1 L`INDUSTRIA CULTURALE IN FORTINI FRA PANZIERI, ADORNO

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DANIELE BALICCO
L’INDUSTRIA CULTURALE IN FORTINI FRA PANZIERI, ADORNO E TRONTI
Quando la fabbrica si impadronisce dell’intera società – l’intera
produzione sociale diventa industriale – allora i tratti specifici della
fabbrica si perdono dentro i tratti generici della società. Quando
tutta la società viene ridotta a fabbrica, la fabbrica – in quanto tale –
sembra sparire.
(M.Tronti, Operai e capitale, p. 52)
Non è più possibile avvertire, nelle parole, la violenza che
subiscono.
(M. Horkeimer-T.W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, p.181)
La riflessione di Fortini sull’industria culturale non è circoscritta ad un momento particolare della
sua attività intellettuale, né tantomeno si concentra solo su alcuni precisi elementi tematici (editoria,
cinema, scuola, propaganda, pubblicità, design), ma insegue, obliquamente disseminata, l’intero
arco del suo itinerario saggistico, poetico e politico. Dal “Politecnico” ad Extrema ratio, Fortini,
attento lettore di Marx, ma soprattutto, prima che professore, lavoratore dipendente di Olivetti ed
Einaudi, sa che il conflitto fra politica e cultura non può essere correttamente inteso se non si
comprende che l’aspetto politico della cultura è l’organizzazione del lavoro intellettuale, se non si
chiarisce cioè che nella forma del suo determinarsi è già inscritta, come proposta di sovversione o
all’opposto semplice comando subìto, la sostanza del sapere prodotto, il suo reale potere
conoscitivo.
Di questa lunga ed inesausta metacritica della conoscenza politica, Lettera agli amici di Piacenza
ed Astuti come colombe1 sono due testi importanti, forse imprescindibili. Entrambi scritti all’inizio
degli anni Sessanta, questi saggi mostrano molto bene come la riflessione sull’industria culturale
venga impostata da Fortini, quanto meno a partire da questi anni, e cioè dall’esperienza di
“Quaderni Rossi”, come problema politico generale riguardante per un verso l’intensificazione del
comando neocapitalista, insieme produzione del simbolico e colonizzazione dell’inconscio, per un
altro la distruzione stessa della mediazione intellettuale e del suo specifico mestiere, ormai sussunto
a semplice forza-lavoro salariata nel “piano del Capitale”.
Può essere utile per questo, prima di avvicinare direttamente i due testi, ricostruirne rapidamente la
genesi teorica, seguendo il rapporto di Fortini con i “Quaderni Rossi”, perché è precisamente dal
laboratorio Panzieri-Tronti che il problema dell’industria culturale, già mediato e connotato
dall’insegnamento di Adorno, assume nella sua riflessione una posizione centrale, incarnando, nel
processo di autodissimulazione di cui è attore, la “parte invisibile del vero” da affrontare.
I. Da «Quaderni Rossi» a «Quaderni Piacentini»: la ‘funzione’ Fortini.
È stato Giuseppe Vacca, nella sua ricostruzione critica del marxismo italiano degli anni Sessanta2,
ad individuare nell’attacco concentrico al Pci, o meglio, alla forma partito come istituzione politica
e ideologica, l’origine dell’impostazione teorica della nuova sinistra italiana.
1
F. Fortini, Lettera agli amici di Piacenza, in Ospite ingrato, Bari, De Donato, 1966 e Id., Astuti come colombe,
Verifica dei poteri, Milano, Il Saggiatore, Milano 1965.
2
G. Vacca, Politica e teoria nel marxismo italiano 1959-1969. Antologia critica, Bari, De Donato, 1972.
1
E se è dalle analisi di Panzieri e Tronti, dalla loro “torsione economicista del marxismo”3, che
degrada ad epifenomeno il piano istituzionale del politico, è dalle posizioni teoriche di Fortini,
invece, che deriva la rottura del piano istituzionale del partito come monopolio dell’elaborazione
ideologica: secondo Vacca, infatti, è precisamente Fortini “l’esemplare mediatore dell’incontro fra
la contestazione antistituzionale della politica comunista negli anni cinquanta, in particolare sul
terreno della politica culturale, e la nuova contestazione dei giovani militanti, soprattutto
intellettuali e studenti, organizzatisi nei primi anni sessanta intorno a nuove riviste di cultura e
piccole formazioni politiche”4; ma soprattutto è l’impostazione del problema del ruolo intellettuale
come autogestione diretta del mandato sociale ad aver “contribuito in maniera non secondaria alla
formazione di una visione antistituzionale del processo rivoluzionario e della teoria
dell’organizzazione presso le nuove leve di militanti”5.
Secondo questa interpretazione, dunque, negli anni che qui si considerano, l’attività saggistica di
Fortini deve essere letta come prosecuzione, sul piano della mediazione politico-ideologica, di
quell’attacco alle istituzioni storiche del movimento operaio italiano, e su tutte, naturalmente al PCI,
che il laboratorio Panzieri-Tronti ha portato, contemporaneamente, sul piano della mediazione
economico-sindacale.
Senza entrare nel merito dell’interpretazione di Vacca, può essere comunque utile comprendere il
significato politico di questa prosecuzione ricostruendo non tanto il rapporto fra Fortini e “Quaderni
Rossi”, quanto la sua interpretazione di questa esperienza: per Fortini, infatti, la forma di questo
laboratorio – autogestione del mandato e distruzione dell’avanguardia – è una risposta politica
anticipatrice, eppure già avanzata, dell’intellettuale-massa alla sua integrazione neocapitalistica; in
questa proposta, nell’idea cioè di un gruppo non organizzato capace di autogestire mandato e
verifica pratica del sapere, va dunque cercata l’eredità che lega, tramite la mediazione dello stesso
Fortini, “Quaderni Rossi” a “Quaderni Piacentini”.
Il rapporto di Fortini con i “Quaderni Rossi” è un rapporto ambivalente, di partecipazione, di
apprendimento e di distacco: senza dubbio, deriva dal laboratorio Panieri-Tronti la sua
interpretazione della trasformazione neocapitalistica come “piano” in funzione anti-operaia, nonché
una conferma, economicamente fondata, delle tesi di Adorno sulla distruzione, nel capitalismo
monopolistico, delle forme borghesi di mediazione; e su tutte, naturalmente, di quella intellettuale.
Per Fortini è dunque corretta la tesi di fondo dei saggi di Mario Tronti: la società occidentale inizia
a prefigurarsi come società integralmente governata e, per così dire, autogestita dallo sviluppo
dell’accumulazione capitalistica. Su questo punto, sull’analisi economica, l’accordo è pressoché
integrale. Non si può dire lo stesso, invece, sull’analisi ideologica portata al livello di classe:
Caro Raniero, potete sbagliarvi. Quando, come da “Quaderni Rossi”, si levano insieme determinismo e volontarismo, la
scelta non è più fra gradi diversi di mediazione, ma fra gradi di rischio. […] (Determinismo, perché partite da un’ipotesi
non dimostrata, di necessaria tensione in quella parte del salariato che più chiaramente scorgerebbe il “Capitalista
Collettivo”; volontarismo, perché si chiede azione in nome di una scelta morale, e tanto peggio per la realtà). Il
socialismo non è inevitabile, lo sapete; ma la vostra lettura dei segni dei tempi è condotta come lo fosse6.
Determinismo e volontarismo sono categorie di una forma politica antica: l’avanguardia. Forma del
conoscere e dell’agire che, proprio la presente trasformazione neocapitalistica, squalifica. Per questa
ragione, per Fortini, il lavoro di “Quaderni Rossi” non dovrebbe essere pensato come possibilità di
trasformare un gruppo di giovani ricercatori intellettuali in un’avanguardia organizzata capace di
ricomporre immediatamente l’unità politica dell’insubordinazione operaia, dunque l’unità di teoria e
prassi; quanto piuttosto come “l’inizio di qualcosa di antico e di nuovo che verificandosi ci sfuggirà
di mano – cioè di quella nuova sinistra rivoluzionaria contro la quale, settaria e nullista, Togliatti
appella nientemeno che il partito comunista italiano”7. E in questo essere frammento iniziale di una
3
Ivi, p. 39.
Ivi, p. 43- 44.
5
Ivi, p. 43.
6
F. Fortini, Il socialismo non è inevitabile, “Quaderni Rossi”, II, 1962, p.155.
7
Ivi, p. 116.
