Frontiere della comunicazione di marketing

annuncio pubblicitario
Introduzione allo special issue
Frontiere
della comunicazione
di marketing
Francesca Golfetto
Professore Ordinario
U NIVERSITÀ B OCCONI
Diego Rinallo
Assistant Professor
U NIVERSITÀ B OCCONI
Dting sta affrontando nuove sfide. I vecchi modelli, improna qualche tempo, il mondo della comunicazione di marke-
tati a certezze consolidate nel tempo, hanno dovuto cedere il
passo al dubbio –“divinità discreta”, come la definisce De
Crescenzo (1992), pronta a mettersi in gioco e cambiare opinione non appena i fatti dimostrano che le vecchie idee non
sono più al passo con la realtà. E di mutamenti in atto ce ne
sono parecchi: è cambiato il consumatore, sono mutati i principi ispiratori e le logiche d’azione, e si è reso di conseguenza
necessario un ripensamento di media e strumenti.
Il consumatore è molto più sofisticato che in passato. Da destinatario passivo dei messaggi si è fatto creatore ed emittente
a sua volta di nuovi messaggi, che possono anche sopraffare
quelli “ufficiali” emanati dalle aziende. Riuniti in collettività definite dalla letteratura come tribù, comunità, subculture di consumo, e grazie anche alle nuove tecnologie e alla diffusione dei
social media, i consumatori hanno trovato nuovi modi di far sentire la propria voce. Sempre più critici, riescono a mobilitare
l’opinione pubblica fino ad arrivare, nei casi più estremi, a vere e proprie operazioni di boicottaggio contro aziende e brand
ritenuti “colpevoli” di scarsa autenticità o di pratiche poco etiche.
Di fronte a questi cambiamenti, si sono da tempo diffusi approcci al marketing che fanno leva su parole chiave come relazioni, esperienze, comunità, autenticità. Tali approcci hanno
conseguenze sul mix di comunicazione, che vede diminuire gli
investimenti nella pubblicità sui media tradizionali a fronte di
nuovi strumenti (web 2.0, eventi, iniziative di guerrilla e virali, e numerosi altri) che richiedono un ripensamento degli obiettivi, delle strategie creative, e del communication mix. L’obiettivo di questo articolo è di discutere in chiave critica i princiF M P
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pali cambiamenti in atto, al fine di collocare i contributi in questo special issue in un quadro pi• ampio.
La comunicazione di fronte al postmodernismo e alle comunità
di consumatori
Pur senza voler riproporre il mito nostalgico di unÕetˆ dellÕoro
mai esistita, qualche decennio fa chi si occupava di comunicazione di marketing si trovava a gestire una situazione per molti
versi meno complessa di quella attuale. La pubblicitˆ era il principale strumento di comunicazione, se non lÕunico. I consumatori comunicavano poco tra di loro Ð opinion leadership e passaparola erano giˆ allora fenomeni importanti, ma la loro portata era limitata alla rete di rapporti sociali di ciascuno. La
societˆ stessa era pi• omogenea, e le variabili sociologiche tipiche (etˆ, genere, classe e via dicendo) potevano supportare validamente le operazioni di segmentazione e targeting. Pi• in
generale, il consumatore guardava con una certa fiducia al futuro, mentre la diffidenza nei confronti di brand e multinazionali, il movimento no global, i timori sulle conseguenze ambientali del consumismo erano tutti fenomeni ancora agli albori.
Oggi, invece, marketing e comunicazione devono fare i conti con un consumatore pi• critico, difficile da persuadere, e interconnesso. Diversi sono gli autori che hanno interpretato i
cambiamenti in atto come improntati a caratteristiche postmoderne (tra gli altri, si vedano Brown, 1993; Firat e Venkatesh,
1995; Cova, 1997; Podestˆ e Addis, 2003; Addis e Podestˆ,
2005; Featherstone, 2007; Fabris 2003, 2008). Di fronte alla
Òmorte del soggettoÓ e allÕiper-frammentazione della consapevolezza del consumatore, i brand si propongono spesso come
fornitori di risorse culturali attraverso cui i consumatori possono esprimere e ricostruire la propria mutevole identitˆ (Holt,
2002). Basandosi su Eco, Baudrillard e Debord, le analisi di
stampo postmodernista celebrano il primato dellÕimmagine, del
simbolico, dellÕiper-realtˆ, delle simulazioni e dei simulacri nella nostra cultura. La comunicazione di marketing •, tra le altre
cose, produzione di simboli e immagini, e dunque • uno dei
motori propulsori - nel bene e nel male - dei cambiamenti in
atto. Eppure, il suo potere nel definire il senso del consumo •
molto pi• limitato che in passato.
