Cambiamenti evolutivi in adolescenza

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Ciclo di vita
CAMBIAMENTI
EVOLUTIVI IN ADOLESCENZA
Ada Cigala, Vanda Lucia Zammuner
INTRODUZIONE: UNA ADOLESCENZA O TANTE ADOLESCENZE?
Nel panorama della letteratura psicologica, possono essere rintracciati diverse teorie e molteplici approcci che tentano di descrivere e spiegare i processi di sviluppo che prendono forma nel periodo adolescenziale; tuttavia, molti autori (per
es., de Wit e van der Veer, 1991) sono concordi nel sottolineare l’unilateralità
di ogni teoria, poiché ciascuna di esse approfondisce alcuni aspetti trascurandone altri.
Un excursus storico all’interno dei molteplici approcci teorici evidenzia come
negli anni si sia andata formando una sorta di “puzzle interpretativo” dell’adolescenza, dove ciascun pezzo, rappresentato dalle singole teorie, appare riduttivo e
non esauriente di per sé, ma necessario alla costruzione della visione generale del
fenomeno. Verso la fine del XIX secolo compaiono alcune opere nelle quali possiamo rintracciare per la prima volta il concetto psicologico di adolescenza: The
study of adolescence di Burnham (1891), The psychology and pedagogy of adolescence
di Lancaster (1897), e Adolescence di Stanley Hall (1904). Da queste prime opere
emerge un’idea “biologica” di adolescenza. In particolare, secondo Hall (1904) il
rinnovamento totale della personalità che avviene in questo periodo, nuova nascita, è determinato biologicamente ed è quindi indipendente da variabili culturali e
ambientali. La teoria di Hall tende a evidenziare il carattere universale e costante
delle caratteristiche dell’adolescenza; in particolare, secondo l’autore, il turbamento emotivo, tipico di questo periodo, è comune a tutti gli adolescenti e deriverebbe dai cambiamenti biologici. Il merito di Hall è stato sicuramente quello di essere riuscito a raccogliere, attraverso lo strumento del questionario, una rilevante
quantità di dati sugli adolescenti, e ad aprire la strada dell’indagine empirica sull’adolescenza.
Nel puzzle interpretativo, al “pezzo biologico” si è aggiunta, a distanza di pochi
anni, la prospettiva antropologica (Mead, 1928), che evidenzia il ruolo determinante della cultura: il tipo di conflitti emotivi interiori, quelli intergenerazionali,
e l’intensità con cui tali conflitti vengono vissuti dall’adolescente non sono altro
che un prodotto della cultura nella quale egli è inserito. Contemporaneamente
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anche gli studi di derivazione sociologica (Mannheim, 1928) si inseriscono nel
“puzzle interpretativo”, introducendo dati e riflessioni importanti sull’influenza che
l’organizzazione della società esercita sulle dinamiche adolescenziali.
Con l’avvento della psicoanalisi, la psicologia si focalizza maggiormente sui cambiamenti interiori dell’adolescente. Diventano prioritari i seguenti aspetti: il modo
in cui l’individuo sente ed elabora i cambiamenti che avvengono in lui e fuori di
lui (secondo processo di individuazione, Blos, 1973), il rapporto con lo sviluppo infantile (prima ricapitolazione dell’infanzia, Freud, 1936), e le dinamiche attraverso le
quali il soggetto si inserisce nelle relazioni sociali come individuo separato e autonomo (Erikson, 1968; Sullivan, 1953).
Un altro contributo viene dalle teorie cognitive (Piaget, 1972), che si propongono di analizzare e spiegare le trasformazioni che avvengono nel pensiero e nelle
modalità di acquisizione della conoscenza. Infine, in tempi più recenti, le teorie
dell’apprendimento sociale (Bandura, 1977) hanno contribuito a evidenziare i meccanismi attraverso i quali lo sviluppo in adolescenza è condizionato dagli stimoli
provenienti dal contesto ambientale nel quale l’individuo vive.
Dal quadro proposto, che non ha la pretesa di essere esaustivo (per una trattazione completa delle teorie sull’adolescenza si veda Muuss, 1988), emerge una molteplicità di punti di vista, tra loro non incompatibili, attraverso i quali è possibile
osservare il fenomeno adolescenza. È probabilmente a causa della complessità del
“puzzle interpretativo” che risulta così difficile oggi catturarne e delimitarne il concetto (Scabini, 1995). Per “adolescenza” si intende quel periodo della vita che va
dai 12 ai 22 anni circa, e che vede l’individuo impegnato ad affrontare una serie
di cambiamenti che interessano il suo sviluppo fisiologico, morfologico e sessuale,
cognitivo e infine sociale. Tutte queste trasformazioni, profondamente interrelate
tra loro, portano il soggetto a modificare l’immagine che ha di se stesso e a confrontarsi continuamente con l’immagine che gli altri hanno di sé. La difficoltà di
definire e circoscrivere all’interno di limiti anagrafici l’adolescenza deriva anche dal
fatto che, come hanno sottolineato diversi autori (Rutter, 1980; Zazzo, 1966), esistono in questo periodo della vita enormi differenze interindividuali nel modo di
affrontare i compiti di sviluppo, sia in termini di strategie comportamentali adottate, sia in termini di vissuti interiori.
Nella prospettiva delle differenze interindividuali si collocano le concezioni relative ai fattori di rischio e di protezione in età adolescenziale. Il rischio può essere letto come un costrutto dinamico legato, da un lato, agli specifici compiti di
sviluppo che la fase adolescenziale propone all’individuo e alla famiglia, e, dall’altro, alla disponibilità sia di risorse intrapersonali dell’adolescente (personalità
e temperamento), sia di risorse interpersonali (legate alla sua storia personale, familiare e sociale). Sono stati individuati fattori definiti protettivi che impediscono
ai fattori di rischio di svolgere la loro funzione negativa ai fini dello sviluppo; si
tratta di condizioni che sono in grado di imporre un cambiamento di direzione in
un percorso a rischio, aumentando la capacità di resilience (capacità di resistere
agli urti) del soggetto coinvolto (Compas, Hinden e Gerhardt, 1995; Rutter, 1985).
