A11 518 Il presente volume appartiene alla collana “Scienze storiche, filosofiche, pedagogiche e psicologiche” ed è pubblicato con il contributo dell’Alma Mater Studiorum Università di Bologna. APOLLINEO E DIONISIACO PROSPETTIVE E SVILUPPI CON NIETZSCHE E OLTRE NIETZSCHE a cura di Simona Bertolini Copyright © MMX ARACNE editrice S.r.l. www.aracneeditrice.it [email protected] via Raffaele Garofalo, 133/A–B 00173 Roma (06) 93781065 ISBN 978–88–548–3313–5 I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento anche parziale, con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi. Non sono assolutamente consentite le fotocopie senza il permesso scritto dell’Editore. I edizione: maggio 2010 Indice 7 Simona Bertolini Prefazione 11 Raffaella Colombo Dioniso e il volto oscuro della festa 19 Maria Fernanda Ferrini Colori della natura e colori dell’uomo (Friedrich Nietzsche, Morgenröthe 426) 33 Ferdinando G. Menga L’ombra lunga di Apollo. Annotazioni sulla filosofia nietzscheana della tragedia 49 Rossella Fabbrichesi Goethe e Nietzsche. Apollo e Dioniso, Dioniso e Apollo 63 Claudia Rosciglione Apollineo e dionisiaco nell’interpretazione nietzscheana di Eraclito 77 Stefano Marino (a cura di) Apollineo e dionisiaco in Nietzsche e nella cultura contemporanea. Dialogo-intervista con Carlo Gentili 83 Simona Bertolini Apollineo e dionisiaco come cifre di una nuova esperienza del mondo. La Nietzsches Philosophie di Eugen Fink 99 Stefano Ferrari Apollineo e dionisiaco nella concezione freudiana dell’arte: qualche riflessione 5 6 Indice 105 Diego Melegari Rinascite della tragedia. “Dionisiaco” e “storia della follia” in Michel Foucault 121 Silvia Capodivacca (a cura di) Nascere e dire sì alla vita, un’ovvietà tutta apparente. Dialogo con Umberto Curi 133 Carlo Lo Presti Apollineo e dionisiaco nella danza d’inizio Novecento 141 Adele Ricciotti Il dionisiaco e le sue forme nell’opera di María Zambrano 153 Luca Cremonesi Sentieri nietzscheani nella filosofia di Gilles Deleuze. La repubblica (apollinea) e il paese (dionisiaco) delle meraviglie 169 Recensioni 179 Elenco degli autori Apollineo e Dionisiaco ISBN: 978-88-578-3313-5 DOI: 10.4399/97888578331351 pag. 7-9 PREFAZIONE di Simona Bertolini Così come è fuor di dubbio che il binomio “apollineo e dionisiaco” richiami anzitutto alla memoria la prima opera nietzscheana, è altrettanto indubitabile che esso, ben oltre Nietzsche, possa essere scorto in controluce quale sorta di filo rosso nascosto di molta filosofia contemporanea. Numerose direzioni di pensiero, nel Novecento ma non solo, risultano accessibili proprio laddove si utilizzi come chiave di lettura la relazione di divergenza e compenetrazione fra istanze che, al di là dell’appellativo loro assegnato, sono di fatto riconducibili al rapporto dialettico fra questi due impulsi. Se in una simile prospettiva il dionisiaco pare talvolta rivestire un ruolo di preminenza, ciò – occorre specificare – non è da ricondursi a motivi rintracciabili nell’equilibrio fra i due concetti, quanto piuttosto a ragioni intrinseche alla stessa storia della filosofia occidentale; concentrare l’attenzione sull’influsso di Dioniso, riconoscendogli così un ruolo di primo piano, non intende in alcun modo alludere ad una sua prevaricazione rispetto alla tendenza opposta, bensì, più semplicemente, implica il riconoscimento della rottura radicale che il suo avvento rappresenta in una tradizione di pensiero dominata per secoli dall’incidenza di Apollo. Con una metafora: è l’“ultimo arrivato” a polarizzare l’interesse su di sé e sulla sua destabilizzazione e relativizzazione della supremazia apollinea, senza che di quest’ultima vengano tuttavia scalfiti il valore ed il significato consolidati. Posto che a