Da una parte, il consumatore non • pi• (ammesso che lo sia
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mai stato) un destinatario passivo della comunicazione di marketing. Grazie alle nuove tecnologie di connessione, il modello
classico da uno a molti della pubblicità si è trasformato in un
modello da molti a molti, che vede i consumatori come emittenti di informazioni, notizie, rumor, storie a proposito dei
brand più amati (ma anche di quelli odiati). La portata di tali
flussi di informazione è globale: ad esempio, quello che succede nella fabbrica di un paese in via di sviluppo viene portato a
conoscenza di tutti i consumatori nei paesi sviluppati, istantaneamente, grazie a pagine web, email, newsgroup e, più di recente, blog, tweet e post su Facebook. I processi di diffusione
delle informazioni e di costruzione del significato diventano
quindi meno gerarchici, mentre aziende e brand rappresentano
poche voci tra tante – e non sempre quelle più autorevoli e influenti.
Dall’altra parte, nella società postmoderna, il consumo diventa il collante di varie forme di comunità, il cui studio costituisce uno degli sviluppi più affascinanti della ricerca sul consumatore. Quello di comunità è un concetto polisemico, al centro
di numerose prospettive teoriche in sociologia, antropologia e
scienze politiche già a partire dalla fine del XIX secolo. Gli studiosi di cultura di consumo (Arnould e Thompson, 2005), basandosi sul lavoro di teorici come Weber e Tönnies e sulle idee
di Maffesoli sul neotribalismo, negli ultimi decenni hanno messo in luce la dimensione sociale del consumo e l’esistenza di varie collettività di consumatori, di volta in volta definite tribù di
consumo (Cova e Cova, 2002; Cova, Kozinets e Shankar,
2007), subculture di consumo (Schouten and McAlexander,
1995) e brand community (Muniz and O'Guinn, 2001). Internet e i social media facilitano l’emergere di queste comunità sia
online che dal vivo, ed esse sono spesso propiziate dalle imprese nell’ambito delle proprie strategie di comunicazione e sempre più utilizzate come piattaforme per la ricerca di mercato e
l’innovazione sui prodotti (Berthon et al., 2007; Cucco e Dalli, 2008).
La comunicazione gioca un ruolo importante nella creazione
e nel mantenimento della relazione tra aziende e comunità. Eppure, gli approcci classici alla comunicazione top down mal si
adattano alle istanze orizzontali che si respirano nelle comunità. In un recente contributo su Harvard Business Review, Fournier
e Lee (2009) suggeriscono che le brand community non possoF M P
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no essere considerate strumenti di marketing (e men che mai
di comunicazione). Per funzionare veramente, sostengono le Autrici, tali comunitˆ devono essere poste al centro della strategia del brand: un sito web, gestito in outsourcing, non • di certo sufficiente a creare una comunitˆ. In molti casi, inoltre, i
brand non costituiscono il collante della comunitˆ (e in questo
senso, le brand community sono un caso estremo, lÕeccezione
pi• che la norma) e gli atteggiamenti nei confronti delle singole marche possono variare (Kates, 2004): alcuni possono essere tenuti in alta considerazione come supporter, amici, eroi o
emanazione stessa della comunitˆ, mentre altri osteggiati e considerati nemici da combattere. In questi casi, lÕadozione di modelli di comunicazione a due vie diventa ancora pi• importante. La legittimazione di un brand allÕinterno di una comunitˆ •
infatti un processo lungo, che richiede sforzi e investimenti protratti nel tempo e in cui risulta di massima importanza la valenza comunicativa dei comportamenti (Golfetto, 1993). La questione dei modelli manageriali pi• adatti per la gestione del rapporto tra brand e comunitˆ • ancora aperta e, come si vedrˆ
sotto, alcuni degli articoli dello special issue contribuiscono al
dibattito in materia.
