Dal disagio sociale alla microcriminalità: i vettori antisociali

Dal disagio sociale alla microcriminalità:
i vettori antisociali
Adele Colazzo
”È pur sempre grandioso tutto quello che
Gioventù comanda e follia cavalca”
Shakespeare
• Dal disagio sociale alla criminalità
Per disagio sociale si intende una forma di conflitto inter e intrapersonale che provoca nel soggetto sentimenti di inadeguatezza e sofferenza tali da inficiare pesantemente la relazione con
l’ambiente circostante. Un termine utilizzato per esprimere lo
stesso malessere sociale in una tonalità un po’ più cupa è quello
di disadattamento, che designa una condizione di sofferenza
cagionata dalla difficoltà, vera o presunta, di trovare all’interno
del proprio ambiente di vita uno spazio proprio, coincidente con
le aspettative e le ambizioni personali. La parola disagio, nonagio, racchiude una molteplicità di situazioni, spesso differenti,
accomunate dalla carenza di abilità sociali e dall’incapacità di
prendere parte attiva nella comunità di riferimento e, conseguentemente, nella progettazione della propria vita: alcolismo,
povertà, tossicodipendenza, emarginazione, handicap, malattia
mentale… ne sono le forme più comuni.
Eliminare la fonte di sofferenza conduce alla risoluzione del
disagio e al reinserimento del soggetto nella collettività come
elemento attivo; tuttavia l’iter curativo deve fare i conti con la
difficoltà a individuare, in modo nitido e inequivocabile, i complessi fattori compresenti in fenomeni del genere, per realizzare
un percorso riabilitativo adatto, mirato ed efficace.
PSYCHOFENIA
- VOL. XI N. 19/2008
LE TESI
Adele Colazzo
Gli individui portatori di un disagio possono relazionarsi con
l’ambiente esterno in diversi modi: con una chiusura in se stessi
e conseguente creazione di ansie e nevrosi; oppure con atteggiamenti aggressivi, sfrontati, di sfida nei confronti di un mondo
che, in qualunque modo stiano le cose, li rifiuta… cadere in forme di criminalità e microcriminalità in questi casi è possibile. Il
disagio e il disadattamento, pur presentandosi come espressioni
di un malessere esistenziale, non conducono strictu sensu, all’assunzione di condotte criminali o di aggressività e violenza. E’
pur vero che chi vive l’ambiente esterno con sentimenti di rivalsa e rifiuto può con maggiore probabilità, ma senza alcun meccanismo automatico, infrangere le regole di una società vissuta
come ostile ed escludente.
Zara (2006), effettua una classificazione delle condotte antisociali ordinandole nel senso di una crescente gravità e distingue:
• Devianza: racchiude un vasto insieme di comportamenti che
hanno in comune il loro essere lontani dalle regole codificate e condivise dalla società; il comportamento deviante perciò non sempre si configura come antagonista alla legge anche se è vero il contrario: tutti i comportamenti illeciti sono
devianti. La devianza minorile è uno dei fenomeni più seri e
rilevanti dal punto di vista sociale, rieducativo e penale.
• Comportamenti antisociali: sono costituiti da condotte
aggressive, di solito dettate da impulsività e iperattività, che
vedono il loro esordio nella prima infanzia e, se non trattati
precocemente, possono radicarsi e generare una vera e propria ostilità verso il mondo esterno fino a sfociare, nei casi più
gravi, nel disturbo antisociale di personalità.
• Delinquenza: comprende gli atti illeciti, compresi quelli
perpetrati da individui di età minore ai 18 anni. Se l’esordio
è tardivo, collocabile cioè nell’adolescenza, può configurarsi
come espressione di un disagio transitorio destinato e rientrare nell’età adulta;
• Criminalità: è il livello più grave della scala. E’ costituita da
azioni non solo illecite, ma anche particolarmente gravi ed ef182
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ferate. La variante microcriminalità – detta anche criminalità predatoria – è utilizzata per designare quelle attività devianti considerate di importanza secondaria e che si collocano all’interno dell’ambiente urbano: furti in appartamento,
borseggi, atti vandalici, spaccio… Tali reati, benché ritenuti di
minore gravità rispetto ai grandi misfatti delle organizzazioni
criminali, producono effetti rilevanti dal punto di vista della
percezione sociale perché la loro smisurata frequenza genera
nella comunità paura, insicurezza e allarme. Uno studio condotto nel 2004 dalla SWG, rileva che su un campione di 700
persone, il 42% dichiara di essere spaventato proprio dagli
episodi di microcriminalità che si verificano nel contesto
quotidiano.
Il sentiero che porta dal disagio alla criminalità non è sempre
tracciato in maniera lineare: nella carriera criminale di taluni
soggetti è rinvenibile un’escalation che vede il suo punto di origine in un disagio più o meno evidente e rilevabile, un’evoluzione in condotte devianti e antisociali e un approdo conclusivo
in gesti delinquenziali e criminali. Per altri individui può verificarsi la situazione antitetica di un solo crimine gravissimo senza
che né prima né dopo l’evento vi siano tracce di attività antisociale e di disagio.
• La prevenzione
Il peso sociale di condotte devianti, imputabili prevalentemente
a soggetti in età evolutiva e il manifestarsi di segnali antisociali
fin dalla scuola primaria, crea nuove frontiere per l’intervento
preventivo.
A livello di prevenzione si può agire su tre dimensioni differenti in funzione del livello di gravità dell’intervento. Si parla genericamente di prevenzione primaria per indicare quelle misure adottate su un individuo “sano” che però vive una situazione potenzialmente pericolosa e a rischio di assunzione di con183
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dotte illecite. L’intervento preventivo di primo livello si limita ad
operare sulla relazione soggetto – ambiente con la finalità esplicita di sviluppare abilità prosociali, migliorare il livello di inserimento, accettazione e introiezione delle norme di convivenza civile, di limitare il più possibile l’incidenza dei fattori disturbanti
sulla vita quotidiana e sulla percezione di sé. Il fine è l’eliminazione degli ostacoli di natura ambientale, familiare e psicologica
che possono generare devianza e criminalità.
Si ricorre alla prevenzione secondaria quando il soggetto,
col suo comportamento, è stato interessato da procedimenti di
natura penale per cui si rendono necessari interventi atti a:
• impedire che le condotte, stabilizzandosi in maniera irreversibile, si trasformino in uno standard di comportamento;
• promuovere forme di inserimento sociale e lavorativo che favoriscano la cessazione totale di qualunque ambizione criminale.
