salzman (1997) di
ipotizzare che i sintomi alimentari siano un’ espressione trasfigurata della paradossale
oscillazione tra amore e odio, calore e freddezza così tipiche del modello Ambivalente di
attaccamento. Questi soggetti accusano infatti, durante l’adolescenza, la sensazione di non
padroneggiare un solido senso di autoregolazione né una responsività condivisa all’interno
delle relazioni di attaccamento. Piuttosto esse percepiscono se stesse come intrappolate nel
paradosso tra bramosia verso la madre e la volontà di respingerla. Salzman, facendo eco a
Bruch (1973) suppone che queste ragazze solo all’interno del sintomo anoressico,
soprattutto di tipo bulimico, siano padrone di qualcosa, e cioè di orchestrare le proprie
oscillazioni. Il comportamento anoressico delle figlie è lo specchio di quello che hanno
vissuto nelle relazioni di attaccamento. La caratteristica comune delle precoci transazioni
alimentari così come del modello Ambivalente di attaccamento è che ognuna di queste
esperienze non era regolata dai bisogni di cura e di attenzione del bambino o
dell’adolescente, ma dalle necessità materne.
La stessa enfasi nei confronti del ruolo dell’attaccamento Ambivalente-Preoccupato
nell’esordio dei disturbi alimentari è condiviso da Friedberg e Lyddon (1996), i quali
hanno utilizzato il Relationship Questionnaire (RQ) di Bartholomew e Horowitz (1991) per
testare le posizioni di Guidano (1988) in merito all’organizzazione cognitiva personale
(P.C.Org.) di individui con disturbi alimentari. Guidano (1988) ha suggerito che
l’organizzazione cognitiva personale di questi soggetti è caratterizzata da una debole
demarcazione tra sé e gli altri, per cui l’identità individuale è organizzata intorno ad un
forte bisogno di approvazione da parte degli altri significativi, congiunto con una pervasiva
111
paura di essere rifiutato dagli altri e con una scarsa consapevolezza dei propri desideri.
Naturalmente è piuttosto evidente la somiglianza di questo assetto cognitivo interno con
quello che in termini di attaccamento viene considerato lo stato della mente PreoccupatoInvischiato rispetto alle passate esperienze di attaccamento (Main e Golddwyn, 1994)).
Il Relationship Questionnaire è una estensione empirica della concettualizzazione di
Bartholomew (1990) il quale sviluppa quattro categorie di attaccamento basate sulla
combinazione incrociata di diversi tipi di modelli operativi interni del Sé e degli altri:
Sicuro (modello di sé positivo/modello degli altri positivo); Preoccupato (modello di sé
negativo/ modello degli altri positivo); Distanziante (modello di sé positivo/modello degli
altri negativo); Spaventato (modello di sé negativo/modello degli altri negativo). Freidberg
e Lyddon (1996) amalgamando entrambi i contributi di Guidano e Bartholomew hanno
confrontato un campione non clinico con uno clinico di 17 soggetti (7 con Anoressia
Nervosa e 10 con Bulimia Nervosa) rispetto ai risultati ottenuti con la RQ. Una analisi
discriminante ha consentito di rilevare che gli stili di attaccamento Sicuro e Preoccupato
erano i più efficaci nel discriminare tra i soggetti che sarebbero stati inclusi nel gruppo non
clinico rispetto a quelli assegnati al gruppo con disturbi alimentari. Secondo il pensiero di
Bartholomew (1990) il modello Preoccupato è contraddistinto da personalità dipendente,
ipercoinvolgimento nelle relazioni, continua ricerca di accettazione da parte di altri
idealizzati e mantenimento di un basso livello di valore personale; tutti elementi che
vengono attribuiti da diversi ricercatori (Freidberg e Lyddon, 1996), ai pazienti con
disturbi alimentari soprattutto se bulimici..
Lynda
Chassler
(1997)
utilizzando
l’Attacchment
History
Questionnaire
(Pottharst,1990) ha messo a confronto un gruppo composto da 30 donne sia Anoressiche
che Bulimiche, con un gruppo di controllo di 31 studentesse universitarie, allo scopo di
determinare la connessione tra relazioni di attaccamento e disturbi alimentari. L’AHQ è
una intervista strutturata che esprime quattro fattori: 1) Base sicura di attaccamento; 2)
Disciplina genitoriale; 3) Minacce di separazione; 4) Supporto affettivo dei pari. In questo
lavoro i soggetti del gruppo clinico hanno riportato punteggi significativamente più bassi
dei controlli sui fattori 1 e 4, mentre i punteggi erano più alti dei controlli sui fattori 2 e 3.
Questi dati di Chassler aggiungono supporto empirico alla speculazione teorica secondo la
quale le anoressiche e le bulimiche percepiscono una storia di attaccamento più
fallimentare, sia in termini di natura che di qualità del proprio attaccamento alle figure
primarie, rispetto ai soggetti normali.
112
ATTACCAMENTO E DISTURBI ALIMENTARI: CONCLUSIONI
Presi nella loro totalità, i dati passati in rassegna in questa sezione supportano l’ipotesi
che una certa quota di disturbi dell’attaccamento risultino evidenti in adolescenti con
disturbi alimentari. Questi studi suggeriscono che ansia, attaccamento insicuro, paura
dell’abbandono e difficoltà con lo sviluppo dell’autonomia, differenziano giovani donne
con sintomi alimentari dalle loro coetanee normali. In aggiunta le loro rappresentazioni
circa la qualità affettiva del proprio attaccamento ai genitori e il livello di supporto ricevuto
dai genitori per l’autonomia sono associate con specifici tratti dei loro disturbi come la
ricerca della magrezza e il comportamento bulimico. Queste associazioni sono conformi
con il supposto legame teorico tra gli ostacoli posti dai genitori allo sviluppo
dell’attaccamento Sicuro e dell’autonomia e gli aspetti chiave della patologia alimentare.
Oltre a ciò alcuni dei diversi studi passati in rassegna tendono a sottolineare come il
presunto legame tra intrusività ed iperprotettività materne e sintomi non sia
sufficientemente supportato quando misurato attraverso il recupero di memorie relative alla
Cura e Iperprotezione genitoriali (PBI). In realtà le ragazze con disturbi alimentari,
soprattutto quando sono presenti tratti di tipo bulimico, ricordano più spesso i loro padri,
che non le loro madri, come iperprotettivi.
Malgrado poi l’evidente rilevanza dell’attaccamento insicuro in ragazze con patologia
alimentare e la correlazione tra questo tipo di attaccamento ed elementi chiave dei disturbi
alimentari, conclusioni circa il loro ruolo nello sviluppo di patologie psicologiche e
comportamentali caratteristiche dei disturbi alimentari risultano ostacolate da significative
limitazioni metodologiche presenti in diversi studi. L’ostacolo più evidente che impedisce
di estrapolare ponderate inferenze a partire dai dati a disposizione, è la mancanza di
appropriati gruppi di controllo. Troppo pochi studi, ad esempio, utilizzano gruppi di
comparazione di tipo psichiatrico non alimentare, in modo da rafforzare le inferenze circa
la specifica connessione tra organizzazione dell’attaccamento e patologia alimentare.
Inoltre pochi studi hanno fatto dei tentativi di selezionare un adeguato gruppo di controllo
che consentisse di non confondere la relazione tra misure dell’attaccamento e gli aspetti
problematici dei disturbi alimentari che sono però presenti anche in gruppi di giovani
donne senza problemi alimentari, come ad esempio le diete restrittive, la depressione e
l’ansia. In aggiunta a questi ci sono poi altri problemi di campionamento che possono
minacciare la validità interna degli studi e limitare la forza delle inferenze circa il
coinvolgimento dell’attaccamento nei disturbi alimentari. Ad esempio l’enfasi evolutiva
113
della teoria dell’attaccamento e l’accento posto sulle rotture dell’attaccamento all’interno
di periodi sensibili, come ad esempio l’adolescenza, suggerisce che l’età dovrebbe essere
considerata una variabile più importante di quanto invece non accada nella maggioranza
degli studi. La rilevanza degli esiti dell’attaccamento e i meccanismi psicologici
individuali che gestiscono questi esiti sono probabilmente assai diversi in una ragazza di
14 anni con un esordio recente di Anoressia Nervosa, piuttosto che in una donna di 24 anni
con alle spalle una storia lunga 7 anni di Anoressia.
Viene anche spesso trascurata con una certa disinvoltura l’influenza dei fattori culturali,
considerando che molti di questi studi vengono realizzati con l’ausilio di studenti
universitari nordamericani e che l’applicabilità di questi risultati ad una più ampia
popolazione non sono ancora stati verificati, anche se qualche tentativo si sta compiendo
(Broberg, Hjalmers e Nevonen, 2001).
Anche la terminologia adottata dai diversi autori può essere considerata un limite con
cui questi studi si devono confrontare. Ci sono per esempio importanti differenze sul
significato attribuito ad esempio alla categoria Anoressia/Bulimia nei diversi lavori. Per
alcuni significa Anoressia con dei sintomi di Bulimia (Kenny e Hart, 1992), per altri
Bulimia con una storia di Anoressia (Calam et. Al. 1989). Oppure comunemente il termine
“ansioso” è usato con il significato di Ansioso-Ambivalente nell’accezione della Strange
Situation o Preoccupato, indicando uno stato equivalente nell’adulto secondo la AAI.
Sfortunatamente differenti strumenti definiscono il termine in maniera leggermente
diversa. Comunque è ragionevole supporre che tra le differenti terminologie utilizzate
Ansioso-Ambivalente/Preoccupato/Iperdipendente
siano
tra
loro
ampiamente
sovrapponibili così come per le categorie Evitante/ Distanziante.
In conclusione anche gli autori più scettici (O’Kearney, 1996) ammettono l’evidente
presenza di modalità di attaccamento insicure nella popolazione di soggetti sofferenti di
patologie alimentari come anche l'associazione tra queste modalità e gli aspetti chiave della
psicopatologia alimentare. Autori più spregiudicati come Ward (et. al. 2000) pensano
addirittura che si possano ragionevolmente stabilire delle specifiche relazioni tra Anoressia
e attaccamento Evitante e, tra Bulimia e attaccamento Ansioso-Ambivalente/Preoccupato.
Quantunque un pizzico di euforico ottimismo non guasti neanche nella ricerca
scientifica, non è ancora opportuno considerare l’insicurezza dell’attaccamento il fattore
eziologico definitivo nell’insorgenza delle psicopatologie alimentari soprattutto per tre
motivi: 1) I limiti metodologici che come abbiamo visto ancora affliggono molti di questi
studi; 2) Se è vero che la maggioranza dei soggetti con disturbi alimentari presentano un
114
tipo di attaccamento insicuro, è pur vero che non tutti i soggetti con attaccamento insicuro
sviluppano patologie alimentari; 3) Non è ancora possibile discernere se l’attaccamento
insicuro sia causa o effetto di disturbi alimentari, anche se sforzi in questo senso si stanno
realizzando (Sharpe et al. 1998).
