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A pieni polmoni
Si chiama Bpco ed è poco meno
frequente del diabete, soprattutto fra
le persone con oltre 60 anni.
Ha una causa precisa e rimovibile:
il fumo, e una terapia che si sta
arricchendo di farmaci e presidi.
ome il diabete, è estremamente diffusa (3,5 milioni di persone in Italia) è diagnosticata
in ritardo e interessa soprattutto le persone sopra i 60 anni.
«È una malattia cronica, che possiamo
cercare di controllare e rallentare ma
non di guarire, ed è la possibile evoluzione di tre tipi di malattie: l’enfisema,
la bronchite cronica, e meno spesso,
dell’asma», spiega Sergio Harari, diret-
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tore dell’Unità Operativa di Pneumologia e Terapia semi-intensiva dell’Ospedale San Giuseppe di Milano.
Le somiglianze però finiscono qui,
perché la Bronco-pneumopatia cronica ostruttiva o Bpco (Copd in sigla inglese) non è una malattia metabolica
e, a differenza del diabete, ha una causa ben conosciuta: il fumo.
«Più del 70% delle persone in cura per
Bronco-pneumopatia cronica ostrut-
tiva (Bpco) è rappresentato da fumatori o ex fumatori alla diagnosi. Soprattutto nei Paesi più avanzati, dove
l’inquinamento domestico o ambientale è ormai ridotto», afferma Vincenzo Bocchino, responsabile della Unità
di Terapia sub-intensiva respiratoria
nella U.O.C. di Pneumologia dell’Ospedale Monaldi di Napoli. «Il restante 30% circa dei casi è dovuto a
una particolare sensibilità ad agenti
inquinanti o al fumo passivo. Ma il dato da tenere bene a mente è che la
Bpco è l’esito più probabile, più del tumore al polmone, per chi fuma».
Una diagnosi precoce è importantissima. «Eppure i primi stadi della Bpco
sono spesso sottovalutati», spiega Vincenzo Bocchino, «i sintomi sono due:
la dispnea, un ‘fiatone’ insomma, che
interviene ogni volta che si fa uno
sforzo; ancora più specifico un attacco
di tosse, soprattutto al mattino, con o
senza catarro. Un fumatore o ex fumatore che rilevi anche solo uno di questi due sintomi in modo non episodico farà bene a parlarne subito con il
suo medico, senza pensare che si tratti
di una normale ‘tosse del fumatore’ o
di una ‘bronchitina’ o di ‘un poco di
asma’». In alcuni pazienti si nota un
respiro sibilante, erroneamente interpretato come asma, o un’espirazione a
labbra socchiuse a ‘soffio’. Intervenire
per tempo può evitare che l’infiammazione si cronicizzi e diventi ostruttiva
con un’ipersecrezione di catarro. Se
non si interviene la dispnea si manifesta davanti a sforzi via via minori.
Al pari del diabete anche la Bpco ha un
test ‘principe’: si effettua con un apparecchio chiamato spirometro riempiendo al massimo i polmoni e soffiando con forza l’aria inspirata in un tubo.
La spirometria viene eseguita presso
reparti specializzati e permette di misurare, principalmente, la Capacità Vi-
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tale Forzata (FVC) e il Volume Espiratorio Forzato nel primo secondo
(VEMS) e, su questa base, stadiare la
gravità della Bpco (lieve, moderata,
grave, molto grave). Altri esami come
la radiografia e/o la TC toracica, il test
del transfer del CO (TCO), l’emogasanalisi arteriosa per valutare la quota
di ossigeno e di anidride carbonica
nel sangue, permettono di perfezionare la diagnosi e impostare la terapia. La terapia parte da un elemento
fondamentale: smettere immediatamente di fumare. «Altrimenti è davvero inutile andare avanti», commenta
Vincenzo Bocchino.
In secondo luogo si tratta di «insegnare al paziente a respirare». Tutti respiriamo male e aiutando le persone a
utilizzare i polmoni nel modo più corretto «si ottengono risultati molto importanti», commenta Harari. Il secondo caposaldo è l’esercizio fisico «che
va prescritto adattandolo alle condizioni della persona», ricorda. È interessante notare come si stia diffondendo presso le persone con Bpco una
sorta di ‘autocontrollo’. «Con un saturimetro portatile, un apparecchio ormai molto diffuso di dimensioni e costi molto limitati, la persona può valutare la concentrazione di ossigeno nel
sangue e valutare se lo sforzo che sta
facendo è adeguato o rischia di essere
eccessivo per le sue capacità polmonari», nota Harari.
Anche perdere peso è utile, non da ultimo perché la ‘pancia’, tenendo alto il
diaframma, impedisce di utilizzare da
seduti l’intera capacità polmonare.