Gli interventi sui minori autori di reati si muovono nella dimensione del recupero e dell’acquisizione di consapevolezza e
maturità.
La prevenzione terziaria è quella applicabile su individui
che hanno manifestato, in maniera conclamata, le proprie tendenze antisociali: per costoro sono previste attività finalizzate al
contenimento, al controllo e alla cura (se sono ravvisabili segni
di disturbi mentale).
La necessità di agire in maniera precoce obbliga gli operatori
del settore a privilegiare il campo di intervento relativo alla prevenzione primaria: in tal senso è indispensabile saper riconoscere ed individuare quei comportamenti disturbati che possono
provocare o essere espressione di disagio sociale e, di conseguenza, predisporre all’assunzione di condotte devianti.
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• Analisi dei disturbi del comportamento
Le traiettorie antisociali necessitano, per essere correttamente interpretate, della conoscenza dei fattori che sottendono l’agire
criminale. La variabile relativa all’età, per esempio, può fornire
informazioni rilevanti relative alla criminogenesi e alle possibilità di intervento. Alcuni atti di criminalità, infatti, sono tipici di
specifiche fasi dello sviluppo e rispondono ad esigenze di ordine psicologico più che ad un vero e proprio bisogno materiale.
Alcune abnormità del comportamento, quali la menzogna, la fuga e alcuni tipi di furto sono definibili tali solo in virtù della loro non corrispondenza ai criteri di “normalità” socialmente stabiliti; perciò non sono vere e proprie patologie ma piuttosto
espressione di disagio e di disadattamento.
• La menzogna
Per menzogna si intende un’alterazione consapevole della verità,
per poter parlare di menzogna è necessario che i soggetti abbiano la capacità di riconoscere il vero, tale facoltà emerge, in individui normali, già all’età di 3-4 anni mentre il significato etico
della bugia si forma un po’ dopo, intorno ai 6-7 anni. La spinta
a deformare la realtà può essere dettata da meccanismi, bisogni
psicologici e situazioni differenti: per questo motivo Fagiani
(2002) distingue tre tipi di menzogna:
• Menzogna utilitaristica: viene detta per evitare un danno grave,
il verificarsi di conseguenze spiacevoli o per ottenere dei vantaggi. La reazione dell’adulto in questo caso deve essere equilibrata e tesa a scoraggiare il bambino dal continuare a mentire. Le risposte eccessivamente punitive o indulgenti possono
rivelarsi altamente controproducenti in quanto, in genere, determinano una persistenza dell’atteggiamento o una strutturazione di modalità più sottili per mentire.
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• Menzogna compensatoria: la spinta a mentire non è dettata da
esigenze esterne ma dal bisogno di offrire un’immagine migliore di sé. Questo tipo di bugia rivela un disagio che investe gli ambiti delle relazioni interpersonali e dell’immagine di
sé. Da espressione di disagio può elevarsi a patologia psichica
quando è ancora presente in una fase di sviluppo in cui normalmente il bambino è in grado di distinguere la realtà dalla
fantasia, cioè intorno ai 6 –7 anni. In tal caso le bugie sono
segnali del fatto che si stanno creando delle patologie vere e
proprie come quelle legate all’immaturità o a problemi nella
coscienza di sé, se non si interviene in maniera tempestiva si
possono avere dei disturbi di natura prepsicotica come le confabulazioni.
• Menzogne di tipo mitomanico: il soggetto si abbandona a fantasie confabulatorie nelle quali può descriversi anche come un
eroe negativo. Hanno un significato patologico abbastanza
importante.
• La fuga
La fuga è un allontanamento volontario, spesso ripetuto nel tempo, del minore dai luoghi in cui egli normalmente dovrebbe trovarsi (casa, scuola, istituto…..). Anche in questo caso la motivazione a scappare ha delle interpretazioni che cambiano in relazione con l’età: nel bambino di 3-4 anni la fuga è un episodio
abbastanza raro e si configura come reazione ad eventi frustranti provocati dagli adulti. Il bambino di norma viene ritrovato con
molta facilità perché fa in modo di farsi trovare, non si allontana
molto dal luogo di fuga, la sua presenza attira l’attenzione degli
adulti.
Intorno ai 6-7 anni, le fughe hanno l’obiettivo di evitare un
ambiente vissuto come oppressivo e frustrante. Nel caso delle fughe da scuola occorre procedere ad una distinzione in funzione
della risposta psicologica del bambino all’evento. In circostanze
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non gravi il bambino può saltuariamente decidere di non recarsi a scuola per dei motivi oggettivi: paura delle interrogazioni,
difficoltà scolastiche, imitazione dei compagni; questi allontanamenti non sono vissuti con ansia, al massimo solo con il timore
di essere scoperti. Si parla di fuga vera e propria da scuola quando l’allontanamento produce ansia e senso di colpa. In questi casi il bambino mette in atto una serie di procedure per rimediare al gesto, quali ad esempio: eseguire diligentemente i compiti
assegnati per casa oppure, in situazioni più preoccupanti, confessare ai genitori quanto fatto. Comportamenti di questo tipo delineano una “fobia della scuola” e sono segni predittivi di una
strutturazione nevrotica precoce e della presenza di conflitti intrapsichici profondi.
Le fughe adolescenziali sono invece organizzate per raggiungere delle mete e sono mosse dal desiderio di libertà e indipendenza. Molte volte sono organizzate in compagnia, ma non rari
sono i casi di giovani innamorati che decidono di abbandonare
un ambiente familiare contrario al loro amore. I rischi connessi
a queste fughe possono essere abbastanza gravi in quanto i giovani, abbandonati a se stessi, senza una casa e senza soldi, con
molta facilità possono assumere condotte devianti che vanno
dall’accattonaggio alla prostituzione, dal furto all’uso e spaccio di
sostanze stupefacenti. La fuga adolescenziale sembra essere motivata, più che dai fattori esterni, dal tentativo di risolvere una tensione interna, questo vale soprattutto se gli individui sono instabili, impulsivi, con carenze affettive e con un ambiente familiare
rigido e repressivo.
• Il furto
Il furto può essere espressione di differenti malesseri dell’età evolutiva, in particolare dei disturbi della condotta (di cui si parlerà
in seguito). In forme non gravi può configurarsi come un’abnormità del comportamento che trova una chiave interpretativa nel
disagio del soggetto in fase di sviluppo.
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Per furto si intende l’appropriazione di oggetti altrui, perché
si configuri tale reato è necessario che il soggetto sappia distinguere ciò che è proprio da ciò che non lo è e ciò che è giusto
da ciò che è sbagliato.
