Ritorno alla lira – pesanti ripercussioni Emilio Rossi – 20 Maggio 2014 L’euroscetticismo che si sta manifestando in Italia (e in varie parti d’Europa) trova la sua radice nei problemi occupazionali e nella difficolta’ delle imprese a far fronte a radicali cambiamenti storici i cui effetti si sono palesati dal 2000 in poi. Tra questi e’ ovvio ricordare la globalizzazione, l’accelerazione dell’utilizzo di nuove tecnologie, la comparsa di nuovi competitori, la crescita vertiginosa dei costi previdenziali e assistenziali legati all’invecchiamento della popolazione, la crisi del 2008. Gli euro-scettici italiani (e in altre parti d’Europa) puntano invece ad addossare le responsabilita’ delle difficolta’ economiche strutturali e occupazionali all’introduzione della moneta unica. L’analisi di alcuni semplici fatti unita ai risultati di una simulazione di Oxford Economics ci fanno capire quanto questa impostazione sia fallace e quanto irrecuperabilmente dannoso sarebbe uscire dall’euro e ritornare alla lira. I criteri per l’adesione alla moneta unica furono definiti nel 1992 con il Trattato di Maastricht, l’euro fu adottato ufficialmente nel 1999 ed entro’ in circolazione in dodici Paesi europei a partire dal 1º gennaio 2002. Cambio lira/euro sfavorevole? Un luogo comune da sfatare e’ che il cambio lira-euro sia stato sfavorevole per l’Italia. La lira usci’ dallo SME (Sistema monetario europeo, in vigore dal 1979 e predecessore dell’euro) nel settembre 1992, passando da un cambio lira-marco tedesco di circa 750 lire per marco a circa 1000 lire per marco nel 1993, livello che i mercati finanziari ritennero appropriato, tra fluttuazioni varie, fino al 1996. La parita’ concordata da Ciampi nel 1996 per il rientro della lira nell’euro fu equivalente a 990 lire per marco (che nel 1999 porto’ al cambio di 1936,27 lire per euro), il 32% inferiore al valore precedente all’uscita dallo SME, a fronte di un differenziale di inflazione accumulato in tre anni di circa il 3.5%. La domanda a questo punto andrebbe ribaltata. Quale sarebbe stato il valore “corretto” lira/euro? Se la svalutazione fosse stata di alcuni percentuali in piu’ di quanto effettivamente concordato, l’effetto di recupero addizionale di competitivita’ non sarebbe stato tale da evitare all’Italia i quindici anni di crescita piu’ bassa in Europa e tra le piu’ basse al mondo. L’ipotesi di una ulteriore svalutazione significativamente piu’ pesante (per esempio tra il 50% e il 60%) non sarebbe mai stata accettata dagli altri paesi europei, fermo restando che il 32% concordato (quasi il 30% in termini reali) era gia’ un fortissimo recupero di competitivita’ di prezzo. Inoltre, se avessimo svalutato del 60%, l’impatto sull’inflazione sarebbe stato tale da portare i tassi di interesse sul debito pubblico a livelli insostenibili per la nostra stessa economia e per un debito pubblico di circa il 120% del Pil. La manovra Amato (la manovra di finanza pubblica tra le maggiori mai fatte in Italia), avrebbe dovuto essere ancora piu’ draconiana. Il cambio lira-marco concordato nel 1996 e poi tradottosi nel cambio lira-euro del 1999 appare dunque appropriato anche per la stabilita’ dell’economia italiana. La crisi del 2008 ha poi fatto esplodere alcune pesanti contraddizioni presenti nella costruzione della moneta unica: la mancanza di una singola gestione del settore bancario, l’assenza di una vera condivisione delle politiche fiscali e la conseguente sostanziale difformita’ del rischio sovrano tra i vari paesi aderenti. Nella tempesta che e’ seguita alla crisi “sub-prime” originata negli USA, si sono distinti due gruppi di paesi europei: quelli oggi definiti “periferici” (Portogallo, Italia, Irlanda, Grecia, Spagna e Cipro) e i rimanenti, definiti “core”. E’ molto