La parte farmacologica della terapia ha
previsto fino ad ora due tipi di farmaci: i beta agonisti come broncodilatatori (da poco sono sul mercato farmaci che hanno una durata di 24 ore) e i
corticosteroidi locali (inalati con i cosiddetti ‘spruzzini’) per ridurre l’in-
Con un saturimetro
portatile, la persona
può valutare
la concentrazione
di ossigeno nel sangue
e valutare se lo sforzo
che sta facendo è
adeguato.
fiammazione. «A questi capisaldi della
terapia si sono aggiunti gli alfalitici,
per le fasi più severe di malattia e, recentemente, gli inibitori delle fosfodiesterasi IV, utili nelle fasi medio-severe della malattia, soprattutto per ridurre il numero delle riacutizzazioni»,
nota Sergio Harari.
Gli obiettivi principali della terapia
della Bpco, infatti, sono quelli di migliorare la sintomatologia, la tolleranza allo sforzo, lo stato di salute e, importante, ridurre il numero degli episodi acuti, le riacutizzazioni, indotti da
malattie concomitanti, da sforzi o dall’incontro con sostanze irritanti per i
polmoni. «Le riacutizzazioni, che spes-
Sergio Harari, direttore
dell’Unità Operativa di
Pneumologia e Terapia
semi-intensiva
dell’Ospedale
San Giuseppe di Milano.
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so richiedono una breve ospedalizzazione in unità sub-intensive come
quella che dirigo, non solo comportano un rischio in sé, ma coincidono
con una perdita di funzionalità definitiva. Insomma sono uno ‘scalino’ che,
una volta sceso, non si recupera più»,
commenta Vincenzo Bocchino.
Nelle fasi avanzate la Bpco può divenire molto seria. La persona va in affan-
Vincenzo Bocchino,
responsabile dell’Unità
di Terapia sub-intensiva
respiratoria nella U.O.C.
di Pneumologia
dell’Ospedale Monaldi
di Napoli.
I primi stadi
della Bpco
sono spesso sottovalutati,
i sintomi sono due:
la dispnea, un ‘fiatone’
insomma, che interviene
ogni volta che si fa
uno sforzo;
ancora più specifico
un attacco
di tosse, soprattutto
al mattino.
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no davanti a qualunque sforzo: alzarsi
dalla sedia o fare qualche passo a piedi. Nel suo sangue circola poco ossigeno e troppa anidride carbonica e il
ventricolo destro del cuore, a seguito
del maggiore sforzo richiesto, si ingrossa portando a un possibile scompenso della sua funzionalità.
In questa fase è importantissimo ricorrere all’ossigenoterapia e, nei casi
più gravi, alla ventilazione non invasiva. Ieri parlare di ‘bombola di ossigeno’ era sinonimo di morte imminente,
oggi con la ‘bombola’ si vive molto a
lungo. «Da tempo la tecnologia ha fatto grandi passi avanti ed è normale che
una persona con Bpco in fase avanzata ma controllata conviva per anni con
il suo ossigeno a casa, dapprima utilizzandolo per alcune ore, poi anche per
18 ore al giorno, svolgendo una vita
relativamente sedentaria ma accettabile e potendo perfino fare passeggiate
fuori casa. È da tempo provato che
l’ossigenoterapia ha una funzione decisiva nella durata – e non solo nella
qualità – della vita nella persona con
Bpco», sottolinea Harari.
«Visto che il decorso della Bpco è graduale, il nostro obiettivo è fare in modo che la perdita di capacità polmonare accompagni il normale processo
di riduzione delle esigenze, tipico della terza età. Diventando anziani ci si
muove di meno e in modo più cauto,
si rifuggono volentieri gli sforzi»,
commenta lo pneumologo dell’Ospedale Monaldi.
Molte persone con Bpco hanno il diabete e molte persone con diabete hanno anche la Bpco, più per una questione statistica che fisiologica.
La persona con diabete corre un rischio cardiovascolare per l’occlusione
delle arterie. Questo si può sovrapporre alle difficoltà respiratorie causate dalla Bpco. Esiste anche una sovrapposizione negativa: i farmaci corticosteroidi utilizzati nella terapia della Bpco possono innalzare la glicemia,
«anche se nell’utilizzo per inalazione
questo effetto è molto ridotto», conclude Bocchino, che ha un Dottorato
di ricerca in Fisiopatologia Respiratoria Sperimentale conseguito presso
l’Università di Parma, «lo pneumologo può cercare, quando possibile, di
ridurre il ricorso ai corticosteroidi che
rimangono però un farmaco irrinunciabile, soprattutto in certe fasi della
malattia». d