Dal punto di vista psicopatologico le motivazioni che possono generare un furto sono tre:
• In età infantile il furto è motivato da carenza affettive o da disagio familiare: l’oggetto rubato ha, in questo caso, uno scopo compensatorio.
• Il furto può essere attuato per colmare dei sentimenti di
autosvalutazione e inferiorità. I soggetti più piccoli tendono ad agire da soli e ad appropriarsi di oggetti appartenenti ai compagni ammirati, tali oggetti assumono perciò un valore simbolico molto importante. Negli adolescenti le refurtive sono dei trofei da esibire davanti ai coetanei, spesso in situazioni del genere i giovani agiscono in gruppo.Vi sono casi in cui il furto rappresenta una prova iniziatica per entrare a
far parte di una banda.
• Si può, infine, interpretare il furto come espressione di una
nevrosi ossessivo-compulsiva, in virtù della quale il soggetto agisce in maniera impulsiva e irrefrenabile.
Gli oggetti rubati possono avere una sorte differente ma, dal
momento che il crimine è spesso attuato per colmare dei vuoti
interiori, spesso vengono nascosti, usati in comproprietà con i
membri del gruppo, abbandonati o distrutti.Alcuni soggetti possono provare dei sensi di colpa così forti da indurli ad autodenunciarsi o a far in modo che gli adulti trovino la refurtiva: lo
scopo in questi casi è di informare i genitori del profondo disagio interiore da loro vissuto.
Davanti ad episodi di furti attuati dai minori si deve evitare di
intervenire in modo radicale: una risposta eccessivamente punitiva può, infatti, fissare nel giovane l’etichetta di ladro, mentre la
troppa tolleranza può indurlo a non modificare la propria condotta deviante. In entrambi i casi si rischia di sviluppare un vero
e proprio disturbo della condotta.
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La menzogna, il furto e la fuga, come già avuto modo di ribadire, non sono espressioni di vere e proprie patologie ma definiscono una serie di condotte “abnormi”, differenti da quelle
“normali” socialmente codificate.
• Disturbi da deficit di attenzione
e/o comportamento dirompente
Nel DSM IV-R (2004) gli atteggiamenti devianti dell’età dello
sviluppo che, oltre ad essere espressione di abnormità, individuano dei disturbi veri e propri a carico della sfera relazionale, sono
racchiusi sotto il nome di “disturbi da deficit di attenzione e
comportamento dirompente”. Essi sono: il disturbo da deficit di
attenzione/iperattività, il disturbo della condotta, il disturbo oppositivo provocatorio.
• Il disturbo da deficit di attenzione/iperattività
Tale sindrome, definita anche ADHD di iperattività e deficit di
attenzione (Attention Deficit Hiperactivity Disorder) viene descritta nel DSM IV come “Una sequenza persistente di comportamenti improntati a mancanza di attenzione e/o a iperattività –
impulsività in cui i fenomeni si presentano come più frequenti e
più gravi di quanto non compaiano in individui a livelli omologhi di sviluppo” (Genta, 2002)
Le caratteristiche di tale disturbo sono, per il DSM-IV:
• difficoltà di concentrazione e di apprendimento;
• iperattività motoria;
• impulsività ed aggressività.
I soggetti colpiti appartengono prevalentemente al sesso maschile. Si possono riscontrare disturbi a livello dell’attenzione,
dell’iperattività e dell’impulsività.
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Per quanto riguarda l’attenzione, essa si presenta instabile e
superficiale, con difficoltà a capire le consegne, non a causa di
deficit di comprensione ma per la poca concentrazione. A ciò si
aggiungono: incapacità ad organizzare il lavoro ed il materiale,
rifiuto di ultimare i lavori che richiedono un’attenzione duratura, tendenza a distrarsi con estrema facilità, non rispetto delle regole.
L’iperattività invece si manifesta con: impossibilità a mantenere una posizione o stare seduti a lungo, irrefrenabile necessità
di intervenire spesso, anche fuori luogo, predilezione per le attività che richiedono movimento.
L’impulsività solitamente si palesa come: impazienza presente in qualunque tipo di lavoro (per cui ad esempio le risposte alle domande vengono “sparate” a caso, senza la necessaria attenzione e, talvolta, senza averne atteso il completamento; nei giochi di gruppo non si rispetta il proprio turno e si interrompono
le attività altrui). Ad aggravare questo quadro possono intervenire altri tratti quali: intolleranza alla frustrazione, scoppi d’ira, prepotenza, riduzione dell’autostima.
Il disturbo può presentarsi in tre modi differenti:
• predominanza di disturbo dell’attenzione
• prevalenza di disturbo di iperattività e impulsività
• presenza equa delle tre caratteristiche (disturbo dell’attenzione, iperattività, impulsività)
Il protrarsi di comportamenti di tale genere può avere delle
conseguenze negative soprattutto sul piano scolastico e sociale e
condurre, in età adulta, all’insorgenza del disturbo antisociale di
personalità. Secondo le teorie correnti esiste un fondato collegamento tra ADHD e criminalità soprattutto quando sono presenti dei fattori di rischio ulteriori quali ad esempio l’appartenere a
famiglie multiproblematiche.
L’iter terapeutico su soggetti che manifestano questo disturbo
prevede trattamenti di psicoterapia individuale, cui vanno associati interventi pedagogici e riabilitativi sia sui soggetti interessati, che sull’ambiente familiare e scolastico. Un’attenuazione dei
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sintomi si è avuta con la somministrazione di farmaci stimolanti
quali le anfetamine e alcuni antidepressivi.
• Disturbo oppositivo provocatorio
Questo disturbo, che solitamente preannuncia l’insorgere dei disturbi della condotta, è caratterizzato da un atteggiamento oppositivo superiore per gravità, frequenza e persistenza alle normali
tendenze oppositive che regolano molte volte le relazioni adulti
– minori, soprattutto in determinate fasi dello sviluppo. L’atteggiamento di ostilità è rivolto nei confronti degli adulti di riferimento ma in casi di maggiore gravità può coinvolgere anche gli
ambienti scolastici e il gruppo dei pari. Il disturbo è caratterizzato da episodi di perdita di controllo, ostilità, elevata litigiosità,
atteggiamenti di sfida, rifiuto ad attenersi alle regole, rancore e
tendenza ad attribuire ad altri la responsabilità dei propri gesti.