risultare qui ravvisabile è la visione storica consegnataci da più autori (si pensi ad esempio a Nietzsche o a Heidegger, ma anche alla sotterranea filosofia della storia di Hölderlin, a cui entrambi si richiamano), tale visione, a prescindere dall’individuazione del punto di svolta in questo o quel filosofo, si presta ad essere sfruttata quale chiave di decifrazione di un processo filosofico in cui la fissità delle forme del mondo, a qualsiasi livello le si intenda, chiede ad un certo punto di essere fatta esplodere. Già Hegel, in una celebre pagina della Vorrede della Fenomenologia, riferendosi alla vita dello Spirito da cui 7 8 Simona Bertolini la rigidità della coscienza naturale viene appunto travolta, si esprime in questi termini: “il vero è il delirio bacchico in cui non c’è membro che non sia ebbro; e poiché ciascun momento, mentre tende a separarsi dal Tutto, altrettanto immediatamente si dissolve, questo delirio è anche la quiete trasparente e semplice”. Con l’affacciarsi della contemporaneità, quell’impulso che con Nietzsche definiamo “dionisiaco” pare insinuarsi come un tarlo fra gli spazi lasciati liberi dal principium individuationis, dalla prescrizione valoriale, dall’arte bella, suggerendo vie del filosofare in cui le vecchie categorie, laddove non incappino in una vera e propria distruzione (è ancora il caso di Nietzsche o di Heidegger, come di tanta filosofia francese), sono comunque ripensate alla luce di un processo in divenire che le eccede e che ne vede per così dire lo scioglimento nel fondo originario da cui esse prendono forma. La stessa impostazione fenomenologica, che tanta incidenza ha avuto ed ha tuttora nel dibattito filosofico, è del resto interpretabile in quest’ottica, nella misura in cui il suo fine è da ultimo identificabile con l’inabissamento dello stile del mondo nel processo costitutivo da cui sorge. Sebbene sempre accanto alla forma apollinea, suggello di quella realtà da cui sempre la filosofia ha inizio, la tensione verso l’informe (da intendersi come pre-forma più che come non-forma) diviene così, per utilizzare la nota espressione ricoeuriana, il più grande sobillatore di “sospetto” ai margini della nostra esperienza, non importa se al fine di decostruirla o, su sentieri più moderati, semplicemente di fondarla. Sulla base di queste premesse, il volume, senza rinunciare a considerare Nietzsche un punto di riferimento ineludibile, si propone di utilizzare l’autore, a cui è dedicata la prima parte, quale centro propulsore a cui far seguire l’approfondimento di percorsi interpretativi, filosofici e non solo, sui quali veder sperimentata la ricchezza e la forza sempre viva del binomio che da lui prende il nome. Iniziando col rammentare il ruolo della figura di Dioniso nella cultura antica e terminando con una serie di interventi atti a confermarne l’attualità in disparati luoghi di riflessione novecenteschi, siamo mossi dall’intento di esibire la pregnanza e nel contempo l’onnipervasività di una coppia di concetti che, venuta meno qualsivoglia “immagine del mondo”, si rivela essere sottesa ad ogni livello del reale, dal piano ontologicoconoscitivo a quello esistenziale, psicologico ed artistico. Nella con- Prefazione 9 vinzione che la plasticità dei profili con cui l’uomo si orienta, l’incastro fra pieni e vuoti da cui la minaccia dell’indistinto risulta arginata e convogliata in un senso, resti falsamente fondata sino a quando non venga tracciata sullo sfondo di quell’inafferrabile abisso dionisiaco che, proprio in quanto pre-formale, può dare ragione di ciò che invece esige una forma, del nostro spazio di vita apollineo. Desidero salutare e ringraziare la giovane redazione della rivista “Chora”, di cui il presente volume doveva