4
2
nuova comunità politica, contemporaneamente, proposta e verifica di un’attività radicale,
assolutamente non istituzionale, è “meglio esser lungamente divisi fra un’attività pratico-politica
guidata da principi provvisori e una ricerca teorica-scientifica senza conseguenze apparentemente
verificabili, piuttosto che ricercare una unità fertile di compromessi e disastri”8.
In altre parole: per Fortini il progetto “Quaderni Rossi” si trova ancora in una fase sperimentale; la
sua forma è un’ipotesi di intervento politico nuovo, radicale e potenzialmente efficace; meglio non
pretendere subito una coerenza immediata fra teoria e prassi, ma verificare e accertare su più livelli
le proprie analisi, sperimentandole tanto sulla teoria, quanto sulla prassi, come piani paralleli,
dunque non necessariamente coincidenti.
Come è evidente, quello che interessa a Fortini dell’esperienza di “Quaderni Rossi” è innanzitutto la
forma politica dell’organizzazione intellettuale del gruppo, il suo essere rifiuto pratico del ruolo e
del mandato istituzionale per una sua autogestione diretta; questa è infatti, anche a distanza di anni,
la verità del suo insegnamento politico:
di fatto, e non solo con i propri scritti, avere creato le premesse di un ripensamento radicale della nozione leniniana di
partito, rifiutandosi con ogni energia alle prefigurazioni e alle consolanti improvvisazioni, questo è stato il grande
merito di quel momento, o, se si vuole, di quel gruppo. Fino ad allora infatti gli atteggiamenti della opposizione di
sinistra erano sempre stati o rivolti a riformare le organizzazioni del movimento operaio o a contrapporvisi come
alternativa. Per la prima volta, “Quaderni Rossi” si proponeva di fatto come un gruppo non organizzato che nello stesso
9
momento compiva un’elaborazione teorica e una verifica pratica .
Fortini non può dunque seguire l’ipotesi politica trontiana (pur restando Tronti, ancor più di
Panzieri, l’autore fondante la sua lettura del neocapitalismo); perché quello di cui i “Quaderni
Rossi” testimoniano è, innanzitutto, la possibilità storica della distruzione dell’avanguardia come
forma politica e, precisamente, nell’autogestione diretta del sapere e della sua verifica pratica. È
questa la ragione per cui i “Quaderni Rossi” segnano, secondo Fortini, una rottura nella storia del
movimento operaio italiano, non solo sul piano teorico, ma soprattutto su quello pratico, perché per
la prima volta prende forma e si realizza storicamente una nuova sintassi politica.
Ma si faccia attenzione: da questa valutazione si origina il senso del laboratorio “Quaderni
Piacentini” come gruppo capace di autogestire direttamente, senza mediazioni istituzionali, il
mandato sociale del lavoro intellettuale. In questa direzione, dunque, va cercato il senso del lavoro
di Fortini come prosecuzione del laboratorio Panzieri-Tronti.
Anzi, in un certo modo, in questa proposta è lo stesso Fortini a portare alle estreme conseguenze
politiche la lettura trontiana dello sviluppo neocapitalistico: se in Occidente “il reale processo di
proletarizzazione si presenta come processo formale di terziarizzazione”10 è precisamente in questo
settore, nella “nuova sterminata piccola borghesia del Terziario”11 che può essere sperimentata una
nuova forma di soggettività politica, di cui l’esperienza “Quaderni Rossi” è controprova: una nuova
soggettività che può finalmente fare a meno del modello politico dell’avanguardia, di cui Fortini
conosce, essendone attento studioso, potenza, limiti e disastri.
II. Lettera agli amici di Piacenza
Di questa posizione teorica, la Lettera agli amici di Piacenza può essere considerata il vero e
proprio manifesto politico. È interessante vedere come in questo testo si assista ad un cortocircuito
teorico fra la lettura dello sviluppo neocapitalistico alla Tronti-Panzieri e le analisi di Adorno
sull'industria culturale; e come, tuttavia, proprio contro l’inesorabilità tragica del divenire
totalizzante del dominio di quest’ultimo, agisca il modello operativo dell’inchiesta e della
8
Ibidem.
F. FortinI, Per le origini di “Quaderni Rossi” e”«Quaderni Piacentini”, “Aut Aut”, 142-143, luglio-ottobre 1974, p.
13.
10
M. Tronti, Operai e capitale[1966], Einaudi, Torino 1980, p.53.
11
F. Fortini, Lettera agli amici di Piacenza cit., p.94.
9
3
conricerca, l’analisi dello sfruttamento della forza-lavoro intellettuale, la costruzione politica della
soggettività. Perché, come ha scritto Sergio Bologna, nella riflessione di Fortini di questi anni “il
problema non è tanto quello dell’analisi dei meccanismi dell’industria culturale, quanto la continua
riflessione sulla collocazione all’interno di questi meccanismi; quindi sulla mansione specifica, sul
particolare skill e sulla funzione generale, sul ruolo sociale dell’intellettuale”12.
Il testo discute sostanzialmente tre questioni: l’analisi delle nuove forme di sfruttamento della forzalavoro intellettuale nell’industria culturale; la necessità di ricostruire la storia e il conflitto del
rapporto fra lavoro intellettuale e potere politico (premessa imprescindibile, secondo Fortini, per
riconquistare la coscienza del proprio ruolo sociale); la proposta, infine, della costituzione di un
“gruppo in fusione”, come avrebbe scritto Sartre proprio in quegli anni, di un gruppo cioè capace di
autogestire il mandato sociale del lavoro intellettuale attraverso la sperimentazione di comunità che
siano ad un tempo “il campo di una vita eticamente ricca e i centri di una azione pratica, quindi di
verifica della prima”13.
Il primo problema discusso riguarda l’industria culturale come specifico modo di produzione e
insieme “fabbrica della coscienza”14. Secondo Fortini, nell’organizzazione industriale della cultura,
troverà lavoro la maggior parte della nuova generazione di intellettuali, il cui impiego però sarà
determinato solo dalla possibilità di sfruttare la qualità specialistica e tecnica del sapere posseduto;
dunque, immissione in un ruolo che non consente nessuna possibilità di scelta, di verifica e di
controllo, di potere insomma, sul fine del proprio lavoro, ma solo subordinazione esecutiva:
Tutta la nuova generazione di intellettuali trova o troverà opportunità di lavoro all’interno di istituzioni culturali
pubbliche o private (dall’ingegnere allo scrittore, dal biologo al regista) ma sempre in quanto tecnici; le prospettive non
15
saranno loro a determinarle. Avranno il non-potere camuffato da potere .
Contro gli ideologi della programmazione democratica, che credono possibile una tecnocrazia
socialista capace di guidare, dalle istituzioni, uno sviluppo economico equilibrato, Fortini fa proprio
l’insegnamento di Panzieri: il piano della produzione, luogo di verità della società capitalistica, non
prevede diritti e istituzioni (piano della circolazione), ma sfruttamento, dominio, alienazione;
dunque, la specializzazione della scienza, ad un certo livello dello sviluppo capitalistico, non può
non essere che intensificazione della separazione dei produttori diretti di conoscenza dal sapere
sociale complessivo, ridotto a totalità incorporata nel Capitale:
L’ideologia della specializzazione-competenza serve a mascherare questa impossibilità di vere scelte-decisioni. Il
neoempirismo e il neopositivismo volgarizzati sono destinati ad accrescere distanza e incomunicabilità fra specialista
intellettuale e massa (anche quando quello sia parte di questa). Alienazione sul luogo di lavoro e fuori di esso (tempo
libero). Strumentalizzazione della competenza intellettuale per ribadire lo sfruttamento generalizzato (sociologi,
psicologi, artisti, giornalisti, studiosi). Torna a riproporsi, sotto spoglia di funzionalità e possesso di una frazione di
potere, la distinzione storica fra aristocrate-umanista (oggi tecnologo) e volgo16.
Per Fortini, dunque, l’industria culturale è l’esito ultimo di un processo complesso di erosione da
parte capitalista delle forme borghesi di mediazione: per un verso, infatti, seguendo Adorno,
rappresenta “l’integrazione deliberata, dall’alto, dei suoi consumatori”17, una forma di autogestione
capitalistica dell’egemonia e del consenso; per un altro, seguendo Tronti, è la controprova della
“riduzione di ogni forma di lavoro a lavoro industriale”18. Se questa diagnosi è corretta, ne discende
che gli intellettuali come gruppo sociale stanno perdendo il proprio potere di legittimazione
12
S. Bologna, Industria e cultura, in Uomini usciti di pianto in ragione.Saggi su Franco Fortini, a cura di M.De
Filippis, Manifestolibri 1996, p.20.