Considerate tutte queste molteplici limitazioni, appare quantomeno insufficiente
l’applicazione, nel dominio della psipatologia alimentare, così come per la psicopatologia
generale, di un “modello ad unica via” in cui l’attaccamento funzioni come passe par tout.
Come è stato sottolineato infatti nell’introduzione a questa sezione, la psicopatologia,
soprattutto quella alimentare, deve utilizzare un modello esplicativo multivariato in cui
trovino spazio diversi livelli di analisi come il temperamento, il comportamento attuale dei
genitori, i conflitti coniugali, fattori ambientali, le relazioni con i coetanei, la disciplina
genitoriale. A giudicare allora dai diversi fattori in gioco, ciascuno dei quali aumenta la
complessità e diluisce la consistenza di effetti principali, sembra più fruttuoso studiare
come specifici aspetti dell’attaccamento, piuttosto che globali stili di attaccamento, siano
in relazione a comportamenti alimentari disturbati.
115
CAPITOLO VI
LA RICERCA
INTRODUZIONE
Negli anni più recenti, la ricerca sulla possibile eziologia dei disturbi alimentari si è
sviluppata seguendo diverse linee guida che hanno, di volta in volta, prediletto aspetti
differenti del sintomo, come il livello neurochimico e neuropsichiatrico oppure dando più
risalto ai fattori socioculturali, così come a quelli psicologici. La tradizione di ricerca che
negli ultimi vent’anni si è impegnata ad evidenziare i fattori causali di tipo psicologico, ha
enfatizzato in particolar modo le relazioni familiari e le relazioni interpersonali, con
speciale attenzione per le relazioni madre-figlia. Rispetto a quest’ultimo filone,
l’importanza del legame tra disturbi alimentari e difficoltà nelle relazioni più intime ha
guadagnato nuova centralità grazie al fecondo contributo della teoria dell’attaccamento.
Particolarmente pertinenti con il lavoro qui presentato sono tutti quei lavori che si sono
focalizzati sulle differenze individuali degli stili di attaccamento, sia nell’infanzia, valutate
attraverso le risposte presentate di fronte a minacce di separazione (Ainsworth et al. 1978),
sia in età adulta attraverso l’apprezzamento dello stato mentale nei confronti delle
esperienze di attaccamento (George, Kaplan e Main, 1985). In questi ed in altri studi, le
categorie utilizzate per cristallizzare i diversi modelli di attaccamento hanno
denominazioni diverse a seconda delle età, ma in ognuna di queste classificazioni si opera
una distinzione fondamentale tra modalità sicure/insicure di attaccamento.
Diverse ricerche empiriche scaturite dall’alveo della teoria dell’attaccamento hanno
segnalato l’attaccamento insicuro come un fattore di rischio per lo sviluppo di diverse
psicopatologie nell’infanzia e nell’adolescenza (Greenberg, 1999). Tra questi, hanno
particolare rilevanza per il presente lavoro quegli studi, in parte citati nel precedente
capitolo, da cui emerge un legame evidente tra modelli operativi interni insicuri
dell’attaccamento e disturbi alimentari. Alcuni di questi studi hanno utilizzato come
strumenti di misura la AAI (Ramacciotti et. al. 2001, Ward et al. 2001, Fonagy et al. 1996,
Cole-Detke e Kobak, 1996) mentre altri si sono avvalsi di diversi strumenti per valutare le
116
differenze individuali rispetto all’attaccamento (Chassler, 1997, Sharpe et al. 1998,
Freidberg e Lyddon, 1996, Salzman 1997, Kenny e Hart, 1992, Broberg et al. 2001).
Comunque tutti questi contributi, sebbene diversi tra loro per tipo di campionamento, di
misure e gruppi di controllo utilizzati, evidenziano con una certa vividezza il ruolo non
trascurabile che le diverse organizzazioni dell’attaccamento ricoprono all’interno delle
patologie alimentari e, costituiscono la cornice concettuale all’interno della quale sono
maturati gli obiettivi teorici che animano il lavoro qui esposto:
PRIMO OBIETTIVO :
Nelle ragazze che compongono il gruppo qui preso in esame e che
rispondono ai criteri diagnostici che qualificano l’Anoressia Nervosa, si dovrebbero
riscontrare stati della mente insicuri relativamente all’attaccamento, valutati con l’ausilio
della IAL. In termini più concreti il nostro gruppo di ragazze dovrebbe differenziarsi
significativamente se confrontato con un campione non-clinico, mentre dovrebbe risultare
più simile ad un campione clinico, in riferimento alla distribuzione dei pattern di
attaccamento Distanziante-Ds, Preoccupato-E, Sicuro/Autonomo-F.
SECONDO OBIETTIVO :
I genitori delle ragazze che compongono il gruppo clinico
dovrebbero produrre descrizioni di scarsa Cura e/o alta Iperprotezione nei confronti dei
propri rispettivi genitori e presentare delle categorie non ottimali di genitorialità,
soprattutto le madri delle ragazze rispetto alla propria madre. Queste variabili relative alla
Cura ed alla Iperprotezione concernente il padre e la madre dei genitori vengono valutate
attraverso il PBI.
TERZO OBIETTIVO :
Verificare in che modo le categorie espresse dai genitori al PBI si
distribuiscono all’interno delle categorie generali di attaccamento rilevate nelle ragazze,
con le IAL; in altri termini si vuole osservare la relazione che intercorre tra l’attaccamento
rilevato nelle ragazze anoressiche e le esperienze riportate dai rispettivi genitori. In
particolare dovremmo constatare la presenza di una genitorialità non ottimale nei genitori
delle ragazze anoressiche che mostrano un attaccamento insicuro.
117
METODO
Soggetti
In questo studio sono stati utilizzati due gruppi di soggetti:
Pazienti: La ricerca ha preso in esame 12 ragazze con Anoressia Nervosa che sono state
selezionate tra le persone che si rivolgono all’Ambulatorio per i Disturbi del
Comportamento Alimentare, il quale afferisce al Dipartimento di Scienze Neurologiche e
Psichiatriche dell’età evolutiva dell’Università degli studi di Roma “la Sapienza”. L’età
delle ragazze si distribuisce all’interno di un intervallo che va da 11 a 16 anni (media =
14,9). La diagnosi di Anoressia Nervosa è stata formulata seguendo i criteri del DSM-IV.
Nessuna delle pazienti esaminate presentava comorbilità con altri disturbi relativi all’asse I
o all’asse II. Tutte le ragazze esaminate avevano un esordio recente del sintomo, la
maggior parte di loro si trovava ad affrontare il primo colloquio diagnostico, mentre alcune
erano ritornate in ambulatorio dopo circa due settimane dal primo colloquio, per il
controllo del peso e dello stato di salute da parte della pediatra responsabile del servizio. In
sede di primo colloquio queste ragazze vengono sottoposte ad un esame obiettivo, da cui
tra le altre cose si ricavano il peso e l’altezza, e ad una serie di test psicologici tra i quali
abbiamo scelto l’EAT (Eating Attitude Test) (Garner e Garfinkel, 1979).
Lavorando sui dati relativi ad altezza e peso e precisamente dividendo il peso per il
quadrato dell’altezza si ottiene il BMI (Body Mass Index) un indice quantitativo del grado
di deperimento delle ragazze; i punteggi inferiori a 17,5, indicano sottopeso. L’EAT è un
questionario autosomministrato di 40 domande relative al rapporto del soggetto con il cibo,
che utilizza per ogni item una scala Likert a 5 punti. Tutti i punteggi superiori a 30
indicano la presenza di un disturbo alimentare.
Genitori: Lo studio ha anche preso in considerazione i 20 genitori (10 madri e 10 padri)
delle ragazze, ciascuno dei quali ha compilato il PBI relativo all’esperienza di
attaccamento con i propri genitori.
Per quanto riguarda le madri di queste adolescenti l’età si distribuiva in un intervallo
compreso tra 37 e 46 anni (media = 42,3) mentre i padri avevano età comprese tra i 45 e i
53 anni (media 49,6).
118
Procedura
Per concludere la ricerca grazie alla disponibilità del Servizio di Igiene Mentale del
Dipartimento delle Scienze Neurologiche e Psichiatriche dell'Età Evolutiva di via dei
Sabelli e del suo direttore, prof. Cuzzolaro, sono stato introdotto nell’Ambulatorio per i
Disturbi del Comportamento Alimentare, dove ho affiancato la pediatra responsabile del
servizio, dott.ssa Piccolo, durante i colloqui diagnostici preliminari che ogni ragazza
doveva affrontare. Alla fine di ogni colloquio, dopo il consolidamento della diagnosi di
Anoressia Nervosa, si chiedeva la disponibilità delle ragazze e dei genitori circa la
possibilità di sottoporsi rispettivamente ad una intervista e ad un questionario. La
realizzazione di questa procedura ha incontrato però molti ostacoli; ad esempio due
ragazze che avevano dato la loro disponibilità a partecipare all’intervista durante il
successivo colloquio di controllo che si sarebbe svolto quindici giorni dopo, non sono più
venute al centro. Altre due ragazze invece, tra quelle che avevano mostrato interesse nel
compiere l’intervista in un momento successivo, non hanno potuto effettuarla poiché sono
state ricoverate a causa del peggioramento del loro stato di salute. Concretamente quindi le
famiglie con cui abbiamo preso contatto erano in tutto 16, mentre quelle che sono state
realmente esaminate sono state 12.
Alle ragazze è stato preventivamente comunicato che si chiedeva loro di rispondere ad
una intervista individuale avente lo scopo di investigare le relazioni familiari infantili ed
attuali. Dopo aver chiesto il permesso delle ragazze, data la minore età, abbiamo ottenuto
anche il consenso dei loro genitori, garantendo naturalmente il massimo rispetto
dell’anonimato e la riservatezza per i contenuti dell’intervista. La somministrazione
dell’intervista ha avuto luogo immediatamente dopo il colloquio diagnostico o, quello di
controllo, a cui anche il sottoscritto partecipava, per instaurare un minimo di contatto
preliminare prima di intervistare i soggetti su contenuti intimi e potenzialmente dolorosi.
La durata media di ogni intervista è stata di 60 minuti circa. Durante questo periodo ai
genitori veniva chiesto di compilare il PBI, un questionario self-report, che misura la
personale percezione del comportamento e dell’atteggiamento dei rispettivi genitori nei
propri confronti, la cui compilazione non ha richiesto più di 15 minuti.