inizialmente costituire un numero monografico (il che spiega la presenza di alcuni contributi sotto forma di intervista, nonché delle recensioni finali). Con la speranza che a questo spazio di dialogo filosofico, e ad altri affini, siano garantiti uno sviluppo e un futuro. Con il sincero ed appassionato augurio che alle giovani generazioni non venga negato il terreno per continuare a coltivare ed amare la ricerca filosofica. Parma, febbraio 2010 Apollineo e Dionisiaco ISBN: 978-88-578-3313-5 DOI: 10.4399/97888578331352 pag. 11-18 DIONISO E IL VOLTO OSCURO DELLA FESTA di Raffaella Colombo 1. L’essenza del dionisiaco È indubbio che la genesi del processo tragico sia da rintracciare nelle celebrazioni legate al culto di Dioniso e che, nella sua forma più antica e pura, fosse costituita dal solo coro tragico1. Nota è l’interpretazione nietzscheana per cui il coro tragico non sarebbe altro che l’insieme “degli esseri naturali che vivono incorrotti dietro ogni civiltà”2, il gruppo dei Satiri in cui trova espressione il fondo dionisiaco, selvaggio e vitale del mondo, capace di salvare, attraverso l’arte, il “Greco meditabondo e dotato in modo unico per la sofferenza più delicata e più grave […] che corre il pericolo di aspirare ad una buddistica negazione della volontà”3. Nell’eccitazione dionisiaca che il coro rappresenta, si sublima l’orrore dell’uomo che ha guardato l’assurdità dell’esistenza e si fa sopportabile l’avvertimento di Sileno: “il meglio è per te assolutamente irraggiungibile: non essere nato, non essere, non essere niente”4. La consapevolezza desolante che rischia di annientare la volontà dell’uomo, attraverso il crescendo del coro ditirambico, è trasformata in vitalistica adesione alle forze più profonde e primordiali della natura, e in Dioniso, dio in cui i satiri si rispecchiano e che, a sua volta, nei satiri si riconosce, troviamo il modello della 1 Cfr. P. Bosisio, Teatro dell’Occidente, LED, Milano 1995, p. 62. F. Nietzsche, La nascita della tragedia, tr. it. di U. Fadini, Newton, Roma 2007, p. 139. 3 Ibid. 4 Nietzsche riporta l’incontro fra re Mida e Sileno, seguace di Dioniso o, secondo altre versioni, educatore di Dioniso stesso. Inseguito da Mida, che vuole conoscere il senso dell’esistenza, Sileno risponde: “Stirpe miserabile e effimera, figlio del caso e della pena, perché mi costringi a dirti ciò che per te è vantaggiosissimo non sentire? Il meglio è per te assolutamente irraggiungibile: non essere nato, non essere, essere niente. Ma la cosa in secondo luogo migliore per te è morire presto”. La vita terrena non ha alcun senso ma, invece di lasciarsi cadere nel baratro del nulla, l’uomo ha la possibilità di salvarsi attraverso l’arte e attraverso l’eccitazione dionisiaca. 2 11 Raffaella Colombo 12 pienezza originaria smembrata dal principio d’individuazione5, come smembrato è Dioniso fanciullo dai Titani. Nella sofferenza del dio rivive dunque il passaggio dal tutto al molteplice, la genesi delle successive differenze: “dal suo sorriso sono nati gli dèi olimpici, dalle sue lacrime gli uomini”6, i primi come proiezioni dell’apollinea volontà di mascherare l’orrore e l’irrazionalità dell’esistenza, i secondi come depositari di questa consapevolezza7. Tutto questo significa che, nella tragedia, quella non ancora corrotta da Euripide e dal suo modello socratico di vita8, dove la scena è dominata dal coro e, in seguito, dalla presenza dell’eroe che è Dioniso stesso, rivive l’estasi dei seguaci del dio trasfigurati in satiri e la ricerca dell’eccitazione che è ritorno al fondo vitale e potente della natura, tragico per le sue contraddizioni e gioioso per la sua piena e incorrotta forza. Ora, per Nietzsche, giungere al nucleo della tragedia greca e all’essenza