13
F. Fortini, Lettera agli amici di Piacenza cit., p. 92.
14
F. Fortini, Industria della coscienza e preindustria. Cinque tesi, in Ospite ingrato cit., p. 77.
15
F. Fortini, Lettera agli amici di Piacenza cit., p. 89.
16
Ibidem.
17
Th.W. Adorno, L’industria culturale, in F. Fortini, Profezie e realtà del nostro secolo, Bari-Roma, Laterza, 1965, p.
521.
18
M. Tronti, Operai e capitale cit., p. 53.
4
simbolica19 – cioè il monopolio pubblico della scienza e della parola – per trasformarsi in semplice
forza-lavoro salariata. E in questa progressiva espropriazione del mestiere, dunque del sapere, “allo
specialista-intellettuale non restano che soluzioni esistenziali-individuali, a carattere anarchicoestetico, misticheggiante, iper-snobistico”20.
Se questo è il quadro generale dell’integrazione del ruolo intellettuale nello sviluppo capitalistico, è
necessario, contro la sua pretesa inesorabilità, recuperare la fisionomia originaria dello skill,
ricostruendo la ragione profonda, antropologica, del suo storico confliggere con il potere politico:
compito dell’intellettuale è invece ricostruire i termini storici e gli errori attraverso i quali si è sviluppato, da noi e nel
mondo moderno, il rapporto fra intellettuali e potere politico e di riprendere coscienza, dopo un decennio di
oscuramento (morte della Resistenza e delle ideologizzazioni forzate, caduta di potere delle formazioni politiche di
opposizione, trionfo neocapitalistico e riformistico) della portata social-politica del proprio lavoro e della propria
esistenza e delle direzioni ed alleanze che essa comporta21.
Il procedere di Fortini è chiaro: prima di sperimentare forme nuove di intervento politico contro
l’organizzazione capitalistica della cultura, bisogna criticare la falsa immagine che il lavoratore
intellettuale ha di se stesso, svelando la subordinazione nella quale è costretto (e si pensi ai saggi
Verifica dei poteri o Astuti come colombe) e gli errori politici del passato che l’hanno determinata
(Mandato degli scrittori e fine dell’antifascismo). Solo dopo aver attraversato criticamente i falsi
modi di percepire il proprio ruolo, analizzandone la distorsione profonda indotta tanto
dall’ideologia capitalista (neopositivismo, progressismo tecnologico, neoavanguardismo) quanto
dall’impostazione tattica del comunismo storico (engagement e fronti popolari) si potrà infatti aprire
la possibilità di un lavoro di gruppo capace, in assoluta autonomia, di dare forma alla propria
attività come conricerca, autogestendo cioè produzione di sapere e sua verifica pratica:
questi gruppi, che si autoregolino secondo leggi non scritte d’una comune finalità e concezione del mondo, non
sarebbero né gruppi di pressione (e quindi collaboratori sostanziali con l’ordine esistente) né gruppi propriamente
politici […] Dovrebbero sorgere su qualsiasi base (professionale, sindacale, amicale, generazionale) come assunzione a
coscienza responsabile e conseguente di una comune “vision du monde”22.
Conricerca, dunque, come attivazione critica e cosciente di relazioni e esperienze orientate dalla
trasformazione del ruolo intellettuale in una forma di cooperazione conoscitiva, nella quale soggetto
e oggetto del conoscere possano intersecarsi, modificare il proprio agire quotidiano, trasformarsi a
vicenda23; in questa ipotesi, secondo Fortini, è anticipato, e immediatamente praticato, il senso
dell’agire rivoluzionario, se, come sosterrà ancora in un’intervista del 1990, “il segno che una vera
rivoluzione è in corso è quando tutti si mettono ad insegnare a tutti e ad imparare da tutti”24. È nella
pratica di questa forma, come nella sua successiva diffusione di massa durante la rivoluzione
culturale cinese, che Fortini trova una risposta pratica alla positiva distruzione “dell’intellettuale
funzionario e dell’intellettuale organico” nella “figura di chi, senza alcun mandato, alla fine di una
riunione alza il dito e pone alcune domande”25.
Il lavoro di gruppo come conricerca è dunque rifiuto del ruolo istituzionale, autogestione del
mandato, verifica pratica delle proprie conoscenze; e se in una prospettiva di lungo periodo il fine è
quello di “un massimo intervento attivo sui destini e sulle scelte, tramite la collettivizzazione degli
strumenti capitalistici di produzione e di scambio e la loro gestione attraverso forme di
rappresentanza diversa da quelle della tradizione parlamentare”26, nell’immediato presente il suo
lavoro sarà orientato, invece, verso “l’identificazione e lo sviluppo delle reali e massime antitesi
19
P. Bourdieu, La responsabilità degli intellettuali, Bari-Roma, Laterza, 1991.
F.Fortini, Lettera agli amici di Piacenza cit., p. 90.
21
Ibidem.
22
Ivi, p. 92.
23
Per un’attualizzazione intelligente della concetto di conricerca cfr. G.Borio, F.Pozzi e G.Roggero, La conricerca
come agire politico, “Derive Approdi”, X, n.s., 1, pp. 7-10.
24
F. Fortini, Finis historiae, in Un dialogo ininterrotto, Bollati Borringhieri, Torino 2003, p.583.
25
F. Fortini, Scelte di campo, ivi, p.275.
26
F. Fortini, Lettera agli amici di Piacenza cit., p.90.
20
5
sociali, oggi occultate”27. Ma identificazione e sviluppo politico delle massime antitesi sociali non
significa, in Fortini, costituzione di un’avanguardia di militanti che opera su una realtà sociale
ancora informe, ma potenzialmente rivoluzionaria; tutt’altro. Come ha correttamente scritto Alfonso
Berardinelli:
non si capisce nulla delle analisi e delle proposte di Fortini se non si tiene conto che le sue non sono affatto ipotesi di
“linea politica” generale per il movimento operaio e di strategia alternativa, ma solo ragionamenti rigorosi sulla propria
situazione, sul ceto e gruppo sociale a cui appartiene, sulla situazione dell’intellettuale, del critico letterario e dello
scrittore: con tutto quanto analisi del genere, se condotte con chiarezza, comportano e implicano28.
È questo un punto centrale: in Fortini la critica politica non è “discorso moralistico che alcuni
soggetti vanno fare e ad imporre ad altri bensì è discorso autonomo che un soggetto storicocollettivo propone a se stesso”29. Nessuna avanguardia, dunque; ma moto di auto-costituzione
soggettivo capace di conquistare, attraverso una critica radicale delle false immagini di sé imposte
dall’esterno, la forma immanente del proprio essere materiale e simbolico. Si può già anticipare che
sta precisamente qui il senso dell’omologia proposta fra la lotta per il comunismo e formalizzazione
della vita, di cui l’arte è metafora; ma sentiamo Fortini:
il compito ideologico non è quello di dar forma ad un informe (soluzione tipica del razionalismo borghese), di venerare
un informe (soluzione dell’estremismo vitalistico e avanguardistico) o di difendere un catalogo di forme (soluzione del
populismo) ma di criticare l’immagine mistificata, ossia la forma illusoria, che la classe operaia ha di se stessa 30.
Conquistare una corretta immagine di sé, in quanto forza-lavoro intellettuale subalterna, dipendente
dall’industria culturale o dallo Stato: questo è lo scopo della Lettera agli amici di Piacenza. Perché
l’errore di una posizione neopositivista, piuttosto che neoavanguardista o populista, non sta solo
nell’impossibilità reale di modificare una condizione esterna vagheggiata, quanto nella distorsione,
come ricostruzione fittizia del mandato, dell’immagine reale che il lavoratore intellettuale deve
avere di sé come lavoratore salariato, subalterno, dipendente.