Tratti caratteristici sono: scarsa tolleranza alla frustrazione, poca
autostima, abuso di sostanze stupefacenti e alcool. Il disturbo che
compromette prevalentemente la sfera relazionale e il rendimento scolastico, colpisce di solito soggetti di sesso maschile, fa il suo
esordio molto presto, prima degli 8 anni, e sembra essere collegato con l’adozione di metodi educativi rigidi e incoerenti o al
succedersi di figure educative (come nel caso di bambini precocemente istituzionalizzati). Se non trattato adeguatamente può
radicarsi e degenerare nei disturbi della condotta.
• Disturbi della condotta
Per il DSM-IV sono una modalità di comportamento ricorrente nel tempo, caratterizzata dalla sistematica violazione dei diritti altrui e delle norme civili. Gli atteggiamenti tipici di chi ne
soffre sono: scarsa considerazione dei diritti degli altri; mancanza di rimorso e senso di colpa o simulazione di tali sentimenti
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per sfruttarli a proprio vantaggio; intolleranza alla frustrazione;
interpretazione in chiave ostile degli atteggiamenti altrui; reazioni eccessivamente aggressive o tendenza ad assumere comportamenti astiosi per mascherare sentimenti di bassa autostima e svalutazione.
Tali disturbi possono manifestarsi in quattro diverse aree:
• Condotta aggressiva nei confronti di persone o animali: si riconosce
per: prepotenza che giunge fino all’aggressività fisica, uso di
armi o oggetti adibiti ad armi; crudeltà nei confronti degli
animali o delle persone, in adolescenza frequenti i casi di violenze di natura sessuale.
• Condotta aggressiva nei confronti della proprietà altrui: in quest’area
si collocano i gesti vandalici e le condotte incendiarie. I soggetti, infatti, agiscono con lo scopo esplicito di distruggere case, auto o altri beni.
• Condotte finalizzate alla frode o al furto: sono quelle in cui i ragazzi ottengono dei guadagni illeciti mediante raggiri, furti,
falsificazioni o altre attività analoghe, effettuate senza ricorrere alla violenza.
• Infrazione delle regole: tale area diventa di interesse psicopatologico quando le violazioni sono gravi ed effettuate ripetutamente; queste trasgressioni possono essere di diversa natura
come: frequenti e ingiustificate assenze da scuola, indifferenza nei confronti delle regole imposte dagli adulti significativi,
fughe da casa o dai luoghi di accoglienza.
Conseguenze negative dei disturbi della condotta sono: insuccesso scolastico e lavorativo; alta esposizione a rischio di provocare o essere vittime di incidenti, disadattamento sociale.
Il DSM-IV, a seconda dell’età di insorgenza di questi disturbi, distingue due sottotipi differenti:
• A esordio nella fanciullezza insorgono prima del compimento
del decimo anno di età, colpiscono in prevalenza ragazzi di
sesso maschile, e possono condurre con maggiore facilità a
sviluppare un disturbo antisociale di personalità in età adulta;
• A esordio nell’adolescenza si presentano nella storia clinica di
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soggetti con età superiore ai dieci anni; rispetto ai disturbi ad
esordio nella fanciullezza possono coinvolgere un numero più
rilevante di individui di sesso femminile, solitamente in età
adulta vi è un’ estinzione di tali condotte e la possibilità di
raggiungere un adeguato adattamento sociale e lavorativo.
Possono predisporre all’insorgenza dei disturbi situazioni particolarmente negative per la crescita dei bambini:
• Maltrattamenti;
• Carenze pedagogiche;
• Precoce istituzionalizzazione;
• Presenza di psicopatologie in altri membri della famiglia;
• Basso quoziente intellettivo;.
• Trasmissione ereditaria.
L’evoluzione di tale disturbo può essere varia, in casi meno
gravi e ad esordio tardivo tende ad estinguersi in corrispondenza con l’entrata nel mondo adulto; nei casi più gravi (in cui la
patologia si presenta in modo precoce) il soggetto può, in età
adulta, mantenere questi comportamenti disturbati o sviluppare
un disturbo antisociale di personalità.
• Il bullismo
Una modalità di comportamento prevaricatorio molto grave
messa in atto soprattutto da minori è il bullismo. Per taluni
aspetti esso può essere considerato un disturbo della condotta
anche se, come nota Fedeli (2007), è sbagliato e troppo semplicistico ritenere i diversi disturbi come delle monadi a sé stanti,
senza possibilità di comunicazione; sarebbe più opportuno, invece, considerarli come costituenti un continuum per cui si può
scorgere, in assenza di interventi terapeutici efficaci e mirati, un
inizio in atteggiamenti oppositivi, una tappa intermedia in disturbi della condotta e un approdo finale, in età adulta, in un disturbo antisociale.
Il termine bullismo, secondo le indicazioni di Olweus (1993)
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designa una modalità di condotta aggressiva, consapevole, volontaria e sistematica rivolta a danno di soggetti più deboli e incapaci di difendersi. Gli scopi sono: l’esclusione e la produzione di
un danno o disagio ad un individuo più debole, incapace di
competere fisicamente e/o “socialmente” con l’aggressore. Si
può distinguere un bullismo diretto costituito in prevalenza da
aggressioni fisiche e/o verbali, nonché danneggiamento o furto
di oggetti personali della vittima; un bullismo indiretto effettuato con lo scopo di escludere il soggetto dal gruppo cui appartiene. Perché si possa parlare di bullismo è necessario che le vessazioni siano prolungate nel tempo e che ci sia una palese sproporzione di forza tra il bullo e la vittima. Il fenomeno del bullismo è molto complesso in quanto le dinamiche bullo-vittima
sono incentivate/accompagnate dalla presenza del gruppo di
spettatori che spesso con la loro indifferenza sostengono, di fatto, l’azione prepotente, consentendo alla stessa di raggiungere il
suo obiettivo.
Sono ravvisabili delle caratteristiche tipiche sia negli aggressori che nelle vittime. Gli aggressori, i bulli, presentano generalmente un’aggressività diffusa; costoro sono supportati di solito da
un gruppo di gregari che si uniscono al capo o per guadagnare
popolarità o per evitare di diventare vittima delle sue vessazioni.
Le vittime sono di solito soggetti deboli, non aggressivi, timidi, ansiosi, insicuri, dotati di bassa autostima, molto dipendenti
dalle figure genitoriali, specialmente dalla madre. In alcuni casi
possono essere individui affetti dal disturbo da deficit di attenzione e iperattività. Il fenomeno può produrre conseguenze negative su tutti i soggetti interessati La vittima manifesta soprattutto ansia, depressione, riduzione dell’autostima, senso di impotenza, disperazione, isolamento sociale, disturbi del comportamento, del sonno, dell’appetito…A livello scolastico possono esserci difficoltà di concentrazione, fughe da scuola, abbandono
degli studi, calo del profitto.