Nello specifico Grossman et al. (1992) distinguono i fattori protettivi in tre categorie: il primo gruppo è definito dai fattori individuali che comprendono la stima
di sé, il locus of control e il costrutto di self-efficacy (Bandura, 1977). Nella seconda categoria, invece, troviamo i fattori familiari (coesione familiare, supporto famiPaolo Moderato, Francesco Rovetto, Psicologo: verso la professione 4/e
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liare, comunicazione genitori-figli, modalità adattive di risoluzione del conflitto);
infine nell’ultima categoria si collocano i fattori socio-ambientali (coinvolgimento con adulti significativi, ampia rete sociale e lavorativa).
Delineata la complessità del fenomeno adolescenza che, come abbiamo visto,
contempla al suo interno diverse adolescenze, in questo capitolo si tenterà di porre
l’attenzione su alcuni aspetti dello sviluppo adolescenziale, quali le trasformazioni
del pensiero, il processo di formazione dell’identità e le dinamiche delle relazioni
familiari, evidenziando le profonde relazioni e interazioni che esistono tra questi
ambiti.
LE TRASFORMAZIONI COGNITIVE: PENSARE IL POSSIBILE
Quando si parla di adolescenza e di adolescenti, sia negli scambi informali che nelle
trattazioni più sistematiche, una considerevole attenzione viene destinata agli aspetti emotivi e affettivi che caratterizzano questa fase della vita. Al contrario, poco
spazio viene in genere riservato all’aspetto cognitivo, vale a dire ai cambiamenti
nel modo di pensare che avvengono a questa età. Una tale constatazione non è
limitata ai giorni nostri, ma ha le sue radici nel passato. Già illustri autori che si
sono occupati di adolescenza, tra i quali Hall (1904), Piaget e Inhelder (1955), ed
Elkind (1974), sottolineano una carenza di studi sullo sviluppo cognitivo relativo
al periodo adolescenziale. La ragione di tale carenza di studi potrebbe essere attribuita al fatto che i cambiamenti cognitivi sono cambiamenti meno immediatamente constatabili e, dal punto di vista psicologico, ritenuti marginali rispetto alle
tempeste emotive (storm and stress) tipiche dell’adolescente, delle quali è urgente
occuparsi. In realtà, se ci sottraiamo all’immagine scissa dell’adolescente, dove i
vari ambiti di sviluppo, corporeo, emotivo, sociale e cognitivo procedono su linee
parallele, possiamo rintracciare non solo un’influenza reciproca tra tali ambiti, ma
addirittura possiamo scoprire che il pensiero e gli affetti sono reciprocamente strutturanti (Fabbri, Mari e Valentini, 1992). Una relazione dinamica reciproca tra emozione e cognizione è ormai riconosciuta già dalle primissime fasi dello sviluppo e,
pur cambiando forma, si presenta costantemente per tutto l’arco della vita di un
individuo (Sroufe, 1995); inoltre tale relazione non si palesa esclusivamente in
situazioni patologiche di disagio affettivo o di disturbo cognitivo, bensì caratterizza lo sviluppo in generale. Come cercheremo di evidenziare, infatti, i cambiamenti nel modo di pensare degli adolescenti non rimangono confinati all’ambito strettamente cognitivo influenzando esclusivamente le modalità di apprendimento delle
discipline scolastico-scientifiche, ma trasformano anche il modo in cui l’adolescente
guarda se stesso, gli altri e il mondo. I cambiamenti nel pensiero dell’adolescente
permeano quindi il suo sviluppo affettivo e sociale.
Inhelder e Piaget (1955) sono tra i pochi studiosi che si sono posti l’obiettivo
di indagare i cambiamenti evolutivi che avvengono a livello cognitivo in questo
periodo; qualsiasi trattazione del pensiero degli adolescenti non può dunque prescindere dalle teorizzazioni di questi due autori. Non è nostra intenzione in questa
sede addentrarci in una esplicazione completa della teoria piagetiana, ci si propone piuttosto di evidenziare alcuni aspetti interessanti di cambiamento cognitivo in
essa proposti e condivisi o ripresi da altri autori. Secondo Piaget (1972) l’intelliPaolo Moderato, Francesco Rovetto, Psicologo: verso la professione 4/e
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genza è una forma di adattamento dell’individuo all’ambiente, che si modifica nel
tempo organizzandosi in strutture di crescente complessità. Nel periodo adolescenziale si sviluppa quella forma di pensiero definito da Piaget ipotetico deduttivo o formale: il soggetto, a partire dagli 11-12 anni, comincia ad acquisire la capacità di
ragionare in termini di ipotesi astratte puramente verbali, di formulare diverse alternative possibili e di dedurre le conseguenze implicate nelle ipotesi stesse. Mentre
per il bambino fino ai 10 anni (pensiero operatorio concreto) conoscere significa
maneggiare concretamente gli oggetti reali sperimentando i loro cambiamenti e le
loro caratteristiche invarianti a seguito delle azioni prodotte su di essi, per l’adolescente la conoscenza procede non necessariamente attraverso il contingente, ma
attraverso il possibile. In altri termini, il pensiero dell’individuo non rimane vincolato all’esperienza reale, si cimenta piuttosto in formulazioni teoriche ipotetiche
su vari aspetti di conoscenza.