Perché l’immagine illusoria è esito, risultato di un processo di dissimulazione dei reali rapporti di
potere di cui è strumento l’incorporazione diretta dell’ideologia nella produzione. Dunque,
l’immagine illusoria ha un effetto ben pratico: è la forma attraverso cui si naturalizza il comando
capitalistico, che in questa lettura, correttamente, è, insieme, produzione materiale, produzione di
rapporti sociali e produzione di rappresentazioni ideologiche, che appunto, in quanto ideologiche,
dissimulano il contenuto delle prime due. Per questa ragione criticare l’immagine distorta di sé
significa non solo conquistare simbolicamente una corretta percezione fra ciò che si è e ciò che si sa
di sé; quanto intervenire praticamente nella distorsione simbolica dei reali rapporti di potere nella
quale è costretta qualsiasi soggettività in una condizione di totalizzazione capitalistica. Corrodere la
falsa immagine che ogni soggetto ha di sé significa, dunque, riabilitare il presente come luogo della
possibilità della resistenza, della conoscenza e dell’azione, come piano da conquistare attraverso
una strategia di ricostruzione etica e pratica:
Non quindi col tradizionale processo di assunzione a coscienza e a consapevolezza, ma con una proposta di attività, di
prassi; formalizzanti, o se si vuole, liberanti. Vale a dire comportamenti capaci di allargare l’area di disponibilità delle
esistenze, di mutare in scelte la maggior quota possibile di destino, di creare autenticità con frammenti di
inautenticità31.
Questo è, infatti, il senso della Lettera agli amici di Piacenza: una proposta di disalienazione
simbolica attraverso un itinerario di autoriflessione critica; e, nello stesso tempo, un intervento
pratico nel presente (conricerca) che agisca contemporaneamente su tre livelli: mansioni,
comportamenti, rappresentanza.
27
Ibidem.
A. Berardinelli, Fortini, La Nuova Italia, Firenze, 1973, p. 92.
29
R. Finelli, Il comunismo laico di Franco Fortini, in Uomini usciti di pianto in ragione cit., p. 67.
30
F. Fortini, Prefazione alla seconda edizione, in Verifica dei poteri, Torino, Einaudi, 1989, p. 311.
31
Ivi, p.312
28
6
A livello delle mansioni, e si noti la terminologia direttamente importata dalle analisi sociologiche
dei “Quaderni Rossi” sulla condizione operaia del lavoro di fabbrica, l’intervento pratico del
lavoratore intellettuale dovrebbe agire sulla propria qualificazione, cioè sulla forma specialistica del
proprio sapere, non rifiutandone il contenuto di verità specifico, ma la sua forma in quanto esito
storico di un rapporto di forza che è un rapporto asimmetrico di proprietà, dunque anche di
conoscenza:
porre instancabilmente i problemi di potere, cioè di scelte che implichino alterazioni del regime della proprietà
neocapitalistica equivale – nella ricerca scientifica o umanistica, nell’attività letteraria o nell’indagine filosofica – a
porre instancabilmente problemi di superamento delle specializzazioni, problemi di relazioni interdisciplinari e quindi
di controllo linguistico32.
A livello dei comportamenti, il piano contro cui intervenire nel presente è invece la massificazione,
vale a dire la produzione capitalistica di soggettività. Infatti, per chi, come Fortini, non ha mai
separato ruolo da funzione, antropologia da politica, la qualità reale della vita vissuta, la sua forma
è, e non può non essere, punto di partenza e punto di arrivo di qualsiasi proposta politica pretenda
modificare il presente liberando, e rendendo potente, la vita; quindi, anche in una proposta di
organizzazione del lavoro intellettuale l’aspetto più direttamente operativo/pratico di intervento
deve necessariamente avanzare accanto ad una fondazione antropologica del sapere, ad una sua
qualità esistenziale, eticamente ricca e autonomamente assunta e proposta come pedagogia: “a
livello dei comportamenti: è scelta fra eudemonia, saggezza, astinenza epicurea o stoica, comunque
di tipo aristocratico, elettivo, carismatico – e impegno per trasformare in una pedagogia la ‘proposta
di vita’ che si sia eletta”33.
A livello della rappresentanza, infine, l’intellettuale-massa, dopo aver ricostruito la storia degli
errori della tradizione rivoluzionaria, dopo aver valutato l’incapacità del PCI anche solo di
difenderne gli interessi come forza-lavoro salariata34, dovrà cominciare a pensarsi come categoria
professionale, iniziando un’attività di sindacalizzazione di massa: perché è nel disconoscimento
della qualità materiale del proprio sfruttamento che passa, infatti, la l’immagine distorta del proprio
ruolo:
traducendo questo ordine di problemi in quello della “categoria” o “ceto” cui apparteniamo (di intellettuali socialmente
disarmati cioè proletarizzati) una nostra possibile azione deve svilupparsi solo come azione, seppure indirettamente,
politica e dunque aver per oggetto la società nel suo complesso o non anche deve porsi delle rivendicazioni immediate
di potere nei confronti della società civile cioè degli “universi” aziendali? Riteniamo o no che il compito, ad esempio,
dello studioso di scienza umane, dell’artista e dello scrittore, dello storico, del filosofo, dell’urbanista, del sociologo
ecc. si esaurisca adiacendo la propria specialità agli organismi politici dello stato nazionale (o nuclei di opinione) o non
debba anche costituire nuclei di potere (di opinione, quindi, ma anche di autorità, rifiuti, condizioni, “contrattazioni”)
nei confronti degli “imprenditori” (centri-studi, editoria, stampa periodica, radio tv, cinema, istituzioni pianificatrici e
35
simili)?
Ricapitolando: La lettera agli amici di Piacenza è un documento importante per comprendere, non
solo l’impostazione generale della riflessione di Fortini degli anni che qui si considerano, ma
soprattutto come si realizzi, per la sua stessa mediazione, una certa prosecuzione dell’esperienza
“Quaderni Rossi” in quella che diventerà la rivista più letta e prestigiosa della nuova sinistra
italiana: “Quaderni Piacentini”. Non c’è dubbio, infatti, come ha scritto Giovanni Bechelloni, che
“la rivista abbia cercato di essere durante tutto l’arco della sua esistenza proprio quel punto di
incontro fra ‘momento autoritativo’ e ‘momento democratico-libertario’ cui Fortini la incitava ad
32
F. Fortini, Lettera agli amici di Piacenza cit., p. 91.
Ibidem.
34
“Si può dire che la rivendicazione ‘genericamente umana’ e non corporativa o professionale o tradunionista del
proletariato, incarnata dai partiti marxisti, nel corso del suo adattamento alle particolari condizioni storiche nazionali
(accettazione del metodo democratico-parlamentare) ha, in una misura da valutarsi, perso il contatto con il luogo di
scontro sia del proletariato industriale sia di quello del neoproletariato ideologico ossia piccolo-borghese” (ivi, p. 93).
35
Ivi, p. 95.
33
7
essere prima della sua nascita”36; e dunque, leggendo le proposte della Lettera col senno di poi, non
si può non riflettere sul potere propositivo che le innerva, sul fatto cioè che “queste cose poi furono
realizzate, che questa rivista fu fatta, che questa comunità intellettuale si costituì, che è durata
vent’anni”37; proposte teoriche, dunque, che hanno prefigurato una comunità politica nuova,
portando un gruppo di giovani intellettuali a “dotarsi di propri strumenti di politica culturale
alternativi sia all’industria culturale sia agli schieramenti politici della sinistra”38.
Sarà lo stesso Fortini, in un intervento del 1974 alla Statale di Milano, a ricostruire il significato
storico e politico della continuità fra queste due riviste nel fatto che, in entrambe, il rifiuto
soggettivo del ruolo e del mandato istituzionale finiva per coincidere, in quel determinato momento
storico, con la distruzione oggettiva di quel medesimo ruolo e di quel medesimo mandato. In altre
parole, una trasformazione profonda della società e dell’economia italiana si rivelava, in quella
forma di attività politica e di conoscenza, come verità, perché contraddizione storica, nello stesso
tempo, vissuta e assunta coscientemente:
Nella misura in cui gli uomini di “Quaderno Rossi” e “Quaderni Piacentini”, in modi diversi ma sostanzialmente
divergenti, hanno dato inizio alla loro opera rifiutando tanto il ruolo del dirigente politico ideologico (la cosiddetta
avanguardia esterna) quanto quello di ideologici di una cultura alternativa; nella misura dunque in cui rompevano con la
tradizione del socialismo e del comunismo di Togliatti (a anche, almeno in un certo modo, con quello di Lenin),
investendosi in una figura dell’intellettuale che non si autodistrugge misticamente né si preparava ad affiancare una
nuova burocrazia politica; in quella misura essi si proposero di interpretare e furono l’interpretazione vivente di una
condizione, di uno stato composito nel quale si univano la tendenziale proletarizzazione degli intellettuali e degli
studenti, la trasformazione dei bisogni delle classi lavoratrici dei paesi industrialmente avanzati e l’accettazione attiva
del fatto che i popoli meno industrialmente sviluppati non sono da considerare – come scrissi allora – il nostro passato
ma il nostro presente39.