Il bullo può sviluppare invece: disturbi dell’umore, condotte
criminali, difficoltà relazionali, lavorative e scolastiche nonché
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incorrere nell’abuso di alcool o droghe. Il gruppo di spettatori
invece: paura e ansia generalizzata, carenza di abilità prosociali,
adozione di condotte aggressive e difficoltà scolastiche.
Data la frequenza con cui il fenomeno si presenta e gli effetti negativi che può provocare si cerca di intervenire attraverso
una terapia sistemico – relazionale che coinvolge famiglia, gruppo dei pari, insegnanti e scuola. Si cerca di superare l’omertà con
cui spesso i giovani vivono questi episodi incentivando il gruppo di spettatori e le vittime a parlare e a denunciare; nonché, aumentando le capacità prosociali, per produrre nell’animo degli
spettatori quella sensazione di solidarietà ed empatia che consente loro di attivarsi in difesa della vittima. Gli interventi sul bullo
mirano invece ad attivare le abilità prosociali e a trovare nuove
strategie per esprimere sentimenti ed emozioni in maniera adeguata.
• I disturbi di personalità
I disturbi di personalità che possono essere implicati nelle condotte violente e criminali di adulti ma anche di giovani sono: Il
disturbo antisociale di personalità, il disturbo narcisistico di personalità, il disturbo borderline. Occorre sottolineare che, in età
adolescenziale, la distinzione fra i disturbi di personalità è poco
definita per cui non è sempre possibile giungere ad una diagnosi univoca; appare molto difficile distinguere tra disturbo narcisistico, borderline e antisociale. Questi tre disturbi possono iniziare a manifestarsi in adolescenza e poi consolidarsi, in maniera
pressoché irreversibile, nel periodo adulto. La presenza di tratti
narcisistici è rinvenibile nell’adolescenza con una certa frequenza e questo perché il narcisismo ha lo scopo di proteggere l’individuo dalle aggressioni che egli sente provenire dall’esterno e
che potrebbero danneggiare il suo Io. Le condotte antisociali invece sono motivate più dall’impulsività che dalla volontà di nuocere agli altri.
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I soggetti che soffrono di disturbo narcisistico di personalità possiedono un irrealistico e grandioso concetto di sé,
hanno bisogno di sentirsi ammirati e approvati, per cui risentono pesantemente delle critiche e delle frustrazioni. Tendono a
sopravvalutare le proprie capacità e a screditare gli altri con atteggiamenti arroganti e presuntuosi; provano invidia esagerata e
disprezzo, pensano che tutto sia loro dovuto e non sentono empatia per gli altri. Il disturbo si manifesta nella prima età adulta.
Il nucleo fondamentale che lo provoca sembra risiedere nella
bassa autostima per cui, in virtù di un meccanismo di compensazione, si forma un Sé grandioso, che permette al soggetto di
maturare la convinzione di riuscire a fare a meno degli altri, giudicati inutili e insignificanti.
Il disturbo antisociale di personalità viene di norma formulato su soggetti che hanno compiuto il diciottesimo anno di
età, anche se tratti predittivi sono rinvenibili già a partire dai
quindici anni. I disturbi che lo anticipano sono: Disturbo della
Condotta e Disturbo da Deficit di Attenzione e Iperattività.
Il DSM-IV lo identifica come una modalità pervasiva di indifferenza caratterizzata da sistematica violazione dei diritti altrui, infrazione delle norme, furto, impulsività, aggressività, irresponsabilità, mancanza di senso morale e assunzione di comportamenti pericolosi per sé e gli altri Colui che ne è affetto, come
il narcisista, assume atteggiamenti svalutanti nei confronti degli
altri ma, a differenza di quest’ultimo, usa anche la violenza. Sembra che un ruolo cruciale per l’insorgenza di tale patologia sia attribuibile alle esperienze infantili di deprivazione e abuso da parte delle figure genitoriali: per colmare il vuoto provocato dalla
latitanza di solidi legami affettivi il soggetto si costruisce un Sé
sufficientemente grandioso da garantirgli una certa autosufficienza.
Il disturbo Borderline di personalità si caratterizza, secondo il DSM-IV, per instabilità nelle relazioni con gli altri, nell’immagine di sé e negli affetti, marcata impulsività, comportamenti
suicidiari, alterazione dell’umore, sentimenti cronici di vuoto. A
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seguito di ciò l’individuo prova angoscia e rabbia di fronte alla
prospettiva dell’abbandono, adotta comportamenti inadeguati ed
eccessivi per evitare l’allontanamento, tende a legarsi in maniera
morbosa alle persone considerate positive (ma messe perennemente alla prova con condotte violente e provocatorie), soffre di
disturbi alimentari, abusa di alcol e droga, intrattiene relazioni
sociali superficiali.
Grinker (1968) individua quattro qualità fondamentali:
• Prevalenza del sentimento di rabbia;
• Relazioni interpersonali difficili;
• Tratti depressivi:
• Carenze nell’identità di sé.
Kernberg (1975) riscontra le seguenti caratteristiche:
• Debolezza dell’Io: i soggetti faticano a controllare le proprie
pulsioni e azioni;
• In corrispondenza di eventi emotivi intensi, limitata possibilità di effettuare un oggettivo esame di realtà.
• Ricorso al meccanismo di difesa della scissione: il soggetto
non riuscendo ad integrare gli aspetti positivi con quelli negativi, considera se stesso e gli altri come o interamente buoni o interamente cattivi. La stessa persona, pertanto, può essere alternativamente ritenuta degna di ammirazione o di biasimo. Sempre secondo Kernberg, la personalità appare caratterizzata da: ansia, sintomi ossessivo – compulsivi, reazioni dissociative, ipocondria, comportamenti sessuali abnormi e abuso di sostanze.
Nel periodo adolescenziale il quadro clinico del disturbo borderline si presenta in modo meno definito e si caratterizza per:
• Azioni impulsive violente (acting out);
• Instabilità, agitazione, comportamenti rischiosi e devianti;
• Condotte sessuali abnormi;
• Ipocondria, bulimia o anoressia;
• Sentimenti di noia, vuoto o depressione.
Per poter effettuare una corretta diagnosi di disturbo borderline occorre preventivamente distinguere questo quadro clinico
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LE TESI
Adele Colazzo
dagli stati d’animo adolescenziali, pervasi da tristezza e malinconia.
