ACP – Rivista di Studi Rogersiani - 2003
Psichiatria e donne
Deanna Bussolari
Il termine devianza è decisamente “moderno” così come moderno è l’idea
di fondo anche se in netto contrasto con ciò che la parola intende descrivere.
Ancora oggi alcuni dizionari in diverse lingue occidentali non contengono
questo termine. Tuttavia, la nozione di devianza si è inserita nelle culture
scientificamente orientate; quelle culture cioè che studiano i comportamenti
in modo scientifico.
Usando il termine nel senso più ampio, un comportamento deviante sta ad
indicare un comportamento diverso da quello normale.
Per “norma” possiamo intendere ciò che rientra nella media statistica o ciò
che normalmente è accettato dal gruppo sociale. Il comportamento deviante
include tutti i casi in cui un individuo o un gruppo violano le norme sociali in
una direzione non accettata dal contesto sociale o con una intensità e
frequenza tale da superare il limite di tolleranza della società stessa.
In base a questa definizione, un comportamento estremamente
apprezzabile potrebbe essere deviante alla stessa stregua di un
comportamento inaccettabile.
Di fatto si considera deviante solo il secondo tipo di comportamento.
L’ambito della devianza può risiedere o entro la singola personalità o
all’interno del gruppo.
Nel primo caso l’impulso individuale può essere seguito da un senso di
colpa o di autopunizione, mentre nel secondo caso sono gli “altri” ad
applicare sanzioni a comportamenti palesemente inaccettabili.
La funzione di entrambe le censure è quello di salvaguardare le norme
interiorizzate dall’individuo e preservare quelle del gruppo.
Non si è mai conosciuta una società che non giudichi accettabili certi
comportamenti e che non ne respinga altri.
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Negli ultimi anni si è dibattuto sullo scopo del trattamento, se cioè deve
proporsi di elevare le condizioni di vita soggettiva di chi si trova in una
situazione di bisogno, oppure se la società debba usare tali tecniche per
adattare i singoli ai suoi modelli predominanti ed esercitare quindi un
controllo sociale.
Entrambe le esigenze sono valide; occorre definire la priorità dell’uomo nei
confronti della società o viceversa.
In passato le regole che venivano trasgredite rimanevano indiscusse
perché si attribuiva loro una fonte metafisica o religiosa.
Dobbiamo arrivare al secolo scorso per trovare una analisi del
comportamento umano in forma scientifica; ed è al pensiero scientifico che si
riconducono le definizioni diverse che le società moderne danno del
comportamento umano da respingere. Non è cambiato solo il modo di
definire, ma anche di intendere sostanzialmente i vari comportamenti
devianti.
Devianza
Oggi per devianza si intende un fenomeno complesso, estremamente
diversificato, che comprende esempi anche di significato molto diverso fra
loro. È un concetto relativo nel tempo e nello spazio.
Più complessa è la definizione di deviante perché ognuno di noi
sperimenta esperienze di conformità e devianza.
Il deviante è una persona che in quella determinata situazione e momento
trasgredisce quella determinata norma, saliente in quello specifico gruppo
sociale.
Donne, crimini e malattie mentali
Cercando di mantenere la ricerca sui comportamenti devianti in ambito
femminile, troviamo subito che crimine e malattia mentale vengono spesso
associati.
I dati statistici attestano che gli uomini commettono più reati e che le
donne sono soggette più degli uomini ai disturbi mentali.
Vi è quindi la teoria che le malattie mentali rappresentino per le donne una
forma di comportamento equivalente o alternativo alla criminalità.
Poiché le statistiche affermano che il numero delle donne diagnosticate
come “malate mentali” è superiore a quella delle donne categorizzate come
criminali, si presuppone che le malattie mentali siano a loro volta forme di
comportamento deviante particolarmente congeniali alle donne.
Nel ripercorrere le descrizioni cliniche di casi psichiatrici, nel ricostruire la
storia di “donne matte” ed anche nel definire la psicopatologia femminile i
medici dell’Ottocento ci raccontano il loro modo di osservare queste pazienti
e quanta influenza avesse sul giudizio, il loro essere psichiatri (maschi) che
esaminavano il folle (donna).
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Possiamo ricostruire come gli psichiatri dell’Ottocento vedessero la donna
alla luce delle loro conoscenze scientifiche, della loro posizione professionale
e della loro convinzione personale di uomini di cultura.
La donna folle si presenta spesso come colei che, attraverso
comportamenti bizzarri o clamorosi, esprime una trasgressione ai valori
“naturali” ed universali del genere umano. Compito degli psichiatri quindi
contenere, ridurre o annullare questa potenziale eversione; riportare tutti
(uomini e donne) al rispetto delle “regole del gioco”.