Potremmo dire che nel periodo dell’adolescenza il ragazzo scopre l’atleticità del
proprio pensiero e la sua estensibilità: può pensare a tutto, creare cose, individui,
luoghi. Anche prima dei 10 anni l’individuo è in grado di pensare in astratto, ma
con l’ingresso nell’adolescenza egli acquisisce la consapevolezza delle potenzialità
del proprio pensiero. Mentre il bambino investe buona parte della sua energia sugli
oggetti, sulle persone e in generale sul mondo fisico e sociale, l’adolescente investe affettivamente in modo significativo sulla sua capacità di pensare questo mondo
fisico e sociale.
Tale rilevante modificazione del pensiero individuata da Inhelder e Piaget (1955)
è sostenuta da diversi autori non prettamente piagetiani. Nel corso degli anni però
è stata avanzata una serie di critiche in merito ad alcuni aspetti della teoria piagetiana. In primo luogo, è stata smentita l’idea avanzata da Piaget, anche se poi in
parte rivista (Piaget, 1972), secondo la quale lo stadio del pensiero formale si collocherebbe nell’arco temporale che va dagli 11-12 ai 14-15 anni, e si configurerebbe come l’ultima tappa universale dello sviluppo cognitivo. I dati portati da Piaget al fine di corroborare la sua teoria provenivano dai migliori studenti delle scuole di Ginevra, ai quali erano stati proposti alcuni compiti di carattere scientifico
riguardanti il pendolo, le ombre, le reazioni chimiche, le aste flessibili. In realtà gli
stessi studi realizzati con altri campioni hanno mostrato che non tutti i soggetti,
nemmeno nell’età adulta, riescono a risolvere tali prove (Dasen, 1977). Accanto a
queste evidenze empiriche se ne aggiungono altre (Neimark, 1979) che rivelano
come le stesse prove che Piaget aveva individuato come indicative della presenza
del pensiero formale possono essere risolte da un medesimo soggetto in tempi molto
diversi. Questi risultati sono in disaccordo con l’idea originaria sostenuta da Piaget, secondo la quale le strutture del pensiero, compreso il pensiero formale, si sviluppano indipendentemente dai contenuti di conoscenza.
Solo successivamente Piaget (1972), per spiegare queste differenze riscontrate
nella risoluzione delle prove da parte dei singoli individui, introduce l’ipotesi, poi
ripresa e specificata dai neopiagetiani, che queste differenze possano essere spiegate in base alle differenti “attitudini personali e specializzazioni professionali”: l’autore arriva quindi ad ammorbidire la propria posizione originaria sostenendo che le
operazioni formali sono sì libere e indipendenti dai loro concreti contenuti, ma a
condizione che per il soggetto le situazioni proposte nelle prove attivino uguali attitudini e interessi vitali confrontabili.
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A partire proprio da queste posizioni critiche e dalle ultime formulazioni di Piaget (1972), autori neopiagetiani, quali Pascual-Leone (1970) e Case (1985), reinterpretano la teoria di Piaget alla luce delle teorie dell’elaborazione dell’informazione. Pur nella loro differenza, le teorizzazioni dei neopiagetiani hanno avuto l’enorme merito di specificare nel concreto i cambiamenti che avvengono con lo sviluppo nel modo di elaborare le informazioni, e soprattutto hanno contestualizzato
tali cambiamenti, indicando quali possano essere i fattori che promuovono o impediscono lo sviluppo cognitivo.
In sintesi, gli autori neopiagetiani considerano gli individui come solutori di problemi, che elaborano le informazioni provenienti dall’esterno per mezzo di strutture di controllo esecutivo, vale a dire per mezzo di piani mentali attraverso i quali
si rappresentano una situazione problematica. Tali piani comprendono: una rappresentazione della situazione iniziale, una rappresentazione dell’obiettivo o dello
stato finale da raggiungere, e una rappresentazione della strategia da adottare. Con
lo sviluppo si manifestano sia cambiamenti quantitativi (un adolescente è in grado
di elaborare una quantità maggiore di informazioni rispetto a un bambino), sia qualitativi (un adolescente è in grado di coordinare meglio le proprie capacità mentali e di utilizzare strategie cognitive più sofisticate al fine di elaborare e memorizzare le informazioni). In conclusione si evince che l’idea fondante le concezioni
neopiagetiane è che con lo sviluppo si verifichi un aumento sia della capacità strutturale sia della capacità funzionale del sistema cognitivo.
Attraverso numerose evidenze empiriche i teorici neopiagetiani (Case, 1985;
Klahr e Wallace, 1976; Pascual-Leone, 1970) hanno mostrato che le prestazioni
cognitive degli adolescenti variano a seconda di alcune variabili contestuali, non
sufficientemente prese in considerazione da Piaget, quali: le conoscenze pregresse,
la modalità di presentazione del compito, le aspettative degli altri e le aspettative
proprie. In aggiunta a queste variabili, i teorici del conflitto socio-cognitivo (Carugati, 1997; Doise e Mugny, 1981; Gilli e Marchetti, 1991; Gilly e Roux, 1984)
hanno dato importanza al ruolo delle interazioni con i coetanei nella risoluzione
di compiti cognitivi anche in età adolescenziale.
Le ricerche mostrano inoltre che in adolescenza si perfezionano le abilità metacognitive, intese come le conoscenze dell’individuo sia del funzionamento mentale generale sia dei diversi meccanismi di controllo che sovrintendono al funzionamento cognitivo nei vari contesti (Cornoldi, 1995). Queste conoscenze influenzano in modo determinante i processi cognitivi e lo stile di apprendimento che l’individuo stesso adotta di fronte a un problem solving di qualsiasi tipo. In questo
ambito, nello specifico, le ricerche mostrano che gli adolescenti, rispetto ai bambini, ottengono risultati migliori nelle prove in cui è implicata la memoria di lavoro, e recuperano con maggiore velocità le informazioni nella memoria a lungo termine. Tali risultati possono essere interpretati, oltre che alla luce di uno sviluppo
neurologico, anche contemplando un aumento e soprattutto un miglioramento qualitativo delle strategie di elaborazione e organizzazione mnemonica disponibili. In
sintesi, sembra che gli adolescenti rendano l’informazione più significativa e quindi più facile da memorizzare (Lee e Freire, 2003).