I disturbi finora analizzati si riferiscono a quei comportamenti particolarmente radicati e persistenti che possono agevolare
l’assunzione di condotte devianti e criminali. Esistono altre tipologie psicopatologiche responsabili di illeciti, che si distinguono
però per la loro natura provvisoria e vengono identificate col
nome di disturbi dell’adattamento.
• I disturbi dell’adattamento
Nascono dall’incapacità del soggetto di gestire eventi o situazioni di stress psicosociali identificabili in maniera oggettiva.Tali disturbi sono di natura prevalentemente transitoria. Il DSM-IV
elenca i sintomi che permettono di diagnosticare un disturbo
dell’adattamento:
• I sintomi emotivi e comportamentali devono manifestarsi entro tre mesi dal verificarsi di un evento stressante ed essere
conseguenza dello stesso.
• Il sintomo clinicamente significativo è costituito da un disagio eccessivo rispetto al fattore stressante;
• ripercussioni negative nell’ambiente lavorativo, scolastico, relazionale.
Una volta che l’evento stressante è superato i sintomi si estinguono in un arco di tempo non superiore ai sei mesi.
Nell’insorgenza del disturbo dell’adattamento un ruolo decisivo è rivestito dalla relazione che lega l’evento alla risposta individuale, dal significato cioè che il soggetto attribuisce al fatto,
per cui situazioni apparentemente poco significative possono
produrre una notevole sofferenza individuale e generare il disturbo, così come, circostanze obiettivamente drammatiche, possono non provocarlo se il soggetto è in grado di reagire in maniera equilibrata. Da quanto riportato si comprende perfettamente, ai fini dell’insorgenza del disturbo, il ruolo decisivo rive198
Dal disagio sociale alla microcriminalità: i vettori antisociali
stito da variabili quali: esperienze pregresse in situazioni analoghe, tipi di meccanismi di difesa individuali, capacità di fronteggiare lo stress, supporto sociale eventualmente ricevuto, significato simbolico attribuito al fatto. ecc.
Nell’età dello sviluppo cause tipiche del disturbo dell’adattamento sono: problemi legati alla carriera scolastica, divorzio dei
genitori, traslochi, lutti familiari, cambiamenti nella vita del
gruppo, modificazioni delle relazioni con i fratelli.
Il DSM –IV codifica i disturbi dell’adattamento, in base ai sintomi predominanti, in sei sottotipi:
• Con umore depresso;
• Con ansia;
• Con ansia e umore depresso misti;
• Con alterazione della condotta;
• Con alterazione mista dell’emotività e della condotta;
• Non specificato.
Nel disturbo dell’adattamento con umore depresso prevalgono stati depressivi, pianto, sentimenti di disperazione. Il sottotipo con ansia si caratterizza per stati quali tensione, irrequietezza, nervosismo. Nei bambini è presente, di solito, la paura della
separazione. Nel disturbo con ansia e umore misto si possono riscontrare sintomi appartenenti ai due quadri clinici precedenti. Il disturbo dell’adattamento con alterazione della condotta è molto frequente negli adolescenti, questi di solito reagiscono a situazioni dolorose con atteggiamenti aggressivi, provocatori o con alterazioni del comportamento: atti vandalici, violazione della legge, reati contro il patrimonio ecc. Il disturbo con
alterazione mista dell’emotività e della condotta presenta
sintomi combinati dei sottotipi precedenti, ha un’incidenza molto alta in soggetti in età evolutiva e nei bambini, può comportare regressioni a fasi precedenti dello sviluppo. In età adolescenziale gli atti vandalici sono generalmente il frutto non della volontà individuale ma della pressione dei coetanei significativi: occorrerà pertanto analizzare la dimensione quasi “magica” che assume il gruppo in tale fase dello sviluppo .
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Adele Colazzo
• Psicopatologia del gruppo nell’età adolescenziale
Psicopatologia del gruppo
Per la costituzione di un gruppo non è sufficiente che un insieme di persone si trovi per una qualche ragione a stare insieme,
ma è necessario che i singoli componenti abbiano in comune,
secondo la concezione di Bion (1971), alcune variabili:
• Uno scopo in comune
• Il senso di appartenenza, cioè il riconoscimento dei legami
interni al gruppo e del ruolo di ciascun membro.
• Flessibilità, è una caratteristica legata alla capacità del gruppo
di non perdere la propria natura in funzione dell’alternanza
dei singoli individui;
• Assenza di sottogruppi con legami esclusivi;
• Ogni singolo individuo viene valutato per il contributo che
apporta all’interno del gruppo e, entro dei limiti fissati, gode
di una certa libertà;
• Il gruppo, infine, deve essere in grado di gestire e superare il
malcontento e i problemi che possono emergere al suo interno.
Dal punto di vista psicologico, il gruppo crea un forte senso
di appartenenza e condivisione che dà sicurezza e forza, spinge
l’individuo a investire le proprie energie personali per il bene
collettivo e per gli ideali condivisi. Il gruppo, per consolidare i
propri legami, adotta un sistema simbolico comune caratterizzato da: miti, cerimonie, riti di passaggio, abbigliamento distintivo
ecc…
Il gruppo, inoltre, riveste un ruolo di primaria importanza
nel periodo adolescenziale perché consente ai giovani di maturare una propria identità, di trovare solidarietà e complicità nei
pari e di superare le paure collegate al disorientamento e alla
sofferenza. L’adolescenza, infatti, è un periodo critico in quanto
i ragazzi vedono se stessi e il mondo con occhi diversi, con più
paura e incertezza; e anche i cambiamenti cui è soggetto il corpo vengono vissuti con sconcertante sofferenza. Gli adolescenti
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Dal disagio sociale alla microcriminalità: i vettori antisociali
tendono inoltre a mettere in discussione tutto, compreso l’agire
genitoriale (ritenuto contraddittorio e incoerente) e i valori
della società nella quale vivono. Ai valori introiettati nell’infanzia e nella fanciullezza si oppongono con la ribellione e la trasgressività che conducono alla costituzione di un nuovo sistema di valori, assoluti, da condividere e confrontare con gli altri
compagni di crescita. Le problematiche collegate all’adolescenza, quali ad esempio ribellione, la trasgressione e la non accettazione di sé, possono diventare sorgente di disagio, per affrontare il quale, in alcuni casi, possono essere adottate condotte devianti o apertamente criminali. Nel caso delle bande, i membri
attraverso le azioni illecite guadagnano sicurezza, consolidano i
legami comunitari, si creano un’ identità di gruppo, negativa,
che cresce e rafforza le relazioni interne in modo proporzionale alla gravità dei reati commessi. Sono inoltre frequenti delle
sfide estreme, interpretabili come prove di forza e coraggio, finalizzate all’inclusione di un nuovo membro o al riconoscimento del leader. L’azione collettiva ha una funzione deresponsabilizzante sui singoli individui rafforzata anche dall’esistenza,
per taluni membri, di meccanismi di imitazione gratuita, adesione passiva e spirito di aggregazione automatica; nonché una finalità espressiva, tesa cioè a dimostrare forza, identità, dominio:
l’azione, infatti, è gratificante per il semplice fatto di essere stata
compiuta, indipendentemente dai vantaggi materiali che da essa ne possono scaturire.