III. Astuti come colombe.
Astuti come colombe è uno dei saggi più importanti e famosi dell’intera attività critica di Fortini.
Secondo Asor Rosa, è addirittura “il saggio più bello che, nel campo della contemporaneistica, sia
apparso in Italia in questo dopoguerra”40. L’articolo viene pubblicato nel 1962 sul quinto numero
del “Menabò” di Vittorini e Calvino, numero integralmente dedicato, insieme al precedente, al tema
“Industria e letteratura”. Se le varie posizioni del dibattito (Calvino, Vittorini, Scalia, Eco)
convergono tutte, nonostante differenze anche decise, sulla centralità della fabbrica e del mondo
industriale come soggetto privilegiato del lavoro estetico contemporaneo, nuovo labirinto, secondo
Calvino41, su cui sperimentare forme di rappresentazione adeguate, progetti artistici capaci di
riformare, ricollocandolo a questo livello, il potere conoscitivo della letteratura, secondo Fortini,
viceversa, “se esiste una tematica privilegiata, ossia un ‘tema della nostra epoca’, non esiste invece
nessun soggetto privilegiato a recare quella tematica”42.
Le obiezioni di fondo del ragionamento di Fortini agli sperimentatori razionalisti del “Menabò”
sono sostanzialmente due e riguardano il potere conoscitivo dell’arte e la metamorfosi
socialdemocratica del dominio capitalistico: su entrambi questi piani, le posizioni di Calvino, di
Vittorini, di Scalia, per non parlare di quelle di Eco, non solo rivelano un’insufficienza intellettuale
36
G. Bechelloni, “Quaderni Piacentini”, in Cultura e ideologia della nuova sinistra. Materiali per un intervento della
cultura politica delle riviste del dissenso marxista degli anni sessanta, a cura di G. Bechelloni, Milano, Edizioni
Comunità, 1973, p. 33.
37
S. Bologna, Industria e cultura cit., p. 20.
38
G. Bechelloni, “Quaderni Piacentini” cit., p. 35.
39
F. Fortini, Per le origini di “Quaderni Rossi” e “Quaderni Piacentini” cit., p. 11.
40
A. Asor Rosa, L’uomo, il poeta, in Intellettuali e classe operaia. Saggi sulle forme di uno storico conflitto e di una
possibile alleanza, Firenze, La Nuova Italia, 1971, p. 257.
41
I. Calvino, La sfida al labirinto, “Il Menabò”, 5, 1962.
42
F. Fortini, Astuti come colombe cit., p. 70.
8
manifesta43, ma soprattutto devono essere considerate come la rappresentazione ideologica distorta,
l’apologia inconsapevole, perché in buona fede, di questo nuovo salto qualitativo del comando
capitalistico.
Insomma, la discussione su “Industria e letteratura” deve essere letta come inconsapevole pendant
sul piano critico/estetico di quell’impostazione neopositivista, scientista e tecnocratica che nei vari
Guiducci, Pizzorno, Giolitti ha portato, sul piano politico-istituzionale, all’illusione della possibilità
di una governo democratico dell’economia capitalistica attraverso le riforme di struttura dello Stato.
In entrambi, infatti, la lettura dello sviluppo del Capitale non attraversa il piano della produzione,
cioè dello sfruttamento umano, ma si ferma a quello della circolazione, al piano cioè delle merci,
del diritto, delle istituzioni: le riforme, del linguaggio e del potere, a questo livello, perché fittizie,
sono naturalmente possibili:
Si dice: “L’industria ci annega nella produzione, nelle sue nuove ‘cose’ e provoca ogni sorta di nausee, estraniazioni,
fissazioni sbagliate, mostruosi rapporti con noi medesimi e gli altri”. Mi è sempre parso che la contemplazione
affascinata d’una condizione operaia tutta vista nel rapporto fra uomo e macchina, e l’altra dilettazione incantata, del
calarsi nell’“oggettività”, fossero due tipici errori, o uno solo, del materialismo non dialettico44.
Il primo problema riguarda la teoria della conoscenza presupposta al dibattito, che ne rivela subito
l’orizzonte politico riformista. L’atteggiamento contemplativo di fronte alla società industriale
(tanto nella versione Calvino, che crede possibile potersi calare nel mare dell’oggettività45 e
attraverso il potere della ragione operare, dall’esterno, una riforma ordinatrice dell’esistente; quanto
nella versione Vittorini, che invece riduce il progresso allo sviluppo della tecnica, e dunque, la
modernità industriale al divenire del rapporto uomo/macchina) rivela la separazione dell’interprete
dalla totalità sociale di cui è parte. È, infatti, secondo Fortini, la forma conoscitiva di un soggetto
incapace di oltrepassare la divisione del lavoro, dunque della coscienza, nella quale è costretto; per
questa ragione, nell’attenzione all’universo degli oggetti industriali, ma non certo all’origine umana
degli stessi oggetti, Fortini riconosce l’omissione della storia come prassi, da cui discende,
contemporaneamente, l’implicita proposta di un’antropologia dell’autocoscienza riflessa in se
stessa: entrambi errori antichi, entrambi di derivazione illuminista.
Ma è soprattutto Lukács di Storia e coscienza di classe a metterlo in guardia contro questa
distorsione conoscitiva, nel cui moto di rappresentazione ideologica si nasconde, come rifrazione,
l’arcano della merce, il suo spettrale potere reificante. Eppure, contro di esso, basterebbe ricordarsi
dell’insegnamento del giovane Marx dei Manoscritti secondo cui chi separa soggetto conoscente da
oggetto del conoscere dimentica che “l’oggetto è il sensibile” e che “il sensibile è attività umana,
praxis”46:
Si vuole illuminare il rapporto fra oggetto e utente, fra oggetto e produttore? Perché allora oscurare l’origine umana
degli oggetti? Fossero sensibili alle citazioni di Marx, potrei rammentare ad alcuni amici la Terza glossa a Feuerbach,
dove le conseguenze illuministiche e paternalistiche di quell’errore sono già previste fino alle moderne crociate degli
architetti e dei designers e alle angosce sociologiche di chi atterrito denuncia l’uomo contemporaneo immerso in una
fanghiglia di merci, pur di non dover rammentare che ne è premessa la condizione di merce dell’uomo stesso47.
Il punto di partenza di Fortini è dunque opposto a quello dei redattori del “Menabò”: lo sviluppo
capitalistico non è tanto progresso tecnologico, ma sviluppo dello sfruttamento, non è tanto
invasione di merci nel mondo dell’uomo, quanto riduzione dell’uomo a merce:
Nel vecchio film di Chaplin, tragicomica non è la catena di montaggio, né l’anarchica e ovvia reazione di Charlot, ma la
serietà degli altri operai, il loro interesse al buon andamento produttivo, la persuasione di stare adempiendo un dovere.
43
“Fra i pigmei dell’apparato intellettuale neocapitalistico Fortini si leva come un gigante, ricco di un’esperienza umana
e politica ch’egli non appare disposto a barattare in cambio di speranze assai più facili e profittevoli di quelle da lui
stesso nutrite durante il lungo travaglio progressista” (A. Asor Rosa, L’uomo, il poeta cit., p. 257).
44
F. Fortini, Astuti come colombe cit., p. 68.
45
I. Calvino, Il mare dell’oggettività, in “Il Menabò”, 2, 1960.
46
F. Fortini, Astuti come colombe cit., p. 68.
47
Ibidem.
9
Perché non sono alienati dalle macchine ma dai padroni delle macchine. (è uno dei punti di contatto, fra i molti, di
Chaplin e Brecht). Che l’industria non produce soltanto oggetti ma rapporti umani e “idee” vogliamo rammentarlo? […]
E, fra quelle idee, anche l’idea che le cose abbiano una importanza decisiva per l’uomo, non come risposta ad un
48
bisogno “umano”, ma “in sé” .
Correttamente, da un punto di vista marxiano, Fortini imposta un’analisi della società capitalistica
come sistema unitario di produzione di merci, di produzione di rapporti sociali e di produzione di
rappresentazioni ideologiche. L’alienazione non è, dunque, come per Vittorini e Calvino, semplice
disorientamento antropologico in un mondo artificiale, né tantomeno ontologica oggettivazione
hegeliana, come invece in Umberto Eco49.
