INDICE
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Premessa
Dal patto a quattro all’Asse
2.1 Il patto a quattro
2.2 1934: prima la Germania poi l’Impero
2.3 Verso l’Impero
2.4 Cambio della guardia e conseguenze
3 Dall’Asse al “patto d’acciaio”
3.2Camerati Arbeiter
3.3 Da Monaco al “patto d’acciaio”
4 Idealismo dell’Asse
4.1 Nuovo ordine europeo
4.2 Antisemitismo e razzismo di Mussolini
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Conclusione
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PREMESSA
I fatti e le motivazioni che portarono alla stesura del patto tra Roma e Berlino non possono essere
semplicemente ricondotti ad un’inevitabile compiersi dettato dalla comunanza ideologica dei due regimi,
seppure la successiva conferma della storia potrebbe spingere verso quest’ultima visione.
Una premessa è necessaria per comprendere la politica estera attuata dal regime fascista fin dai prodromi del
suo governo, anche, e soprattutto, a fronte dei continui cambi di bandiera e voltafaccia che ne
caratterizzarono l’opera. Per quanto irregolare e discontinua essa fosse, un nucleo immutabile di fondo era
presente: la costante ricerca del riscatto rispetto alla “vittoria mutilata”. Non importava con chi e come si
sarebbe potuta raggiungere, importava solo non deludere la <<colossale pressione di aspettative>>1 che la
venuta del fascismo aveva portato con sé. Questo è il motivo per cui si pone la necessità della ricerca di un
termine ante quem in cui Mussolini capì che attraverso i canali anglo-francesi sarebbe stata impossibile una
rivisitazione di Versailles, spostando così il baricentro della politica estera italiana in direzione del Brennero.
Una data fondamentale in questo senso sembra essere il 1935-36 o più specificamente dal 2 ottobre 1935 al
maggio 1936, periodo in cui l’Italia fu impegnata nel conflitto etiope. Per tutta una serie di motivi, che poi
analizzeremo, la campagna d’Etiopia riavvicinò Mussolini a Hitler, dopo che nel luglio 1934 vi era stato un
netto discostamento, mentre allontanò l’Italia dalla Gran Bretagna e dalla Francia. Tuttavia nemmeno con la
stipula dell’Asse, il primo novembre 1936, la distanza tra Mussolini e gli anglo-francesi diventerà
incolmabile e, anzi, la Gran Bretagna <<alla speranza di intendersi con Mussolini non rinunciò se non il 10
giugno 1940>>2.
Ora, per non appesantire troppo la questione, approfondiremo l’avvicinamento fascista alla Germania a
partire proprio dalla presa del potere da parte del partito nazionalsocialista.
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Jens Petersen, Hitler e Mussolini, la difficile alleanza, p. 5, Bari, Laterza, 1975.
Renzo De Felice, Mussolini il Duce, lo Stato totalitario 1936-1940, p. 330, Torino, Einaudi, 1981.
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DAL PATTO A QUATTRO ALL’ASSE
IL PATTO A QUATTRO
L’ascesa al potere di Hitler, nel gennaio 1933, diede a Mussolini la possibilità di dare via a tutta una serie di
nuove machiavelliche imprese in politica estera. Queste nuove velleità erano dettate dalla convinzione che il
timore degli anglo-francesi, per il rischio di una rinascita tedesca, potesse giustificare ogni sua mossa in
nome di una sua presunta capacità di tenere a bada “l’allievo tedesco”. Tuttavia l’enorme problema
dell’Anchluss poneva Mussolini di fronte allo stesso pericolo che correvano i francesi, e cioè il rischio che di
fronte ad una rinascita tedesca il confine del Reno, per i francesi, e quello del Brennero, per gli italiani,
diventassero terribilmente traballanti. D’altro canto la volontà italiana di revisionare Versailles poteva ora
trovare un preziosissimo alleato sia in modo diretto, attraverso un’alleanza italo-tedesca, sia in modo
indiretto, attraverso la richiesta di concessioni territoriali in cambio di uno schieramento italiano nell’orbita
anti-tedesca.
Questo era, secondo Mussolini, il terreno fertile su cui doveva lavorare la diplomazia italiana, tuttavia una
simile strategia non teneva conto di un punto fondamentale: pensare che Francia e Gran Bretagna si
sarebbero affidate all’altra potenza dittatoriale, l’Italia, per mediare con la Germania, senza provare prima a
trovare un accordo direttamente con Hitler. Quest’ultima ipotesi, se è vero che era meno plausibile per
quanto riguarda la Francia, le questioni in ballo erano troppe per un amicizia franco-tedesca, è altrettanto
vero che era più che possibile per quanto riguarda il governo di sua Maestà.
Per cui, nel momento in cui Hitler prese il potere in Germania, Mussolini iniziò a sperare con sempre
maggior forza di vedere avvicinarsi la tanto agognata revisione di Versailles. Tuttavia, per quanto l’Italia si
sentisse “mutilata” a causa della pochezza nelle acquisizioni territoriali, dopo l’enorme sforzo bellico della
prima guerra mondiale, non bisogna dimenticare che con il conseguimento del Trentino, dell’Alto Adige e di
Trieste non si poteva negare che in confronto alla Germania si era comunque in posizione di favore. Certo,
l’Italia aveva vinto la guerra mentre la Germania no, ma nel momento in cui si chiedeva di revisionare
Versailles si offriva il destro a Berlino per porre il problema sia della forte influenza italiana in Austria, sia
della regione germanofona dell’Alto Adige. Ecco perché, almeno in questa prima fase degli anni trenta,
Mussolini preferì la parte del “domatore” tedesco anziché quella dell’alleato, appoggiandosi così agli anglofrancesi in cambio di vantaggi politici e di consenso interno – non dimentichiamo che storicamente l’alleata
degli italiani era la Gran Bretagna.
Quest’ultimo elemento richiede ora una precisazione: per quanto riguarda qualsiasi aspetto della politica
estera italiana non bisogna mai dimenticarsi che essa si muoveva, da una parte entro un normale conteso di
ricerca dei vantaggi connessi ad una certa alleanza o trattato che fosse, mentre dall’altra essa si muoveva per
cercare di aumentare il consenso generale all’interno del paese. Quindi, una politica estera come trampolino
fascista per rafforzare la politica interna.
In questo contesto si spiega la volontà di Mussolini di arrivare ad un “patto a quattro” già nel marzo 1933,
nel quale, all’interno dell’articolo II, troviamo <<per la prima volta dalla fine della guerra il termine infausto
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di ‹‹revisione››>>3. Un termine che, per quanto caro agli italiani non poteva che ricondurre ad una formula
citata da Petersen: <<Un revisionismo senza revisione non è praticabile>>4, nello specifico: un revisionismo
affianco della Germania senza un concreto rischio di vedere modificata il confine del Brennero non è
praticabile. Certamente, questi non potevano essere considerati i migliori presupposti per un accordo tra le
quattro potenze, oltretutto con l’avvio delle politiche antisemite in Germania vi fu il concreto rischio
dell’abbandono delle trattativa da parte di Francia e Gran Bretagna. Tuttavia al duce serviva il lustro di una
“vittoria” diplomatica continentale, per cui prima cercò di convincere Hitler ad abbandonare la politica
razziale, fallendo, mentre successivamente dovette accettare il capovolgimento della Gran Bretagna.
Quest’ultima, infatti, di fronte al palesarsi della ferocia del regime nazista decise di accettare l’accordo solo
se revisionato in termini decisamente più favorevoli per gli anglo-francesi i quali, infine, modificavano il
piano previsto da Mussolini per accontentare Hitler sulla questione degli armamenti. Di fronte a queste
modifiche Hitler, il quale comunque avrebbe dovuto accettare per una legittimazione continentale, sperò in
un rifiuto di Mussolini ma il duce era più interessato al suo ruolo nel patto che non all’accordo stesso, per cui
il 7 giugno 1933 il “patto a quattro” fu firmato.
Tuttavia ben presto l’inconsistenza dell’accordo venne a galla attraverso l’enorme problema della volontà di
riarmo tedesco a fronte dell’idea di disarmo generale voluta dalle potenze occidentali, Stati Uniti e Gran
Bretagna in testa. Ad ottobre infatti si costituì un’assemblea sul disarmo a Ginevra all’interno della quale si
concretizzò l’incubo di Mussolini: la costituzione di un blocco unito delle potenze occidentali contro la
Germania, costringendo così l’Italia a dover scegliere uno schieramento dovendo così porre fine alle sue
speranze di “politica di vertice”.
Il 14 ottobre sancì il fallimento della politica a quattro voluta dal Duce con l’uscita della Germania dalla
Società delle Nazioni ed, a sua volta, deteriorando di gran lunga i rapporti tra le due nazioni dittatoriali ora
che, con la decisione di Hitler, tutti gli sforzi di mediazione del Duce, e quindi di prestigio per quest’ultimo,
erano stati spazzati via.
1934: PRIMA LA GERMANIA POI L’IMPERO
L’idea che verso la fine del 1933 l’Italia fosse alleata con Francia e Gran Bretagna è completamente errata.