semplice constatare che i paesi “core” sono stati in grado di affrontare la peggior crisi del secondo dopoguerra facendo leva su riforme interne e sul bonus che proprio l’euro aveva “regalato” a tutti gli aderenti alla moneta unica, tramite l’abbassamento dell’intero spettro di scadenze dei tassi di interesse. Disoccupazione colpa dell’euro? Se e’ vero che dal 2000 ad oggi la crescita economica dell’area euro e’ stata mediamente solo dello 0.8% (vedi grafico), la prospettiva cambia in maniera rilevante se si considera lo shock esterno costituito dalla crisi sub-prime del 2008-09. PIL – crescita media annua 2001-13 Fonte: Oxford Economics Ad eccezione dei paesi “periferici”, l’andamento del Pil e dell’occupazione a partire dalla fine della crisi nei paesi dell’eurozona si configura sostanzialmente come quello di un ciclo economico di paesi ad economia matura. I paesi “core” sono stati in grado, utilizzando tradizionali politiche di bilancio e del mercato del lavoro, di attraversare senza gravi scossoni la piu’ pesante crisi economica dagli anni ‘30. In questi paesi il confronto tra i tassi di disoccupazione negli anni precedenti la crisi del 2008 con quelli attuali rivela, infatti, una sostanziale stabilita’, con la disoccupazione francese aumentata di un punto percentuale e mezzo e quella tedesca oggi addirittura piu’ bassa di quasi due punti rispetto al 2008. Gli altri paesi “core” si posizionano all’interno di questa forchetta mentre in Italia la disoccupazione e’ aumentata di circa sei punti percentuali nello stesso periodo. La constatazione che solo pochi paesi si siano trovati in gravi difficolta’ dovrebbe farci riflettere sugli errori commessi dal nostro sistema paese nel periodo dalla creazione dell’euro in poi, anche in considerazione del bonus di risparmi (stimabile tra i 50 e i 60 miliardi di euro all’anno) sul servizio del debito che l’adozione dell’euro ci ha offerto. Tra gli errori piu’ rilevanti bastera’ citare l’aumento della spesa pubblica in rapporto al Pil negli anni 2000-2006 e 2008-2010, aumento non compensato da aumenti di tasse ne’ da effettiva lotta all’evasione fiscale, e le mancate riforme dei mercati di beni e servizi nonche’ del mercato del lavoro. Il combinato disposto dei vari errori commessi ha posizionato l’Italia come paese debole nei confronti di un eventuale shock esterno – nel momento in cui la crisi USA ha manifestato i suoi effetti in Europa, i paesi deboli come l’Italia hanno pagato lo scotto degli errori precedenti. Le cause delle difficolta’ del sistema Italia non dipendono quindi dall’euro, ma da scelte di politica economica dissennate e tese a conservare lo statu quo invece di avviare le riforme necessarie ad affrontare i cambiamenti che nel frattempo stavano avvenendo nel mondo e nel paese. Ma cosa succederebbe se oggi per scelta politica si reintroducesse la lira? Conseguenze del ritorno alla lira. I primi effetti di un annuncio dell’uscita unilaterale dell’Italia dall’euro si manifesterebbero nel giro di poche settimane. E’ poi difficile immaginare che l’avvio di una tale procedura possa non contagiare, nel giro di pochi mesi, altri paesi “periferici” e in definitiva l’intera costruzione dell’euro, in quanto decreterebbe l’esistenza di differenti livelli di affidabilita’ degli stati, cosa inconcepibile per una moneta unica. Se l’euro possa continuare a esistere e in che modo e’ argomento complesso perche’ molto dipendente dalle azioni che i paesi “core” andrebbero a intraprendere. All’avvio della procedura di uscita dell’Italia dall’euro (procedura peraltro non prevista nei trattati) si avrebbero una serie di effetti nel giro di poche settimane, al massimo entro pochi mesi: 1) Svalutazione della lira ad un livello definito dai mercati. Nessun analista