La procedura standard di raccolta dei dati relativi alle IAL prevede di solito l’utilizzo di
un apparecchio per la registrazione, che raccoglie l’intero colloquio svoltosi tra
l’intervistatore e l’intervistato. Alla nostra richiesta però di registrare l’intera intervista su
supporto magnetico, alcune ragazze e, la totalità dei genitori, hanno ritirato la propria
disponibilità ad effettuare l’intervista. Per questo motivo siamo stati costretti ad affidare la
119
raccolta
delle
informazioni
dell’intervista
alle
capacità
di
scrittura
veloce
dell’intervistatore. La mancanza di un trascritto integrale però ha compromesso la
possibilità di ottenere dei punteggi attendibili per ogni sottoscala IAL, consentendo
soltanto la classificazione globale del soggetto in una delle categorie generali di
attaccamento.
La codifica, inoltre è avvenuta “in cieco” in quanto le IAL sono state successivamente
trascritte verbatim ed i protocolli sono stati codificati da siglatori esperti abilitati da Mary
Main, mentre il sottoscritto si è occupato della codifica dei PBI.
Strumenti di misura
INTERVISTA SULL’ATTACCAMENTO IN ETA’ DI LATENZA (IAL):
L’Intervista sull’Attaccamento
in Età di Latenza (IAL) è una intervista semistrutturata concepita per valutare le
rappresentazioni mentali delle relazioni di attaccamento in preadolescenza e adolescenza,
elaborata da un gruppo di ricercatori e docenti dell’Università di Roma “La Sapienza”
(Ammaniti et al., 1990), sulla base dell’Adult Attachment Interview (AAI) di George,
Kaplan e Main (1985). La struttura e la sequenza delle domande rimangono le stesse, ma il
linguaggio è stato semplificato e adattato a soggetti preadolescenti. Alcune domande sono
state eliminate, perché inutilizzabili con questa fascia d’età, come ad esempio quella
relativa alla paura di perdere un figlio, mentre ne sono state aggiunte altre soprattutto
relative alle relazioni sociali dei soggetti con i pari.
Ancora più corrispondenti poi sono le premesse e gli obiettivi delle due interviste; la
IAL infatti, come l’AAI, si propone di esplorare la storia e la stabilità familiare del
soggetto, le relazioni di attaccamento con la madre, con il padre e con altri significativi, le
esperienze di crisi (malattie, turbamenti), di separazione (allontanamenti, primo giorno di
scuola, etc.) e di perdita, compreso il tipo di risposta dei genitori ai bisogni di sostegno del
figlio in questi momenti. Queste aree d’interesse condivise dai due strumenti esprimono le
due ipotesi di base su cui si fonda già la prima stesura del manuale non pubblicato
dell’AAI (George, Kaplan e Main, 1985): 1) le differenze individuali nel funzionamento
dei modelli rappresentazionali può essere espressa nell’organizzazione del pensiero e del
linguaggio in relazione all’attaccamento; 2) come gli episodi di allontanamento-riunione
possiedono una grande forza nell’attivare la motivazione all’attaccamento nel bambino di
18/20 mesi e ad evidenziarne le differenze individuali, così le domande relative alle
esperienze infantili nei rapporti con le figure di accudimento e di specifiche situazioni
120
connesse con la motivazione primaria di attaccamento (separazioni, perdite, situazioni di
crisi, etc.), costituiscono, per l’adolescente/adulto, un potente stimolo che riattiva le
emozioni e le rappresentazioni mentali relative alle relazioni di attaccamento, e consentono
la rilevazione delle differenze individuali nello “stato della mente attuale” rispetto alle
passate esperienze di attaccamento.
Anche per quanto riguarda le procedure di analisi e di codifica del trascritto viene
utilizzato il sistema di codifica elaborato da Main e Goldwyn (1994) per l’AAI. Sulla base
delle ipotesi sopra enunciate l’attenzione delle autrici, a partire dalla prima stesura
dell’intervista, si andò sempre più concentrando sulle variazioni relative alla valutazione
dello “stato mentale attuale”, definite operativamente in termini di indicatori formali
dell’organizzazione del discorso, fino a ritenere la valutazione delle variabili relative alla
“probabile esperienza” del comportamento dei genitori durante l’infanzia, basata su
indicatori di contenuto del resoconto, scarsamente determinanti nella formulazione dei
profili assegnati alle diverse categorie di attaccamento e a considerare i ricordi
autobiografici come rilevanti per tale valutazione solo attraverso la forma in cui
l’autobiografia è presentata. In altre parole sebbene la IAL prenda in considerazione la
storia personale relativa all’attaccamento, per la codifica viene data maggiore attenzione
all’organizzazione formale e semantica della narrazione prodotta, cioè al modo in cui il
soggetto organizza le sue risposte nelle diverse fasi dell’intervista e allo stesso tempo
anche
alla
sua
capacità
di
collaborare
attivamente
al
compito
propostogli
dall’intervistatore. Rispetto alla codifica allora, il processo di analisi di ogni protocollo
IAL consiste nell’estrapolazione di due serie di punteggi, una relativa al contenuto ed una
relativa alla forma. Successivamente l’intervista viene valutata nel suo complesso per
assegnare la categoria di attaccamento. Ognuna delle due dimensioni dell’intervista, forma
e contenuto, viene valutata attraverso l’ausilio di una scala a 9 punti.
La valutazione del contenuto dell’intervista, considerato da Main e Goldwyn (1994)
come indice della “probabile esperienza infantile del soggetto con il padre e con la madre,
considerati separatamente, avviene attraverso l’attribuzione di un punteggio da 1 a 9 alle
seguenti 5 scale:
1. Loving: amorevolezza.
2. Rejecting: atteggiamento rifiutante.
3. Role-reversing/involving: inversione dei ruoli e coinvolgimento.
121
4. Pressure to achieve: pressione a raggiungere obiettivi esterni.
5. Neglecting: mancata presenza fisica, trascuratezza e noncuranza.
Successivamente viene valutato lo stato mentale attraverso l’assegnazione dei punteggi
ad altre 9 scale, che vengono valutate sulla base dell’intero trascritto:
1. Idealization of parents: idealizzazione dei genitori.
2. Derogation of parents: svalutazione dell’attaccamento.
3. Involving anger : rabbia coinvolgente.
4. Lack of recall: mancanza di ricordi.
5. Coherence of mind: coerenza della mente.
6. Coherence of trascript: coerenza del trascritto.
7. Passivity of thought: passività del pensiero.
8. Fear of loss: mancata risoluzione di lutti e/o traumi.
9. Reflective self: processi metacognitivi.
Anche le prime tre scale dello “stato mentale”, come tutte quelle della “probabile
esperienza”, sono valutate separatamente per il padre e la madre.
Dopo aver assegnato i punteggi alle singole scale, viene effettuata la valutazione globale
dell’intervista, in base alle categorie individuate da Main e Goldwyn (1994):
categoria
Ds-Distanziante; categoria F-Sicuro/Autonomo; categoria E-Preoccupato/Invischiato;
categoria U-Irrisolto/Disorganizzato; categoria CC (Cannot Classify)-Non Classificabile
(per la descrizione specifica di ogni categoria si rimanda il lettore al capitolo 5 pag. 69-71).
Ognuna di queste categorie però possiede anche delle sottocategorie che hanno lo scopo
di rendere lo strumento più efficace nell’abbracciare la complessità e le sfumature di cui
ogni individuo è portatore. Queste sottocategorie che attraversano trasversalmente tutti i
raggruppamenti principali si distribuiscono lungo un continuum che va dalla più
distanziante alla più coinvolta:
-Ds1-“distanziante l’attaccamento”: i soggetti assegnati a questo sottogruppo
sembrano fare di tutto per allontanare dai propri ragionamenti tutte le esperienze di
attaccamento, che probabilmente furono caratterizzate da mancanza di amore e/o da aperto
rifiuto. La narrazione è contrassegnata da una mancanza di ricordi associati all’infanzia a
cui fa seguito una forte idealizzazione delle figure di attaccamento, non accompagnata però
122
dal racconto di ricordi specifici che possano circostanziare o confermare il giudizio
complessivo.
-Ds2-“svalutante l’attaccamento”: il soggetto manifesta una fredda ed attiva
svalutazione dell’esperienza di attaccamento, descrivendo il genitore con disprezzo e
dichiarando di aver fatto sempre e solo affidamento sulle proprie forze. Questo
atteggiamento però a volte può essere tradito da interesse e vitalità malcelati verso quelle
esperienze di attaccamento tanto svalutate. A volte infatti, il soggetto può fare osservazioni
inaspettatamente intuitive o appassionate riguardo ad alcuni aspetti e ricordi della propria
infanzia.
-Ds3-“inibito nelle emozioni”: questi individui non risparmiano storie di rifiuto o
mancanza di disponibilità, ma non ritengono che esse abbiano influenzato in modo
significativo lo sviluppo della loro personalità e pertanto ne parlano senza risentimento e in
termini di influenza minima. Può sembrare che questi soggetti maneggino con serenità e
benevolo distacco le proprie esperienze di attaccamento dopo aver compiuto un processo
profondo di rielaborazione e di perdono, ma ad un osservatore esperto non sfugge che il
lietmotiv delle narrazioni di queste persone sia al contrario la sistematica elusione dal
confronto con le proprie emozioni.
-F1-“tendenti a mettere da parte l’attaccamento”: queste narrazioni spesso
comprendono esperienze difficili, moderato rifiuto dell’attaccamento da parte dei genitori
oppure la presenza di una inversione di ruolo perpetrata da uno dei genitori, da cui il
soggetto ha poi preso le distanze. L’atteggiamento di distacco è tuttavia consapevole e
viene riconosciuto il valore delle esperienze di attaccamento.
-F2-”in qualche misura distanziante o limitante l’attaccamento”: nel corso
dell’intervista o di una sua parte questi soggetti sembrano ostentare una certa sufficienza
nei confronti dell’attaccamento, posizione che però viene smentita dall’affetto e dalla stima
comunque avvertite per i genitori. Spesso possono mostrare una certa difficoltà nel
ricordare ed una relativa idealizzazione per uno o entrambi i genitori.
-F3-“sicuro/autonomo”:
questo
sottogruppo
incarna
le
qualità
prototipiche
dell’attaccamento sicuro. Gli individui appartenenti a questa categoria pur essendo tra loro
più eterogenei di quelli appartenenti ad altre sottocategorie, condividono una elevata
coerenza mentale e buone capacità metacognitive. Questi individui inoltre si distinguono
per la completa assenza di idealizzazione dei genitori e per la vividezza dei ricordi
dell’infanzia. Per alcuni di essi la propria autonomia è il frutto naturale di una infanzia
sicura, mentre per altri è il risultato sofferto di un cammino personale iniziato da premesse
123
tutt’altro che favorevoli come esperienze di rifiuto, di perdita, di separazione o perfino di
abuso. A livello di discorso un soggetto sicuro fornisce una narrazione coerente e
collaborativa, dà valore all’attaccamento, ma sembra oggettivo rispetto ad ogni particolare
evento o rapporto.