L’allontanamento italiano dalla Germania non comportò un altrettanto avvicinamento alle potenze
occidentali, se non altro con la Francia, in quanto la politica italiana nell’area danubiana era in completo
antagonismo con quella parigina. Quest’ultima infatti attraverso l’alleanza con la ‹‹Piccola Intesa›› Romania, Cecoslovacchia e Jugoslavia – sperava di poter contenere le mire ad est dei tedeschi, ma nel
contempo si scontrava con le mire di espansione, economica e non, italiane nei Balcani. Attraverso queste
premesse è quindi facile comprendere come la situazione nel 1934 fosse tutt’altro che stabile considerando
inoltre che, per quanto Mussolini si fosse adirato con i tedeschi, ora più che mai necessitava di una
collaborazione tra Roma e Berlino, sia per la questione orientale sia perché il duce stava già da tempo
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J. Petersen, Hitler e Mussolini., op. cit. p. 141
Ivi, p. 136
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pensando all’impero, consapevole che gli anglo-francesi non sarebbero mai stati d’accordo. Questo fu il
clima in cui, per la prima volta, il füher arrivò a Venezia in visita ufficiale a Mussolini in data 14 giugno
1934 per un soggiorno di tre giorni durante i quali il principale argomento di discussione fu la questione
dell’Anschluss. Hitler assicurò più volte il Duce sulla questione austriaca ribadendo che essa non sarebbe
stata in alcun modo da ostacolo per l’amicizia italo-tedesca. Tuttavia ben presto il nodo Anschluss venne al
pettine. Il 25 luglio 1934 i nazionalsocialisti austriaci assassinarono il premier Dolfus, tra l’altro in procinto
di essere ricevuto da Mussolini, e compirono il loro colpo di stato. Il putsch austriaco fece crollare al minimo
i rapporti tra Germania ed Italia anche perché all’occhio dell’opinione pubblica mondiale dietro ai
nazionalsocialisti austriaci c’era stata sicuramente la mano di Hitler. Oltretutto, ai primi di agosto morì
Hindenbrug unificando così, nelle mani del füher, la carica di Cancelliere e Presidente del Reich,
aumentando a sua volta i timori internazionali per una guerra europea. A questo punto ci si sarebbe aspettati
un accordo tra Italia, Francia e Gran Bretagna per arginare le ambizioni tedesche, ma l’inconciliabilità delle
tre nazioni unita alla nuova tattica legalitaria voluta da Hitler in Austria, tra cui un riconoscimento formale
dell’indipendenza di quest’ultima, portò ad una stasi dalla quali Mussolini non poté far altro che uscirne
ricucendo i rapporti con Berlino. Se dagli ultimi giorni di luglio i rapporti italo-tedeschi si erano raffreddati
al punto che ai primi di settembre del 1934 Mussolini arrivo a proclamare il famoso discorso di Bari in cui
egli affermava che:
Trenta secoli di storia ci permettono con sovrana pietà talune
Dottrine di oltr’Alpe, sostenute dalla progenie di gente che ignorava
La scrittura, con la quale tramandare i documenti della propria vita,
nel tempo in cui Roma aveva Cesare, Virgilio e Augusto.
Arrivati ai primi di ottobre, vista la situazione, Mussolini non poté far altro che “marcia indietro” riaprendo
ad una politica con lo sguardo a nord. Una simile strategia tuttavia non poteva che essere subordinata alla
questione austriaca, ma da Berlino in questo senso non si voleva assolutamente fare una passo indietro, anzi
piuttosto si preferiva rischiare “l’attraversata in solitaria” tra l’oceano di pericoli che correva tra la questione
del riarmo e il problema della Saar. Oltretutto, in Francia era da poco stato nominato un nuovo ministro degli
esteri, Pierre Laval, un uomo simpatizzante per Mussolini e per il fascismo – verrà condannato a morte nel
dopo guerra per il suo ruolo a Vichy. Tutto questo coadiuvò il processo di allontanamento di Roma da
Berlino per avvicinarsi a Parigi, anche perché la stessa Francia era interessata a mantenere indipendente il
“corridoio” austriaco per le regioni danubiane. Ma, come già detto precedentemente, l’idea del duce che egli
potesse essere il direttore d’orchestra con cui tutti i musicanti europei avrebbero dovuto confrontarsi, era,
appunto, un’idea solo italiana e ciò fu dimostrato dagli accordi Parigi-Berlino del 3 dicembre 1934 a
proposito della Saar. Il paventarsi di un tale accordo, il quale avrebbe escluso l’Italia, e l’intensificarsi dei
preparativi a Roma per la campagna d’Etiopia portarono, come spesso accadde, Mussolini ad amplificare
enormemente la situazione non comprendendo che la politica estera non era un “tutto e subito” ma doveva
essere una lenta e macchinosa partita a scacchi. Ciò nondimeno, il terrore del duce di trovarsi isolato fu più
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forte di qualunque altra cosa per cui, il 2 gennaio 1935, in fretta e furia decise di firmare l’accordo con il
ministro Laval portando, così parve, l’Italia tra le potenze anti-revisionistiche.
A proposito della questione austriaca, che Mussolini voleva assolutamente risolta prima di partire per
l’avventura africana, l’Italia aderì alla proposta francese di un patto di non-intervento firmato da tutti i paesi
confinanti con lo stato alpino al quale si sarebbero associati anche Francia, Romania e Polonia per assicurarsi
che l’indipendenza austriaca non sarebbe mai stata violata. Questo, certamente, era un totale capovolgimento
di alleanze anche nello scacchiere danubiano. Tuttavia, per quanto questo “cambio di casacca” a Roma
potesse mettere a rischio tutto il lavoro diplomatico fatto precedentemente, soprattutto nei riguardi
dell’Ungheria e della Jugoslavia, il vero perno della questione era un altro: l’Etiopia. Mussolini era
fermamente convinto della necessità politica dell’impero così da poter legittimare la propria opera agli occhi
degli italiani ed, in tal modo, assicurarsi la stabilità interna per essere più “coperto” in politica estera rispetto
agli stati democratici. In tal senso quindi devono essere visti gli accordi Mussolini-Laval, soprattutto se in
tali accordi si guardano le clausole concernenti il continente africano. Infatti, come ci mostra il Petersen:
<<la Francia [avrebbe ceduto] all’Italia una stretta fascia costiera della Somalia francese e un’isola di
importanza strategica nel golfo di Aden e, con la vendita di 2500 azioni della ferrovia Gibuti-Adis Abeba,
assicurava all’Italia un’influenza sull’unica via di comunicazione dell’Etiopia con il mondo esterno>> 5.
Tutto questo in cambio della rinuncia alle pretese di Roma sulle minoranze italiane in Tunisia.
Ora, sarebbe fondamentale capire il motivo per cui la Francia decise di privarsi così facilmente dell’Africa
orientale, ricordiamo che nel 1932 il negus Hailé Selassié aveva proposto a Parigi un accordo per il
protettorato francese in Etiopia, il quale fu rifiutato lasciando così all’Italia il territorio abissino.
Probabilmente Laval applicò del semplice pragmatismo, unito alla sua stima politica per Mussolini,
rendendosi conto che l’intera area est dell’Africa, dall’Egitto al Sud Africa, era ormai in mano inglese e di
certo il solo territorio della Somalia francese non poteva giustificare mire espansionistiche in quella zona.
Che poi, al contrario, Mussolini si sentisse legittimato in ciò e per esso fosse disposto a rinunciare al ben più
strategico obbiettivo tunisino questo andava tutto a vantaggio di Parigi. Fatto sta che con l’accordo
Mussolini-Laval, a Roma si era convinti di avere l’avvallo delle potenze occidentali per la spedizione
abissina. Tuttavia, se in un certo qual modo per la Francia questo pensiero poteva essere valido, d’altronde
come detto l’Africa orientale non era una zona di diretto interesse francese, per l’Inghilterra tutto ciò non
poteva assolutamente essere legittimato. Inoltre dal gennaio del 1935 accorsero tutta una serie di eventi che
ribaltarono completamente i piani di Roma. Nel gennaio del 1935 la Saar, attraverso un referendum popolare
vinto con il 90% dei voti, ritornò all’interno del territorio tedesco, mentre il primo marzo dello stesso anno
Berlino annunciava la ricostituzione dell’aeronautica militare. Ciò a Roma fu inizialmente preso con gioia, in
quanto ora l’attenzione continentale era interamente spostata a nord delle Alpi, lasciando così a Mussolini
l’idea di poter intervenire in Etiopia senza particolari echi in politica estera. Ben presto però si mostrò il
rovescio della medaglia, nel momento in cui Mussolini venne a conoscenza di un precedente accordo anglotedesco sulla marina militare, datato autunno 1934. Con questo accordo le carte in tavola erano
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J. Petersen, Hitler e Mussolini., op. cit. p. 338.
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completamente cambiate ed ora la pressione dei nazionalsocialisti austriaci per un annessione tedesca,
soprattutto dopo il referendum della Saar, spaventavano decisamente Roma. Il timore principale era, a questo
punto, che nel caso di un avvio del conflitto africano la Germania avrebbe approfittato della carenza di
sostegno continentale dell’Italia per completare l’Anschluss. Ciò nonostante, e questa sarà una delle
principale peculiarità della politica estera italiana, come sempre Mussolini aveva interpretato un normale
accordo tra due nazioni come un trattato di importanza fondamentale a fronte della prossima, e sicura, guerra
mondiale. Al contrario, il trattato anglo-tedesco attestava sì, da una parte, un accordo tra le due nazioni ma se
si fosse voluto cercare un sintomo di un’alleanza militare, cosa che fece Mussolini, si era ben lontani dal
vero. Infatti dopo gli avvenimenti del gennaio-marzo 1935, non solo l’Italia, ma anche Francia e Gran
Bretagna, si spaventarono di fronte a questa nuova ventata di potenza tedesca, decidendo così di incontrarsi a
Stresa, in Piemonte, nella seconda metà di Aprile. L’incontro di Stresa, 11-14 Aprile 1935, rappresentò
probabilmente l’apice della legittimazione internazionale, vera o presunta che fosse, acquisita da Mussolini,
il quale, in quei giorni, <<assunse il ruolo di paladino della sicurezza internazionale>>6. Il duce fu il vero
perno della conferenza dalla quale uscì un quadro europeo piuttosto lugubre, così reso dall’aggressività di
Berlino e dalle minoranze tedesche in territorio straniero. L’importanza che venne data all’elemento antigermanico della conferenza fu accettato da tutte e tre le potenze e, per la prima volta, vi fu una compatta
unità di intenti contro l’espansionismo di Berlino. Compattezza che Mussolini interpretò come il via libera
per la campagna africana, d’altronde nessuno aveva fatto parola di ciò a Stresa, dando così l’idea al duce che
l’acconsentimento all’avventura africana sarebbe stata concessa all’Italia in nome della compattezza antitedesca. In ossequio alla sua più recente tradizione, la politica estera italiana si basò su qualcosa di non detto
piuttosto che su di un accordo e su un’interpretazione esagerata di un avvenimento, Stresa appunto, piuttosto
che su di una reale visione delle cose.