Il rapporto tra strumenti vecchi e nuovi
I cambiamenti nel consumo sin qui tratteggiati hanno determinato importanti ripensamenti nelle strategie e nel mix di
comunicazione delle imprese. La pubblicitˆ sui mass media (tv,
radio, stampa, affissioni), pur assorbendo ancora la maggioranza degli investimenti promozionali, ha visto ridurre nel corso
dei decenni la propria quota sul budget di comunicazione aziendale. La sottostante diversificazione del communication mix •
per molti versi una risposta ai numerosi limiti della pubblicitˆ:
nondimeno, i nuovi strumenti si trovano ancora in una posizione di ÒsudditanzaÓ. Nei libri di testo di comunicazione di marketing, la pubblicitˆ • ancora il primo strumento trattato, e
quello a cui viene dedicato il maggior numero di pagine. Per
lo pi•, gli altri strumenti vengono definiti in negativo, per differenza rispetto alla pubblicitˆ. La stessa distinzione tra above e
below the line • figlia di un periodo in cui gli altri strumenti
erano marginali rispetto alla pubblicitˆ e venivano collocati in
una unica categoria residuale.
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Ciò genera lentezza e ritardi nei cambiamenti necessari per
una gestione della comunicazione al passo con i tempi. L’investimento in pubblicità è ormai una pratica legittimata e istituzionalizzata in azienda, che raramente viene messa in discussione; per contro, ai nuovi strumenti spetta, per così dire,
l’onere della prova: occorre dimostrarne l’efficacia, spesso nel
breve termine e in maniera quantitativa, tutto a rischio del manager che innova. Più in generale, la supremazia della pubblicità si manifesta in una forma di rigidità cognitiva per cui si continuano ad applicare modelli d’azione, sviluppati con riferimento alla pubblicità, che possono risultare sub-ottimali se applicati ai nuovi strumenti. Ad esempio, come già ricordato sopra, la
logica verticale, a una via, della pubblicità sui media classici mal
si adatta alla gestione delle comunità di consumatori e, più in
generale, ai social media; la ripetizione continua del messaggio,
tipica della pianificazione sui media classici, può essere controproducente se applicata all’email marketing o al product placement cinematografico; e così via.
Va però notato che la sudditanza dei nuovi strumenti non avviene senza tentativi di contestazione, come dimostra la diffusione, sia in letteratura che tra i practitioner, di nuovi modi di
concepire la comunicazione di marketing. Passiamone in rassegna alcuni. In un innovativo libro di testo, O’Guinn, Allen e
Semenik (2008) licenziano l’idea della comunicazione integrata
di marketing che, a partire dagli anni ’90, aveva costituito il primo tentativo di decentrare la pubblicità. Essi propongono invece di sostituirla con quella di integrated brand promotions. Se
entrambi gli approcci riconoscono la necessità di coordinare in
maniera sinergica diversi strumenti, nell’idea di integrated brand
promotion viene posta minor enfasi sul processo (la comunicazione) per focalizzare il risultato (il rafforzamento della notorietà e immagine del brand). Anche l’approccio media neutral alla comunicazione di marketing (Saunders, 2004a,b) porta a una
minor enfasi sulla pubblicità classica. I fautori dell’approccio propongono di abbandonare la divisione del budget di comunicazione tra advertising e altri strumenti secondo quote grossomodo
fisse per identificare di volta per volta il mix più coerente con
il target e gli obiettivi da perseguire. Suggeriscono inoltre di sviluppare idee creative non ancorate a un medium specifico in modo da evitare di declinare, in maniera sub-ottimale, la creatività sviluppata per la pubblicità sugli altri strumenti.