In linea con quanto evidenziato, alcuni studi mostrano inoltre un miglioramento della capacità di pianificazione in un compito di design problem in soggetti di età compresa tra i 10 e i 14 anni (Albiero, Perrucci, Passalacqua e Di
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Stefano, 1999). Nello specifico, i risultati mostrano che i cambiamenti che avvengono in questo periodo nelle capacità di pianificazione riguardano aspetti sia procedurali (per es., aumento della velocità di esecuzione della prova, della frequenza
di esecuzione delle mosse, diminuzione dei tempi di latenza) sia strategici (per
es., aumento della capacità di correggere gli errori, e di saper utilizzare aiuti disponibili).
Le concezioni di Piaget sono state riprese anche in un ambito clinico-sociale
(Fabbri e coll., 1992) all’interno del quale si sono evidenziati gli effetti dell’acquisizione del pensiero formale sulla dimensione socio-affettiva dello sviluppo. In
primo luogo, se l’adolescente può rappresentarsi il possibile, comincia a farlo
soprattutto in relazione a quei mondi che egli meglio conosce, vale a dire la famiglia, gli amici, la scuola e se stesso. Egli va al di là di quello che questi mondi
sono, rappresentandoli per come potrebbero essere, non giustifica più l’esistente,
anzi lo critica ed esprime giudizi su di esso, prospettando situazioni possibili ideali più congeniali alle proprie esigenze. Come vedremo parlando della famiglia dell’adolescente, molto spesso queste alternative possibili non coincidono con quelle concepite dalle figure di riferimento, ed è proprio attraverso questo esercizio
del pensiero di ipotizzazione, confronto e destrutturazione che l’adolescente si differenzia dall’adulto.
La capacità di pensare il possibile determina anche un ampliamento della prospettiva temporale della propria esperienza: per l’adolescente non esiste più solo il
presente, prende consistenza anche la dimensione del futuro con tutti gli aspetti a
essa collegati: i desideri circa il “che cosa fare da grande”, le paure, le aspettative
proprie e degli altri. Paradossalmente, questa abilità “potenziale” contrasta nella
società attuale con la condizione strutturale degli adolescenti. Ci si riferisce al fatto
che la transizione dalla condizione di adolescente a quella di adulto avviene in
modo sempre più graduale in quanto mediata dalla figura del giovane adulto che
mantiene caratteristiche di dipendenza (economica e affettiva) e di indeterminatezza molto simili a quelle dell’adolescente (Scabini e Galimberti, 1994). Si parla
a questo proposito di famiglie “lunghe e strette”, riferendosi appunto alla dilatazione della condizione adolescente e al fatto che è diminuito il numero di figli
(Rosci, 2004). Il contesto attuale richiede agli adolescenti di posticipare l’assunzione di responsabilità lavorative e familiari, e non offre possibilità di “provarsi”
nelle capacità produttive. Per questi motivi il futuro che i ragazzi di oggi si trovano ad affrontare è spesso incerto e di difficile lettura; di conseguenza la loro progettualità non ha le caratteristiche di definitività e di chiarezza (Ricci Bitti, 1992),
piuttosto diventa una progettualità flessibile, provvisoria, fatta di tappe intermedie,
una progettualità che richiede quindi un continuo monitoraggio e che molto spesso riguarda un futuro immediato.
IL PROCESSO DI COSTRUZIONE DELL’IDENTITÀ
Un concetto spesso utilizzato nelle varie definizioni di “adolescenza” è quello di
transizione, di passaggio. Entrambi questi termini rimandano a un’idea di dinamicità e di movimento da un “prima” a un “dopo”, quali punti rispettivamente di inizio e di fine di un percorso. Prendendo a prestito la metafora proposta da Hermann
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Hesse nel suo romanzo Siddharta, potremmo rappresentarci tali punti come le sponde di un fiume da attraversare, le cui acque sono ora tranquille, ora mosse, ora
molto agitate, e la meta di approdo sembra in certi momenti un traguardo ben visibile e raggiungibile, mentre in altri momenti la visuale si oscura. Nel campo psicologico è andato aumentando l’interesse per lo studio dell’adolescenza, diversi autori hanno cercato di fare luce, con ricerche empiriche, attività clinica e formulazioni teoriche, su questo passaggio.
Secondo Erikson (1950; 1968) il compito evolutivo principale dell’adolescenza,
o meglio, utilizzando il linguaggio dell’autore, il dilemma cruciale di questo periodo,
è l’acquisizione da parte dell’individuo di una identità autonoma. I cambiamenti
che avvengono su più livelli contemporaneamente, in maniera repentina e a volte
disarmonica, spingono il soggetto, in modo più o meno impellente a seconda del
temperamento personale, a una ri-definizione e ri-organizzazione del proprio Sé
rispetto a se stesso e agli altri, siano essi i genitori, gli amici, o le altre figure adulte che costellano le esperienze di vita dell’adolescente.
Pur proponendo una teoria per certi aspetti poco operazionabile, Erikson rimane comunque un punto di riferimento per buona parte della ricerca condotta sul
tema dell’identità. L’autore, psicoanalista clinico con una grande cultura filosofica
e antropologica, ha sicuramente il merito di avere tentato di formulare una teoria
comprensiva, cercando di integrare alcuni aspetti caratteristici dei modelli classici
(psicobiologico, psicoanalitico e dell’apprendimento sociale). Secondo Erikson
(1968) il processo di formazione dell’identità si realizza attraverso il passaggio di
alcune fasi; in particolare nel periodo dell’adolescenza il soggetto passa da uno stato
di diffusione dell’identità a un stato di acquisizione dell’identità. Il primo stato è caratterizzato sostanzialmente da due modalità relazionali: la sperimentazione e l’identificazione. La sperimentazione consente al soggetto adolescente di provarsi e riprovarsi in ruoli diversi e di recitare una pluralità di copioni sociali confrontandosi
con diverse regole e valori. Parallelamente le relazioni sociali dell’adolescente si
moltiplicano, accanto alle figure primarie diventano oggetti di attrazione e interesse altri individui adulti e coetanei. Alcune di queste sono relazioni reali con persone vicine con le quali l’adolescente può condividere delle esperienze, altre invece sono relazioni immaginate, legami a distanza con personaggi più o meno lontani, quali per esempio i protagonisti dello spettacolo e dello sport.