Con la chiusura della conferenza Mussolini si era convinto che, innanzitutto, gli anglo-francesi avrebbero
lasciato all’Italia campo libero in Africa orientale e che, in secondo luogo, l’Austria non era un problema di
confine italo-germanico ma era un problema europeo per il quale tutti avrebbero dovuto contribuire. A una
siffatta visione del momento contribuì il silenzio inglese, il cui governo si fece sentire solo verso la fine di
maggio chiedendo a Mussolini <<di non pregiudicare i principi della sicurezza collettiva europea>>7.
Tuttavia il duce, il quale ormai da mesi non pensava ad altro, rispose perentoriamente segnando la via per la
successiva campagna d’Etiopia. Il conseguente inasprimento dei rapporti tra Roma e Londra, unito al patto
franco-sovietico, non fecero altro spingere Roma oltre le Alpi alla ricerca di un alleato. Sintomatico di questo
nuovo cambio di rotta fu l’atteggiamento della stampa italiana, e quindi del regime che la dirigeva, più o
meno direttamente, nei confronti del viaggio di Göring in Bulgaria, Romania, Jugoslavia e Grecia, guarda
caso pochi giorni dopo l’incontro italo-inglese. Di fronte a questa missione diplomatica, che attestava
l’accresciuta importanza tedesca nei Balcani, la stampa italiana <<ebbe l’ordine di astenersi da ogni
commento>>8. Inoltre, quasi a sancire questo completo cambio di direzione, vi fu il caso Cerruti: verso la
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J. Petersen, Hitler e Mussolini., op. cit. p. 354.
Ivi, p. 360
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Ivi, p. 366
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fine di giugno Hitler chiese, attraverso canali non ufficiali della diplomazia italiana, che l’ambasciatore
italiano a Berlino, Cerruti, venisse destituito per tutta una serie di motivi più o meno verosimili elencati in
una lettera consegnata dal console Renzetti a Mussolini. Un fatto simile, come ricorda il Petersen: <<non
aveva forse paralleli nella storia diplomatica europea>>9, tuttavia il duce non aveva scelta date le crescenti
difficoltà entro cui si stava muovendo. Cerruti fu richiamato proprio qualche giorno dopo anche se, con
irritazione di Berlino, fu mandato come ambasciatore a Parigi dove egli verrà stimato come deciso antinazista. Cerruti fu sostituito da Bernardo Attolico, ex ambasciatore a Mosca, il quale su richiesta di Mussolni
avrebbe dovuto riprendere e rinvigorire gli ormai deteriorati rapporti italo-tedeschi. Attolico fu insediato il
15 agosto e fu ricevuto da Hitler, che non sarebbe dovuto tornare a Berlino prima di ottobre, l’8 settembre,
dando un segno tangibile della conferma del nuovo cambio di rotta.
VERSO L’IMPERO
Di fronte alla sempre crescente aggressività italiana, Berlino rispose rimanendo passiva e attenta
osservatrice di come avrebbe risposto la Società delle Nazioni, mettendo quindi alla prova il sistema di
sicurezza continentale che, presto o tardi, anch’essa avrebbe forzato. Londra, consapevole di ciò, era decisa a
mostrare a Mussolini i denti così da indurre il primo ad indietreggiare e, nel frattempo, lanciare un segnale a
Hitler. Tuttavia Parigi, soprattutto con Laval, non voleva correre il rischio di perdere il trattato con Mussolini
a meno che la Gran Bretagna non si fosse impegnata nel colmare l’abbandono di un prezioso alleato sul
fronte anti-tedesco. Mussolini rispose a tutto questo con i soliti machiavellismi volti a nascondere la
disperata ricerca di un alleato, quindi si rivolse prima a Parigi salvo poi minacciare la stessa Francia assieme
alla Gran Bretagna con il pretesto di un’alleanza con Berlino. Fatto sta che il 2 ottobre 1935, da palazzo
Venezia, il Duce diede il segnale dell’avanzata per la conquista di Adis Abeba. Nelle settimane seguenti la
Società delle Nazioni deliberò tutta una serie di sanzioni che colpivano l’economia italiana, senza per altro
danneggiarla seriamente dato che nazioni come la Germania e gli Stati Uniti non facevano parte della
Società. Nel contempo con la VII internazionale comunista e con la propaganda del fronte popolare,
soprattutto in Francia e Spagna, prese corpo l’idea di un futuro molto vicino in cui la politica sarebbe stata
basata sul dualismo comunismo-fascismo. A conferma di ciò vi furono le elezioni comunali in Francia del
1935 nelle quali il partito comunista raddoppiò i voti, senza contare che per il 1936 erano previste le elezioni
politiche in Spagna ed in Francia, dove si ritenevano possibili le vittorie di entrambi i fronti popolari. Hitler
approfittò della possibilità che si trovò di fronte: presentarsi all’intera borghesia europea come il paladino
dell’anti-bolscevismo con il quale schierarsi per evitare la rivoluzione in tutta Europa. Parallelamente
dall’estate del 1935 la propaganda italiana stava lavorando per rendere accettabili all’opinione pubblica tutti
quelli sforzi che comunque sarebbe stati fatti a fronte dell’embargo creato dalla Società delle Nazioni. La
chiave di questa propaganda fu la distinzione tra paesi poveri contro paesi ricchi, tra gli “have” contro gli
“have not”. A ben guardare l’impostazione di Hitler era per una propaganda pro-conservatori mentre quella
di Mussolini era proprio contro questi ultimi, tuttavia in entrambi i casi la direttrice verso cui più si stavano
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Ivi, p. 370
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ottenendo risultati era proprio la retta Nord-Sud, direzione Roma-Berlino. Vi era però la necessità di un
punto d’accordo che unisse questi due nuovi slanci ideologici, anti-bolscevismo e anti-occidentalismo
potevano avere un solo comune denominatore: l’antisemitismo. Dunque non fu un caso che, proprio dalla
fine del 1935, Mussolini iniziò a rilasciare i primi commenti in questa direzione. Dell’antisemitismo fascista
in connessione all’alleanza con la Germania ce ne occuperemo successivamente ma sta di fatto che, almeno
cronologicamente, vi fu una concordanza tra l’avvicinamento fascista alla Germania e quello
all’antisemitismo. Al momento però ciò che contava era la situazione politico-militare e per l’Italia questa
non era delle migliori. Nei primi mesi della campagna abissina il generale De Bono aveva fatto poco o nulla,
dando l’impressione a tutte le varie potenze europee che, con una simile andatura, la guerra si sarebbe chiusa
non prima dei tre anni. Nel frattempo la Germania, che nei confronti del conflitto aveva cercato di mantenere
un assetto più che mai neutrale, era entrata nella fase di produzione di massa per quanto riguarda l’industria
bellica. La paura che la nuova potenza tedesca potesse ora riversarsi contro lo sfaldato fronte occidentale
indusse gli anglo-francesi a tentare di far rientrare Mussolini nel fronte di Stresa con un accordo che gli
avrebbe garantito tutta una serie di annessioni territoriali nel territorio abissino non direttamente connesse
alla pochezza dell’avanzata italiana. Il Duce inizialmente non prese in considerazione una proposta che,
seppure vantaggiosa, avrebbe significato un fortissimo smacco di fronte all’opinione pubblica. Tuttavia
quando, il 25 novembre, Mussolini riferì a Laval che di fronte alle minacce inglesi di un blocco delle
esportazioni del petrolio, l’Italia avrebbe risposto con la guerra, Laval ammutolì Mussolini avvertendolo che
a quel punto Parigi avrebbe appoggiato Londra. Una mossa simile legò le mani al Duce. Il piano HoareLaval sembrava andato a buon fine. Se non ché, verso la metà di dicembre, a causa di un’intenzionale
indiscrezione del segretario generale francese agli affari esteri, alla stampa, il piano anglo-francese venne
riportato su tutti i giornali delle due nazioni, scatenando un’ondata di proteste che causò la caduta di
entrambi i ministri degli esteri. Mussolini peggiorò la situazione attaccando la politica dei due ministri
mentre Hitler, spaventato dalla ricostituzione del fronte di Stresa, tirò un sospiro di sollievo.