del culto dionisiaco che la precede significa sollevare il “velo di Maya” che l’apollineo ha gettato sul mondo, riconoscendo, come si è detto, l’oscurità titanica, eppure potentemente vitalistica, della natura. Prima che “il tipo dell’uomo teoretico”9, cioè l’uomo socratico, venga a cancellare il pensiero mitico e la sapienza tragica, trasfigurando l’esistenza in una rassicurante e ottimistica certezza, gli uomini hanno guardato nel cuore delle cose e vi hanno trovato l’orrore 5 Il passaggio dall’unità primordiale all’individuazione comporta, ovviamente, il sorgere di una molteplicità differenziata. Gli iniziati al culto di Dioniso cercano di ricostruire questa unità, anche attraverso la perdita della propria identità particolare. 6 Ivi, p. 150. 7 Ibid. 8 Euripide è, per Nietzsche, il traditore dello spirito dionisiaco della tragedia. Con lui il “socratismo”, l’atteggiamento ottimistico e riflessivo della filosofia socratica, entra in scena. Invece di rappresentare “caratteri grandi e arditi”, Euripide rappresenta la banalità e la mediocrità dell’uomo greco comune, incapace di esprimere la vera “tragicità” degli eroi precedenti. Solo con le Baccanti il poeta tornerà a Dioniso, dopo averlo, però, ormai “ucciso”. 9 Ivi, p. 165. Socrate è il rappresentante del tipico ottimismo teoretico, di quell’atteggiamento che, con la ragione, non solo giustifica la vita ma anche la morte. È un ottimismo passivo, l’ottimismo degli schiavi. Una “medicina universale” che tutto accetta e tutto comprende ma che, in realtà, non fa altro che nascondere la vera natura delle cose e dell’esistenza umana. Dioniso e il volto oscuro della festa 13 del non sens, lo scontro terribile dei contrasti, eppure, anche, il benefico effetto di una forza subita e dominata allo stesso tempo, “il sì alla vita anche nei suoi problemi più oscuri ed avversi, la volontà di vita che nell’immolare i suoi esemplari più alti sente la gioia della propria inesauribilità”10. Inesauribilità che Dioniso rappresenta più di ogni altra divinità olimpica, tanto che Karl Kerényi fa di lui l’archetipo della zoe, vale a dire della vita nella sua forma indistruttibile, non precisata e limitata all’interno di un bios particolare11, che nella ciclicità di un’esistenza infinita include e supera la morte. 2. La festa dell’Altalena Le Antesterie erano feste in onore di Dioniso che si celebravano ad Atene nel mese di febbraio-marzo, quando l’inverno stava per lasciare spazio alla primavera e alla rinascita della natura. Nel secondo giorno aveva luogo l’Aiora, rito cui prendevano parte, almeno nella sua forma originaria, le sole bambine che, dondolandosi sulle altalene, ricordavano e rappresentavano il sinistro movimento di Erigone, impiccatasi alla pianta di vite sorta sul corpo del padre Icario, mitico giardiniere dell’Attica, seguace e doppio di Dioniso stesso, accusato dagli abitanti di Ikarion di averli avvelenati dopo aver fatto loro conoscere il vino. In questa festa che, contrariamente alla nostra idea moderna, rivela un risvolto macabro, abbiamo due elementi, apparentemente opposti: la commemorazione dell’omicidio di Icario e del suicidio della figlia Erigone e, parallelamente, il ricordo di un fatto culturale come la “scoperta” del vino. Sullo sfondo, ma non certo nascosto, considerato che le intere Antesterie erano a lui dedicate, abbiamo Dioniso. Il secondo giorno si concludeva, generalmente, con una danza intorno ad un caprone che veniva, alla fine, sacrificato come rappresentante del dio12. Vita e morte, rigenerazione e distruzione, si trovano riuniti in 10 F. Nietzsche, Crepuscolo degli idoli, tr. it. di S. Giametta, Utet, Torino 2003, p. 499. 11 Cfr. K. Kerényi, Dioniso, tr. it. di L. Del Corno, Adelphi, Milano 1992. 