Per Fortini, l’alienazione capitalistica discende da un preciso rapporto di produzione; è
quest’ultimo, infatti, che, mentre espropria il lavoratore della sua produzione materiale
contemporaneamente dissimula questo furto, attraverso una espropriazione della coscienza:
Come si fa a parlare di industria e letteratura senza essere d’accordo almeno su questo (ma è quasi tutto): che le forme, i
modi, i tempi della produzione industriale e i suoi rapporti sono la forma stessa della vita sociale, il contente storico di
tutto il nostro contenuto e non semplicemente un aspetto della realtà? Che le strutture economiche – nel nostro caso
capitalistiche e quindi industriali – sono né più né meno che l’inconscio sociale, cioè il vero inconscio, il mistero dei
misteri? 50
Se dunque l’economia politica è “il mistero stesso della nostra vita, l’essenza che giace sotto il
fenomenico”51, lo scopo della riflessione critica è nientemeno che la ricostruzione dei nessi
complessi e storicamente articolati attraverso cui un processo di trasformazione materiale agisce sul
presente auto-dissimulando se stesso. Ancora una volta l’insegnamento di Adorno si sovrappone a
quello di Panzieri e Tronti: le strutture economiche occultandosi si rivelano, nella loro potenza,
come inconscio sociale del presente52. Ma se questo è vero, non è pensabile che il rapporto fra arte e
mondo contemporaneo si possa ridurre semplicemente alla rappresentazione privilegiata e
didascalica del mondo industriale. E non solo perché, come insegna Mario Tronti, “quando tutta la
società viene ridotta a fabbrica, la fabbrica – in quanto tale – sembra sparire”53; ma soprattutto
perché “l’industria non è un tema, è la manifestazione del tema che si chiama capitalismo”54.
Il rapporto fra arte e sviluppo capitalistico deve essere dunque pensato in termini completamente
diversi, tornando a Lukács, e cioè allo specifico potere di conoscenza che la forma artistica porta
con sé, indipendentemente dal pretesto e dal soggetto specifico della sua elaborazione. Il potere
conoscitivo dell’arte è contenuto nella sua forma, come interpretazione soggettiva e metaforica
della verità dell’esperienza umana in un dato presente storico. Il suo fine, dunque, in un mondo
industrializzato, non è la descrizione di oggetti nuovi, di spazi nuovi o di gesti umani nuovi, ma
l’interpretazione nella forma più adeguata possibile di quei nuovi rapporti (sentimenti, valori,
pensieri) fra gli uomini che lo sviluppo capitalistico ha indotto.
Ancora una volta, l’incrocio di estetica ed economia politica, in Fortini, diventa arma potente per
disoccultare, nella manipolazione del simbolico, l’azione capitalistica come auto-dissimulazione,
riconducendone il moto alla ragione strutturale: l’intensificazione del comando. E così, la tesi
trontiana dell’integrazione diretta del conflitto e della mediazione politica nell’autogestione
capitalistica dello Stato viene portata e verificata da Fortini sul piano culturale: le specifiche
tematiche progressiste (la vita di fabbrica, l’alienazione operaia, l’invasione degli oggetti nella vita
48
Ivi, p. 69.
U. Eco, Del modo di formare come impegno sulla realtà, “Il Menabò”, 5 cit..
50
F. Fortini, Astuti come colombe cit., p. 79.
51
Ivi, p. 75.
52
“Chi vuole apprendere la verità sulla vita immediata, deve scrutare la sua forma alienata, le potenze oggettive che
determinano l’esistenza individuale fin negli anditi più riposti […]; nella società individualistica, non solo l’universale
si realizza attraverso l’azione reciproca dei singoli, ma la società è la sostanza stessa dell’individuo” (Th.W. Adorno,
Minima moralia. Meditazioni della vita offesa [1954], Torino, Einaudi, 1994, pp. 3-6).
53
M. Tronti, La fabbrica e la società cit., p. 52.
54
F. Fortini, Astuti come colombe cit., p. 75.
49
10
quotidiana) al centro del dibattito “Industria e letteratura”, per l’angolazione che ricevono,
partecipano, infatti, del medesimo moto di integrazione:
È essenziale che in un discorso autorevole, su di una rivista di alta qualità letteraria, si discorra di industria moderna e
dei suoi rapporti con l’espressione letteraria parlano bensì di alienazione, reificazione, «tristezza operaia», democraticità
a tutti i livelli e transindustria, ma non di criteri capitalistici di produzione, di acquisto della forza-lavoro, di plusvalore,
di pianificazione capitalistica, di rapporto fra investimenti e azione sindacale, eccetera. Questo contesto di
argomentazioni e di omissioni è oggettivamente una parte della ideologia che l’attuale fase di sviluppo dell’industria
neocapitalistica induce nella società italiana55.
Ma cosa nasconde, a livello critico-estetico, questo nuovo moto di integrazione? Quali sono i gruppi
sociali coinvolti e quale lo sfruttamento specifico a cui sono costretti? E ancora: in quale distorsione
simbolica, in quale effetto ideologico preciso si rivela il potere coartante dell’autogestione
capitalistica del consenso?
Innanzitutto, per Fortini, in un perfetto ribaltamento dialettico, tutta la discussione su “Industria e
letteratura” nasconde e nello stesso tempo rivela, nientemeno, che l’industrializzazione della
letteratura stessa56, o meglio, la trasformazione sociale dello scrittore/intellettuale in lavoratore
salariato dipendente dall’industria culturale:
Per un discorso su industria e letteratura sarebbe interessante un ragionamento, magari statistico, sui mutamenti (che
credo grandi) intervenuti nello status economico e sociale degli scrittori entro la società italiana dell’ultimo ventennio e
decennio. Sembra molto probabile che il rapporto personale con l’industria, come fonte di reddito, sia divenuto molto
più frequente e decisivo, se non per lo scrittore che vive della penna, almeno per tutto l’ambiente intellettuale che è il
suo, donde spesso esce, cui spesso si commette, e nel quale si è nominati scrittori. Basta confrontare quello di oggi col
mondo letterario o semplicemente colto, di cinquant’anni fa. Cinema, radio tv, grande editoria periodica, uffici stampa e
centri studi delle industrie: lo scrittore non dipende più oggi, insegnante o funzionario, dallo Stato come rappresentante
della collettività, che interveniva con la cattedra, l’incarico, l’erogazione; né dal reddito agrario, col suo carattere di
aristocratica eternità; e neppure dalla lotta politica delle militanze politiche: ma direttamente dall’industria culturale
privata o di Stato. E questo però, almeno nell’editoria – per la complessità, suddivisione e articolazione del meccanismo
57
produttivo – consente tuttora l’illusione dell’individualismo artigianale .
Naturalmente questo processo di trasformazione sociale si determina attraverso gradi diversi di
retribuzione di ricchezza, di gerarchia e di sfruttamento, di potere e di status. Eppure, Fortini
individua subito il cuore dell’incantesimo che dissimula l’integrazione: il mantenimento, dovuto
alla natura specifica dell’industria culturale, dell’illusione dell’individualismo artigianale.
Questo è un punto fondamentale: Fortini intuisce che in una condizione di totalizzazione
capitalistica “essere intellettuali significa essenzialmente usufruire del privilegio di non vedere
soppressa formalmente la soggettività di cui si è stati oggettivamente spogliati”58. E questo significa
che per la natura sostanzialmente manifatturiera dell’industria culturale, per il persistere cioè, al suo
interno, di un modo soggettivo di organizzazione del lavoro che eleva il mestiere a perfezione
meccanica, senza tuttavia disarticolarlo, la dissimulazione ideologica dello sfruttamento è pressoché
totale: “nella misura in cui persiste l’illusione di essere l’artefice di ciò che produce, e finché non
viene spezzato il cerchio dell’automistificazione, l’intellettuale non ravvisa nel suo prodotto la
proiezione del potere che il capitale esercita su di lui, ma un’immagine con la quale identificarsi”59
Il meccanismo attraverso cui si attua la cooptazione ideologica non è dunque diretto, ma mistificato:
gli intellettuali devono essere espropriati innanzitutto della coscienza del proprio sfruttamento
55
Ivi, pp. 79-80.
Come scrive, molto esplicitamente, nel saggio Verifica dei poteri: “Alla motorizzazione la società letteraria ha
resistito anche meno dei nostri storici centri urbani […] Da noi invece, fino ad ieri almeno, molti critici militanti
credevano ancora di correre con la maglia del marxismo e dello spiritualismo cattolico e non sapevano di aver già
stampato, sulla schiena, il nome di una ditta di tubolari della cultura o di dentifrici letterari” (F. Fortini, Verifica dei
poteri, in Verifica dei poteri cit., pp. 42-43).