Negli anni dell’adolescenza viene così a costruirsi una rete di molteplici relazioni che risponde al bisogno di autonomia dell’adolescente. All’interno di queste
relazioni l’adolescente ha l’opportunità di identificarsi, e di riconoscere parti di
altri come interessanti per sé. Come emerge dalle esperienze di chi vive o lavora
a contatto con gli adolescenti (familiari, operatori sociali, educatori, insegnanti),
spesso avviene che l’adolescente riveli aspetti di sé molto diversi a seconda del
tipo di contesto nel quale interagisce (scuola, famiglia, amici). Questa molteplicità di volti (L’adolescence aux mille visages, Braconnier e Marcelli, 1988) riflette
il fatto che l’individuo si “sta provando” in diversi ruoli, ma le varie identificazioni sono ancora scisse tra loro, manca, soprattutto nella prima adolescenza, una
sintesi armonica. Chi è veramente questo ragazzo? si chiedono spesso i genitori,
Chi sono io? si chiedono gli adolescenti. È in questo gioco di sperimentazioni e
identificazioni, definito da Erikson (1968) come moratoria psicosociale, che l’adolescente cerca una risposta, si definisce, si conosce come separato e diverso dagli
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altri, riesce a prendere consapevolezza delle proprie risorse e dei propri limiti confrontandosi con l’immagine che gli altri e la società hanno di lui.
Il processo di acquisizione dell’identità non si risolve con la scelta di un ruolo
anziché di un altro, o di una identificazione rispetto a un’altra; comporta invece
un’operazione di scelta e l’elaborazione di una sintesi originale tra le diverse parti
di sé che l’adolescente ha riconosciuto identificandosi con gli altri. Il percorso che
abbiamo delineato è emotivamente faticoso per l’adolescente, poiché, come ogni
processo di scelta, comporta l’elaborazione di una perdita, la rinuncia ad alcuni sé
possibili, una definizione della propria personalità e quindi anche l’assunzione di
fronte a se stesso e agli altri delle proprie idee, valori e azioni. Quando, dopo molte
ore di attesa, il padre di Siddharta concede al figlio di lasciare la casa per iniziare
il viaggio, Hesse racconta che sulla soglia al giovane vacillano le gambe. Questa
scena esprime la conflittualità interiore tipica dell’adolescente tra il bisogno di autonomia e di individuazione, da un lato, e il desiderio di sentirsi ancora bambino,
protetto e rassicurato dalle figure genitoriali, dall’altro.
Un aspetto rilevante della teoria eriksoniana, che lo allontana in parte dalle
scuole psicoanalitiche ortodosse, è il riconoscimento di una interdipendenza tra
diversi fattori individuati come determinanti l’evoluzione del processo di formazione dell’identità. Secondo l’autore, infatti, la dotazione biologica e i compiti
evolutivi tipici di questo periodo interagiscono continuamente con la storia individuale del singolo e con il contesto storico-socio-culturale nel quale egli è inserito. In questa ottica interazionale la concezione degli orientamenti psicoanalitici classici dell’adolescenza come ricapitolazione dell’infanzia (Freud, 1936) viene
integrata con un’attenzione al contesto e alle esperienze che l’adolescente vive
nel presente. A questo proposito l’idea di Erikson, secondo la quale l’adolescenza si esplica nelle relazioni, mostra una certa contiguità con la concezione di Sherif del gruppo dei pari come laboratorio sociale (1964). Infatti entrambi gli autori, pur provenendo da scuole di personalità diversamente orientate, pongono in
risalto la relazionalità, e in particolar modo la varietà delle forme di relazione
che l’adolescente sperimenta, quali fattori determinanti l’acquisizione di una identità autonoma.
Un contributo fondamentale, finalizzato a validare e a operazionalizzare il costrutto di identità, viene dagli studi di Marcia (1966; 1980). L’autore, attraverso interviste a soggetti adolescenti riguardanti diversi ambiti della loro vita, individua quattro stati dell’identità che corrispondono a quattro differenti modalità di rapportarsi agli eventi da parte dell’adolescente. Si trovano nello stato dell’identità acquisita
coloro che hanno operato una scelta dopo aver sondato, attraverso la sperimentazione, diverse alternative possibili. Diversamente, gli adolescenti che si trovano
nello stato definito moratorium sono ancora nella fase della sperimentazione, non
hanno ancora elaborato una scelta, sebbene sia presente in essi una continua riflessione sulle diverse alternative e quindi una tensione alla scelta. Particolarmente
interessante è lo stato definito blocco dell’identità, caratteristico di quegli adolescenti
che sono arrivati a elaborare delle scelte in vari ambiti della loro vita e ad assumersi gli impegni conseguenti evitando di esplorare le varie alternative possibili;
in genere questo stato prende la forma di un’adesione acritica ai primi modelli identificatori, vale a dire i genitori. Infine Marcia individua un quarto stato, denominato diffusione dell’identità, proprio di coloro che mettono in atto molteplici comPaolo Moderato, Francesco Rovetto, Psicologo: verso la professione 4/e
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portamenti esplorativi piuttosto superficiali, non accompagnati da alcuna riflessione e soprattutto non finalizzati a una scelta e a un impegno futuri.