Con il definitivo venir meno dell’alleanza franco-italiana, il duce si trovò a dover fronteggiare una crisi per
ora solo potenziale ma che, se scatenata, avrebbe potuto rivelarsi fatale. All’estero, oltre al fallimento con
Parigi e Londra, c’era sempre la campagna etiope da dover tener presente e proprio quest’ultima stava
rallentando sempre più, togliendo ogni speranza al duce di vedersi vittorioso prima della stagione delle
piogge. Una svolta quindi era necessaria, sia in Etiopia e ciò avvenne con la sostituzione di De Bono con
Badoglio, sia in politica estera per non rischiare di rimanere senza un alleato nel delicato momento che si
stava vivendo. Con il fallimento del piano Hoare-Laval era palese ora che l’Italia non poteva far altro che
riavvicinarsi alla Germania, altrimenti avrebbe quanto meno dovuto far passare altro tempo per far
dimenticare le parole del duce che tradirono e fecero cadere Laval. La Germania tuttavia, per quanto Hitler
fosse sempre disposto a venire incontro al maestro italiano, esigeva un tributo chiamato Austria. Sebbene il
sacrificio della nazione alpina sull’altare dell’alleanza italo-tedesca poteva sembrare esagerato, non bisogna
dimenticarsi che, allo stesso tempo, di fronte alle difficoltà italiane sopra descritte, il governo di Vienna si
stava guardando attorno alla ricerca di un nuovo paese forte su cui appoggiarsi. Inevitabilmente la scelta
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sarebbe caduta o sulla Germania o, magari con meno benefici ma con l’assicurazione dell’indipendenza,
sulla Francia con l’appoggio della Piccola Intesa. Di fronte ad una situazione simile Mussolini non poté far
altro, una volta deciso il nuovo corso filo-tedesco, che accordarsi con Hitler sulla questione austriaca.
Tuttavia, se per Mussolini la questione era di vitale importanza, per la Germania essa passava in secondo
piano in quanto ormai da tempo Berlino si era decisa a rioccupare la Renania. A tal proposito Berlino
intendeva per la primavera del 1936 sistemare la situazione, ma per lo meno con l’appoggio di una delle
potenze e la più malleabile in questo senso era certamente l’Italia. Così, quando Mussolini presentò a Hitler
un accordo in cui l’Austria seppur indipendente sarebbe diventata un satellite tedesco, in cambio di un
riavvicinamento tra le due nazioni, per Berlino fu come manna dal cielo. Il fronte di Stresa si era ormai
definitivamente rotto e, finché l’Italia continuava a dirottare l’occhio della Società delle Nazioni in Africa, la
politica tedesca poteva passare maggiormente inosservata. Nel frattempo però, in ossequio ad una politica
estera ormai consolidata, Mussolini assicurava Francia e Gran Bretagna che un accordo con la Germania era
impossibile, soprattutto finché esisteva il problema austriaco. Con un contesto simile per Berlino fu come un
fulmine a ciel sereno sentire le prime notizie che, da fine gennaio 1936, arrivavano in Europa su di
un’imminente vittoria italiana in Abissinia. Le mosse andavano accelerata finché l’attenzione era in Africa
ed infatti, il 7 marzo ’36, le truppe tedesche rioccuparono la Renania lasciando sbigottiti i francesi e deluso
Mussolini in quanto avvertito solo la sera precedente. Hitler proseguendo un modus vivendi che caratterizzò
l’intera durata dei rapporti tra il führer ed il duce, si scusò per l’accaduto e rinfranco Mussolini ricordandogli
che per lo meno ora l’attenzione era in Europa cosicché egli potesse fare ciò che preferiva per chiudere la
questione abissina; il favore era stato ripagato. Nel frattempo la questione africana si chiuse, il 9 maggio fu
proclamato l’impero ed il 15 luglio furono ritirate la sanzioni contro l’Italia, tuttavia il passaggio definitivo
verso l’Asse non era ancora avvenuto, anche se con gli avvenimenti di giugno ci si avvicinò fortemente.
“CAMBIO DELLA GUARDIA” E CONSEGUENZE
Dopo la vittoria in Africa, gli stati maggiori occidentali, compreso quello italiano, erano convinti che, con
la proclamazione dell’impero, l’Italia sarebbe tornata allo <<status quo, sempre promesso da Mussolini>>10.
Al contrario, esattamente un mese dopo la proclamazione, il Duce effettuò un altro “cambio della guardia”
destituendo i due filo-britannici F. Suvich e P. Aloisi, sostituendoli con l’ex ambasciatore a Varsavia
Bastianini e con uno degli uomini di Ciano, F. Anfuso. Inoltre fu sostituito anche il ministro degli esteri D.
Grandi, il quale divenne ministro della propaganda, con G. Ciano. Sull’orientamento politico di Ciano ce ne
occuperemo più tardi, tuttavia sta di fatto che con il “cambio della guardia” i rapporti italo-tedeschi si fecero
più intensi. Ma per quale motivo Mussolini decise di accelerare cosi fortemente la pericolosa amicizia
nazista? Le motivazioni principali sono sostanzialmente due: una di carattere ideologico e l’altra di natura
militare. Il conflitto italiano in Abissinia non aveva rappresentato la vittoria di un popolo occidentale
moderno su di una popolazione africana ancora arretrata, al contrario, per il Duce, essa aveva rappresentato
la vittoria di un solo paese sulle 52 potenze della Società delle Nazioni. Partendo da questa premessa
10
J. Petersen, Hitler e Mussolini., op. cit. p. 424.
10
Mussolini poteva ora, con la conferma dell’impero, supportare la tesi della decadenza dei popoli occidentali
in ossequio alla loro decadenza demografica. Questo pensiero così banalmente <<biologisticomeccanicistico>>11 non va assolutamente sottovalutato all’interno dell’ideologia fascista, in quanto l’idea
che la forza di un paese fosse dovuta al numero dei suoi abitanti spiega anche la successiva faciloneria nei
confronti delle guerre in Grecia e nei Balcani.
Anche la seconda motivazione, quella di carattere militare, trova le sue radici in Etiopia: la vittoria italiana
fu vista agli occhi del mondo come la prova che, con l’avvento dell’arma aeronautica e sottomarina, la forza
militare inglese si fosse di molto limitata. In tal modo l’Italia era diventata, questo soprattutto per gli alti
gradi fascisti, la vera potenza del Mediterraneo, e addirittura si iniziò a progettare attacchi a lungo raggio da
Pearl Harbor a Londra.
Queste furono le principali motivazioni per cui all’interno dello stato maggiore fascista si iniziò a
considerare l’alleanza tedesca più utile rispetto a quella britannica: di fronte alla decadenza anglo-francese la
rinascita tedesca era maggiormente in linea con le ambizioni italiane. Che poi tali ambizioni non saranno
giustificabili da una reale potenza toccò alla storia dimostrarlo.
Se, come visto, la guerra d’Etiopia fece da premessa all’avvicinamento tra Roma e Berlino, la guerra civile
spagnola fornì la prova tecnica dell’alleanza. Il 19 luglio 1936 iniziò il colpo di Stato spagnolo che avrebbe
portato al via della guerra civile di fronte alla tenace resistenza del governo repubblicano. Di fronte alle
richieste golpiste di aiuti, Roma e Berlino risposero affermativamente tra il 24 ed il 25 luglio iniziando fin da
subito ad inviare attrezzature. Tuttavia negli stessi giorni a Berlino si stava dando il via ai giochi olimpici e
ciò fu l’occasione perfetta per le alte cariche italiane per farsi ricevere dai tedeschi. A partire da questa
intensificazione dei rapporti, datata estate 1936, si arrivò presto alla visita di Ciano a Berlino con la firma dei
protocolli italo-tedeschi, 21-23 ottobre 1936, e con l’incontro tra il ministro Ciano ed il führer il 24 ottobre.
All’interno di questo colloquio i due discussero sostanzialmente di politica estera (Spagna, Austria,
bolscevismo, colonie) arrivando a paventare una futura campagna contro l’imperialismo inglese entro 3-5
anni. Hitler rassicurò Ciano che la Germania mirava ad Est e verso il Baltico lasciano così all’Italia il teatro
Mediterraneo. Emblematico della finezza strategica tedesca a fronte della grossolanità italiana, fu il fatto che
Ciano arrivò a Berlino il 21 e parlò con Hitler il 24 senza nemmeno sospettare che dall’altra parte di
Wilhemstrasse, Ribbentrop e l’ambasciatore giapponese Mushakoji firmavano il patto anti-Comintern. La via
per la guerra era spianata senza che Roma nemmeno lo sospettasse.
Il I novembre Mussolini, da piazza del Duomo a Milano, tenne un discorso con le seguenti parole:
Questa verticale Berlino-Roma, non è un diaframma, è piuttosto un asse intorno al quale
possono collaborare tutti gli Stati europei animati da volontà di collaborazione e di pace.12
11
12
J. Petersen, Hitler e Mussolini., op. cit. p. 427.
Ivi, p. 434.
11
IDEALISMO DELL’ASSE ROMA BERLINO
IL “GENIO” DEL DUCE
La vittoria in Etiopia rese un enorme credito al duce, il quale si trovò con un fronte interno coeso come mai
lo era stato prima e con lo stupore delle potenze europee a fronte di un impresa che da tutti era stata
preventivata per la durata di almeno tre anni. Ma di chi era stata l’idea di una guerra in Abissinia? Di chi era
stata l’idea di sostituire De Bono con Badoglio? A chi il merito di tale impresa? Tutto ciò fu ricondotto al
duce, al genio di Mussolini, che, anche di fronte a quelle che potevano sembrare incoerenze ed atteggiamenti
illogici, era al contrario sempre pronto a risolvere la situazione con uno dei suoi geniali colpi politici. Questa
era sostanzialmente l’idea che Mussolini alimentava nella propria mente e che spesso e volentieri mostrava ai
suoi collaboratori. Solo partendo da questo presupposto possiamo capire le ambiguità e le machiavelliche
mosse del duce.