Il gruppo, in casi come questi, si configura come serbatoio di
conflitti non risolti e problematiche affettive, scolastiche, familiari, relazionali e di sentimenti inaccettabili per cui, in situazioni
patologiche, capita sovente che il male venga respinto e indirizzato verso l’esterno attraverso azioni brutali, guidate perlopiù da
fantasie forti e ossessive. Il gruppo diventa violento, infatti, quando tali fantasie feroci si sostituiscono alla realtà e i giovani ricorrono alla violenza non per una causa razionalmente giustificabile (anche se non condivisibile), ma semplicemente per colmare
un profondo e angosciante vuoto interiore. La violenza, che na201
LE TESI
Adele Colazzo
sce come gesto istantaneo e impulsivo, si esprime anche nella
forma di reati gravissimi quali la lesione personale o l’omicidio
ma, siccome l’agire collettivamente ha una funzione deresponsabilizzante, i colpevoli non realizzano pienamente la gravità di
quanto fatto, anzi, se vengono scoperti e interrogati, tendono ad
attribuire ad altri la responsabilità dell’accaduto e non dimostrano sensi di colpa o segni di pentimento. Nelle tipologie di gruppi violenti, i legami sono molto forti e la ricerca di “brividi” ed
esperienze eccitanti può condurre anche all’abuso di sostanze o
ad altre condotte devianti. In circostanze simili, sarebbe auspicabile un trattamento tempestivo, finalizzato al recupero della dimensione individuale e gruppale e alla risoluzione e comprensione dei problemi reali.
Psicopatologia del leader
Indispensabile per l’identità del gruppo sono le caratteristiche
del leader.
Il capo è funzionale agli ideali del gruppo, costui ha una personalità forte e carismatica, è capace di coinvolgere e motivare i
singoli membri in vista di un obiettivo comune; se è alla guida
di gruppi devianti, può presentare una psicopatologia latente che
coincide col disturbo borderline di personalità Il leader mantiene quasi sempre inalterato il contatto con la realtà, gestisce tutte
le fasi esecutive del reato, distribuendo incarichi e ordini, ma non
partecipa in prima persona all’atto in quanto sente di non dover
dimostrare nulla agli altri. In cambio osserva e valuta le mosse dei
suoi gregari.
Novelletto (2000) sostiene che, all’interno di un gruppo criminale, il leader abbia una personalità caratterizzata da un blocco
maturativo e da un ritardo nello sviluppo psicosessuale. La struttura familiare che lo contiene è problematica e caratterizzata da
incompetenza genitoriale: la figura materna, depressa, immatura e
simbiotica cerca, attraverso il figlio maschio, di riscattarsi dalle delusioni ricevute dagli uomini. Il padre di solito è una figura debole, marginale nel contesto familiare, spesso violenta e ostile.
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Dal disagio sociale alla microcriminalità: i vettori antisociali
Essere alla guida di un gruppo permette al giovane, proveniente da una tale situazione, di trovarsi una famiglia sussidiaria
che possa dargli quello di cui ha bisogno e cioè:
• riconoscimento anche attraverso le azioni svolte;
• la possibilità di sentirsi finalmente qualcuno: in assenza di
abilità positive infatti, è meglio distinguersi per azioni turpi
che rimanere condannati all’oblio;
• reputazione, intesa sia come rispettabilità che come ammirazione degli ideali di forza che trasmette ai membri;
• infine, la più importante, l’autostima che cerca di soddisfare
pretendendo devozione, rispetto e riconoscimento.
In taluni casi il leader può presentare alcune caratteristiche
quali: passività, scarsa carica vitale, assenza di emozioni; in siffatte situazioni l’attuazione di un crimine serve per evitare la disintegrazione psicotica e per colmare un vuoto esistenziale.
• Trattamento dei comportamenti violenti
in adolescenza
L’intervento terapeutico su soggetti che manifestano comportamenti aggressivi deve identificarsi con l’intervento terapeutico
del disturbo di cui l’aggressività è espressione, in quanto una vasta gamma di azioni violente condotte da minorenni sono a carattere espressivo e non strumentale. Il comportamento aggressivo è un’attitudine che tende a consolidarsi nel tempo anche in
funzione delle risposte dell’ambiente e della possibilità che esse
possano procurare un certo vantaggio al soggetto.
Secondo Picozzi e Ingrascì (2002) i vantaggi possono riguardare sia aspetti concreti quali l’indebita appropriazione di beni,
sia aspetti intrapsichici tra i quali la diminuzione di una tensione interiore o il superamento di uno stato di sofferenza individuale. I minori violenti possono, in età adulta, manifestare i sintomi di un disturbo antisociale di personalità. Per i soggetti antisociali la risposta giudiziaria, punitiva e contenitiva, appare in203
LE TESI
Adele Colazzo
sufficiente a limitare le recidive; per gli adulti in particolare, la terapia più indicata è quella che abbina un insieme di regole comportamentali rigidamente imposte a un trattamento farmacologico e psicoterapico.
Per quanto riguarda l’intervento sui minori violenti esiste una
dimensione di “speranza” di superamento attribuibile all’immaturità stessa dei pazienti.Winnicott (1986) ritiene che l’essenza dell’atto antisociale risieda nel desiderio del minore di essere notato,
fermato e curato. La cura consiste in un trattamento “multisistemico” che tiene conto del contesto globale in cui il giovane si trova a vivere: famiglia, ambiente di vita, gruppo dei pari, scuola ecc.
• Trattamenti psicosociali
Qualunque trattamento condotto sui minori, soprattutto adolescenti, deve tenere conto della difficoltà che comporta lavorare
con loro; essi si presentano come pazienti difficili, che tendono ad
abbandonare prematuramente la terapia, a pretendere dal terapeuta una certa parzialità o a esplodere in gesti pericolosi e dannosi.
Alla luce di tali ostacoli, al terapeuta è richiesta una competenza
specifica nel settore. I trattamenti psicosociali che possono essere
adottati in questa tipologia di condotta sono numerosi.