Pur non rappresentando una vera teoria dello sviluppo e avendo caratteri di staticità, la sistematizzazione di Marcia di questi quattro stati dell’identità si è rivelata estremamente produttiva e utile ai fini della ricerca, stimolando una serie di
indagini sperimentali sugli adolescenti (Meeus, 1992; Phinney, 1989; Waterman e
Archer, 1993).
Il concetto eriksoniano di confusione di ruoli viene ripreso e ridefinito da Melzer (Melzer e Harris, 1981), il quale identifica come stati della mente molto isolati le appartenenze dell’adolescente a quattro comunità: dei bambini, degli adolescenti, degli adulti, e dell’adolescente isolato. Tali comunità rappresentano, oltre
che ambiti relazionali, anche luoghi psichici in cui l’individuo sperimenta aspetti di sé che solo in seguito saranno selezionati e integrati nell’elaborazione psichica individuale.
Più recentemente Fonagy ha introdotto il concetto di funzione riflessiva della
mente, consentita da uno sviluppo cognitivo e da esperienze affettivo-relazionali,
indispensabile affinché un adolescente riesca nella costruzione di una identità
armonica (Fonagy e Target, 2001). Secondo gli autori, questa funzione riflessiva
deriva dall’interiorizzazione di un contenimento emotivo attivo capace di attribuire significato agli stati mentali che le figure di riferimento hanno assunto
durante l’infanzia.
Autori successivi, quali Bosma e Jackson (1990) e Coleman (1974), hanno sottolineato alcuni aspetti di criticità delle teorie eriksoniane, non tanto in termini
di contenuti, quanto di modalità con cui avviene la formazione dell’identità. In
particolare, per Erikson l’acquisizione dell’identità è un processo che sembra avvenire in termini di tutto o niente; secondo questi autori, invece, tale processo assume le caratteristiche di un processo continuo che si realizza attraverso ripetute crisi,
esplorazioni e riorganizzazioni. Introducendo o riprendendo concetti quali aree vitali e compiti di sviluppo (Havighurst, 1953), questi autori condividono l’idea che l’individuo nel periodo dell’adolescenza sia messo di fronte non tanto a una scelta,
quanto a continue scelte di carattere diverso. Coleman (1974) è uno dei primi a
formalizzare queste idee proponendo un modello focale dell’adolescenza, secondo il
quale l’adolescente affronta in momenti diversi della vita differenti problematiche,
tra le quali l’accettazione del proprio sé corporeo, la separazione dalla famiglia, l’accettazione da parte del gruppo, l’accettazione di trasformazione e di nuovi investimenti nell’area della sessualità e dell’affettività. In questo senso, la formazione dell’identità appare come un percorso prolungato e differenziato che si dipana attraverso svariati conflitti, la risoluzione dei quali consente all’adolescente di costruire diverse componenti della propria identità e parallelamente di accrescere l’autostima e la percezione di autoefficacia (Zimmerman, 1995).
Uno dei principali compiti di sviluppo, considerato rilevante sia nell’ottica psicosociale (Palmonari, 1997) sia in quella psicoanalitica (Pietropolli Charmet, 2004),
riguarda l’integrazione da parte dell’adolescente dei cambiamenti corporei che si
caratterizzano per essere repentini, massicci e “vistosi”. In particolare, la sfida che
attende i ragazzi è quella della costruzione di un’immagine corporea, risultato dell’integrazione di rappresentazioni, pensieri, simbolizzazioni e affetti relativi al proprio corpo attuale a partire dal corpo che si era. Un segno evidente delle enormi
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energie implicate in questo processo è l’attenzione che gli adolescenti rivolgono
alla dimensione corporea, in modo evidente o velato da un apparente disinteresse.
“Per il modo in cui è utilizzato, valorizzato o disconosciuto, amato o detestato, vestito o talvolta travestito, fonte di rivalità o di sentimento di inferiorità, il corpo rappresenta per l’adolescente un mezzo di espressione simbolica dei propri conflitti, e
delle proprie modalità relazionali, di esprimere la sua nuova identità e i conflitti relativi, di segnalare appartenenze e separazioni” (Pietropolli Charmet, 2004, p. 112).
Se l’adolescente non riesce in questo sforzo di integrare mentalmente i cambiamenti, le conseguenze sono gravi, come testimoniano le forme di sofferenza psichica che si esprimono nelle forme di attacchi alla propria corporeità, come le condotte autolesive e i disturbi della condotta alimentare.
Concludendo, potremmo dire che se, riprendendo la metafora di Hesse, l’adolescenza può essere rappresentata come un passaggio da una sponda a un’altra di un
fiume, questo traghettamento verosimilmente si realizza attraverso molteplici passaggi intermedi.
LA FAMIGLIA ADOLESCENTE
Nonostante l’associazione adolescenza-gruppo dei pari sia immediata e l’adolescente venga solitamente descritto come colui che comincia a guardare al di là del
nucleo familiare, evidenze empiriche e cliniche mostrano che molti processi evolutivi e trasformativi tipici di questo periodo “si giocano” in famiglia e “mettono
in gioco” la famiglia nel suo complesso.
Il ruolo rivestito dalla famiglia nelle dinamiche dell’adolescente si è reso evidente soprattutto negli ultimi anni a causa delle mutate condizioni socio-economiche che hanno prolungato la permanenza dei ragazzi nel nucleo familiare (Rosci,
2004; Scabini e Galimberti, 1994). Inoltre l’aumentata attenzione alla famiglia è
dovuta sicuramente anche all’affermarsi di alcuni orientamenti in ambito psicologico, quali la psicologia del ciclo di vita (Dornbusch, 1989) e la prospettiva ecologica (Bronfenbrenner, 1979), che hanno contribuito a sottolineare l’importanza
del contesto nel quale l’adolescente vive ai fini del suo sviluppo.