D’altro canto questo utilizzo del “fiuto” politico da parte di Mussolini era stata una delle peculiarità della
sua politica fin dai primi giorni di governo, tuttavia dalla campagna d’Etiopia questo “fiuto” non si inserì più
all’interno di un oggettivo quadro politico-strategico ma andò ad invischiarsi con la soggettività, e con la
quanto mai irrazionale, nuova ideologia mussoliniana. L’idea di Mussolini che il fascismo rappresentasse un
nuovo inizio, un’alba per la civiltà italica fu più o meno sempre presente all’interno dell’ideologia fascista,
ma, a partire dal 1936, quest’idea si intrise di una trascendentale certezza della propria missione storica data
dalla <<sicurezza, tra il fatalistico ed il predestinato, che il successo in Etiopia aveva sviluppato in
Mussolini>>13. Oltretutto per quanto la campagna d’Etiopia fosse stata ben preparata14, il fatto che
l’Inghilterra non fosse intervenuta contro l’Italia fu una scommessa vinta dal duce, la quale attestava ancora
di più la grandezza del suo genio. Emblematiche a tal proposito sono le parole di Bastianini, riportate da De
Felice, a proposito di questo nuovo stato d’animo di Mussolini:
Una sola cosa… è sicura e terribile: che la sua convinzione d’essere infallibile è sincera.
[…] <<Credere, obbedire, combattere>>, il comando da lui dato alla nazione non è retorica
ma sincerità. In quelle tre parole c’è infatti la sintesi della sua giornata: egli crede in sé,
obbedisce alle sue ispirazioni, combatte per tradurle in realtà.15
Questa nuova evoluzione psicologica di Mussolini portò con se anche un’ulteriore e decisivo aspetto. Se
fino ad allora il suo giudizio nei confronti degli italiani era stato sostanzialmente negativo, ora egli iniziò a
13
R. De Felice, Mussolini., op. cit. p. 265
Il De Felice la definisce: <<preparata nei minimi dettagli>>, certamente il Rochat la contestualizza in modo diverso.
In G. Rochat, Le guerre italiane., op. cit. p. 19, troviamo scritto: <<In primo luogo balza agli occhi la mancanza di un
organo di coordinamento […] per impostare la guerra e dirimere i contrasti>>. Inoltre in: Ivi, p. 26. inizia il paragrafo
dal titolo: “Limiti di impostazione” (sempre a riguardo della campagna etiope). Con ciò, diamo comunque fede allo
scritto di De Felice, seppur mitigando l’idea, in quanto la base ideologica di Mussolini secondo quest’ultimo parte dal
concetto di grandezza dovuto alla vittoria etiope. Per cui preparata o meno che fosse a noi importa solo che la guerra sia
stata vinta.
15
R. De Feilce, Mussolini., op. cit. p. 266.
14
12
convincersi che il processo di fascistizzazione dell’italiano medio fosse finalmente iniziato. Con questo
presupposto il duce iniziò, fin dalla proclamazione dell’impero, a disinteressarsi della gestione quotidiana
della macchina del regime, concentrandosi sempre di più sulla politica estera. Tale decisione fu supportata da
una parte, come detto, dalla convinzione che ora l’italiani potessero vivere anche senza il suo quotidiano
intervento mentre, d’altra parte all’interno del suo ideale di grandezza s’inserì, e questo giustifica la sua
nuova preminenza per la politica estera, il concetto di “uomo cesareo”. Non che l’accostamento tra il duce e
Cesare fosse un fatto nuovo, soprattutto per quanto riguarda il mito di Roma, tuttavia ora l’avvicinamento a
Cesare, proclamato dallo stesso Mussolini, non era tanto dovuto al richiamo alla romanità, alla forza del mito
romano. Tale avvicinamento era sostanzialmente dettato dall’opera di Cesare, come ricorda De Felice: <<Ciò
a cui Mussolini pensava erano i suoi “superbi disegni che – come quelli di Cesare – avrebbero aperto “tempi
nuovi” all’Italia e, grazie ad essa, alla civiltà europea, era il valore universale e dunque storico nel senso più
pieno del termine dell’opera alla quale ormai si sentiva chiamato>>16. Senza dimenticare che Cesare fu anche
il conquistatore della Britannia.
La successiva politica estera fascista e l’alleanza Roma-Berlino è dunque contestualizzabile all’interno di
questa involuzione psicologica del duce in quanto, secondo quest’ultimo, “l’appuntamento con la storia” era
ormai inevitabile. D’altro canto a fronte della pochezza della realtà italiana Mussolini non poté che
rispondere con due iniziative. In primo luogo egli tentò in ogni modo di accelerare il processo di crescita e
autarchizzazione per preparare la nazione all’imminente guerra, in secondo luogo egli si decise una volta di
più che di fronte alla storia non si poteva far altro che rischiare. Crescita a qualunque costo e necessità di
osare, queste sono le due chiavi di volta dell’alleanza con la Germania.
NUOVO ORDINE EUROPEO
Ora che abbiamo visto come l’involuzione ideologica di Mussolini puntasse verso un trascendentale
appuntamento con la Storia, cerchiamo di capire a cosa corrispondesse tale appuntamento.
Come già detto, con la vittoria africana il duce si convinse che, finalmente, gli italiani avrebbero appreso a
pieno quello spirito fascista volto all’eroismo ed al patriottismo abbandonando quei tipici sentimenti della
civiltà borghese come l’individualismo e l’egoismo, quest’ultimo soprattutto, tipico della società capitalista.
A questa superiorità spirituale, Mussolini aggiunse un “razzismo demografico” che avrebbe dovuto essere il
veicolo pratico, tangibile, dell’evoluzione verso quella nuova civiltà da lui prospettata. All’interno di questa
nuova civiltà i popoli che avrebbero trionfato sarebbero stati quelli con la bilancia demografica positiva:
tedeschi, russi, giapponesi e italiani ( gli Stati Uniti erano esclusi in quanto popolo invischiato di <<negri ed
ebrei, elemento disgregatore della civiltà>>17). Al contrario, francesi ed inglesi sarebbero dovuti soccombere
a causa del progressivo diminuire del loro tasso di natalità. Attraverso questa visione Mussolini ricalcava
quell’ideale poi ripercorso ad esempio durante la guerra, per cui il fattore principale per una nazione fosse gli
uomini che essa poteva “far scendere in campo”. Sia che esso fosse quello militare sia che fosse quello
16
17
R. De Felice, Mussolini., op. cit. p. 268.
G. Ciano, Diario, p. 34 in: Ivi, p. 291.
13
industriale, economico o quant’altro, mantenendo quindi un’ottica contadina in un mondo industriale.
Tuttavia ben presto, a fronte della fallimentare campagna fascista per l’aumento demografico, il duce dovette
giustificare ulteriormente l’inserimento dell’Italia nelle potenze prossime dominatrici. Oltretutto, se l’Italia in
questi anni mantenne una bilancia demografica comunque positiva fu solamente grazie alle famiglie rurali
meridionali, dimostrando così che la popolazione urbana italiana era rimasta ancora legata a quei valori
egoistici borghesi contro cui tanto Mussolini aveva lavorato. A tal proposito il duce fece ricondurre i valori
borghesi anglo-francesi a quelli dell’Italia settentrionale in quanto quest’ultimi erano <<caratterizzati dalla
cronica subalternità e passività culturale e morale che si sarebbero manifestate attraverso un egoismo che in
passato aveva costituito l’insegna, lo spirito dell’italietta liberal-borghese>>18. Ché poi la polemica
mussoliniana contro l’egoismo borghese non fosse una novità questo è facilmente dimostrabile, ma in questi
anni l’attacco fascista contro la struttura borghese, per lo meno in linea teorica, fu molto più tenace del solito
in quanto bisognava in un modo o nell’altro prepararsi all’appuntamento con la storia e soprattutto, dal 1936,
bisognava guardare alla Germania. Quest’ultimi infatti a fronte di una bilancia demografica più che negativa,
invertirono completamente la rotta con l’arrivo del nazismo infastidendo decisamente Mussolini il quale non
aveva riscontri simili con delle politiche famigliari analoghe e con maggior tempo a disposizione. La
necessità di una spiegazione plausibile di queste tendenze era dunque assolutamente imprescindibile per
Mussolini, il quale ben presto fece sua la teoria delle razze spirituali di Julius Evola. La base di questa teoria
era che all’interno dei vari popoli occidentali erano presenti due diverse tipologie di valori, i quali
<<lottavano tra loro a mo’di corpi e di anticorpi>>19 dando ad una razza una peculiare caratteristica in base
alla preminenza di uno dei due “corpi” in quel dato momento. Questi due valori a sua volta erano: quelli
greco-romani, credenti nell’eroismo e quelli giudeo-cristiani, credenti nella giustizia e nella pace. Attraverso
questa teoria, Mussolini poteva ora conciliare la sua idea della “nuova civiltà” completandola e dando
finalmente un primo punto di arrivo per l’Italia rispetto all’appuntamento con la Storia. Infatti ora il duce
poteva aggredire “l’invadenza clericale” e lo “spirito borghese” senza poter essere successivamente accusato
dalle schiere di cattolici e dal vaticano. Inoltre con una simile prospettiva, l’alleanza con la Germania veniva
controbilanciata in quanto, se da un punto di vista demografico erano i tedeschi ad avere la meglio, da un
punto di vista spirituale erano gli italiani a superare l’alleato in quanto diretti discendenti di quello spirito
greco-romano civilizzatore dell’Europa. Tuttavia se l’Italia era portatrice di suddetti valori, essa avrebbe, in
tal senso, dovuto portare delle prove tangibili della sua opera in qualche modo superiore a quella tedesca.