-F4-“attribuiscono
grande
valore
alle
relazioni,
con
qualche
residuo
coinvolgimento nei confronti delle figure di attaccamento, di separazioni o traumi”:
Tali soggetti dimostrano di apprezzare gli affetti e i sentimenti e di essere moderatamente
coinvolti verso le passate esperienze di attaccamento. Sono presenti gli indici più “leggeri”
di pensiero passivo e una tendenza all’analisi psicologica, particolarmente rilevante nei
soggetti Preoccupati. Appartengono a questa categoria anche soggetti che hanno subito
esperienze traumatiche nell’infanzia, come la morte di una figura di attaccamento oppure
abusi fisici o sessuali in ambito familiare, ma che nel corso dell’intervista risultano sia
razionali che consapevoli.
-F5-“in qualche modo risentiti o conflittuali, pur accettando il proprio attuale
coinvolgimento”: riguarda i soggetti moderatamente preoccupati o in collera con le figure
di attaccamento, ma che nonostante il conflitto riescono ad essere coerenti, abbastanza
concisi e a tratti ironici. Riconoscono l’influenza delle passate esperienze sulla personalità
attuale ed accettano consapevolmente il proprio coinvolgimento più che rifiutarlo. I
genitori possono essere stati coinvolgenti ed aver invertito i ruoli.
-E1-“passivo”: la narrazione di questi individui è caratterizzata da passività nei
processi di pensiero, vaghezza, confusione e incoerenza. Il soggetto durante l’intervista
passa da un argomento all’altro senza approfondire, in modo tale che riesce assai
complicato stabilire quali fossero le reali esperienze, anche se è piuttosto probabile un alto
coinvolgimento nei rapporti familiari. Sembra anche essere presente una pervasiva
sensazione di fallimento nei propri sforzi di compiacere i genitori.
-E2-“arrabbiato/conflittuale”: come suggerisce la denominazione i soggetti
appartenenti a questa sottocategoria esprimono una forte rabbia nei confronti di uno o di
entrambi i genitori. L’esperienza familiare è all’insegna di un grande coinvolgimento e
spesso si riscontra inversione dei ruoli. L'intervista è spesso molto lunga, in quanto
raccoglie lo sfogo del soggetto, che descrive con ricchezza di particolari le difficoltà con i
genitori, specificando i motivi di contrasto con il racconto minuzioso di episodi disturbanti
e delle proprie reazioni emotive. Spesso l’intervistatore avverte di essere sottilmente
sollecitato da questi individui a schierarsi dalla loro parte.
124
-E3-“spaventato e preoccupato da eventi traumatici”: questa sottocategoria si
riscontra piuttosto raramente nei campioni normali, in quanto i soggetti assegnati a questo
gruppo hanno vissuto esperienze terrorizzanti relative all’attaccamento, che invadono
tuttora i processi di pensiero, provocando confusione e spavento. Le esperienze più
frequentemente associate con questo tipo di stati sono l’abuso fisico o sessuale ad opera di
genitori o di estranei, perdite traumatiche, psicosi di un genitore. L’individuo non appare
né attivamente arrabbiato con un genitore né veramente passivo, ma gli eventi della sua
vita passata appaiono talmente soverchianti che non riesce a sottrarsi da un pensiero e da
una preoccupazione costante al riguardo.
Considerato il rapporto di discendenza che intercorre tra l’AAI e lo strumento utilizzato
in questo lavoro ci sembra opportuno accennare alle proprietà psicometriche di entrambi
gli strumenti.
L’AAI naturalmente ha ricevuto molta attenzione da questo punto di vista e diversi sono
stati gli studi realizzati con lo scopo di testarne la stabilità e la validità discriminante. Per
quel che concerne ad esempio la stabilità di interviste condotte a distanza di due mesi l’una
dall’altra (n=83), Bakermans-Kranenburg e vanIjzendoorn (1993) hanno trovato il 78% di
attendibilità (kappa = .63) per tre categorie (la categoria irrisolto è meno stabile) ed hanno
altresì verificato come la AAI non sia correlata con la desiderabilità sociale o con
l’influenza di un particolare intervistatore. Inoltre a causa del peso che ricoprono i punteggi
della coerenza del discorso e della mancanza di ricordi infantili, nell’attribuzione dei
soggetti a categorie sicure o insicure, alcuni studi si sono incaricati di dimostrare che la
sicurezza dell’attaccamento adulto non è correlata con l’intelligenza o con la fluenza
verbale (Crowell, Fraley e Shaver, 1999). Altri studi invece per scongiurare
sovrapposizioni con le capacità generali di memoria hanno trovato che le categorie
dell’AAI sono indipendenti dalla memoria relativa a episodi non correlati all’attaccamento
(Bakermans-Kranenburg e vanIjzendoorn, 1993). Infine riguardo alla validità predittiva
vanIjzendoorn (1995) propone una poderosa meta-analisi allo scopo di indagare la
correlazione tra la classificazione all’AAI del genitore e la Strange Situation del figlio,
dalla quale emerge un forte legame tra i due strumenti..
Anche la IAL ormai può vantare sempre più studi che ne verificano le qualità
psicometriche. Ammaniti, vanIjzendoorn et al., (2000) hanno analizzato 31 ragazzi, prima
a 10 ed in seguito a 14 anni ed hanno riscontrato una notevole stabilità dell’attaccamento
tra i due periodi esaminati, sia con l’analisi a due vie (75% kappa = .48) sia con quella a
125
quattro vie (71% kappa = .48). Dazzi, De Coro, Ortu, Speranza (1999) con un campione di
65 soggetti dai 10 ai 12 anni hanno valutato la capacità discriminativa delle singole scale.
PARENTAL BONDING INSTRUMENT (PBI):
Il PBI è un questionario auto-somministrato,
formato da 25 item ognuno dei quali utilizza per le risposte una scala Likert a 4 punti.
Questi items consistono in affermazioni riguardanti ciascun genitore del tipo: “mi parlava
con voce calda ed amichevole” oppure “ mi lasciava fare le cose che mi piaceva fare”, di
cui il soggetto deve valutare l’applicabilità alla propria esperienza. I due principali costrutti
bipolari attesi estratti dall’analisi fattoriale sono Cura e Iperprotezione. Il primo comprende
items con contenuti di valutazione positiva, supporto emotivo e vicinanza ad un estremo ed
indifferenza, rifiuto e negligenza all’altro estremo. Il secondo comprende items che
segnalano intrusività e controllo psicologico ad un polo ed incoraggiamento all’autonomia
ad all’altro polo. Particolarmente significativa per il lavoro qui presentato è la possibilità
proposta da Parker et al. (1979) di combinare le due polarità di ogni fattore in modo da
ottenere quattro categorie applicabili a ciascuno dei due genitori:
1) Optimal Parenting (Genitorialità ottimale): alta Cura/bassa Iperprotezione
2) Affectionate Constraint (Costrizione affettiva): alta Cura/alta Iperprotezione
3) Affectionless Control (Controllo senza affetto): bassa Cura/alta Iperprotezione
4) Neglectful Parenting (Assenza di cure): bassa Cura/bassa Iperprotezione
Sul versante delle qualità psicometriche lo strumento presenta una coerenza interna
ottenuta correlando due item identici attraverso il coefficiente di correlazione di Pearson,
r = .704 (p < . 001). La somministrazione del questionario a 17 soggetti in due occasioni a
tre settimane di distanza ha consentito di valutare l’attendibilità test-retest. Il coefficiente
di Pearson ottenuto dalla scala della Cura è di .761 (p < .001) e per la scala
dell’Iperprotezione era di .628 (p < .001). Il questionario è stato inoltre diviso in due parti
per la misura dell’attendibilità split-half ( r = .879 p < .001 per la Cura e r = .739 p < .001
per la Iperprotezione). Gli effetti del sesso e della classe sociale sono stati esclusi.
RISULTATI
Per chiarezza espositiva i dati raccolti nello studio qui presentato verranno esposti
separatamente rispetto ai due gruppi esaminati e ai due strumenti rispettivamente
somministrati ad ogni gruppo. Per prima verrà proposta l’analisi descrittiva dei dati relativi
alla IAL nel gruppo di ragazze anoressiche e la verifica dell’obiettivo teorico che riguarda
126
questo gruppo. La stessa cosa verrà ripetuta con il gruppo dei genitori relativamente ai
risultati del PBI. Una volta presentate entrambe le analisi descrittive e le verifiche dei
primi due obiettivi teorici, si cercherà di confrontare i due gruppi di dati in modo da
conseguire il terzo obiettivo teorico che come abbiamo visto postula un legame tra i due
gruppi di dati.
Prima di iniziare questo percorso differenziato però, si ritiene opportuno presentare
attraverso la Tabella. 6.1, una visione complessiva dei dati raccolti.
Tabella 6.1 Sintesi complessiva dei dati
Soggetto
Età
BMI EAT Diagnosi IAL
1
2
3
4
5
6
7
8
9
10
11
12
13
14
15
13,8
13,8
11
16,3
16,2
13
15,7
12
14
14,9
17,2
16,3
15,6
16,9
16,9
14,1
13,2
17
15,6
17,4
17
16
15
17,5
18
17
14,7
15,3
17
16,2
51
45
53
69
50
41
80
68
11
51
40
47
49
40
52
Anr
Anr
Anr
Anbp
Anr
Anr
Anr
Anbp
Anr
Anr
Anr
Anr
Anr
Anr
Anr
CC
F/U
Ds
E
F
F/U
Ds
E/U
Ds
Ds
F/U
Ds
Ds
Ds
Ds
IAL
Sottocategorie
Ds1/E1
F2
Ds3
E2
F5
F2
Ds3
E1
Ds2
Ds3
F2
Ds3
Ds3
Ds3
Ds1
PBI Madre
PBI Padre
Madre Padre Madre Padre
C
D
C
A
C
D
C
A
C
n.v.
B
C
C
B
B
B
B
A
A
B
B
B
A
A
C
C
B
C
B
B
B
A
C
B
B
D
C
C
B
C
A
B
B
A
C
D
C
C
D
C
B
C
C
C
B
C
C
C
B
C
BMI = Body Mass Index, EAT = Eating Aptitude Test, Anr = Anoressia di tipo restrittivo, Anbp =
Anoressia di tipo bulimico-purgativo, IAL: CC = cannot classify, F = sicuro/autonomo, Ds =
distanziante, E = preoccupato, U = irrisolto/disorganizzato, PBI: A = Optimal parenting , B =
Affectionate Constraint, C = Affectionless Control, D = Neglectuful parenting, n.v. = non
valutabile
127
Punteggi grezzi
Graf. 6.2
Indici BMI e EAT
87
80
73
66
59
52
45
38
31
24
17
10
BMI
EAT
1
2
3
4
5
6
7
8
9 10 11 12 13 14 15
Soggetto
ANALISI DESCRITTIVA DEL CAMPIONE CLINICO:
Pur essendo, questo delle ragazze, un
gruppo clinico piuttosto esiguo, può vantare delle particolarità certamente interessanti
secondo i fini di questo studio, infatti sono presenti in questo gruppo ben due coppie di
sorelle gemelle monozigote. Questo dato ha portato alla nostra attenzione l’importanza
dell’ordine di nascita, che sebbene non rappresenti una variabile passata al vaglio di questo
Graf. 6.1
Ordine di genitura
13%
figlia unica
gemelle
46%
minore
27%
medio
maggiore
7%
7%
studio è sembrato opportuno evidenziarne la distribuzione attraverso il Grafico 6.1.: 2
soggetti (13%) sono figlie uniche, 7 primogeniti (46%), 1 secondogenito (7%), 1
terzogenito (7%) e 4 gemelle (46%). Tutte le ragazze del gruppo hanno completato la IAL.