Youniss e Smollar (1985), definendo l’adolescenza come un’impresa evolutiva congiunta, evidenzia alcuni aspetti caratteristici di questo periodo: da un lato, la sua
natura evolutiva ovvero apportatrice di cambiamenti, dall’altro, l’impegno e l’investimento necessari non solo da parte dell’adolescente, ma di tutto il suo contesto familiare, al fine di far fronte a queste trasformazioni. Anche altri autori, in
vari modi, sottolineano la stretta interdipendenza tra sviluppo dell’adolescente e
sviluppo familiare, identificando l’adolescenza come un evento critico (Scabini,
1995) e come sfida e risorsa per tutto il sistema familiare (Carrà e Marta, 1995).
I cambiamenti che vive l’adolescente non lasciano immutato il contesto familiare, la conflittualità interna che egli sperimenta tra i bisogni di autonomia e di
protezione si esprime all’interno della famiglia attraverso varie forme di comunicazione verbale (silenzi, aumento dei conflitti, provocazioni e aggressività verbale) e
non verbale (modo di vestire, di atteggiarsi, rapporto con il cibo, modalità di gestiPaolo Moderato, Francesco Rovetto, Psicologo: verso la professione 4/e
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re gli spazi personali). Tale conflittualità spinge il sistema a riorganizzarsi, a ridefinire i legami di ciascun membro con gli altri e con l’esterno. Più specificatamente, nel periodo adolescenziale, il sistema familiare è smosso da due forze antagoniste: una forza spinge verso l’esterno, promuovendo l’autonomia, l’indipendenza e la
differenziazione dei singoli membri, un’altra forza invece muove verso l’interno, in
direzione dell’appartenenza e del rafforzamento dei legami di dipendenza (Cicognani e Zani, 2003; Minuchin, 1974; Scabini, 1995).
A livello di rapporti interpersonali, all’interno della famiglia si assiste a un processo definito in ambito psicologico come separazione reciproca, individuazione correlata (Stierlin, 1974) o co-individuazione (Malagoli Togliatti e Ardone, 1993). Tutte
queste definizioni indicano l’esigenza, più o meno accolta da parte dei singoli membri della famiglia, di una rinegoziazione reciproca delle distanze interpersonali. Tale
rinegoziazione presuppone un ruolo attivo non solo dell’adolescente ma di tutti i
componenti del sistema; non si tratta di una rottura di legami ma di una sorta di
adattamento in seguito all’elemento di novità portato dall’adolescente all’interno
del sistema, adattamento che si traduce in genere in relazioni più simmetriche e
reciproche (Noller e Bagi, 1991).
Tra i diversi modelli di lettura di questo processo di individuazione, particolarmente interessante è quello di Cooper, Grotevant e Condon (1983), nel quale si
fa riferimento a due costrutti: l’individualità e la coesione delle relazioni familiari.
Con “individualità” gli autori intendono l’affermazione di sé, in quanto capacità del
singolo di avere un proprio punto di vista e di esplicitarlo, e la separatezza, cioè la
capacità di accettare ed esprimere la propria diversità dagli altri. La “coesione” invece si esprime in altri due fattori: la permeabilità, intesa come la rispondenza e l’apertura verso i punti di vista degli altri, e la reciprocità, intesa come sensibilità e
rispetto nelle relazioni con gli altri. Come mostrano le ricerche degli autori citati
(Cooper e coll., 1983) e di altri a orientamento sistemico (Minuchin, 1974; Olson,
Sprenkle e Russel, 1979), la posizione della famiglia lungo questi quattro fattori
definisce il tipo di contesto di sviluppo nel quale l’adolescente vive. Un equilibrio
tra livelli moderati di coesione e livelli moderati di individualità consente alle relazioni familiari di trasformarsi e di conseguenza ai soggetti adolescenti di rendersi
autonomi pur mantenendo un senso di appartenenza. Le condizioni di rischio adolescenziale sono connesse invece a contesti familiari che si situano in posizioni
estreme, vale a dire le famiglie definite invischianti (nelle quali sono fortissimi i
legami di dipendenza, tutti la pensano allo stesso modo e non viene accettata la
differenza), e le famiglie disimpegnate (nelle quali non c’è senso di appartenenza, i
membri sono completamente indipendenti e hanno poca possibilità di influenza
l’uno sull’altro).
Secondo Scabini (1995) l’atteggiamento più adeguato dei genitori per far fronte all’adolescenza dei figli è quello di protezione flessibile, vale a dire un atteggiamento che consenta l’emergere dei bisogni di autonomia e di differenziazione e nel
contempo sia sensibile ai bisogni di dipendenza, protezione e appartenenza, che,
sebbene non sempre dichiarati in modo esplicito, ancora esistono nell’adolescente. Questa flessibilità permette all’adolescente, che si sta sperimentando in diversi ruoli e vive il quotidiano confronto con altri, di “fare ritorno” nel nucleo familiare per confrontarsi, per elaborare le sue esperienze e per ricevere dai genitori dei
criteri guida che gli serviranno nell’orientare le sue scelte future. Come l’esperienza
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Ciclo di vita
di tanti genitori ci può testimoniare, l’adolescente non sembra accettare pacificamente i criteri guida e i valori proposti dalla famiglia, ma non per questo si deve
correre il rischio di ritenere il ruolo genitoriale inutile: anzi, è proprio confrontandosi con le idee dei genitori che l’adolescente capisce chi è, e che cosa è importante per lui, arrivando a costruire pensieri, regole e valori autonomi.