12 Ivi, p. 295. Raffaella Colombo 14 questo rito e nel mito ad esso collegato, i quali, come ricorda Kerényi, non vanno mai separati poiché “l’uno è l’espressione dell’altro, la parola dell’azione e l’azione della parola”13, rivendicando per il dionisiaco un ruolo di continua oscillazione fra caos originario e nascita di forme nuove pagate sempre, però, al prezzo dell’immolazione di una vittima che simbolizza la morte di Dioniso stesso. Tutto questo, in particolare il sacrificio, potrebbe essere considerata l’espressione di una cultura brutale, o la simbolizzazione, nell’“innocente” uccisione di un capro, del più autentico, nel senso nietzscheano, spirito dionisiaco. Ma se abbandoniamo la semplice prospettiva di Nietzsche e ci rivolgiamo alle considerazioni di René Girard sul sacrificio, allora lo stesso Dioniso finirà con l’assumere una valenza ben più reale, e ancora più ambigua, di quella che il filosofo tedesco gli aveva riconosciuto. 3. Il sacrificio Il sacrificio, letteralmente “rendere sacro” o “fare il sacro”, è una delle pratiche religiose primitive e antiche più fondamentali ed enigmatiche. Nell’uccisione di una vittima, animale ma anche umana, l’azione sacrificale rivela due volti: uno oscuro, violento, bagnato dal sangue dell’essere immolato; l’altro, paradossalmente, santo e benefico. Come scrive Girard, “il sacrificio è diviso contro se stesso”14, diviso fra colpa da espiare e gioia dell’assoluzione che, paradossalmente, sembrano venire sempre dalla vittima sacrificale. Questa natura “doppia” andrebbe ricercata, secondo Kerényi, nella sua origine e nella sua funzione. Perché l’uomo possa sopravvivere deve, continuamente, “rubare” dal mondo che lo circonda. Gli animali e i frutti di cui si ciba non gli appartengono, poiché fanno parte di quella dimensione divina in cui l’uomo è immerso, ma di cui non è padrone. Ogni alimento o essere strappato alla terra avrebbe, dunque, nell’origine, il sapore di un sacrilegio, di un atto compiuto contro gli 13 Ivi, p. 154. R. Girard, La violenza e il sacro, tr. it. di O. Fatica e E. Czerki, Adelphi, Milano 1980, p. 89. 14 Dioniso e il volto oscuro della festa 15 dèi, eppure necessario per l’esistenza umana: “senza furto e senza spargimento di sangue l’umanità non può attingere dagli animali vita per sé”15, ma quel furto necessita di essere mitigato da un atto riparatore, da un’offerta che sostituisca, almeno in parte, ciò che è stato tolto. Come Ermes, dio-fanciullo ladro e ingannatore, protettore dei sogni e delle arti, divino per nascita ma straordinariamente umano nella sua essenza, dopo aver sottratto cinquanta mucche al pascolo del fratellastro Apollo, decide di offrirne due in sacrificio agli dèi dividendole in dodici parti uguali (tante quanti sono gli abitanti dell’Olimpo, Ermes compreso)16, così l’uomo, attraverso il sacrificio religioso e il banchetto che ne segue, cerca di ristabilire l’equilibrio spezzato e di “mascherare” il furto compiuto. L’uccisione cruenta di un animale e la “ferita” aperta per accedere alla sfera del non-umano17 sono le azioni terribili di cui l’uomo si macchia e da cui deve purificarsi attraverso il rito sacrificale. La consumazione del pasto che ne deriva e la comunione in cui si trova con le sue divinità sono invece gli aspetti buoni, “santi”. In questo risiede, per Kerényi, l’ambivalenza del sacrificio e della festa, la colpa e la salvezza, la frenesia violenta e la pace che questi portano con sé. Certamente, la teoria del grande filologo ungherese ha il merito di mostrare come i rituali sacrificali non rappresentino una superstizione primitiva e inutile, ma, al contrario, cerimonie rispondenti a specifici bisogni umani. Eppure la sua analisi sembra eludere un punto fondamentale: se il