Nel Grafico 6.2 invece si può apprezzare un confronto tra i dati ottenuti dalle ragazze al
BMI e quelli ottenuti all’EAT. Entrambe le serie di dati sono state già presentate nella
Tabella 6.1
128
ANALISI DESCRITTIVA DEI DATI RELATIVI ALLA IAL :
Il nostro gruppo di 15
ragazze
anoressiche, per quanto riguarda la classificazione delle quattro categorie di attaccamento, si
distribuisce nel seguente modo: 8 soggetti Distanzianti-Ds (53%), 1 soggetto Sicuro-F (7%),
1 soggetto Preoccupato-E (7%) e 5 soggetti Irrisolti o Non Classificabili U/CC (33%)
(Grafico 6.3a).
Invece per quanto concerne la distribuzione delle tre categorie generali dell’attaccamento
le ragazze del nostro gruppo hanno presentato la seguente distribuzione: 4 F (27%), 9 Ds
(60%) e 2 soggetti E (13%), (Grafico 6.3b).
Come abbiamo precedentemente sottolineato in sede di descrizione dello strumento, la
IAL per rendere giustizia alle diverse sfumature presenti all’interno delle singole categorie
Graf. 6.3a
IAL: distribuzione a 4 categorie
33%
Ds
E
53%
7%
F
U/CC
7%
generali di attaccamento, prevede anche alcune sottocategorie; vediamo quali sono le più
ricorrenti all’interno del nostro gruppo di ragazze: 6 Ds3 (40%). 2 Ds1 (13.3%), 1 Ds2
(6,6%), 1 E1 (6,6%), 1 E2 (6,6%), 3 F2 (20%), 1 F5 (6,6%)*, (Grafico 6.3c).
*
Le analisi successive utilizzeranno le tre categorie generali dell’attaccamento.
129
Graf 6.3b
IAL: distribuzione a 3 categorie
27%
Ds
E
60%
13%
F
Graf. 6.3c
IAL: distribuzione delle sottocategorie
6
F2
5
F5
4
E1
3
E2
2
Ds1
1
Ds2
0
Ds3
1
130
VERIFICA OBIETTIVO TEORICO RELATIVO AI DATI IAL :
I dati riportati nei grafici 6.3a e 6.3b
sopra esposti, già esprimono una certa supremazia della categoria Distanziante-Ds rispetto
a tutte le altre categorie. Più specificamente all’interno della categoria stessa la
sottocategoria più rappresentata è la Ds3 (40%). Per verificare la significatività di questi
risultati però è opportuno confrontarli con le distribuzioni di soggetti adolescenti ottenute
in altre ricerche in cui sono state utilizzate l’AAI e la IAL, ipotizzando una sostanziale
uguaglianza con studi riguardanti campioni clinici e una sostanziale differenza con studi
che riportano campioni di adolescenti normali. Gli studi su campioni normali con cui si è
effettuato il confronto sono quelli di Ammaniti et al. (2000) e Dazzi et al. (1999), mentre
gli studi relativi a campioni clinici con cui abbiamo effettuato il confronto sono:
vanIjzendoorn e Bakermans-Kranenburg (1996) e Ward et al. (2001) (vedi Grafico 6.4).
Mentre il primo di questi studi presenta un campione clinico di tipo generale quello di
Ward et al. esprime le distribuzioni dell’attaccamento in un gruppo di ragazze anoressiche.
I dati relativi a questi confronti statistici sono presentati nella Tabella 6.2.
Tabella 6.2
Studio
Gruppo
Dazzi et al., 1999
Ammaniti et al., 2000
Van Ijzendoorn et al., 1996
Ward et al., 2001
Ricerca presente
Adolescenti e pre-adolescenti normali
Adolescenti normali
Meta-analisi di studi clinici
Ragazze anoressiche
Adolescenti anoressiche
N
Categorie IAL
F
Ds
64 67
25
31 52
36
439 13
41
20 5
75
15 27
60
(%)
E
8
12
46
20
13
Percentuali di categorie IAL riscontrate nel presente gruppo sperimentale e in ricerche precedenti.
Le percentuali delle categorie F, Ds ed E si riferiscono ad una classificazione in tre categorie.
La distribuzione delle categorie IAL all’interno del nostro gruppo di ragazze è risultata
differire in maniera significativa da quella osservata da Dazzi et al. (1999) ( x (2) = 11.52;
p < 0,01) e in maniera quasi significativa da quella di Ammaniti et al. (2000) (x (2) = 4.3).
Per quanto riguarda il confronto con gruppi clinici, invece, la presente distribuzione è
significativamente diversa da quella di vanIjzendoorn e Bakermans-Kranenburg (1996) (x
(2) = 6.9; p < 0.05) a causa di un numero minore di ragazze Preoccupate-E, mentre risulta
anche significativamente diversa da quella di Ward et al (2001) (x (2) = 14.8; p < 0.001)
per una maggiore presenza di ragazze Sicure-F.
131
Graf. 6.4
Categorie IAL a confronto nei vari studi
100%
90%
80%
70%
60%
50%
40%
30%
20%
10%
0%
E
Ds
Ricerca presente
Ward
Van Iyzendoorn
Studi
Ammaniti
Dazzi
F
Il nostro gruppo di ragazze quindi differisce sostanzialmente dai campioni
rappresentativi normali, soprattutto a causa dell’alto numero di soggetti Distanzianti-Ds
presenti tra le ragazze da noi esaminate. Non solo, il nostro gruppo di ragazze si differenzia
anche dal campione clinico misto di vanIjzendoorn e Bakermans-Kranenburg, anche
questa volta a causa di una preponderanza di attaccamenti distanzianti. Infine,
contrariamente a quanto atteso il nostro gruppo risulta significativamente diverso anche dal
campione clinico di Ward et al. formato da ragazze anoressiche, soprattutto a causa di una
maggiore percentuale di ragazze classificate Sicure-F nel nostro gruppo.
ANALISI DESCRITTIVA DEL GRUPPO DEI GENITORI:
Alla fine della somministrazione delle
IAL per ciascuna delle ragazze del nostro gruppo, è emerso con una certa prepotenza un
dato non atteso che ha attirato la nostra attenzione. Almeno uno dei genitori delle ragazze,
ed in molti casi entrambi, avevano patito la morte di un proprio genitore (Grafico 6.5)
132
Graf. 6.5
Perdite subite dai genitori
3
2,5
1
2
2
Frequenze 1,5
3
4
1
5
0,5
6
0
M_m
M_p
P_m
P_p
1 = Genitore morto entro i primi 3 anni di vita della ragazza; 2 = Entro i 3 anni
precedenti la nascita della ragazza; 3 = Durante l'adolescenza dei genitori (della ragazza);
4 = Durante l'infanzia dei genitori (della ragazza); 5 = Negli ultimi 3 anni prima
dell'intervista IAL; 6 = Genitore non conosciuto.
ANALISI DESCRITTIVA DEI DATI DEL PBI:
I dati qui di seguito esposti si riferiscono al gruppo
di genitori delle ragazze anoressiche, ognuno dei quali ha compilato un PBI, riportando la
propria personale percezione del proprio padre e della propria madre rispetto ai due fattori
di Cura e Iperprotezione. Come abbiamo introdotto in sede di descrizione dello strumento,
dalla combinazione di queste due variabili emergono quattro categorie che possono servire
per sintetizzare con una etichetta linguistica la percezione di Cura e Iperprotezione esperite
per quel dato genitore (vedi Tabella 6.1).
Le madri delle ragazze anoressiche, in merito alla percezione della propria madre
rispetto alla Cura e Iperprotezione, si distribuiscono nel seguente modo: 8 classificano la
propria madre come Affectionless Control-C (61%), 1 come Neglectful Parenting-D (8%),
1 come Optimal Parenting-A (8%) e 3 come Affectionate Constraint-B (23%) (Grafico
6.6a)*.
Invece i PBI materni rispetto al padre si distribuiscono nel modo seguente: 1 Optimal
Parenting (8%), 5 Affectionate Constraint (42%), 4 Affectionless Control (33%) e 2
Neglectful Parenting (17%), (Grafico 6.6b).
*
Vedi Tabella 6.1
133
Graf. 6.6a
6.6c
PBI
PBI materno
paterno rispetto alla madre:
distribuzione delle categorie
15%
8%
0%
8%
15%
23%
A
A
B
B
C
C
D
D
61%
70%
Graf. 6.6b
PBI materno rispetto al padre:
distribuzione delle categorie
17%
8%
A
B
C
42%
33%
D
Passiamo ora ai padri delle ragazze, i quali riguardo alla percezione complessiva della
propria madre rispetto alle dimensioni di Cura ed Iperprotezione, hanno espresso i seguenti
risultati al PBI: 2 Optimal Parenting (15%), 9 Affectionate Constraint (70%), 2
Affectionless Control (15%) e nessun Neglectful Parenting (Grafico 6.6c).
134
Il Grafico 6.6d invece ci riporta le distribuzioni percentuali delle categorie dei PBI
paterni rispetto al padre: 4 Optimal Parenting (31%), 2 Affectionate Constraint (15%), 6
Affectionless Control (46%) e 1 Neglectful Parenting (8%).
Graf. 6.6d
PBI paterno rispetto al padre:
distribuzione delle categorie
8%
31%
A
B
C
D
46%
15%
Le ultime quattro figure ci hanno consentito di rappresentare graficamente le
distribuzioni di frequenza delle categorie del PBI riscontrate in ognuno dei genitori delle
adolescenti anoressiche, in riferimento a ciascuno dei propri genitori (quindi i nonni delle
ragazze). Tali distribuzioni di frequenze sono già piuttosto informative poiché emerge un
quadro singolarmente complementare. Infatti mentre la madri delle ragazze percepiscono
la propria madre come maggiormente Affectionless Control (61%) ed il padre come
prevalentemente Affectionate Constraint (42%), i padri delle ragazze al contrario
percepiscono la loro madre come maggiormente
Affectionate Constraint (70%) e il
proprio padre come sostanzialmente Affectionless Control (46%). Va anche sottolineato
come i padri sperimentino con maggiore frequenza un atteggiamento complessivo di
Optimal Parenting (46%) per entrambi i genitori, rispetto a quanto esperito globalmente
dalle madri (16%).