ritiene che la perdita di valore della moneta sarebbe inferiore al 30% (se fosse significativamente inferiore sarebbe peraltro pressoche’ inutile uscire), e alcuni stimano piu’ realisticamente il 60% come ad esempio uno studio recente della UBS. E’ probabile che la svalutazione finirebbe per essere almeno del 50% (concorda, tra gli altri, anche il professor Tabellini, fino allo scorso anno rettore della Bocconi), per compensare la perdita di produttivita’ dell’Italia sulla Germania negli ultimi dieci anni piu’ un sostanzioso “premio” al rischio per gli investitori. 2) Ristrutturazione del debito e perdita di fiducia degli investitori internazionali. Il debito andrebbe immediatamente ridenominato in lire, per la parte ove cio’ sia possibile – altrimenti il suo valore nominale raddoppierebbe. L’inevitabile ristrutturazione del debito potrebbe riguardare: a) la sola componente detenuta da investitori italiani che si vedrebbero restituire le loro obbligazioni al valore delle nuove lire, lasciando quindi invariato il valore della quota di debito pubblico “domestico” rispetto al Pil, visto che il Pil sarebbe ovviamente calcolato in lire – ma lasciando in euro la quota di debito in mano a investitori esteri (oggi circa il 30%), tale quota raddoppierebbe facendo aumentare il debito complessivo di quasi un terzo, superando il 180% del Pil; oppure b) anche l’intero panorama degli investitori internazionali che hanno acquistato titoli di diritto italiano. In questo caso, la ristrutturazione del debito italiano comporterebbe una tale crisi di fiducia nel sistema Italia da determinare l’abbandono da parte degli investitori internazionali dei mercati italiani. Per dare un senso logico all’operazione, infatti, l’accordo dovrebbe essere di una dimensione sostanzialmente indigeribile per gli investitori, sia nazionali che internazionali, che oltre alla svalutazione dovrebbero subire almeno una ulteriore sforbiciata che consenta di portare il rapporto debito/Pil a un valore almeno intorno a 100. L’aumento dei tassi di interesse avrebbe conseguenze non solo sull’Italia ma su tutti i paesi periferici, dato che lo spettro della disintegrazione dell’euro si farebbe di nuovo concreto 3) Default. Data la mobilita’ globale dei capitali, qualsiasi investitore, nazionale o straniero che sia, deciderebbe rapidamente di ritirare i suoi capitali dall’Italia e di spostarli su un altro paese ritenuto piu’ affidabile e a moneta piu’ forte. In Italia intanto l’assalto agli sportelli bancari sarebbe inevitabile. La vendita precipitosa e contemporanea degli asset italiani farebbe precipitare le quotazioni dei mercati azionari e obbligazionari (e in un tempo piu’ lungo anche di quello immobiliare), determinando una forte salita di tutto lo spettro dei rendimenti italiani, inclusi quelli per il servizio del debito. Il Tesoro italiano si troverebbe quindi presto nell’impossibilita’ concreta di emettere nuovi titoli e di far fronte ai pagamenti di stipendi pubblici, pensioni, fornitori, ecc.. 4) Forte recessione e inflazione elevata. Gli elevati tassi di interesse si rifletterebbero negativamente sul credito alle imprese, sui mutui, sul credito al consumo, ecc. deprimendo di nuovo l’attivita’ economica e l’occupazione. Una mossa inevitabile sarebbe quella di riportare la Banca d’Italia al suo ruolo di banca centrale per consentirle di effettuare una politica monetaria espansiva a supporto delle imprese e soprattutto del settore bancario che sarebbe quello piu’ colpito dal combinato disposto di recessione, fallimenti e consumatori con scarsa affidabilita’ di credito. Questo rinnovato ruolo della Banca d’Italia potrebbe consentire anche di finanziare il debito pubblico (ricreando una banca centrale al servizio del Tesoro) ma la “valvola