sacrificio non è altro che “quell’atto grande e tremendo […] che nell’uccisione e in una specie di comunione con l’animale ucciso, aprì una sorgente della conservazione della vita umana”18, come giustificare e capire i sacrifici umani? Quale spazio si stava aprendo, in quel modo, per la sopravvivenza dell’uomo? La risposta di Girard è che il sacrificio, invece di ricordare il “furto per la sopravvivenza” di Kerényi, commemori, per ristabilire connessioni stabili all’interno della comunità e rinvigorire la sua forza, 15 K. Kerényi, Miti e misteri, tr. it. di A. Brelich, Bollati Boringhieri, Torino 1979, p. 187. 16 Si tratta dell’episodio raccontato nell’Inno Omerico a Ermes. 17 Ivi, p. 188. 18 Ibid. Raffaella Colombo 16 l’omicidio fondatore da cui la cultura, intesa come divisione dell’indifferenziato, ha avuto origine. L’inizio che l’antropologo francese immagina è privo di direzione, senso e ruoli. In questa dimensione, l’essere umano si trova esposto ai capricci del desiderio e dell’imitazione che spingono, fatalmente, in una contesa infinita di doppi, di individui indifferenziati, che determina un crescendo di violenza culminante in un omicidio. La vittima rimasta a terra rappresenta, per Girard, il primo, vero, fatto culturale, poiché dal suo corpo inerme sorge il sentimento di una pace sconosciuta, un potere grandioso e percepito come esterno, che dà vita al Sacro, al religioso primordiale, su cui si dispiegheranno, successivamente, tutte le differenze fondamentali per le prime forme di organizzazione sociale. La violenza che gli uomini avevano prodotto, e che sembrava inarrestabile, si concentra e si sublima nel corpo di quello che rappresenta, nella teoria girardiana, il primo capro espiatorio. Il pericolo del ritorno all’origine, della ricaduta nel mimetismo desiderativo e nel suo ciclo di vendette che solo la definizione di ruoli precisi può, per Girard, evitare, è tuttavia sempre presente e, da questo punto di vista, il sacrificio e la festa che accompagna la preparazione del rito sacrificale sono riproposizioni, più o meno simbolizzate, di quel gesto di cesura fra il prima e il dopo, fra lo stato naturale e la cultura, che era stato l’omicidio fondatore, e mezzi, estremamente potenti, di liberazione e sfogo delle forze umane in un nuovo atto di violenza: “La funzione della festa e del sacrificio, è quella di vivificare e rinnovare l’ordine culturale ripetendo l’esperienza fondatrice, riproducendo un’origine che è percepita come la fonte di ogni vitalità e fecondità: è in quel momento, infatti, che più stretta è l’unità della comunità, più intensa la paura di ripiombare nella violenza interminabile”19. 4. Dioniso, archetipo della vita indifferenziata È la folla che compie il primo omicidio, ed è la folla a farsene nuovamente “carico”, immolando un essere umano o un animale, in periodi di festa o di crisi. Perché il rito sacrificale sia efficace occorre, 19 R. Girard, La violenza e il sacro, cit., p. 163. Dioniso e il volto oscuro della festa 17 però, che le condizioni dell’origine siano ristabilite, vale a dire che si torni a una primordiale indifferenziazione, capace di rigenerare le forze e di preparare il terreno al ritorno dei ruoli e delle forme sociali. Questo tipo di atteggiamento risulta particolarmente chiaro se si pensa alla descrizione delle Menadi nelle Baccanti di Euripide: le seguaci del dio appaiono in preda alla pazzia e incapaci, ormai, di riconoscere divieti e ruoli. Agave, accecata dalla furia divina, vede il figlio Penteo trasfigurato in un “giovane leone” e lo uccide; le sue compagne dionisiache si abbandonano, nello stesso modo, alla caccia, alla violenza e alla promiscuità, sfidando gli uomini sul loro stesso terreno; Dioniso, dio che