Finora abbiamo proposto, relativamente al PBI, le categorie all’interno delle quali i
genitori delle ragazze anoressiche hanno collocato il proprio padre e la propria madre.
Considerando però che tale attribuzione di categoria avviene in base al giudizio rispetto ai
due fattori, Cura e Iperprotezione, sembra particolarmente remunerativo considerare come
135
Graf. 6.7a
PBI: medie dei punteggi di entrambi i genitori
34
32
30
28
26
24
22
20
18
16
14
C
I
I
M_m
M_p
C
P_m
P_p
si distribuiscono i punteggi grezzi su queste due scale, rispettivamente alla madre e al
padre dei genitori delle ragazze.
A questo proposito si è fatto affidamento sulle medie e le deviazioni standard dei
punteggi ottenuti da entrambi i genitori delle ragazze, sulle scale di Cura ed Iperprotezione,
in riferimento ai propri madre e padre ( Tabella 6.3).
Tabella 6.3 Media e deviazione standard dei punteggi alle scale di Cura e Iperprotezione
PBI madre
PBI padre
Scala
Madre
Padre
Madre
Padre
17.20 (ds 7.6)
17.71 (ds 9.22)
25.20 (ds 6.53)
19.53 (ds 8.91)
Cura
26.13 (ds 8.05)
22.79 (ds 10.40)
25.47 (ds 6.63)
22.67 (ds 10.39)
Iperprotezione
Il Grafico 6.7a ci aiuta a visualizzare i dati della tabella appena citata. In ordinata
abbiamo i punteggi grezzi dei soggetti che hanno compilato il PBI, mentre sull’asse delle
ascisse, da sinistra a destra, abbiamo i PBI materni rispetto alla madre (M-m) e al padre
(M-p), seguiti dai PBI paterni rispetto alla madre (P-m) e al padre (P-p); sulla terza
dimensione e in colori diversi (celeste e bordeaux), si hanno rispettivamente le dimensioni
di Cura e di Iperprotezione.
136
Cerchiamo adesso di penetrare più in profondità le informazioni racchiuse nel Grafico
6.7a, operando una divisione tra il quadrante materno e quello paterno.
Il Grafico 6.7b, che si riferisce alle medie dei punteggi delle madri delle ragazze
anoressiche, ci informa del fatto che queste e donne percepiscono complessivamente i loro
genitori come essere stati scarsamente efficaci nella Cura, ma altamente intrusivi e
controllanti. Mentre la manchevolezza di cure e di calore affettivo sembra essere comune
in entrambi i genitori di queste donne, le madri vengono ricordate come più
ipercontrollanti dei padri, andando a configurare quella che a nostro modesto avviso è la
categoria più “maligna” espressa dal PBI: la Affectionless Control (bassa Cura/alta
Graf. 6.7b
PBI: medie dei punteggi delle madri
34
32
30
28
26
24
22
20
18
16
14
C
I
I
C
1
2
Iperprotezione).
Invece i padri delle nostre ragazze riportano delle esperienze di Iperprotezione materna
sostanzialmente sovrapponibili a quelle delle proprie mogli, ma al contrario di quest’ultime
riferiscono anche esperienze di Cura materna qualitativamente superiori. Questi soggetti
riportano inoltre delle esperienze paterne di Cura nettamente più deficitarie rispetto a
quelle materne, mentre il livello di Iperprotezione paterno seppur inferiore a quello
materno, sembra comunque ragguardevole. In altri termini i padri delle ragazze
anoressiche, classificano, nella maggior parte dei casi, le proprie madri come Affectionate
137
Constraint (alta Cura/alta Iperprotezione) e i propri padri come Affectionless Control (alta
Iperprotezione/bassa Cura) (Grafico 6.7c).
In conclusione allora possiamo evidenziare come dai nostri dati emerga una percezione
materna gravemente più sfavorevole rispetto alla madre con non al padre, mentre le
percezioni paterne sembrano assai più negative nei confronti del padre che non della
madre.
Relativamente alle singole dimensioni, le madri delle ragazze accusano di aver ricevuto
una Cura notevolmente più scarsa, da entrambi i genitori, rispetto ai padri delle ragazze, i
quali possono affermare una cosa del genere solo rispetto al proprio padre. Relativamente
al secondo fattore, un livello importante di Iperprotettività è stato denunciato sia dalle
madri che dai padri del nostro gruppo, soprattutto in relazione con la propria madre.
VERIFICA DELLA IPOTESI TEORICA RELATIVA AI DATI DEL PBI:
Per conferire significatività
statistica a quanto rilevato nel nostro gruppo di genitori, abbiamo condotto, sia sulla Cura
che sull’Iperprotettività, un’analisi della varianza (ANOVA) con un fattore Between
(genitore a cui è stato somministrato il PBI) a due livelli (madre-padre) e un fattore Within
o ripetuto (nonno di cui si parla) a due livelli (nonna-nonno). Inoltre, abbiamo condotto dei
tests statistici per confrontare le medie dei punteggi ottenuti dai genitori del nostro gruppo
con quelle ottenute da campioni rappresentativi di soggetti normali cui è stato
somministrato il test (Parker et al., 1983; Mancini et al., 2000).
L’analisi condotta sulla dimensione Cura ha evidenziato un effetto significativo del
fattore Genitore (F (1.27) = 4.14, p = 0.05), il quale mostra che le madri, in effetti,
Graf. 6.7c
PBI: medie dei punteggi dei padri
34
32
30
28
26
24
22
20
18
16
14
C
I
I
C
1
2
138
percepiscono di aver ricevuto minor cura da parte dei propri genitori, rispetto a quanto non
sia invece percepito dai loro mariti. Avendo poi chiaramente ipotizzato nel secondo
obiettivo teorico, che eventuali differenze attese avrebbero riguardato la madre, e in
particolare la madre rispetto alla propria madre (la nonna della ragazza anoressica),
abbiamo condotto dei Confronti Pianificati (Planned Comparisons) tra i punteggi di Cura
ottenuti dai due genitori rispetto alla propria madre (cioè all’interno del livello “nonna”) e
rispetto al proprio padre (cioè all’interno del livello “nonno”). Tali confronti hanno
evidenziato che le madri percepiscono un livello di Cura significativamente inferiore ai
loro mariti solamente rispetto alle proprie madri (livello "nonna”) (F (i,27) = 8.47; p <
0,01) (vedi Grafico 6.8). Inoltre, essi hanno confermato che i padri riportano esperienze
paterne di Cura nettamente più deficitarie rispetto a quelle materne (F (1.27) = 4,52; p <
0.05). A differenza di quanto sopra suggerito, invece, i Confronti Pianificati non hanno
sostenuto l’idea che le madri delle ragazze ricordino le loro madri come più
ipercontrollanti dei loro padri.
Graf. 6.8
PBI_Cura:
effetto del genitore e dei nonni
33
31
29
27
25
23
21
19
17
15
MADRE
PADRE
nonna
nonno
Per quanto riguarda il confronto con campioni rappresentativi di soggetti normali
(Parker et al., 1983; Mancini et al., 2000), per entrambi i genitori delle ragazze (vedi
Grafici 6.9a e 6.9b) sia la Cura materna che quella paterna sono risultate significativamente
139
Graf. 6.9b
PBI paterno
40,0
35,0
30,0
25,0
20,0
40,0
15,0
35,0
10,0
30,0
5,0
0,0
25,0
20,0
15,0
10,0
5,0
0,0
Graf. 6.9a
PBI materno
Ricerca presente
Mancini et al., 2000
Parker et al., 1983
M
P
M
P
Ricerca presente
C
C
I
I
Mancini et al., 2000
Parker et al., 1983
M
P
M
P
C
C
I
I
inferiori (t(14) > -2,14; p < 0,01). Unica eccezione la Cura materna esperita dai padri delle
ragazze, la quale non è risultata diversa da quella osservata da Parker e collaboratori.
Passiamo ora a considerare la dimensione Iperprotettività. L’ANOVA 2X2 condotta sui
punteggi ottenuti non ha mostrato nessun effetto significativo, a sostegno del fatto che il
livello di controllo percepito dai genitori delle ragazze anoressiche, da parte dei rispettivi
genitori, è sostanzialmente equivalente. Per quanto riguarda, invece, il confronto con
campioni rappresentativi di soggetti normali (vedi Grafici 6.9a e 6.9b), per entrambi i
genitori delle ragazze sia l'Iperprotettività materna che quella paterna sono risultate
significativamente maggiori di quelle osservate da Parker e collaboratori (1983) (t(14) >
2,62; p < 0,001), mentre sostanzialmente simili a quelle osservate da Mancini e
collaboratori (2000) in un campione di 170 soggetti italiani.
VERIFICA DELLE IPOTESI OPERATIVE RELATIVE AL TERZO OBIETTIVO TEORICO:
Dopo aver
sviscerato i dati appartenenti ai due gruppi di genitori e figlie, presi in esame in questo
lavoro, il nostro ultimo sforzo si concentrerà sulla possibilità di rintracciare una relazione,
un collegamento, tra questi due gruppi di dati. A questo punto della nostra elaborazione
siamo in grado di poter verificare la pertinenza del nostro TERZO OBIETTIVO
140
TEORICO, descrivendo in che modo i punteggi rilevati nei genitori delle ragazze rispetto
alla Cura e alla Iperprotezione, si distribuiscono all’interno delle categorie di attaccamento
presentate dalle ragazze. A questo proposito abbiamo operato una trasformazione Z in
modo da standardizzare i punteggi grezzi relativi al PBI per rendere confrontabili le
distibuzioni aventi scala diversa ( = dev. stand. Diversa). Dopo di che li abbiamo
“incrociati” con le categorie della IAL.
Il Grafico 6.10a ci mostra come le madri delle ragazze Distanzianti-Ds, più delle madri
delle ragazze con attaccamento Sicuro-F o Preoccupato-E, percepiscono i propri genitori
come scarsamente capaci rispetto alla Cura. Le madri delle ragazze Preoccupate-E
percepiscono le proprie madri rispetto alla Cura, nello stesso modo delle madri delle
ragazze Sicure-F, ma hanno una percezione dei propri padri come meno adeguata rispetto
alle madri delle ragazze Sicure-F.
punti z
Graf. 6.10a
Cura: madri
2,5
2
1,5
1
0,5
0
-0,5
-1
-1,5
-2
Madre
Padre
Ds
E
F
Categorie IAL
141
Nel Grafico 6.10b invece possiamo vedere come anche i padri delle ragazze
Distanzianti-Ds abbiano una percezione più negativa dei propri genitori, rispetto ai padri
delle altre ragazze, relativamente alla Cura. Più specificamente, questi soggetti
percepiscono i loro padri più che le loro madri come incapaci di profondere cure adeguate.
Al contrario i padri delle ragazze Preoccupate-E avvertono le madri più che i padri come
manchevoli nella Cura. Questo stesso andamento è ancora più accentuato nei padri delle
ragazze Sicure-F.