Ecco quindi che a tal proposito si rinvigorì in quegli anni una polemica assopita ormai dai primi anni venti:
l’antibolscevismo. Il fascismo infatti avrebbe dovuto dimostrare di essere superiore a qualsiasi altra nazione
nella lotta al bolscevismo, soprattutto nei confronti della Germania, la quale nei suoi comportamenti contro
l’Unione Sovietica non faceva altro che ricalcare il vecchio sentimento tedesco di <<antisemitismo,
antirussismo e dal “vecchio mito tedesco” della marcia verso oriente>>20. Se, quindi, attraverso
l’antibolscevismo l’Italia avrebbe dimostrato la sua superiorità, allo stesso tempo sarebbe stato il duce ad
18
Ivi, p. 295
Ivi, p. 297.
20
Ivi, p. 305.
19
14
aiutare il suo popolo in quanto attraverso la grandezza di quest’ultimo rispetto a quella di Hitler egli avrebbe
dato un ulteriore contributo alla vittoria morale italiana. Questi ultimi due fatti risultano essere fondamentali
per comprendere aspetti della strategia militare dettata da Mussolini durante la seconda guerra mondiale, i
quali spesso sembrano essere dettati più da impulsi irrazionali piuttosto che da oggettive scelte strategiche.
Al contrario, il duce sapeva bene quello che faceva tuttavia la sua strategia era decontestualizzata da una
normale ottica di guerra per obbiettivi come quello della “nuova civiltà”. Quest’ultimo obbiettivo poi
costituiva il collante più forte per l’asse Roma-Berlino, collante necessario a mantenere unita un’alleanza
basata per il resto su reciproche diffidenze. Tuttavia l’obbiettivo ultimo dei due regimi era talmente sentito
dai suoi dittatori che si decise di tralasciare le differenze, anche piuttosto forti su alcuni punti, a dopo la
creazione della “nuova civiltà”, concentrandosi al momento sugli obbiettivi comuni. Con ciò, appunto, si
spiega perché <<le prime concrete forme di collaborazione tra gli apparati dei due regimi si realizzarono in
quei campi in cui esisteva un’effettiva concordanza>>21.
ANTISEMITISMO E RAZZISMO DI MUSSOLINI
Come visto, a fronte dell’obbiettivo ultimo dei due regimi si decise di insabbiare le differenze, anche
ideologiche, esistenti tra fascismo e nazismo. Tra queste, almeno inizialmente, vi fu l’antisemitismo e con
esso il razzismo, già ben espressi da Hitler nei primi programmi nazionalsocialisti. Tuttavia a partire dal
1936 accaddero tutta una serie di fatti, che ora analizzeremo, i quali spinsero sempre di più Mussolini a
sentirsi meno colpevole a fronte di un sacrificio semita sull’altare dell’asse. In primis durante la guerra
d’Etiopia il duce si convinse che “l’ebraismo internazionale” si fosse mobilitato contro l’Italia e che fosse
proprio a causa di quest’ultimo che la Società delle Nazioni decise di punire il regime e la nazione. Ad ogni
modo per vedere dei veri e propri provvedimenti fascisti contro gli ebrei si dovette aspettare il 1938, dopo
che, nel luglio ’37, P. Orano aveva pubblicato l’opera “Gli ebrei in Italia”, che diventò presto il “manifesto
della razza”. Inoltre durante la guerra di Spagna iniziarono a levarsi alcune critiche da parte di industriali e
uomini d’affari ebraici, portando cosi il duce a generalizzare, come nel caso della guerra d’Etiopia, pensando
che vi fosse un ulteriore congiura dell’internazionale ebraica. D’altro canto se Mussolini arrivò ad una scelta
cosi drastica come quella delle politiche antisemite già dal 1938, questo fu dovuto alla precisa volontà di
rafforzare l’alleanza con la Germania. Questo, sia per motivi pratici dovuti all’intensificarsi dei rapporti tra i
due paesi e quindi allo spesso imbarazzante incontro tra ebrei e persecutori di ebrei seduti allo stesso tavolo.
Sia per motivi politici in quanto la differenza di visione su di un punto cosi tanto sensibile dava, sia
all’interno sia all’esterno, l’idea che l’asse non fosse poi così forte e salda come si voleva far credere.
Oltretutto, almeno fino alla firma del “patto d’acciaio”, la scelta dell’antisemitismo servì a Mussolini per
<<offrire un pegno>>22 ad Hitler prendendo così tempo rispetto alle sempre più incombenti richieste
tedesche di un’alleanza tout court di fronte alla quale il duce era piuttosto timoroso. In tal contesto vennero
a riproporsi le tesi di quel Julius Evola viste precedentemente.
21
22
Ivi, p. 310.
Ivi, p. 315.
15
Riallacciandosi alla teoria delle razze spirituali Mussolini riutilizzò le tesi dell’Evola per affinare e
italianizzare il razzismo tedesco distinguendosi così dalla brutalità barbarica di questi ultimi. Distinzione che
passava sostanzialmente da due punti: moderazione dei provvedimenti antisemiti e razzismo non biologico
ma, e qui si inserisce Evola, “spirituale”. Infatti secondo le tesi di costui l’ebraismo, e per certi versi anche il
cristianesimo, erano gli anticorpi mentre era l’elemento greco-romano il “corpo” dell’italianità, per cui solo
attraverso lo sradicamento dell’elemento giudaico si poteva sconfiggere l’anticorpo giudeo-cristiano. Le tesi
dell’Evola scatenarono aspre critiche da parte dell’Osservatore romano e in generale da parte dei cattolici e
fascisti moderati. Tuttavia queste teorie affascinarono talmente tanto il duce che egli volle incontrare lo
scrittore e servendosi delle sue teorie riuscì a creare un antisemitismo fascista diverso da quello nazista.
EPISTEMOLOGIA DEL FALLIMENTO
DALL’ASSE AL “PATTO D’ACCIAIO”
Su ciò che l’Asse non era, cioè un’alleanza, la maggior parte degli storici da me esaminati ( De Felice,
Petersen, Rodogno) sono d’accordo. Al contrario, tuttavia, su come essa possa essere definita vi sono
svariate versioni. Ognuna di esse ruota attorno alla figura di Galeazzo Ciano, il quale viene a sua volta
presentato come un uomo a capo di una <<fronda [in complicità] con la diplomazia tedesca>>23 già da prima
della nomina a ministro degli esteri, o, al contrario, come un uomo che <<per una questione di gusto, di
stile>>24 non poteva essere filonazista. La figura di Ciano potrebbe anche esser stata fin troppo gonfiata dalla
storiografia, certo, il fatto che egli fu il firmatario sia degli accordi del ’36 sia dell’alleanza nel ’39 sembra
piuttosto emblematico, tuttavia resta il fatto che proprio ciò che l’Asse non era, un’alleanza appunto, ci lascia
uno spazio di riflessione per il periodo che da questi accordi portarono al “patto d’acciaio”. Il 1937 fu
certamente <<un anno interlocutorio>>25 in cui la machiavellica strategia del duce ebbe come primo
obbiettivo quello di mantenere viva la cosiddetta politica del “peso determinante”, guardandosi bene da una
definitiva alleanza con Hitler, ma, al contempo, evitando un definitivo slittamento a occidente, quanto meno
senza quelle concessioni che tanto agognava. La prova tangibile di questa politica da “equilibrista” sta nei
gentlemen’s agreements, un accordo italo-britannico riguardante il traffico mediterraneo ed il mantenimento
dello status quo territoriale, datato gennaio 1937, quindi successivo di soli due mesi alla dichiarazione di
Milano. Inoltre i successivi protocolli firmati da Mussolini non fecero altro che confermare la tendenza:
accordandosi prima con Gran Bretagna, Austria, Ungheria e Jugoslavia ma, al contempo, aderendo al patto
Anti-Komintern (6 novembre) e ritirandosi dalla Società delle Nazioni (11 dicembre). Senza contare la
vastità di alte personalità naziste che furono accolte, in quello stesso anno, a Roma, come: Hermann Goering,
Konstantin von Neurath e Eduard von Blomberg. Questa alternanza da parte della politica mussoliniana è
come sempre riconducibile ad un disegno molto più amplio, il quale avrebbe dovuto liberare l’Italia dalla
23
Ivi., p. 430
R. De Felice. Mussolini., op. cit. p. 339.
25
Davide Rodogno, Il nuovo ordine Mediterraneo, Torino, Bollati Boringhieri, 2003, p. 40.
24
16
<<“prigione” mediterranea>>26. Un simile processo avrebbe visto il completamento di esso solo in tempi
lunghissimi, ma almeno la rottura delle sbarre francesi, Tunisia e Corsica, sarebbe dovuta avvenire entro il
1942. Ora, alla luce di una simile strategia, e soprattutto dopo la rottura con i francesi successiva al
fallimento del piano Laval, l’ambigua politica fascista del 1937 assunse un minimo contorno di
pianificazione. Il primo nemico era quindi la Francia, contro la quale il duce sperava di poter vincere senza
una vera e propria guerra ma attraverso la diplomazia, soprattutto con gli inglesi. In entrambi i casi la
certezza di Mussolini era che la Gran Bretagna non si sarebbe mai schierata con la Francia e contro l’Asse,
ma avrebbe spinto per un accordo diplomatico o comunque si sarebbe mantenuta estranea ad un’eventuale
conflitto.
Detto ciò, sarebbe interessante ora analizzare come mai un capo di Stato con le intenzioni di Mussolini,
l’idea finale era di arrivare a conquistare Suez e Gibilterra, non prese assolutamente in considerazioni due
nazioni come gli Stati Uniti e l’Urss all’interno di un contesto di possibile guerra quantomeno europea. Il De
Felice fa risalire il tutto all’accrescimento dell’idealismo del duce – mito della civiltà – rispetto a quello che
precedentemente era il suo realismo.