Il trattamento psicoanalitico, con le opportune modifiche,
risulta in grado di incidere positivamente sull’inibizione di atteggiamenti particolarmente antisociali attraverso delle terapie che
• prevedono l’uso di setting paralleli per genitori e minori,
• combinano insieme terapia farmacologica, di coppia, individuale (terapie bifocali).
Spesso si accostano altri interventi che richiedono il coinvolgimento della scuola o l’ausilio di un “compagno adulto”1 L’ap1
Il compagno adulto è un giovane medico o psicologo che cerca di insegnare al paziente, attraverso attività ludiche e sociali, come acquistare o riacquistare delle capacità relazionali.
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Dal disagio sociale alla microcriminalità: i vettori antisociali
proccio psicoanalitico si è rivelato molto efficace anche se è fortemente limitato dal fatto che, ad eccezione del trattamento su
individui borderline, è privo di procedure standardizzate (e quindi riproducibili).
Altro possibile trattamento psico sociale è il parental management training (PMT). Parte dalla concezione che la causa
delle azioni antisociali dei minori risieda in interazioni errate o
patologiche con la famiglia di origine. L’ intervento terapeutico,
pertanto, è rivolto essenzialmente ai genitori ai quali viene insegnata una modalità diversa di approccio educativo (ad esempio
incentivando gli aspetti positivi della condotta sociale del figlio
o scoraggiandone quelle devianti). Data la centralità del ruolo
genitoriale, il PMT appare più adatto a preadolescenti perché sono maggiormente influenzati dai genitori e trascorrono con loro gran parte del tempo, cosa che non sempre avviene con gli
adolescenti
Il PMT è uno degli interventi più studiati e standardizzati, e
ha una efficacia dimostrata nel modificare, in maniera stabile, il
comportamento deviante. Purtroppo non si mostra particolarmente efficace in contesti eccessivamente patologici caratterizzati dalla mancanza totale di senso di responsabilità da parte dei
genitori.
La terapia familiare funzionale (FFT) è indirizzata alla
famiglia nella sua globalità e il suo obiettivo è quello di migliorare la reciprocità, la chiarezza e il sostegno all’interno delle relazioni familiari. Si basa su principi sistemici e cognitivi e si è
dimostrata efficace nella risoluzione di problematiche interpersonali.
La terapia multisistemica (MST) coinvolge la famiglia ma
tiene conto anche dei contesti nel quale il minore è collocato:
famiglia, scuola, gruppo dei pari, parenti…. Il trattamento, modellato sul paziente, ingloba terapie diversificate: individuali per
il minore, di coppia per i genitori, di facilitazione di abilità sociali ecc. Si è dimostrato magistralmente efficace nel trattamento di soggetti molto gravi.
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LE TESI
Adele Colazzo
L’intervento sul gruppo dei pari coinvolge invece la
scuola, e la relazione tra rendimento scolastico e disturbi della
condotta. Si basa sulla constatazione che il gruppo dei pari svolge un ruolo di primaria importanza nello sviluppo individuale.
E’ stato impiegato con successo per fronteggiare fenomeni quali
il bullismo e le aggressioni.Affinché i risultati siano positivi è necessario che il gruppo dei pari sia misto, costituito cioè da soggetti normali e problematici, da ragazzi e ragazze. E’ altamente
controproducente, invece, formare gruppi solo di individui con
disturbi della condotta perché, in questo caso, si rischia il consolidamento di comportamenti devianti per meccanismi quali leaderismo o imitazione.
Il Cognitive Problem Solving Skills Training è un approccio rivolto alla modificazione delle distorsioni cognitive dei
soggetti antisociali che tendono ad attribuire ad altri la responsabilità delle proprie azioni. Il training si basa sul consolidamento delle capacità empatiche e prosociali attraverso esercizi, giochi
di ruolo, incentivi e punizioni. E’ indispensabile, per l’efficacia
del trattamento, la partecipazione collaborativa del terapeuta alle
attività.
• Il trattamento farmacologico
Il trattamento farmacologico, soprattutto se somministrato a minori, può fornire una soluzione incompleta e parziale per la cura delle condotte aggressive; affinché lo psicofarmaco si riveli efficace è necessario accostarlo ad un trattamento psicoterapico di
supporto e sostegno. Il farmaco può essere utilmente introdotto
in un trattamento solo se si instaura tra medico e paziente un
rapporto positivo, fondato sulla fiducia e sulla confidenza. In
adolescenza, infatti, l’assunzione di un farmaco può acquisire,
nella mente del giovane violento, “un significato magico, con
fantasie di veneficio o salvifiche” (Picozzi, Ingrascì, 2002, 166).
Nel giovane può farsi strada la fantasia di essere controllato e
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Dal disagio sociale alla microcriminalità: i vettori antisociali
modificato dal medicinale, spesso percepito o come un prolungamento del potere genitoriale oppure come una componente
che limita pesantemente la propria libertà personale. E’ proprio
alla luce di queste considerazioni che la relazione paziente – terapeuta può essere indispensabile per superare le fantasie del giovane e produrre un effetto curativo efficace e stabile.
Non esistendo farmaci specifici deputati al controllo delle
condotte violente, per contenere gli episodi di aggressività si utilizzano diversi farmaci, in particolare: antidepressivi, stabilizzatori dell’umore e anticonvulsivanti, antipertensivi (per i disturbi del
comportamento su base organica e lesionale), neurolettici e stimolanti (per i bambini con ADHD). Il problema del dosaggio è
abbastanza diffuso nei trattamenti farmacologici destinati a bambini e adolescenti; si tende ad oscillare tra i poli opposti di un dosaggio o esageratamente alto o basso; la somministrazione impropria può produrre spiacevoli effetti collaterali spesso causa di
precoci abbandoni e dell’interruzione dell’alleanza terapeutica.
La popolazione dei giovani autori di reati violenti, come descritto sopra, è molto variegata e ricca di comorbidità con altri
disturbi quali: il disturbo dell’umore o l’abuso di sostanze psicotrope.Alla luce di queste differenze, gli interventi terapeutici sui
giovani antisociali e violenti necessitano di studi ulteriori al fine
di individuare trattamenti ancora più mirati, tali da assicurare risultati più stabili e duraturi.
Preme precisare, a conclusione di questo lavoro, l’indiscutibile priorità da assegnare, nel campo della cura dei giovani violenti, al trattamento preventivo che, partendo dall’osservazione di
fattori predittivi, riesce ad intervenire in modo tempestivo sul
disagio impedendo la degenerazione della sofferenza individuale
e sociale in criminalità e violenza.
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LE TESI
Adele Colazzo
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