Graf. 6.10b
Cura: padri
punti z
2
1,5
1
0,5
0
-0,5
-1
-1,5
Madre
Padre
Ds
E
F
Categorie IAL
142
Nel Grafico 6.10c possiamo vedere come le madri delle ragazze risultate Sicure-F
abbiano sperimentato nei confronti di entrambi i genitori un livello di Iperprotettività
notevolmente più basso di quello sperimentato dalle madri delle ragazze Distanzianti-Ds e
Preoccupate-E. Quest’ultime in particolar modo hanno madri che riferiscono una maggiore
Iperprotettività dei loro genitori anche in confronto con le madri delle ragazze DistanziantiDs. Il padre poi, è tra i due genitori, quello che le madri delle ragazze hanno giudicato più
iperprotettivo.
Graf. 6.10c
Iperprotezione: madri
1,5
1
punti z
0,5
0
-0,5
Madre
Ds
E
F
Padre
-1
-1,5
-2
Categorie IAL
Infine nel Grafico 6.10d, troviamo rappresentato come i padri delle ragazze
Distanzianti-Ds percepiscano i propri genitori come maggiormente Iperprotettivi rispetto ai
padri delle ragazze Preoccupate-E, i quali a loro volta ricordano i propri genitori come più
Iperprotettivi rispetto ai padri delle ragazze Sicure-F.
Vediamo ora come le categorie dei PBI materni e paterni rispetto a ciascun genitore si
distribuiscono percentualmente all’interno delle diverse categorie di attaccamento previste
dalla IAL.
Quasi il 90% (88.888) delle madri delle ragazze Distanzianti-Ds ha classificato la
propria madre come Affectionless Control, mentre poco più del 10% (11.111) le ha
classificate come Neglectful Parenting. Le madri delle ragazze Preoccupate-E si separano
perfettamente tra coloro che assegnano la propria madre (nonna materna) alla categoria
Affectionate Constraint (50%) e coloro che gli attribuiscono la categoria Affectionless
Control (50%). Le madri delle ragazze Sicure-F sono l’unico gruppo all’interno del quale
143
compaiono delle categorie di Optimal Parenting (25%). I soggetti restanti esprimono
classificazioni di Affectionate Constraint (50%) e Affectionless Control (25%) (Grafico
6.11a).
punti z
Graf. 6.10d
Iperprotezione: padri
2
1,5
1
0,5
0
-0,5
-1
-1,5
-2
-2,5
Madre
Ds
E
F
Padre
Categorie IAL
Graf. 6.11a
PBI materno rispetto alla madre e categorie IAL
%
100
80
A
60
B
C
40
D
20
0
Ds
E
F
IAL
Il Grafico 6.11b ci mostra come il gruppo delle madri delle ragazze Distanzianti-Ds, sia
meno omogeneo al suo interno, quando si tratta di giudicare la qualità dell’esperienza
relazionale con il proprio padre, sebbene anche qui il giudizio prevalente sia del tipo
Affectionless Control (55%). Appare subito evidente che la totalità delle madri delle
ragazze Preoccupate-E abbiano classificato il proprio padre come Affectionate Constraint
144
(100%). Anche tra le madri delle ragazze Sicure-F, la percezione di tipo Affectionate
Constraint, nei confronti del padre, sembra prevalere (56%).
%
Graf. 6.11b
PBI materno rispetto al padre e categorie IAL
120
100
80
60
40
20
0
A
B
C
D
n.v.
Ds
E
F
IAL
Il Grafico 6.11c ci segnala come la percezione della propria madre, espressa dai padri
delle ragazze Distanzianti-Ds, sia sostanzialmente all’insegna della categoria Affectionate
Constraint (77%) ed in minor misura della categoria Affectionless Control (22%). Questa
prevalenza diviene invece assoluta tra i padri delle ragazze Preoccupate-E (100%). La
categoria più diffusa tra i padri delle ragazze Sicure-F è la Optimal Parenting (50%).
%
Graf. 6.11c
PBI paterno rispetto alla madre e categorie IAL
120
100
80
60
40
20
0
A
B
C
D
Ds
E
F
IAL
145
La maggioranza dei padri delle ragazze Distanzianti-Ds considera il proprio padre come
Affectionless Control (77%). I padri delle Preoccupate-E si dividono perfettamente tra
quelli che ricordano il proprio padre come Optimal Parenting (50%) e quelli che lo
ricordano Affectionate Constraint (50%). La categoria di Optimal Parenting è assai diffusa
tra i padri delle ragazze Sicure-F (Grafico 6.11d).
Graf. 6.11d
PBI paterno rispetto al padre e categorie IAL
%
100
80
A
60
B
40
C
D
20
0
Ds
E
F
IAL
146
DISCUSSIONE
Il PRIMO OBIETTIVO TEORICO della nostra ricerca, contemplava la possibilità di
individuare nelle ragazze anoressiche, esaminate con la IAL, una predominanza di stati
della mente insicuri relativamente all’attaccamento. L’analisi descrittiva dei dati raccolti
attraverso l’utilizzo della IAL ha consentito di rilevare all’interno del gruppo di ragazze
anoressiche, una schiacciante predominanza di stati mentali insicuri (sia Distanzianti che
Preoccupati) rispetto all’attaccamento; delle 15 adolescenti intervistate, 11 (73%)
presentavano un attaccamento insicuro e 4 (27%) erano classificate Sicure/Autonome nei
confronti delle proprie esperienze di attaccamento. In effetti sono molte le somiglianze e le
continuità, tra stati delle mente insicuri nei confronti dell’attaccamento e le caratteristiche
cognitivo-affettivo-comportamentali degli individui con Anoressia Nervosa. Da un punto
di vista teorico, l’influenza delle relazioni d’attaccamento dell’individuo è considerata
essere particolarmente influente in alcune specifiche sfere di adattamento come ad esempio
la dipendenza, la fiducia in se stessi, l’ansia, la rabbia e l’empatia, la competenza sociale.
Tutte queste aree subiscono delle particolari alterazioni negli individui con Anoressia
Nervosa alterazioni che ricordano molto da vicino le caratteristiche riconosciute alle
organizzazzioni insicure dell’attaccamento. In uno studio longitudinale già citato
precedentemente in questo lavoro, il Minnesota Parent-Child Project, gli autori mettono in
risalto come adolescenti con storie di attaccamento Resistente, sia quelli con storie di
attaccamento Evitante, continuarono a mostrare più dipendenza dagli adulti rispetto a
quelli con storie Sicure (Egeland e Sroufe, 1981).
La profonda preoccupazione delle ragazze anoressiche circa le forme del proprio corpo
e, l’angoscia scatenata dalla possibilità di aumentare di peso, fanno dell’ansia uno degli
elementi più riconoscibili dell’Anoressia Nervosa. Relativamente alle radici dell’ansia, la
teoria dell’attaccamento postula che assenza di disponibilità cronica e rifiuto da parte del
caregiver sono le caratteristiche di un attaccamento ansioso e pesano su un bambino prima
e su un adolescente poi nel corso dello sviluppo. A differenza di un bambino sicuro che
può contare sulla risposta del suo caregiver, un bambino con attaccamento ansioso si
imbatte nella costante possibilità di aver bisogno di un caregiver non disponibile, così
come la frustrazione che si accumula e con la disregolazione implicita nell’essere trattato
in modo insensibile (Bowlby, 1973). Questi soggetti sono costantemente preoccupati
147
perché le loro figure di attaccamento possono non essere accessibili nel momento del
bisogno e vivono nella perpetua paura di essere lasciati soli e vulnerabili.
Un'altra caratteristica che colpisce immediatamente quando si ha a che fare con ragazze
anoressiche, è che la loro regolazione affettiva, nonché l’autostima, sono estremamente
dipendenti dalle forme corporee. Anche questo dominio sembra particolarmente
influenzabile dall’attaccamento, diversi sono ormai i contributi che segnalano come la
qualità dell’attaccamento abbia un ruolo decisivo nello sviluppo dell’autoregolazione delle
emozioni. In particolare l’attaccamento Distanziante-Evitante essendo correlato ad una
strategia che disattiva l’attenzione, è anche associato a inibizione o minimizzazione
dell’affettività. L’attaccamento Preoccupato-Ambivalente, associato a ipervigilanza, è
accompagnato da aumento o intensificazione dell’affettività (Magai, 1999).
Il ritrovamento di un alta percentuale di stili d’attaccamento insicuro nel nostro gruppo
di ragazze anoressiche, però, può essere ulteriormente scomposto poiché, delle 11 ragazze
classificate come insicure, 9 (60%) erano Distanzianti-Ds, mentre 2 (13%) risultavano
Preoccupate-E. In passaggi precedenti di questo lavoro (vedi pag. 102), menzionando gli
studi sui Disturbi del Comportamento Alimentare che avevano utilizzato l’AAI, i risultati
non erano certo univoci. Alcuni di questi sottolineavano una predominanza di stati della
mente Preoccupati-E rispetto all’attaccamento, in campioni che però comprendevano anche
disturbi alimentari diversi all’Anoressia Nervosa (Fonagy et al. 1996), altri denunciavano
un certo equilibrio tra attaccamento Distanziane-Ds e Preoccupato-E, in un campione di
ragazze anoressiche (Ramacciotti et al. 2001), altri ancora segnalavano una netta
predominanza della categoria Distanziante-Ds rispetto a quella Preoccupato-E in un gruppo
anch’esso formato esclusivamente da pazienti anoressiche (Ward et al. 2001). Anche tra i
lavori che hanno utilizzato strumenti diversi dall’AAI per lo studio delle patologie
alimentari, si possono distinguere ricerche che evidenziano la preponderanza del modello
Distanziante-Ds tra le ragazze anoressiche (Broberg et al. 2001), da quelli che invece
rimarcano
l’importanza
dell’attaccamento
Ambivalente
(Salzman,1997)
o
Preoccupato/Invischiato (Friedberg e Lyddon, 1996).
I risultati della nostra ricerca ci portano a caldeggiare la possibilità, ventilata da alcuni
autori, di associare l’Anoressia Nervosa ad una organizzazione dell’attaccamento di tipo
Distanziante-Ds (Ward et al. 2000). Williams (citato da Ward et al. 2000), ha descritto le
pazienti bulimiche come “porose”, cioè incapaci di proteggere se stesse dalle proiezioni
tossiche delle proprie madri, mentre le pazienti anoressiche hanno sviluppato un sistema di
difesa impenetrabile che non consente intrusioni a questo tipo di relazione materna. Queste
148
differenti modalità relazionali riscontrate nelle ragazze bulimiche e anoressiche rimandano
abbastanza esplicitamente sia alle caratteristiche relazionali peculiari del modello
Distanziante-Evitante, come la deattivazione del sistema dell’attaccamento, sia
all’ipercoinvolgimento tipico dello stile di attaccamento Preoccupato.