Il 1938 si aprì sulla stessa lunghezza d’onda, se nonché, l’entrata delle truppe tedesche in Austria, a
completamento della temuta Anschluss, mise ancora una volta Mussolini di fronte al “faits accomplis”
dell’amico Hitler, mandando a monte i piani italiani. Ora che il pericolo teutonico era proprio alla frontiera,
il governo italiano non si sentiva più così sicuro, se mai realmente lo era stato, rispetto alle ambizioni
esclusivamente balcanico-danubiane dei tedeschi.
In tal senso vennero quindi a porsi i cosiddetti “accordi di Pasqua” dell’aprile 1938, nei quali si
regolamentava definitivamente il contenzioso italo-britannico nel mediterraneo, spostando quindi
nuovamente il baricentro della politica estera dalla Germania, che ora intimoriva il duce, alla Gran Bretagna.
Mussolini dovette anche pensare ad un riavvicinamento con Parigi, tuttavia la <<difficoltà ideologica e
politica di giustificare un riavvicinamento con la Francia governata dal governo popolare, legata da un patto
di amicizia e collaborazione con l’Urss>>27, rese il tutto quasi impossibile. Inoltre, come già ribadito, la
politica estera italiana era legata ad un filo diretto con la politica interna, per cui a fronte della notizia
dell’Anschluss, Mussolini si trovò di fronte ad una popolazione fortemente preoccupata dalle iniziative
tedesche. Tuttavia il duce non aveva nessuna intenzione di compromettere l’Asse, in quanto il timore che la
popolazione italiana provava per il regime nazista era lo stesso che al contempo provavano le popolazioni di
Gran Bretagna e, soprattutto, Francia. Dando così a Roma la possibilità di ricoprire ancora più decisamente il
ruolo di “guardiano” dei tedeschi, in cambio delle oramai famose concessioni. In questo traballante quadro
diplomatico avvenne il viaggio di Hitler in Italia per ricambiare quello che, un anno prima, aveva compiuto
Mussolini in Germania. Il viaggio del führer in Italia aveva un semplice obbiettivo: allearsi definitivamente
con il duce. Dopo l’Anschluss, Hitler si rese conto che a fronte dei prossimi obbiettivi tedeschi, Sudeti su
tutti, la presenza di un alleato era un elemento fondamentale per la politica di Berlino. Oltretutto il fallimento
della missione diplomatica svolta da von Ribbentrop a Londra e, al contempo, l’enorme preoccupazione di
26
27
R. De Felice, Mussolini., op. cit. p. 325.
R. De Felice, Mussolini., op. cit. p. 468.
17
Roma rispetto al confine del Brennero, fecero crescere in Hitler la preoccupazione di rimanere isolato.
Ragion per cui, la possibilità di chiudere l’alleanza con la nazione più vicina ideologicamente e
politicamente era, a questo punto, un’occasione da non perdere. Al contrario, tuttavia, sia Mussolini sia
Ciano erano al momento assolutamente indisposti nei confronti di un’alleanza. Gli umori del popolo erano
tutt’altro che benevoli rispetto al governo berlinese, inoltre dopo gli “accordi di Pasqua” sarebbe stato
assolutamente insensato gettare all’aria un cosi importante avvicinamento a occidente mentre a oriente
ancora tendevano la mano. Insomma Mussolini amava essere corteggiato.
Ad ogni modo nei mesi successivi alla primavera 1938 la crisi in Europa centro-orientale, connessa alla
questione dei Sudeti, stava degenerando. Era palese per tutti i capi di stato che, la problematica, posta così
vivacemente dal governo di Berlino, non poteva essere limitata alla sola regione cecoslovacca. Il mirino del
führer era già da tempo puntato ancora più ad est. La crisi ceca rappresentò l’apice del paradosso
appeasement - la politica voluta da Chamberlain per cui tutto o quasi era concesso a Berlino in nome del
mantenimento della pace - dimostrando tutta la sua assurdità. Il 15 settembre lo stesso premier britannico si
recò a Berlino, senza riuscire ad ottenere risultati, e solo l’intervento di Mussolini assicurò che la situazione
non degenerasse portando invece alla Conferenza di Monaco. Il grande incontro delle quattro potenze
attraverso i loro primi ministri, Chamberlain, Mussolini, Daladier, Hitler, si svolse tra il 29 ed il 30 settembre
1938 nel capoluogo bavarese con l’obbiettivo di risolvere la crisi ceca, senza per altro avere invitato la
Cecoslovacchia a sedersi al tavolo diplomatico. L’umore dei cittadini sia di Monaco sia dell’intera Europa
era tale che <<la Conferenza di Monaco non poteva fallire il suo obbiettivo, almeno momentaneamente>>28.
Anche perché Mussolini agì, sì da arbitro di fronte a Francia Gran Bretagna e Germania, ma egli mise anche
le vesti di <<alleato de facto della Germania>>29.
Certo, <<Hitler ottenne i Sudeti a Monaco a spese dei cechi in cambio di vaghe promesse di futura buona
condotta>>30 e Mussolini ottenne il tanto agognato prestigio di una vittoria diplomatica - resta il fatto che nel
momento più alto per diplomazia italiana in Europa, il governo di Roma era ancora “impantanato” in Spagna
e con un impero che nessuno, o quasi, riconosceva - tuttavia la guerra venne evitata e ciò scatenò l’idillio
delle varie nazioni, accreditando all’uno o all’altro capo di stato la grande impresa di aver salvato la pace
europea. A fronte di questo sentimento fortemente manifestato dalla cittadinanza italiana - l’entusiasmo degli
italiani davanti al transito del treno su cui viaggiava Mussolini per tornare in a Roma fu enorme - sconfortò
profondamente il duce, il quale si rese conto che “l’uomo fascista” non era ancora assolutamente pronto.
CAMERATI ARBEITER
28
R. De Felice, Mussolini., op. cit. p. 527
D. Rodogno., Il nuovo ordine., op. cit. p. 43.
30
Richard Overy, Le origini della seconda guerra mondiale, p. 49, Bologna, Il mulino, 2009
29
18
L’atteggiamento mussoliniano a Monaco fu in parte conseguenza del “protocollo segreto sui rapporti
economici italo-tedeschi”, firmato nel maggio 1937 e grazie al quale si diede il via, ma dal gennaio 1938,
alla collaborazione tra i due governi nell’ambito del trasferimento di manodopera italiana in Germania.
Quest’ultimo fenomeno non può essere considerato <<un movimento spontaneo come era stato quello che
aveva portato, nei decenni precedenti, centinaia di migliaia di connazionali oltre oceano e nelle regioni più
sviluppate dell’Europa occidentale; questa volta si tratta di flussi di manodopera gestiti centralmente dagli
Stati membri dell’alleanza nazifascista>>31. Per cui, come nel gennaio 1937 il gentlemen’s agreement aveva
segnato un riavvicinamento alla Gran Bretagna, allo stesso modo, con l’avvio della politica di prestito di
manodopera alla Germania, si diede un forte impulso al riavvicinamento tra Roma e Berlino. Oltretutto, se
per l’anno 1938 i lavoratori emigrati in Germania furono 37.095, nel 1940, quando cioè si dovette scegliere
se e con chi entrare in guerra32, la manodopera italiana in Germania ammontava a 98.71933. Centomila
ostaggi italiani in Germania insomma: Mussolini non poteva di certo tralasciare una simile cifra. D’altro
canto se a Roma si era scelto di intraprendere una simile strada vi sarà stato pur un motivo, il quale presto
detto risultò essere la convinzione di poter scambiare la manodopera di una paese saturo di lavoratori,
l’Italia, con i mezzi di un altro paese, la Germania, che stava vivendo l’inizio di una crisi dovuta alla
mancanza di manovalanza all’interno degli enormi trust militari finanziati dalla politica del riarmo nazista.
Certo, l’invio di manodopera italiana in Germania non può ricondurre ad una diretta volontà di alleanza italotedesca, la disoccupazione in Italia era a livelli esacerbanti per cui fu quasi un favore l’accoglienza tedesca,
tuttavia attraverso il documento conosciuto come il “memoriale Cavallero”, datato maggio 1939, possiamo
constatare come l’idea di una guerra fianco a fianco fosse ben presente nella mente dei due dittatori quanto
meno a partire da questa data.
DA MONACO AL PATTO D’ACCIAIO
Come detto, la conferenza di Monaco rappresentò l’apice della popolarità, in Italia ed all’estero, per Benito
Mussolini, anche se, al di là delle lusinghe, egli rimase profondamente scosso dal fallimento nel processo di
evoluzione “dell’uomo nuovo” italiano, da costui tanto agognato. Percorso da uno simile stato d’animo, in
cui orgoglio personale e “disillusione collettiva” si mischiavano, il duce dovette pensare che, per punizione o
per semplice linearità di progetto, fosse giunta l’ora di “accelerare” la corsa sulla strada della totalizzazione
del regime, cosi da poter definitivamente chiudere con chi, anche tra i fascisti, non era d’accordo con il suo
“genio”. Certo, ormai erano circa due anni, da dopo la vittoria etiope, che Mussolini aveva accentuato il
carattere dispotico all’interno del partito, tuttavia all’interno della società italiana, soprattutto tra la
borghesia, era ancora ben presente un dissenso, quantomeno “interiore”, rispetto alla fascistizzazione della
società. In questo contesto, quindi, possiamo inserire il <<suo discorso ‹‹semisegreto›› del 25 ottobre ’38 al
Brunello Mantelli, <<Camerati del lavoro>>, i lavoratori italiani nel terzo Reich nel periodo dell’Asse 1938-1943, p.