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Anche i nuovi approcci al marketing portano per certi versi
a una redistribuzione del budget di comunicazione che penalizza la pubblicità a favore di altri strumenti. Il marketing esperienziale (Pine e Gilmore, 1999; Schmitt, 1999; Gilmore e Pine, 2002; Carù e Cova, 2003, 2007; Golfetto, Borghini e Rinallo, 2005; Addis, 2007; Schmitt e Rogers, 2008; Brakus,
Schmitt e Zarantonello, 2009) ha dato il via alla ricerca di modalità più coinvolgenti di comunicazione della pubblicità che, per
quanto possa essere emozionante (soprattutto nel caso degli spot
televisivi), non regge il confronto con l’interattività offerta da
internet e l’immersione in esperienze dal vivo offerte da ambienti tematizzati, eventi, occasioni di incontro e sperimentazione (Golfetto e Uslenghi, 1999; Golfetto, 2004; Golfetto, Borghini e Rinallo, 2005; Borghini, Golfetto e Rinallo, 2006; Borghini et al., 2009; Rinallo, Borghini e Golfetto, 2010; Rinallo,
2011). Il guerrilla marketing, e più in generale la cosiddetta comunicazione non convenzionale (Levinson e Godin, 1994; Cova, Giordano e Pallera, 2008; Uslenghi e Brioschi, 2009), pongono inoltre l’accento su iniziative diverse dallo spot o dall’inserzione classica, e sulla proposta di iniziative in grado di stupire e di colpire il consumatore proprio grazie alla novità che
rappresentano.
L’emergere di un consumatore più critico ha portato infine
a una crisi della credibilità della pubblicità e all’emergere di varie forme di messaggi ibridi (Balasubramanian, 1994) in cui la
pubblicità “non osa dichiarare il suo nome” per poter essere più
persuasiva. Già gli studi classici sugli effetti di fonte (per una
panoramica, si veda Vannoni 2007) avevano mostrato come l’efficacia della pubblicità è profondamente minata dal suo essere
“di parte”, mentre le fonti neutrali (media, critici, opinion leader e altri consumatori) risultano molto più credibili e dunque
impattanti (Eliashberg e Shugan, 1997; Basuroy, Chatterjee e
Ravid, 2003; Liu, 2006; Kozinets et al., 2010). Ecco allora il
dispiegarsi di messaggi ibridi veicolati attraverso articoli, redazionali, critiche “amichevoli” e programmi radio e tv il cui intento promozionale non viene esplicitato (Rinallo e Basuroy
2009). Se molti interpretano l’ibridazione tra advertising e publicity come problematica dal punto di vista etico, per altri si
tratta di una conseguenza dell’attuale postmoderna società dello spettacolo, in cui i brand si fanno partner dei media classici
nella produzione di varie forme di intrattenimento per meglio
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comunicare con i propri clienti. Una volta confinato al product
placement cinematografico, il branded entertainment (Hudson e
Hudson, 2006) oggi effettivamente coinvolge tutti i media e
contribuisce anchÕesso alla ridotta importanza della pubblicitˆ
classica nel mix di comunicazione aziendale.
I contenuti dello special issue
Gli articoli di questo special issue riflettono i cambiamenti in
atto nella comunicazione di marketing di cui, nelle pagine precedenti, abbiamo proposto una personale chiave di lettura. Al
call for paper avevano risposto ben 26 abstract: un numero
superiore alle nostre aspettative, che ben dimostra la popolaritˆ della comunicazione nellÕambito del dibattito accademico di
marketing. La selezione degli articoli • avvenuta sulla base della
coerenza con i temi dello special issue e con il dibattito teorico internazionale. Dei 20 paper invitati, 10 sono stati ritirati
dagli autori o non hanno superato il processo di referaggio, processo che si • protratto, a seconda dei casi, per due o tre round
di revisione. Nel complesso, dunque, lo special issue si compone di 10 articoli, dei quali 7 sono inclusi in questo numero di
Finanza, Marketing e Produzione, mentre i rimanenti 3 verranno
pubblicati nei prossimi numeri regolari della rivista.