Salzman (1997) e Friedberg e Lyddon (1996) sono tra quegli autori che considerano lo
stile di attaccamento Ambivalente-Preoccupato, come particolamente associato ai Disturbi
del Comportamento Alimentare in senso generale ed alla Bulimia in senso più specifico.
Come già avanzato nella parte terza di questo lavoro, ci sono autori come O’Kearney
(1996) che pur riconoscendo un fondamentale ruolo agli stili di attaccamento insicuro,
all’interno dei disturbi alimentari, non ritengono che ci siano ancora dati attendibili che
permettano associazioni specifiche tra attaccamento Distanziante e Anoressia e tra
attaccamento Preoccupato e Bulimia. Anche Ward (et al. 2000), il quale invece riponeva
più fiducia sulla possibilità di riscontrare legami specifici tra stile di attaccamento e diversi
disturbi alimentari, di fronte i tanti limiti presenti negli studi che si riproponevano di
confermare queste corrispondenze, ha dovuto ridimensionare il suo ottimismo.
Naturalmente il lavoro qui presentato, con tutte le sue limitazioni ed ingenuità, non è in
grado di fornire risposte definitive in questo senso, però ci sembra opportuno sottolineare
che le uniche due ragazze che nel nostro gruppo hanno presentato un attaccamento
Preoccupato-E, erano anche le uniche due a presentare una diagnosi di Anorssia Nervosa
con condotte di eliminazione di tipo bulimico. Lasciamo quindi a prossimi progetti di
ricerca, la possibilità di approfondire questo dato.
Rispetto al nostro SECONDO OBIETTIVO TEORICO i dati raccolti hanno messo in
evidenza come tra i genitori delle ragazze intervistate con la IAL, fosse particolarmente
diffusa una percezione di alta Iperprotettività dei propri genitori, senza particolari
differenze tra madre e padre. Relativamente alla Cura invece sono state trovate
significative differenze nelle madri delle ragazze, piuttosto che nei padri. Infatti queste
donne testimoniavano attraverso il PBI, di una percezione dei propri genitori come
sostanzialmente più scarsi nella Cura rispetto a quanto venisse percepito dai padri delle
ragazze. Un ulteriore elaborazione dei dati ci ha consentito di mettere in evidenza quanto
all’interno di una generalizzata mancanza di Cura di entrambi i genitori, la madri delle
ragazze, percepissero soprattutto la loro madre come maggiormente scarsa rispetto alla
Cura. I padri delle ragazze invece percepivano loro padre come maggiormente deficitario
rispetto alla Cura. Il fatto che i genitori delle ragazze percepissero di aver ricevuto scarsa
Cura soprattutto dal genitore dello stesso è uno spunto che merita di essere approfondito.
149
Ritornando alla Iperprotettività il nostro studio ha registrato una spiccata uniformità di
alti punteggi su questa dimensione, assegnati dai genitori delle ragazze al proprio padre ed
alla propria madre. I soggetti adulti del nostro lavoro quindi hanno maturato all’interno
dell’interazione interpersonale con i genitori un “modello operativo interno” delle proprie
figure di attaccamento all’insegna del controllo, dell’intrusività e della dipendenza. Tutto
questo sembra essere teoricamente coerente con la visione espressa da quegli autori come
Bruch e Masterson, che hanno visto nei disturbi alimentari una difficoltà dello sviluppo
dell’autonomia e un arresto del processo di separazione-individuazione. Secondo Bruch
(1974) le madri di queste ragazze impongono i propri bisogni su quelli delle figlie,
soprattutto quelli relativi all’indipendenza e all’auto regolazione, le quali quindi crescono
incapaci di differenziare le proprie necessità e desideri. Questa proposizione teorica trova
un certo riscontro anche nel nostro lavoro, in quanto alla domanda n° 25 della IAL:
“Adesso potresti esprimere tre desideri per quanto riguarda il tuo futuro?”, 9 delle 15
ragazze esaminate non riusciva a fornire una terna completa di desideri e manifestava
tangibile imbarazzo di fronte a questa domanda, come se non ne capisse la pertinenza.
Un’altra dimensione teoricamente associata all’Iperprotettività genitoriale è quella
relativa alla disciplina educativa. Chassler (1997) ha condotto uno studio su un campione
di ragazze anoressiche e bulimiche utilizzando l’Attachment History Questionnaire (AHQ)
un questionario che esprime quattro fattori, di cui il secondo si riferisce alla qualità della
disciplina genitoriale. Per quanto riguarda quest’ultimo fattore, molte di queste ragazze
rivelavano come frequentemente i loro genitori minacciassero di picchiarle o le
picchiassero realmente quando si comportavano male oppure, come spesso usassero altre
forme di disciplina come mandarle nella loro stanza o minacciarle di mandarle in collegio.
Nel nostro gruppo di ragazze alla domanda IAL n° 15: “I tuoi genitori hanno mai
minacciato di darti una punizione? Ti hanno mai detto che ti avrebbero mandato via di casa
o in collegio?” 12 ragazze hanno riferito di essere state picchiate più di una volta e la
minaccia del collegio era in assoluto la più frequente.
Per concludere questa discussione sui dati raccolti presso i genitori riteniamo utile
spendere ancora qualche parola sulla dimensione della Cura. Le domande del PBI
riconducibili a questo fattore
sono domande del tipo: “Mi sembrava emotivamente
fredda/o con me” oppure “Riusciva a farmi sentire meglio quando ero sconvolto” o ancora
“Mi faceva sentire che non ero desiderato”. Queste affermazioni sembrano ricordare molto
da vicino le dimensioni con cui Ainsworth ha voluto definire la qualità del comportamento
di accudimento dei genitori come: sensibilità ai segnali, cooperazione-interferenza,
150
accettazione-rifiuto, disponibilità-non disponibilità. Visti i risultati dei nostri genitori
soprattutto sulla dimensione della Cura e in particolare quelli delle madri rispetto alla loro
madre, sembra auspicabile l’interessamento di futuri progetti di ricerca, relativamente alla
relazione tra questi quattro elementi dell’accudimento genitoriale e i Disturbi del
Comportamento Alimentare.
Il TERZO OBIETTIVO TEORICO del presente lavoro è forse quello più stimolante poiché
ha lo scopo di verificare eventuali relazioni tra le categorie di attaccamento delle ragazze e
la percezione di Cura e Iperprotettività dei genitori e sebbene non sia stato possibile
applicare a questi dati dei test di significatività statistica, a causa della scarsa numerosità
del gruppo di ragazze, i risultati ottenuti sono comunque interessanti.
Come abbiamo visto i dati relativi alla IAL evidenziano una preponderanza della
categoria di attaccamento Distanziante-Ds tra le ragazze del nostro gruppo. Le madri di
queste ragazze percepiscono una Cura più scarsa dei loro genitori rispetto alle madri delle
ragazze Preoccupate-E; così anche i padri che al pari delle mogli, testimoniano di una più
scarsa Cura dei loro genitori, rispetto ai padri delle ragazze Preoccupate-E. Riguardo
all'Iperprotezione le madri delle ragazze Distanzianti-Ds cedono, seppur di poco, il passo
alle madri delle ragazze Proeccupate-E che fanno registrare una Iperprotettività percepita
maggiore rispetto a entrambi i genitori. I padri delle ragazze Distanzianti-Ds invece,
percepiscono una Iperprotettività maggiore rispetto ai padri delle ragazze Preoccupate-E.
In termini di categorie una netta maggioranza delle madri delle ragazze Ds attribuiscono i
loro genitori alla categoria Affectionless Control (bassa Cura/alta Iperprotezione) mentre le
madri delle ragazze E attribuiscono i genitori più frequentemente alla categoria
Affectionless Constraint (alta Cura/ alta Iperprotezione). I padri delle ragazze Ds ricordano
la loro madre come Affectionate Constraint e loro padre come Affectionless Control. I
padri delle ragazze E ricordano invece i propri genitori in prevalenza Affectionate
Constraint. Volendo ulteriormente semplificare i dati possiamo dire che le ragazze
Distanzianti-Ds hanno dei genitori che globalmente ricordano i propri genitori come
prevalentemente Affectionless Control, mentre le ragazze Preoccupate-E hanno genitori
che globalmente ricordano i propri genitori come Affectionate Constraint. Rimanendo
l’Ipeprotettività un punto condiviso da tutti genitori di tutte le ragazze, i dati a disposizione
sembrano indicare che i genitori delle ragazze Distanzianti, nella loro esperienza
relazionale non abbiamo potuto usufruire dell’intervento di un alto livello di Cura che
fosse in grado di mitigare gli effetti di una elevata Iperprotettività, come invece è accaduto
ai genitori delle ragazze Preoccupate.
151
In sintesi queste ragazze hanno avuto a che fare, nel corso della propria vita, con
genitori che globalmente portavano dentro di sé la rappresentazione di un padre ed una
madre fortemente intrusivi, controllanti ed intolleranti all’indipendenza della figlia. Le
ragazze Distanzianti però hanno dei genitori che oltre ad aver sperimentato relazioni
segnate dal forte controllo, hanno vissuto anche mancanza di attenzione, amore e
disponibilità. Le ragazze Preoccupate al contrario hanno dei genitori che nella propria
esperienza familiare oltre all’intrusività e al controllo hanno però anche provato la
sensazione
di
essere
desiderati
e
ben
voluti.
Questa
presenza
ubiquitaria
dell’Iperprotettività nell’esperienza dei genitori di queste ragazze è coerente con il
contributo teorico di Bruch, ma secondo il modesto parere di chi scrive, negli ultimi anni
sembra essere sempre più maturato tra gli autori che si ispirano alla teoria
dell’attaccamento, la volontà di elaborare concetti teorici, in grado di abbracciare la
dimensione del controllo del genitore sul proprio figlio, come un elemento importante
dell’attaccamento. A questo proposito, crediamo sia molto fruttuoso utilizzare anche nel
campo dei disturbi alimentari un concetto che sta dimostrando la sua efficacia nei campi
della teoria e della clinica: l’attaccamento forzoso (Nunziante-Cesaro, 1992).
Secondo l’autrice l’attaccamento forzoso è un tipo di relazione madre-bambino
fortemente pilotato dalla madre che usa inconsciamente il piccolo per i propri bisogni
fusionali dilazionando la separazione tra sé e il proprio figlio. Lo sviluppo delle capacità di
autoregolazione del Sé è ostacolato, le esplorazioni autonome del bambino vengono
evitate, lo svezzamento è protratto oltre ogni limite. Spesso anche la deambulazione è
ritardata in quanto la madre mostra al piccolo come pericoloso ed inaffidabile, quanto è
esterno alla loro relazione. Lo stesso Bowlby (1973) accenna a questa condizione, che egli
considera una sottocategoria dell’attaccamento ansioso, in relazione alla pressione
esercitata dalla madre sul bambino affinchè questi agisca quale figura di attaccamento per
lei.
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