57
F. Fortini, Astuti come colombe cit., p. 72.
58
S. Piccone Stella, Intellettuali e capitale, Bari, De Donato, 1972, p. 186.
59
Ivi, p. 189.
56
11
perché possa essere estratto valore dal prodotto del loro lavoro. Anche su questo punto, Fortini è
chiarissimo:
Il vero rapporto fra gli uomini di lettere e l’industria non avviene nell’editoria e nemmeno, a rigore, negli impieghi; si
celebra nella inafferrabile aura ideologica indotta dalle corporations. Ed è superfluo dire che l’uomo di lettere è tanto
meno portato ad ammetterlo quanto più quella stessa ideologia tende a proclamarlo artigianalmente indipendente e ad
60
isolarlo in una «riserva indiana» di umanità e spontaneità .
Ed è evidente, altresì, che l’“effetto di conoscenza” indotto dalle corporations, quest’aura di sapere
contemplativo che non è altro se non la distorsione simbolica del proprio reale sfruttamento, blocca
di fatto, come spiega molto bene Bourdieu61, la possibilità stessa dell’azione politica, perché
impedisce il riconoscimento comune della subalternità: in altri termini, è l’arma simbolica
attraverso cui il dominio si naturalizza e si tramanda nei dominati.
Se, dunque, Fortini è riuscito a curvare fino a questo livello l’ordine del discorso all’interno di un
dibattito fra scrittori e critici sul rapporto fra industria e letteratura, considerando le forme
specifiche di sfruttamento e di coartazione simbolica nella quale è costretto il lavoro intellettuale, il
suo ragionamento si sposta ora sugli effetti di consumo ideologico indotto (sono “le leggi
socioeconomiche che in un dato contesto determinano o tendono a determinare questo piuttosto che
quel consumo – ivi compresi i consumi ideologici; e il ‘Menabò’ medesimo”62) che questo tipo di
organizzazione della cultura determina sulla società in generale, nonché sul suo vero significato
politico.
La sua riflessione è pressappoco la seguente: in Occidente, la società del benessere, la
democratizzazione della società civile è un fenomeno indotto, non consapevolmente scelto, né
tantomeno partecipato. A chi giova tutto questo? Quale lo scopo vero della costruzione di un
sistema sociale integrato dove produzione industriale, intervento statale e contrattazione collettiva
nazionale apparentemente cooperano? Nello stesso tempo, esiste un rapporto fra questo processo e
il fatto che su una rivista di teoria letteraria si discuta di problemi industriali, di società delle
macchine, di alienazione, ma solo come problemi culturali, da risolvere linguisticamente, non certo
politicamente?
La risposta, per Fortini, va naturalmente cercata alla radice, il filo che lega e incastra i nessi resi
invisibili, se ricomposto, conduce direttamente al piano della produzione. Se, infatti, fin dai tempi di
“Ragionamenti”, era chiaro che lo sviluppo neocapitalistico portava con sé, come innovazione, la
propria pianificazione; ora, a Fortini, Panzieri e Tronti insegnano che nella riforma capitalistica
dello Stato, come nell’integrazione eterodiretta dell’intera società nel sistema produttivo, si
determina, nientemeno, che un salto qualitativo, perché agente sulle mediazioni stesse, del comando
e del dispotismo del Capitale: e questo salto agisce, naturalmente, anche sulle mediazioni
ideologiche, imponendo un gioco di rifrazione per cui la modernità industriale, che vive sullo
sfruttamento generalizzato del lavoro vivo dell’intera società, assume una fatalità razionale da
contemplare, da conoscere attraverso un aggiornamento disciplinare (epistemologia, antropologia,
sociologia, psicologia, linguistica) che impone, non a caso, la sospensione della storicità e
dell’universalità dall’esperienza del conoscere. La totalità della vita come universalità del genere
deve essere oscurata.
Nel nuovo frontismo progressista63, si può parlare di società industriale, ma non di sfruttamento; di
democrazia politica, di diritti civili, ma non certo di controllo democratico della politica monetaria,
60
F. Fortini, Astuti come colombe cit., p. 81.
“Oggetto di conoscenza per gli agenti che lo praticano, il mondo economico e sociale esercita un’azione che prende la
forma non di una determinazione meccanica, ma di un effetto di conoscenza. È chiaro che, almeno nel caso dei
dominati, questo effetto non tende a favorire l’azione politica” (P. BOURDIEU, Descrivere e perscrivere: le condizioni di
possibilità e i limiti dell’effetualità politica in La parola e il potere, Napoli, Guida, 1988, p. 121).
62
F. Fortini, Astuti come colombe cit., p. 79.
63
“Oggi si riproduce invece ed esattamente la situazione che fu degli anni fra il 1934 e il 1939, quando, isolate le ali
estreme degli scrittori fascisti ingenui ed espliciti e quelle degli antifascisti dichiarati (d’altronde silenziosi e
perifrastici) la grandissima maggioranza degli uomini di cultura era fascista e antifascista nello stesso tempo,
61
12
dell’attività bancaria, della produzione economica; di coesistenza pacifica fra sistema capitalistico e
mondo socialista, ma non certo di comunismo come liberazione mondiale del genere umano:
l’ordine del discorso imposto presuppone, insomma, un universo armonico di dialogo e razionalità;
nessuno vuole, spera o teme più “cercare, nella società che abbiamo intorno, ‘l’anello che non
tiene’”64.
Naturalmente, per Fortini “l’anello che non tiene” esiste65, non è allontanato, come in Montale,
nella metafisica del male di vivere, ma è ancorato nel presente, nascosto nell’astratto di un
meccanismo economico che si auto-dissimula e che può perfino assumere, quanto meno in
Occidente, l’aspetto illusorio della democrazia, della cultura e del benessere:
Affermare che per una contraddizione inerente alla loro medesima esistenza le forme più evolute del capitalismo
odierno sono incapaci di fondare una società di persone invece che di mansioni; e che si tratta di risolvere in Europa
occidentale e dunque nel nostro paese proprio quei problemi che proprio la formazione degli Stati socialisti e la
comparsa del Terzo Mondo hanno lasciati insoluti da noi, ossia i problemi di un progresso «non moderno» e «non
fondato sul benessere», questo significa affermare che la letteratura non può accettare lo status che il neocapitalismo le
ha offerto66.
Seguendo la logica di questo ragionamento, è evidente che, per Fortini, accettare l’integrazione
dell’arte nell’industria culturale significa accettare il suo sviluppo formale, la sua riforma
linguistica, la sua modernizzazione contenutistica come fatalità, senza coglierne il comando, la
direzione imposta: la sua trasformazione, cioè, in strumento di compensazione simbolica
dell’alienazione:
Se si è persuasi che la maggior caratteristica ideologica delle forze economicamente e politicamente oggi in Italia
dominanti è l’assorbimento o la neutralizzazione di qualsiasi contestazione o negazione che si presenti come
tendenzialmente universale, dovrebbe esser chiaro che il primo modo di frustrare le aspettative di quelle forze è quello
67
di non fornire gli alibi letterari e la buona coscienza progressiva di cui esse hanno (e sempre più avranno) bisogno .
A questo punto, una volta corrose le false immagini che lo oscurano, il presente torna ad essere
spazio della potenza, e non della fatalità; luogo della possibilità dell’azione e della conoscenza (“la
lotta per il comunismo ricomincia ora”68). Diventa necessario, dunque, contro la falsa
modernizzazione progressista, armarsi del massimo potere conoscitivo possibile proveniente tanto
dell’estetica – che è lavoro autoriflessivo sul soggetto; quanto dell’economia politica – che è lavoro
autoriflessivo sull’oggetto; cercando, nella seconda, la strada per aggredire le contraddizioni
occultate, dunque l’azione:
Capire il mondo intorno a sé è anche occuparsi di industria, fabbriche, operai, lotte sindacali e politiche. È agirvi dentro.
Credo che questo debba essere fatto. E non negare mai la propria parola, dove ci sia possibilità vera di recare offesa
69
salutare agli offensori e giusta ingiustizia agli ingiusti .
E preservando nella prima, una possibilità di essere, una proposta qualitativa, perché universale, di
senso, accuratamente protetta, in una metamorfosi formale che la potenzi rendendola
irriconoscibile, dalle mistificazioni didascaliche progressiste:
commensale dell’autorità qualche volta e qualche altra al limite dell’ammonimento di questura o federazione” (Ivi, p.
81).
64
Ivi, p. 83.