Lo special issue si apre con un pezzo di Robert V. Kozinets
dal titolo Social media vision: Marketing and the threat of public relations. Secondo lÕAutore, il marketing sta perdendo posizione
nel presidio di Internet, occupandosi direttamente degli aspetti
meno rilevanti (siti web, e-mail marketing) e cedendo invece
terreno al mondo delle relazioni pubbliche che, per lo meno in
Nord America, presidia Twitter e i social media. La natura orizzontale di tali media richiede infatti un approccio non gerarchico, fatto di conversazioni che si protraggono nel tempo, che sono appunto competenza tipica delle scuole di Public Relation. Kozinets conclude il suo pezzo suggerendo, con toni a cavallo tra
lo studioso e il veggente, che i social media non sono semplicemente una risorsa culturale tra le tante di cui il marketing
pu˜ appropriarsi per rendere pi• rilevanti e autentici i propri
messaggi: si tratta di una vera e propria rivoluzione senza precedenti nel modo in cui individui e comunitˆ si interfacciano e
dialogano tra di loro. Il marketing (e le PR) possono contribuire a questa rivoluzione, a patto per˜ che innovino il proprio
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modo di relazionarsi con consumatori sempre più empowered.
Roberta Sebastiani, Francesca Montagnini e Daniele Dalli, con
il loro articolo I movimenti di consumatori all’assalto del mercato: la
rivoluzione “lenta” di Eataly, propongono un’analisi interpretativa
dell’innovativo retailer di prodotti agro-alimentari tipici, Eatily
appunto. Il caso evidenzia come l’iniziativa, attraverso la partnership con Slow Food, doni visibilità e opportunità di business ai piccoli produttori i quali, altrimenti, verrebbero schiacciati dalle logiche prevalenti nella produzione alimentare, fondate sui bassi costi della grande scala produttiva. L’articolo mostra come i movimenti contro-culturali e critici nei confronti
dei modelli di produzione e consumo mainstream possano adottare forme di azione che sfruttano il mercato, invece di porsi
in antagonismo ad esso. In tal modo possono riuscire a diffondere i propri valori e fornire alternative di offerta per i consumatori sensibili a tali tematiche. Alla comunicazione spetta il
compito di rendere credibile l’autenticità dell’offerta, in un contesto in cui il consumatore scettico può mettere in dubbio la
nobiltà delle motivazioni, di fronte all’intento comunque profit
dell’iniziativa.
Matteo Corciolani, con l’articolo Il marketing dell’autenticità in
condizioni critiche. Il caso degli Afterhours al Festival di Sanremo, analizza il caso della band indipendente Afterhours e della problematica relazione con la comunità dei propri fan, a fronte della decisione del gruppo di partecipare al Festival di Sanremo. Il Festival è infatti considerato il tempio della musica convenzionale, e con valori in diretta antitesi a quelli che accomunano gli
appassionanti di musica indie. Il lavoro, che fa uso di metodi di
ricerca netnografici, adotta un approccio longitudinale che mostra lo shock dei fan di fronte a una decisione all’apparenza incomprensibile. Illustra inoltre le iniziali reazioni negative e il
lento processo di ricostruzione della relazione di fiducia nei confronti della band. Sebbene apparentemente lontano dai contesti
usuali del marketing, il caso è stimolante in quanto analizza un
contesto in cui i “brand umani” (Thomson, 2006) hanno una relazione molto stretta con la propria comunità di riferimento.
Uno degli aspetti più interessanti è che le attività di comunicazione della band facilitano, ma non sostituiscono, il lento e faticoso lavoro interpretativo attraverso cui i consumatori, interagendo tra loro online, trovano risposte al comportamento del
gruppo musicale e cercano di riabilitarlo.
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Altri articoli nello special issue affrontano invece il tradizionale tema della efficacia della pubblicità. Jacob Hornik e Giulia
Miniero, in Ad message appeal effectiveness: A meta-analysis, presentano un esteso lavoro di meta-analisi, condotto su ben 1.249
studi. La ricerca ha l’obiettivo di valutare l’impatto di varie strategie creative sull’atteggiamento nei confronti della pubblicità e
sulla sua persuasività. Gli Autori concludono che l’uso di tali
strategie ha un effetto positivo e statisticamente significativo sull’efficacia della pubblicità. Significativamente, sono i richiami
sessuali e lo humour ad avere un impatto maggiore. A quanto pare, sex sells e divertire il consumatore, a parità di condizioni, paga.