sottomette e trascina, prima di tutto, le donne, è però descritto come un efebo dalle sembianze femminee. Tutto è, rispetto a un ordine patriarcale consolidato, sovvertito e fuori misura. E tutto prepara, come Girard vuole dimostrare, un nuovo sacrificio che ristabilisca, rafforzandolo, il sistema “normale”. La tragedia, come luogo di disvelamento, ma non di totale rivelazione, delle ragioni del mito, vale a dire delle ragioni della folla “vittoriosa” sulla vittima e pacificata dalla sua morte, “dissolve i valori mitici e rituali nella violenza reciproca”, “rivela l’arbitrio di ogni differenza”20, la sua essenza artificiale, culturale e non trascendentale. E Dioniso, dio di luce e oscurità, delle forme e della loro distruzione, della forza vitale e sotterranea, della morte e della rinascita, racchiude il segreto dell’origine indifferenziata e della violenza che ha permesso di uscirne e rappresenta, lui stesso, la vittima e la folla insieme, l’essere immolato e l’essere che chiede, come con il sacrificio finale di Penteo, sangue sempre nuovo. Dioniso è il fanciullo dilaniato dai Titani da cui discenderà il genere umano, oltreché la persistenza di una vita inarrestabile che torna, periodicamente, a immolare altra vita per restituire forze all’ordine esistente. Ordine apollineo, apparente, eppure indispensabile affinché gli uomini si riconoscano in ruoli certi e si conformino a modelli di esistenza che impediscano al figlio di trasfigurarsi in una preda per la madre. In questa dimensione, vitalistica e terribile insieme, si inserisce il senso più arcaico e genuino della festa, di ogni festa, che è sempre ce20 Ivi, p. 173. Raffaella Colombo 18 lebrazione di una perdita per abbracciare un nuovo stadio dell’esistenza. Se il rituale dionisiaco, scandito dal tempo del vino e con il suo corollario di simboli fallici, di donne in preda alla follia, di altalene che, con il loro movimento, imitano la morte e la vita, sembra rappresentare in modo particolare questa concentrazione di opposti, è solo perché, in Dioniso, dio perennemente straniero e dall’origine remota21, brilla, più che in ogni altra divinità greca, la scintilla dell’inizio, l’oscura ma, almeno nella teoria girardiana, rivelata potenza, umana-troppo umana, che lega il Sacro alla violenza. 21 Sull’origine minoica e, forse, ancora precedente di Dioniso si veda K. Kerényi, Dioniso, cit. Apollineo e Dionisiaco ISBN: 978-88-578-3313-5 DOI: 10.4399/97888578331353 pag. 19-32 COLORI DELLA NATURA E COLORI DELL’UOMO (FRIEDRICH NIETZSCHE, MORGENRÖTHE 426) di Maria Fernanda Ferrini “Wie anders sahen die Griechen in ihre Natur, wenn ihnen, wie man sich eingestehen muss, das Auge für Blau und Grün blind war, und sie statt des ersteren ein tieferes Braun, statt des zweiten ein Gelb sahen (wenn sie also mit gleichem Worte zum Beispiel die Farbe des dunkelen Haares, die der Kornblume und die des südländischen Meeres bezeichneten, und wiederum mit gleichem Worte die Farbe der grünsten Gewächse und der menschlichen Haut, des Honigs und der gelben Harze: sodass ihre grössten Maler bezeugtermaassen ihre Welt nur mit Schwarz, Weiss, Roth und Gelb wiedergegeben haben), – wie anders und wie viel näher an den Menschen gerückt musste ihnen die Natur erscheinen, weil in ihrem Auge die Farben des Menschen auch in der Natur überwogen und diese gleichsam in dem Farbenäther der Menschheit schwamm!”1. Il titolo di questo aforisma (Farbenblindheit der Denker2) sembra un’espressione quasi ossimorica, che contiene tuttavia in sé il superamento dell’apparente contrasto: come per il vate della tradizione epica 1 Cfr. l’edizione di Colli e Montinari 1980 [KSA], vol. 3, pp. 261 s. La traduzione italiana, cui si farà qui riferimento, è di Ferruccio Masini (cfr. F. Nietzsche, Aurora. Pensieri sui pregiudizi morali, in Opere di Friedrich Nietzsche, a cura di G. Colli e M. Montinari, V 1, Milano 1996): “Cecità cromatica dei pensatori. Quanto diversamente i Greci hanno veduto la natura, se siamo costretti a riconoscere che i loro occhi erano ciechi per l’azzurro e il verde, e invece del primo vedevano un bruno più scuro, in luogo del secondo un giallo (giacché designavano con la stessa parola, per esempio, il colore dei capelli bruni, quello del fiordaliso e del mare meridionale, e con la stessa parola il colore delle piante più verdi e della pelle umana, del miele e della resina gialla: sicché, stando alle testimonianze, i loro grandissimi pittori hanno ritratto il mondo solo col nero, il bianco, il rosso e il giallo), – quanto diversa e quanto più vicina agli uomini dovette apparire loro la natura, dal momento che ai loro occhi i colori degli uomini erano anche nella natura preponderanti e questa nuotava, per così dire, nell’atmosfera dei colori umani!”. 2 19 Maria Fernanda Ferrini 20 greca, così per il “pensatore”, cecità non vuol dire limite, né difetto, anzi accesso a esperienze e a conoscenze che travalicano l’immediatezza del reale, e si configurano come raggiungimento di godimenti e capacità di vedere dentro le cose. Per la ricchezza dei riferimenti espliciti e impliciti, l’aforisma può essere commentato prendendo in considerazione varie linee di ricerca. Prima di tutto esso costituisce un piccolo, ma non trascurabile tassello di una ricerca più ampia estesa a molti altri scritti, riguardante la conoscenza e l’interpretazione della civiltà e della cultura greca da parte di Nietzsche. In esso possono essere anche individuati precisi rapporti di Nietzsche con la cultura scientifica3 del suo tempo, e con il vivacissimo dibattito sulla teoria dell’evoluzione; il suo interesse per il tema della percezione cromatica, di particolare attualità tra Settecento e Ottocento. Vi affiorano inoltre le sue concezioni estetiche, le sue conoscenze della storia dell’arte, della pittura in modo speciale, le sue osservazioni sulla relazione tra arte e natura4. Considerazioni sulla percezione estetica e sensoriale abbondano nei suoi scritti; meno ricorren- 3 Cfr. A. Orsucci, Die geschichtliche Entwicklung des Farbensinns und die “linguistische Archäologie” von L. Geiger und H. Magnus: ein Kommentar zum Aphorismus 426 von Morgenröthe, in «Nietzsche-Studien», 22, 1993, pp. 243-256; G. Moore/Th. H. Brobjer, edd., Nietzsche and science, Aldershot 2004; A. Orsucci, Naturwissenschaften und historisches Denken in Nietzsches Schriften, in «NietzscheStudien», 35, 2006, pp. 321-326. 4 Anche una “vaga” suggestione leopardiana richiama le riflessioni di Nietzsche su Leopardi, pensatore e poeta; cfr. l’ultimo aforisma (575) di Aurora: “Un giorno si dirà forse di noi che, volgendo la prua a occidente, anche noi speravamo di raggiungere un’India, ma che fu il nostro destino naufragare nell’infinito?” (F. Nietzsche, Aurora. Pensieri sui pregiudizi morali, cit., p. 269). Nei Frammenti postumi si legge: “Infinito! Bello è «naufragare in questo mare»” (Autunno 1880, cfr. F. Nietzsche, Aurora e frammenti postumi (1879-1881), in Opere di Friedrich Nietzsche, a cura di G. Colli e M. Montinari, V 1, Milano 1964, p. 502). Questo modo di esprimersi e la citazione possono essere confrontati con l’immagine, suggerita nell’aforisma, della natura che “nuotava, per così dire, nell’atmosfera dei colori umani”. Rizzacasa delinea nelle sua essenzialità “il lungo itinerario critico di Nietzsche interprete di Leopardi” (A. Rizzacasa, Nietzsche rivisita Leopardi, in F. Totaro – a cura di –, Nietzsche tra eccesso e misura. La volontà di potenza a confronto, Roma 2002, p. 328).