di sfogo” della monetizzazione del debito avrebbe un ovvio effetto di “azzardo morale”: quale governo sarebbe indotto a tenere sotto controllo i conti pubblici, se sa che può sempre imporre alla banca centrale di comprarsi i titoli del debito pubblico? Allo stesso tempo, la forte svalutazione comporterebbe un altrettanto forte aumento nei costi di approvvigionamento energetico e di materiali e prodotti esteri (l’Italia rimane ancora oggi un paese scarso di risorse naturali e un’economia di trasformazione). Tra politica monetaria espansiva e aumento vertiginoso dei costi di importazione, l’inflazione tornerebbe rapidamente a viaggiare a ritmi sud-americani. E’ appena il caso di ricordare che una alta inflazione e’ equivalente ad una tassa indiretta, che colpirebbe percettori di salari, stipendi e redditi (quelli non allineabili all’inflazione) indipendentemente dal reddito e in misura molto maggiore di quello a cui abbiamo assistito negli ultimi anni. 5) Aumento dei costi di importazione e breve durata dei vantaggi per l’export. L’aumento della bolletta energetica e dei prezzi all’import di beni e servizi peserebbe immediatamente sui conti con l’estero, mentre l’inflazione a doppia cifra finirebbe per mangiarsi in pochi anni il vantaggio competitivo di prezzo di cui godrebbero le esportazioni. A questo proposito va anche ricordato che per i nostri prodotti la competitivita’ di prezzo non ha piu’ la stessa importanza che aveva fino a venti anni fa. Oggi i mercati dei prodotti a basso costo sono territorio dei paesi emergenti dove il costo della manodopera e’ basso e le condizioni di lavoro ancora non riflettono una cultura attenta ai diritti dei lavoratori. Per provare a quantificare l’impatto combinato dei fattori elencati sopra, usiamo uno scenario prodotto da Oxford Economics a inizio 2012, ossia al culmine della crisi greca. Tale studio limitava la svalutazione attesa della lira al 25%, grazie a una uscita concordata con il resto dell’Eurozona, mentre la Grecia avrebbe svalutato del 50% (il nostro destino in caso di uscita unilaterale) e avrebbe visto i suoi tassi di interesse salire del 20%. Nella situazione odierna, considerando l’ipotesi di una uscita unilaterale dell’Italia e una svalutazione del 50%, l’Italia avrebbe una perdita di Pil molto vicina al 20% in due anni, con ulteriore decrescita nel terzo anno, un incremento dei tassi di interesse di almeno il 15% e un tasso medio sul debito di circa il 18%. L’inflazione allo stesso tempo salirebbe oltre il 10%, nonostante il forte aumento dei tassi di interesse e la forte recessione. Dal quadro appena analizzato emerge con chiarezza l’incompatibilita’ tra un sistema economico e monetario moderno e il ritorno alla lira. Il finanziamento da parte della banca centrale delle spese dello stato darebbe luogo a svalutazioni successive e a fughe di capitali, facendo salire i tassi d’interesse su livelli significativamente più elevati. Per fare cio’ sarebbe necessario ripristinare i controlli sui movimenti di capitale, per impedire ai cittadini di investire all’estero e obbligarli a usare i loro risparmi solo in titoli nazionali, anche se fossero più rischiosi e con minore rendimento. Bisognerebbe, inoltre, costringere il sistema bancario ad acquistare titoli di Stato, imponendo vincoli di portafoglio come quelli che venivano usati negli anni ‘70. Queste misure non sono compatibili con l’attuazione di un mercato integrato come quello che è stato realizzato negli ultimi 20 anni in Europa. Chi propone di uscire dall’euro, e di ripristinare le condizioni istituzionali degli anni ’70 propone in realtà che l’Italia esca dall’Unione Europea, anche se probabilmente non se ne rende conto. Emilio Rossi Senior Advisor, Oxford Economics Presidente, EconPartners