A maggior ragione, quando le pazienti erano donne, il loro ruolo di
educatori arrivava ad indicare e a prescrivere quella che doveva essere la
“normalità” scientificamente formata.
Il corpo della donna ha sempre attirato un’attenzione speciale e le varie
discipline mediche, si sono sempre contese le competenze, affermando nelle
varie epoche e dottrine la prevalenza de sistema nervoso sul sistema genitale
o viceversa. Tra le righe di questo confronto a volte anche aspro si possono
intravedere risentimenti e rivalità originati dal tentativo di affermare la
propria egemonia sul corpo della donna e più in generale sul pubblico
femminile.
Inferiorità mentale
Una tesi che ebbe un certo successo nella seconda metà dell’Ottocento,
anche se non fu condivisa da tutti gli studiosi dell’epoca, fu: “la donna è
meno intelligente dell’uomo perché ha il cervello più piccolo”.
I motivi di tale fortuna sono da attribuire alla semplicità della spiegazione
e alla riduzione di un complesso fenomeno come l’intelligenza ad una sola
variabile.
Questa teoria, che è apparentemente una constatazione, esprime in realtà
un giudizio e afferma cioè la minore intelligenza femminile.
Ho già affermato che non tutti gli studiosi si adeguarono a questo giudizio,
come ad esempio gli antropologi ed alcuni medici che ritenevano che più
della misura assoluta del cranio valesse il rapporto tra cranio e cervello.
Per buona parte dell’Ottocento l’interesse per la donna e la sua psicologia
fu sempre molto superficiale e tendente a dimostrare la sua inferiorità sia
fisica sia mentale.
Isteria
Lo stretto rapporto tra patologie genitali e malattie nervose era evidente in
varie malattie, ma il quadro patologico che può dirsi esemplare della
femminilità è l’isteria.
Qui più che altrove si definivano i valori e i giudizi sulle devianze
femminili; in questo contesto veniva approfondita e messa in luce la
componente psicologica del femminile.
La doppia natura dell’isteria, di malattia a sintomatologia prevalentemente
organica, ma con un’origine schiettamente nervosa, si prestava a questa
operazione.
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Inoltre, il legame tra genitalità e malattia mentale si faceva più complesso,
non era solo una patologia organica che si rifletteva sul meccanismo
cerebrale; c’erano implicazioni più complesse riguardanti la sessualità
femminile, il desiderio, l’erotismo.
Questo legame tra sessualità e patologia mentale, lo ritroviamo
successivamente nelle riflessioni della psicoanalisi freudiana ed è con essa
che esce finalmente dalla sfera limitata del femminile.
È difficile ricostruire attraverso lo sguardo dei medici dell’Ottocento
un’immagine precisa ed univoca della donna folle.
Si confermava della sua variabilità ed indefinibilità come un “oggetto
misterioso” come il perpetuarsi dell’eterno doppio femminile.
Malattia mentale e prostituzione
Per chi intenda studiare i fenomeni della devianza e della marginalità
femminile, non imbattersi nel tema della prostituzione risulta impossibile
perché è un fenomeno di lunga durata anche se occorre osservare che esso è
mutato in rapporto al cambiamento e alle modificazioni di mentalità e
struttura della società.
La vasta letteratura che nel secolo scorso si produsse sul tema della
pericolosità e utilità della prostituzione può essere compresa solo se si tiene
presente che il dato della pericolosità fu uno degli assi portanti del discorso
sociale e scientifico.
Il fenomeno della prostituzione era già stato oggetto di studio, ma su due
diversi versanti: quello del giudizio morale e quello della repressione.
Sono soprattutto i medici ad entrare di forza, come già accennato,
nell’ambito dell’igiene pubblica prima e della criminologia poi.
Ciò è particolarmente evidente nell’opera di un medico francese ParentDuchaletet che scrisse nel 1857 un saggio sulla prostituzione a Parigi dove
analizza il rapporto tra l’igiene pubblica, la morale e l’amministrazione.
Egli rivendica la supremazia del medico come conoscitore diretto del
fenomeno perché lo ha visto, lo conosce e lo tocca direttamente.
I regolamenti e i diversi mezzi di controllo sulla prostituzione regolavano
la pericolosità sociale in rapporto alle malattie veneree.
Si svilupparono nell’Ottocento vere e proprie campagne di allarme sociale
legate principalmente alla paura della sifilide.
Da un lato la prostituzione veniva sottoposta all’arbitrio della polizia e, di
fatto, veniva criminalizzata. Dall’altro il pericolo venereo, considerato
consequenziale all’attività, era ritenuto un pericolo tale da richiedere un
intervento coatto.
Dal punto di vista giuridico, regolamentazione della prostituzione e
segregazione delle malate procedettero di pari passo.