65
“Negli ultimi dieci, quindici anni […] ognuno di noi è entrato a far parte dell’amalgama, della concrezione
cementizia, del conglomerato. Dove passano la crepa, il solco, la spaccatura? Quella che, secondo il Vangelo, mette
padre contro figlio e fratello contro fratello; e, secondo Hegel, gli uomini in lotta mortale per il riconoscimento; e,
secondo Marx, le classi in conflitto fino alla negazione delle classi?” (ibidem).
66
Ivi, p.84
67
F. Fortini, Astuti come colombe cit., p. 86.
68
Ivi, p. 84.
69
Ivi, p. 87.
13
Mi chiedo se non si debba cercare di preservare le residue capacità rivoluzionarie del linguaggio in una nuova
estraniazione, diversa da quella brechtiana ma su quella orientata. Le poetiche dell’occulto e dell’ermetico potrebbero
essere paradossalmente, e fra scoppi di risa, riabilitate. Farsi candidi come volpi e astuti come colombe. Confondere le
piste, le identità. Avvelenare i pozzi70.
Ma tra l’una e l’altra, tra conoscenza estetica e conoscenza economica, non deve essere preteso
nessun tipo di rapporto; i piani devono restare tanto più separati, quanto più l’integrazione è
totalizzante:
Lo scrittore di cui dico, proprio perché sa che cosa l’industria sia, sa che parlarne è come parlare del proprio io più
profondo; e che dunque solo una lunga catena di metafore può rischiare quel discorso. Tra la conoscenza-per-l’azione di
cui ha bisogno ogni azione che si voglia rivoluzionaria – e dunque conoscenza scientifica o che si pretenda tale – e la
particolare conoscenza che (del mondo industriale) può venire dalla letteratura […] non credo affatto né necessario né
utile stabilire un rapporto diretto71.
Del resto, è questa una fase storica dell’attività critica di Fortini dove gli interlocutori pretesi dalla
scrittura sono invisibili, perché la comunicazione politica sembra chiudersi in un universo di
contraddizioni false, tutte interne alla medesima sfera di dominio; e lo spazio di comunicazione
aperto dalle lotte operaie e studentesche degli anni successivi non è ancora neppure immaginabile.
In una condizione, dunque, di integrazione senza controforze visibili, la comunicazione fra gli
uomini perde la possibilità di essere diretta, e si proietta, inevitabilmente, su tempi lunghi. Attende
il futuro.
Compito del critico sarà dunque armare la verità di forma, renderla ambigua per impedirne
l’immediata disattivazione: perché in un presente così oscurato, la verità deve essere protetta, deve
contenere nell’apparente leggerezza formale una “parte metallica”:
in quello che scrivo, o che altri scriverà, ci potrà essere, come la lima fine d’acciaio nascosta nella pagnotta
dell’ergastolano, una parte metallica. Che possa appropriarsene solo chi l’abbia chiesta; e per questo meritata.
72
Contrabbandata sotto specie che tutti, anche i nemici, possono comunicare; ma solo a lui e a quelli come lui destinata .
Ma armare la verità di forma è, nello stesso tempo, compito dello scrittore. L’attività estetica, per
impedire la propria integrazione, dovrà ostentare, secondo Fortini, una estraniazione formale tale da
renderla inavvicinabile ad un buon uso progressista, preservando tuttavia, nelle spine, l’immagine
della rosa, la coscienza di quello che potrebbe essere l’uomo in un mondo liberato dallo
sfruttamento: “vorrei che a leggere una mia poesia sulle rose si ritraesse la mano come al viscido di
un rettile”73.
Ed è La poesia delle rose74, appunto, il testo poetico a cui direttamente si riferisce Astuti come
colombe, testo poetico che assume, nel corpus degli scritti di Fortini di questo periodo, un valore
allegorico: in un presente storico che impedisce una comunicazione autentica fra gli uomini (“Qui
abito / dove una notte l’incenerirsi del secolo / persuade, e mi stermina lenta e tremo”), dimostra,
infatti, la possibilità di preservare, nell’estetico, la verità del comunismo e di proiettarla, protetta e
incastellata in una forma altamente sofisticata, nel futuro.
Il sottotesto implicito, una citazione di Marx dai Manoscritti (“La società è l’unità essenziale, giunta
al proprio compimento, dell’uomo con la natura, la vera resurrezione della natura”), sviluppa in un
poemetto in ottave (dunque in una forma classica) in versi liberi, ma convergenti sull’endecasillabo
(dunque in una figura di ordine e di equilibrio), un discorso sulle possibilità e sulle illusioni
dell’integrazione, sui falsi modi di anticipare e di percepire la libertà (“accarezzali i simboli deformi
/ dell’avvenire, sino a non più vedere / tu che ti accechi se li fissi e rantoli/con loro”) che un
70
Ibidem.
Ivi, p. 85.
72
Ivi, p. 88.
73
Ivi, p. 87.
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F. Fortini,., La poesia delle rose, in Una volta per sempre, Torino, Einaudi, 1978, pp. 263-270
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soggetto è costretto ad attraversare fino a raggiungere, nel presente, una corretta rappresentazione di
sé, nella coscienza che “il massimo che può fare è rivendicare tutta intera la propria presenza”75:
E no. Ultimi fiumi d’un ironico inferno,
precipitate, fontane, gli scrosci.
Torna uno il vero? Fuggite, allegorie.
Dovevi saperlo, saresti tornato
a scegliere il gelo, il volere e la spina,
univoci i nomi, la scienza possibile
e lenta, il sole che imbianca Indo e Nilo,
il dente della storia impercettibile.
Ma come domani saprò riconoscere
le rose uccise, le vive? Mi volgo di qui
dov’è passata, e tornerà, la mia demenza:
anche per essa chiedo giustizia e amore.
Voi in sonno ancora: voglio che nulla si perda.
Anche se sempre, se senza pietà dell’aurora
che tanto deboli laggiù fa i lumi
di posizioni dell’alte cilindrate,
gli àcari stritolano i grumi,
le cetonie triturano l’avvenire
con le minuscole branche; se colpa e speranza
sono un unico male che ci separa e ostina,
che da noi sale le cime dei salici
e le macera. L’aria è fine e nera.
Viva la rosa della primavera.
E viva l’erba, il fiore, i baci, il dolore76
Le tre ottave, che concludono, di fatto, il senso della composizione, descrivono, dopo un lungo
itinerario di ascesi e di degradazione, di ricomposizione illusoria e di scomposizione senza
speranza, la presenza del soggetto a se stesso; un’immagine possibile di uomo, consapevole di
vivere integralmente nella storia che lo “tritura” – come le cetonie l’avvenire – e rapidamente lo
corrode; ma anche di essere un soggetto, che attraverso la coscienza, sa interpretarsi, sa
proporzionare la propria incapacità di capire (“la mia demenza”) con la necessità di cercare una
conoscenza univoca, che sappia ricomporre il rapporto fra cose e nomi, nella storia grande
proporzionare il rapporto fra vita vissuta e realtà (“il dente della storia impercettibile”). Finitudine,
limiti e insieme potenza del soggetto: questa è la verità che non deve essere perduta (“voi in sonno
ancora: voglio che nulla si perda”).
Ricapitolando: se, da un lato, la discussione su industria e letteratura rivela, nel suo occultarsi, la
trasformazione sociale dello scrittore/intellettuale, dall’altro dimostra l’incorporazione della
riflessione ideologica nello sviluppo stesso della razionalità capitalistica: come per i socialisti alla
Pizzorno lo sviluppo economico può essere corretto ed equilibrato dall’esterno senza intervenire
sulla produzione, dunque sullo sfruttamento, allo stesso modo per i progressisti alla Calvino o alla
Vittorini la riflessione critica e l’arte devono essere riformate, razionalizzate attraverso
antropologia, linguistica, sociologia, psicologia e orientate nella rappresentazione del mondo
industriale, della vita di fabbrica, dell’alienazione. Il problema è che in entrambi i casi (riforma
politica e riforma estetica) il comando capitalistico sulla vita umana resta tale e quale; anzi si
cementa in un’immagine falsamente democratica.
La rosa, allegoria della trasformazione della coscienza che si libera, dunque della lotta per il
comunismo, (“centifolia rosa indivisa / che già la mente incredula abbagli”) in un presente di
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A. Asor Rosa, Fortini e le rose, in Per Franco Fortini, a cura di C. Fini, Padova, Liviana Editrice, 1980, p. 45.
F. Fortini, La poesia delle rose cit., 7., p. 269.
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“uomini opachi avviati sui lastrici” può solo indicare, per ora proteggendolo, il senso universale
della vita nel presente e della sua liberazione futura.
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