In questa ottica il conflitto in adolescenza può avere un significato altamente
positivo, sia rispetto a una dimensione di sviluppo individuale sia rispetto a una
dimensione relazionale (Cooper, 1988). Le esperienze di conflitto diventano per
l’adolescente un’occasione per conoscere meglio se stesso, per confrontarsi con le
idee dei genitori e per definirsi ai loro occhi. Attraverso il conflitto, inoltre, l’adolescente ha la possibilità di apprendere alcune fondamentali abilità sociali, quali
la capacità di comunicazione, l’ascolto, la negoziazione di punti di vista differenti,
e le diverse strategie di risoluzione. Da alcune ricerche (Cooper, 1988) emerge che
il conflitto svolge un ruolo altamente positivo nell’evoluzione dell’adolescente, là
dove egli possa sperimentare una co-occorrenza tra il conflitto stesso e una coesione relazionale, definita in termini di confidenza e intimità tra i membri della
famiglia. Dall’altra parte, come è reso evidente dalle ricerche condotte in ambito
clinico, le relazioni familiari prive di conflitto apparente possono essere indice di
una conflittualità molto forte che rimane inespressa perché il contesto non consente l’emergere di posizioni differenti, e quindi a lungo andare questo tipo di evitamento del conflitto finisce per ostacolare il processo di individuazione dell’adolescente (Honess e Lintern, 1990; Pietropolli Charmet, 2000).
Dal contributo più recente di diversi autori appartenenti ad approcci teorici differenti si evince che il tema del ruolo genitoriale in adolescenza, così come quello del conflitto, sono estremamente complessi e poliedrici.
È vero infatti che, a fronte del ruolo positivo della conflittualità intergenerazionale ai fini del processo di separazione e individuazione, la ricerca recente in campo
psicosociale evidenzia una netta diminuzione della conflittualità tra genitori e figli
nel periodo adolescenziale (Cicognani e Zani, 2003).
Pietropolli Charmet (2000) a questo proposito propone un’analisi dei “nuovi adolescenti” e quindi dei “nuovi genitori” fondata sul passaggio, dovuto a cambiamenti
sociali e culturali di ampia portata, dalla famiglia etica o normativa alla famiglia degli
affetti. La prima si presenta come la famiglia del passato, fondata sulle regole e sui
valori, sull’autoritarismo, nella quale il padre era vissuto, dai padri stessi e dalla
società, prevalentemente come il detentore delle regole e come il mediatore sociale, mentre al ruolo materno spettava la dimensione del prendersi cura e degli affetti. La famiglia degli affetti appare invece caratterizzata da una centratura sul mondo
interno, sulla comprensione dei figli, dei loro disagi.
“I nuovi padri sono stati addestrati all’esercizio della loro funzione dalle compagne e
mogli e soprattutto dai loro figli. Questa è stata la nota sovversiva: si sono messi ad
imparare il mestiere di genitore, non imitando il padre, ma cercando di capire cosa
voleva il figlio” (Pietropolli Charmet, 2000, p. 19).
I genitori non si percepiscono più come modelli da imitare, o come i detentori
di alcuni valori e norme sociali, quanto piuttosto come talent scout, vale a dire come
attenti all’indole del figlio e alle sue caratteristiche (Pietropolli Charmet, 2000).
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Cambiamenti evolutivi in adolescenza
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Questa trasformazione della famiglia agisce profondamente sulle modalità di
gestione della separazione nel periodo adolescenziale, sia da parte dei genitori sia
degli adolescenti stessi: il conflitto si attenua enormemente e le figure genitoriali
tendono a proteggere sempre più il figlio dal dolore mentale e dalle ferite narcisistiche (sconfitte, delusioni, frustrazioni, rabbie, perdite), noia e tristezza hanno sostituito rabbia e senso di colpa, il ragazzo non sente apparentemente il bisogno di
separarsi dai genitori e di ridefinirsi rispetto a essi.
Rosci (2004) sottolinea come senza correre il rischio di ripristinare il “padrepadrone”, sia urgente ripensare in modo creativo la funzione paterna, evitando di
ridurla semplicisticamente a una fotocopia della funzione materna, declinandola,
piuttosto, nella responsabilizzazione e quindi nella valorizzazione del merito, dell’apprendimento, dell’autonomia e della separazione.
In questi complessi processi di tipo relazionale che avvengono nella famiglia si
agitano non solo le aspettative, le paure e i bisogni dell’adolescente, ma, sotto varie
forme, anche quelli dei genitori. L’adolescenza dei figli, infatti, rimanda al genitore l’idea del tempo che passa: avviene che, proprio mentre i figli si affacciano alla
progettualità autonoma, i genitori attraversino una fase di verifica e bilancio di se
stessi come genitori, come coniugi, e come professionisti. Nei genitori, inoltre, i
cambiamenti dei figli fanno riaffiorare alcuni ricordi della propria adolescenza che
sembravano dimenticati (Nicolò Corigliano e Naccari Carlizzi, 1993): è il periodo,
quindi, di una rivisitazione dei rapporti con i propri genitori, la cui valenza emotiva emerge talvolta con molta intensità. Infine, l’adolescenza dei figli è un’occasione per entrambi i coniugi per ridefinirsi in quanto coppia sessuata e non solo
come coppia genitoriale; marito e moglie si rendono conto che in futuro dovranno investire sempre più in termini di sostegno reciproco, e questo passaggio è difficoltoso soprattutto per quegli adulti che si sono identificati in modo quasi esclusivo con il ruolo genitoriale, svuotando la coppia di significati condivisi. Appare
quindi evidente che, come il figlio adolescente, anche i genitori hanno di fronte
a sé dei compiti di sviluppo da affrontare. Con l’adolescenza dei figli anche ai genitori viene data una possibilità evolutiva, paradossalmente proprio in una fase nella
quale spesso essi rischiano di sentirsi inutili, inadeguati e in una posizione di passività rispetto allo sviluppo dei figli. Rosci (2004) parla a questo proposito di un
processo di ri-individuazione genitoriale.
A conclusione ci piace riprendere il titolo del paragrafo, “La famiglia adolescente”, proprio a indicare la caratteristica che a nostro avviso risulta emergente
dell’adolescenza, vale a dire la sua natura diffusiva, in quanto evento che permea
tutti i tessuti familiari e li trasforma.
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