Durante l’ultima metà dell’ottocento viene fissato il ruolo delle donne nella
criminalità; gli studi della scuola antropologico-criminale tendono a definire
le differenze di comportamento fra la prostituta e la donna “normale”.
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Malattia mentale e crimine
L’opera di Lombroso e Ferrero sulla donna normale e la prostituta ha il suo
nucleo essenziale nell’affermazione: “la prostituzione è l’equivalente per la
donna di ciò che il crimine è per l’uomo”.
L’opera, non fu condotta sulla base di una ricerca sociologica, ma
attingendo qua e la agli studi ottocenteschi integrati con l’osservazione di
qualche decina di carcerate.
L’affermazione è sostenuta ricercando fattori endogeni tanto sul piano
strettamente somatico, antropologico quanto su quello psicologico.
Lombroso scrive: «la prostituzione non è che il lato femminile della
criminalità…», «la prostituta è dunque un criminale psicologicamente…».
Lombroso e Ferrero spiegavano la scelta di vita della prostituta
analogamente a quella del criminale, nata soltanto nei termini di una “follia
morale”.
Ma essendo questo delitto in un certo qual modo “utile socialmente” non
auspicavano misure coercitive di contenimento.
Benché inizialmente contestato dai criminologi classici, questa rilettura
bio-psichica verrà fatta propria da molti antropologi criminalisti e divenne
infine assunta a criterio di giudizio da parte della autorità di polizia. Questa
vi trovava la giustificazione scientifica più funzionale per mantenere il
commercio sessuale all’interno del proprio compito di vigilanza di tutte le
manifestazioni della devianza.
L’ideologia di una degenerazione femminile nella prostituta portava lo
stato ad esercitare un controllo ed una sorveglianza ferrea del meretricio.
Così nel 1903 alla Scuola di polizia scientifica di Roma si insegnava che le
prostitute si suddividevano in nate, d’occasione ed abituali e che erano
biologicamente inferiori alle donne normali, di debole intelligenza, incostanti
e naturalmente immorali.
La presunta relazione tra prostituzione e malattia mentale ci rivela uno
stereotipo continuamente ripreso dalla quasi totalità degli alienisti, neurologi
e sessuologi del diciannovesimo secolo.
L’ipotesi della frequenza delle malattie mentali fra le prostitute sembra
anzi tanto evidentemente valida che quasi nessuno sente neppure il bisogno
di verificarla.
Molto significativo in proposito il fatto che nessuno prende in
considerazione, a quel tempo, l’ipotesi che l’alienazione mentale possa essere
meno diffusa tra le prostitute che nel resto della popolazione femminile.
Parent-Duchaletet, ad esempio, dedica numerose pagine della sua opera a
sottolineare la frequenza dell’alienazione mentale tra le prostitute.
La miseria e le privazioni, gli amori infausti, la pratica del libertinaggio e
più ancora i guasti prodotti dall’alcolismo e dalla sifilide sembrano fornire
una spiegazione sufficiente dei disturbi mentali.
Il fenomeno viene ormai riconosciuto come una validità scientifica.
In realtà vi sono documenti redatti dai medici stessi che hanno avuto in
cura queste pazienti che dichiarano di non aver riscontrato casi di malattie
mentali in pazienti dedite alla prostituzione se non raramente. Anche
l’analisi delle cartelle cliniche depositate presso l’archivio della biblioteca
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dell’Ospedale Psichiatrico “Roncati” di Bologna ha fornito un’ulteriore
indicazione in questo senso.
Le forme di follia, piuttosto diverse fra loro, che hanno richiesto
l’internamento delle donne sono, in ordine di frequenza decrescente, gli
eccessi di eccitazione mentale, la demenza, il delirio maniaco con
allucinazioni, la mania violenta contro gli altri, la malinconia lieve e grave, il
vaniloquio continuo.
Passando all’analisi delle cause che hanno portato all’insorgenza della
malattia si può notare che, nella maggior parte dei casi, le motivazioni
vengono fatte risalire ai disordini di vita e all’abuso di alcolici.
Secondariamente si trovano le passioni per tradimento amoroso, morte dei
genitori e malattie organiche quali la tubercolosi.
Non rimane che domandarsi: la prostituta “malata di mente” da chi veniva
inviata all’Ospedale Psichiatrico”?
Questo compito veniva assolto, nella quasi totalità dei casi, dalla Questura
o dal medico condotto mediante una lettera di accompagnamento nella quale
si richiedeva il ricovero della donna in seguito al riscontro di sintomi propri
della malattia mentale.
Non sappiamo chi esercitasse questo ruolo di giudice prima e di
segnalatore della anomalia.
Ricordiamo però che la comunità rimane ancor, alla fine dell'ottocento,
anche se in maniera meno evidente, un luogo di controllo sociale in cui nulla
può accadere senza che sia immediatamente osservato, riferito e raccontato
in giro.
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