35, Perugia, La Nuova Italia, 1992.
32
Ricordiamo che il Petersen data al 10 giugno 1940 il giorno in cui la Gran Bretagna rinunciò definitivamente all’idea
di riportare nella proprio orbita l’Italia.
33
B. Mantelli, <<Camerati del lavoro>>., op. cit. p. 33, qui il numero è riferito ai lavoratori emigrati a seguito degli
accordi del maggio ’37. Bisogna considerare che vi erano anche quelli emigrati spontaneamente.
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Consiglio nazionale del PNF, quello dei tre poderosi cazzotti allo stomaco della borghesia>>34. Ciò
nondimeno, se la politica interna italiana, dal post-Monaco, si vide cosi fortemente ideologizzata, al
contrario, la politica estera dovette trasformarsi in senso decisamente più pragmatico, soprattutto di fronte
alla quasi certezza di un sicuro prossimo avvento di un conflitto europeo. Proprio il sempre maggior rischio
bellico portò Mussolini a sostituire, con se stesso, Ciano nella conduzione del gioco diplomatico. Quindi,
proprio specificamente a questa necessità di pragmatismo, Mussolini incentrò la propria politica estera sulla
creazione di <<un sistema europeo fondato su un equilibrio di rapporti bilaterali tra loro condizionatisi, di
cui Londra e Roma costituissero la cerniera ed il perno al tempo stesso>>35. A fronte di un obbiettivo simile,
vi era tuttavia la decisa volontà destabilizzatrice di Hitler, il quale però sapeva di non poter far la guerra da
solo contro tutti, quantomeno nel 1938, cercando quindi in tutti i modi di convincere Mussolini a firmare il
tanto desiderato trattato di alleanza. Già nei primi giorni del dopo Monaco, von Ribbentrop era partito alla
carica con Ciano per ottenere l’accordo, ora rafforzato dall’ulteriore presenza del Giappone, ma la risposta
italiana era stata decisamente fredda. Come detto, infatti, il duce aveva tutt’altri programmi, i quali mal si
conciliavano con i piani tedeschi, motivo per cui, in questi mesi, Roma si sentiva decisamente più vicina alle
volontà pacificanti di Londra e Parigi36, rispetto alle ben più belligeranti volontà di Berlino.
Tutto questo groviglio diplomatico creatosi all’interno della testa di Mussolini si sarebbe ben presto risolto,
grazie all’incontro che si sarebbe dovuto svolgere a Roma tra quest’ultimo e Chamberlain, programmato per
i primi di gennaio 1939.
Le premesse all’incontro dei due capi di governo non furono certo delle migliori: il 30 novembre vi fu il
“fattaccio” in parlamento, con le urla dei deputati fascisti contro il nuovo ambasciatore francese FrançoisPoncet; il fallimentare colloquio del 2 dicembre tra quest’ultimo e Ciano; ed, infine, le dichiarazioni, del 13 e
19 dicembre, del premier Deladier alla Camera e Senato francese in chiara ottica anti-italiana37. A questo
punto, quindi, i rapporti tra Roma e Parigi erano ormai tutt’altro che amichevoli, per cui lo stesso Mussolini
doveva ben sapere che l’incontro con Chamberlain non avrebbe portato ad alcun risultato se non con la
promessa di <<andare a Canossa con Parigi>>38. Con tali premesse il colloquio tra Mussolini e Chamberlain
non poteva che risolversi in un nulla di fatto, e cosi fu. La situazione rimase tesa come prima, se non ché
nella testa del duce l’idea di un’alleanza con la Germania, per spaventare Londra e Parigi, dovette sembrare
la soluzione più praticabile. In ossequio a quanto detto, i due mesi successivi registrarono l’avvicinamento di
Roma verso Berlino, anche se la problematica alto-atesina rallentava in qualche modo l’accordo. Ma, come
34
R. De Felice, Mussolini., op. cit. p. 536.
Ivi. p. 545.
36
Emblematico il fatto che Mussolini, a fronte di sempre maggiore volontà di totalizzazione del paese, pensasse con
forte preoccupazione all’idea di una guerra nei prossimi 4-5 anni. Questo non tanto per l’impreparazione bellica
italiana, ma, soprattutto, per l’eventualità che, in caso di conflitto, l’esposizione mondiale di Roma 1942 sarebbe venuta
meno. Questo per mostrare una volta in più come il connubio tra politica interna ed estera, a Roma, fosse quantomeno
destabilizzante.
37
In questi giorni, a Barcellona, le ultime forze repubblicane erano in procinto di cadere sotto l’ormai insostenibile
forza del generale Franco. Di fronte ad alcune rivelazioni giornalistiche di un possibile intervento francese prorepubblicani, Mussolini rispose che avrebbe inviato 30 battaglioni a Valencia, anche a costo di scatenare una guerra
europea.
38
R. De Felice, Mussolini., op. cit. p. 571.
35
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ormai da copione, il 15 Marzo le truppe tedesche entrarono in Boemia e Moravia, occupando Praga. Ancora
una volta Mussolini fu colto di sorpresa dalle mosse del führer, il quale oltretutto stava palesemente
calpestando l’opera massima del duce, il patto di Monaco. Certamente l’invasione nazista ebbe un effetto
traumatico sia per Mussolini sia per Ciano, i quali ben presto si trovarono, forzatamente, inclini al pensiero
di uno stravolgimento della propria politica. Tuttavia seguendo le tappe mostrateci dal De Felice39 è evidente
che, per un qualche motivo, il duce dovette rimanere comunque legato all’idea di un’alleanza con Berlino.
Ora, non resta da chiedersi quale poteva essere tal motivo?
Senza alcun dubbio, per quanto riguarda la politica interna, ricusare l’Asse avrebbe significare mostrare il
fianco a quegli stessi borghesi e cattolici che tanto ostacolavano la sua opera totalitaria di creazione
“dell’uomo nuovo”. D’altro canto a fronte del rischio di una guerra mondiale, l’idea di rallentare rispetto alla
totalizzazione poteva anche avere una sua logica, ma, al contrario, le certezze del duce in politica estera, che
ora chiariremo, non potevano che spingere le sue velleità rinnovatrici verso una corsa sempre più disperata.
In primo luogo vi era la convinzione, e non solo per Mussolini, che la Germania fosse ormai la potenza
egemone sul continente e, secondariamente, vi era la consapevolezza che l’Italia era decisamente troppo
debole per contrastarla. Oltretutto, come se ciò non bastasse, l’atteggiamento anglo-francese di fronte
all’invasione tedesca aveva decisamente impressionato, negativamente, il duce.
Questi furono i motivi per cui Mussolini capì che ormai non poteva che prescindere dalla Germania. Certo,
questo non significava necessariamente un’alleanza, tuttavia questo cambio di forma mentis da parte del
primo ministro italiano è da ritenere alquanto significativo anche per il periodo successivo, guerra compresa.
Inoltre, l’invasione tedesca non comportò, per il governo italiano, esclusivamente “fattori negativi”, infatti
già il 17 marzo Ciano propose a Mussolini di occupare l’Albania in risposta ai nazisti. Se, inizialmente il
duce fu piuttosto restio di fronte a questa possibilità, ben presto egli cambiò decisamente idea. Tale
cambiamento fu da una parte riconducibile all’opera determinante di Ciano, ma dall’altra ebbe come fulcro
l’idea di mostrare agli italiani che l’Asse non funzionava solo a senso unico ma che poteva procurare
vantaggi anche all’Italia.
Certo, un invasione dell’Albania avrebbe certamente significato una decisa spallata agli anglo-francesi,
tuttavia, se ripensiamo a quanto detto prima a proposito dell’idea del duce riguardo l’egemonia tedesca,
possiamo comprendere l’arroganza di Roma in quei funesti giorni. Detto ciò, l’occupazione albanese si
risolse in pochi giorni, d’altronde era già in precedenza un “feudo” italiano, e per la metà di aprile Vittorio
Emanuele accettava la corona d’Albania. Nel frattempo la situazione tra il governo di Berlino e quello di
Varsavia stava degenerando a causa “dell’affare Danzica”, anche se, come sempre, la convinzione della
centralità del proprio operato fecero sì che, mentre precipitavano le cose sul Baltico, tutta l’attenzione di
Roma era sull’Adriatico. In questo forte clima d’impreparazione da parte di palazzo Chigi, Ciano aveva
passato gli ultimi giorni in territorio albanese, avvenne la visita di Göring a Roma per tentare di <<dissipare
le ombre di Praga e di rimettere rapidamente in moto il meccanismo dei negoziati per l’alleanza a tre>> 40.
Quest’ultimo incontro, seppur non portò a nulla di tangibile, instaurò definitivamente in Mussolini l’idea che
39
40
Ivi, p. 591.
R. De Felice, Mussolini., op. cit. p. 614.
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la Germania voleva a tutti i costi la guerra europea, portando quest’ultimo a compiere il passo definitivo
verso l’accettazione, con se stesso, della medesima idea, con la variante temporale post-datata al 1943.
La concretizzazione di tutto ciò avvenne durante l’incontro milanese tra Ciano e Ribbentrop del 6-7 maggio.
Di fronte alla pubblicazione, da parte di giornali francesi, delle proteste della popolazione milanese contro
l’ufficiale tedesco, il duce andò su tutte le furie e, concretizzando un processo ormai in atto da un anno,
ordinò telefonicamente al genero di concludere l’alleanza passata alla storia come il “patto d’acciaio”.
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