Anche il lavoro di Elisabetta Corvi e Michelle Bonera, Il controllo della pubblicità: uno strumento di verifica del messaggio, si focalizza sull’efficacia della pubblicità. L’articolo propone nello
specifico uno strumento metodologico in grado di evidenziare
la presenza di eventuali gap tra le operazioni di codifica del messaggio da parte del brand emittente e quelle di decodifica da
parte dei consumatori destinatari. Oggetto dell’esemplificazione
sono gli spot pubblicitari di sei note marche di deodoranti. Le
operazioni di codifica del messaggio sono indagate tramite
un’analisi di contenuto del testo verbale degli spot in questione. Sulla base di tale lavoro, viene realizzata un’analisi delle corrispondenze lessicali che permette di visualizzare graficamente
similitudini e differenze nel posizionamento desiderato/comunicato dai vari brand. Per ciascuna marca, il posizionamento comunicato viene poi comparato con le percezioni di un campione di consumatori. La procedura messa a punto dalla Autrici
mostra come anche brand molto noti possano sorprendentemente commettere errori nel processo di codifica.
Maria Vernuccio, Federica Ceccotti, Camilla Barbarossa e Angelo Giraldi, nell’articolo I driver percettivi dell’atteggiamento verso la marca digitale. Un’indagine empirica, propongono un’analisi
delle determinanti degli atteggiamenti verso la marca digitale
con uno studio focalizzato sui cosiddetti pure player – vale a
dire le aziende operanti solo su internet tramite un sito di ecommerce. Basandosi su un modello di equazioni strutturali applicati a dati provenienti da un campione di consumatori, lo studio dimostra che interattività e livello di personalizzazione percepito sono i principali driver dell’atteggiamento nei confronto
degli e-brand. Ne consegue la considerazione dell’importanza
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che nei contesti digitali assume lo sfruttamento delle possibilità
offerte dalle nuove tecnologie per sviluppare soluzioni di comunicazione di tipo narrowcasting, ossia basate sulla personalizzazione dei contenuti a livello di singolo utente.
Chiude lo special issue l’articolo di Umberto Collesei e Francesca Checchinato, dal titolo Evoluzione degli investimenti pubblicitari in Italia in periodi di crisi, in cui gli Autori si interrogano
su come gli investimenti pubblicitari nel nostro paese abbiano
risposto alla crisi economica nei periodi 2001-02 e 2008-09. Com’è noto, a livello macroeconomico l’investimento in pubblicità è legato all’evoluzione del PIL e, in periodi di recessione, le
imprese tendono a diminuire i propri investimenti promozionali L’analisi degli Autori mostra come i grandi investitori, forse
proprio per via di maggiori competenze di marketing, in alcuni casi si comportino in maniera anticiclica, aumentando gli investimenti e incrementando in questo modo il proprio share of
voice, a danno dei concorrenti. L’analisi mostra anche quantitativamente la riduzione del peso della pubblicità sui mezzi classici a favore di internet, e come tale trend abbia avuto un’accelerazione nei periodi di crisi.
Ringraziamenti
Non ci sarebbe stato possibile organizzare questo special issue
senza il contributo di numerosi colleghi. Vorremmo ringraziare
innanzitutto Stefano Podestà e Antonella Carù per il supporto
continuo all’iniziativa nella loro veste di, rispettivamente,
Direttore Responsabile e Capo Redattore di Finanza, Marketing
e Produzione. I nostri ringraziamenti vanno anche agli Autori,
che hanno risposto con entusiasmo al nostro call for papers
inviandoci articoli e revisioni – a volte con scadenze molto ravvicinate. Siamo infine particolarmente grati ai Reviewer, che
hanno dedicato tempo e competenze al miglioramento dei
paper dello special issue fornendo agli Autori un feedback estremamente qualificato.
Michela Addis, Università degli Studi di Roma Tre
Stefania Borghini, Università Bocconi
Antonella Carù, Università Bocconi
Sandro Castaldo, Università Bocconi
Matteo Corciolani, Università di Pisa
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