Dottrina sociale della Chiesa e Terzo settore Riccardo Bonacina Il nostro primo bene comune Ragionare oggi su DSC e Terzo Settore credo significhi innanzitutto piegarsi a considerare con grande serietà e umiltà il grande giacimento di generosità e gratuità presente in questo Paese e che non ha paragoni in Europa (bisogna guardare all’Africa o all’America Latina per trovare qualcosa di simile, ma là hanno molti meno mezzi). Dobbiamo guardare a questo patrimonio e considerare come esso sia frutto di una storia secolare (e di una storia in cui la Chiesa e i movimenti cattolici hanno avuto grande parte), che arriva sino a noi come grande eredità ma anche come un bene che possibile sperperare e buttar via. Un bene grande eppur così fragile perché affidato alle mani di questa generazione, affidato a noi. Piegarsi a riconsiderare, quindi, questo patrimonio perché questo è il nostro primo bene comune, cioè un bene, così come definito dalla DSC: “di tutti e di ciascuno, ciè che permette a ciascuno di esercitare la propria soggettività e i propri diritti, e per questo è indivisibile”. Siete troppo esperti e quindi non starò a ricordare i contorni di questo giacimento. Ma certo alcuni dati impressionano più di altri, perciò li ricordo: il quasi milione di italiani che impegnano almeno ½ giornata per aiutare gli altri; i quasi 7 milioni di italiani utenti dei servizi del volontariato (tra cui 3,5 milioni di malati e traumatizzati, 650mila non autosufficienti, 500mila minori)). E ancora le 6500 cooperative sociali con 220mila soci, cooperative che danno lavoro e cittadinanza a 25mila persone con svantaggio, o le 220 istituzioni non profit impegnate a vario titolo nel soccorso, nelle emergenze, nella cooperazione internazionale. Un giacimento che oggi rischia di depauperarsi per sufficienza, per pressioni strutturali (il welfare esternalizzato), per in-coscienza. Questo giacimento si chiama società civile organizzata, è il luogo in cui si esprimono la gratuità di tanti, la voglia di partecipazione, l’impegno. Se continuiamo a guardare a questa ricchezza come a qualcosa cui attingere e non come qualcosa da produrre e vivificare ogni giorno, prima o poi finirà e già se ne vedono i segni. Ripartire dall’io Se guardiamo a questo giacimento come a qualcosa da produrre e sempre vivificare, credo sia ormai urgente ripartire dall’io delle persone. Si capiscono così i ripetuti inviti giunti dal IV Convegno ecclesiale di Verona dell’ottobre scorso, in cui dal Cardinal Tettamanzi a Pezzotta hanno invitato a guardare alla questione sociale come ad una questione antropologica. Sino al vero e proprio appello di Benedetto XVI: «Questione fondamentale e decisiva è quella dell’educazione della persona». In un’epoca in cui le identità sono andate in frantumi e con loro la stesso struttura morale degli individui se non si si parla all’io delle persone non si sono valori e morali che tengano così come è utopico immaginarsi nuovi tessutti connettivi. All’uomo dìoggi è difficile dire con qualche cognizione la parola “io”, e perciò anche la parola “tu”. «Educare alla vita sociale significa», diceva don Luigi Giussani, un grande ducatore, «aiutare l'impatto dell'io con la realtà, favorirlo. Un uomo si conosce quando è in azione, quando la libertà di agire, di fare, di rispondere alle necessità della persona è messa in moto. Bisogna lanciare l’io di ciascuno». Una sfida che i cattolici dovrebbero fare propria perchè il cristiano ha sperimentato per primo cosa significa “esser chiamati”. Come disse Giovanni Paolo II ai giovani in occasione del Giubileo 2000, «Europa, pace mondiale, libertà di religione, ma cosa posso fare io da solo? Posso dare qualche contributo personale? Io vi rispondo: Sì, tu da solo puoi mettere qualche cosa in movimento; perché ogni buona risoluzione, ogni pronta assunzione di un compito comincia sempre nell’uomo singolo”. Del resto uno dei capisaldi della Dottrina sociale della Chiesa, la Centesimus Annus, recita: «La Chiesa non ha modelli da proporre, non ha titoli per esprimere preferenze per l’una o l’altra soluzione istituzionale. Il contributo che essa offre all’ordine mondano è proprio nella visione della dignità della persona». Interpellare l’io nella sua dignità per invitarlo a percosrsi di gratuità e di fratellenza, ecco a cosa dobbiamo educare. Così che il giacimento cui accennavo ritorni ad essere produttore di soggetti capace di generare nuova società. Ricostituire il patrimonio di gratuità e generare fraternità Qual è questa proposta da fare all’io delle persone, quali sono i suoi contorni? Rigenerare percorsi di gratuità e di fraternità. Credo che oggi la missione specifica dei cattolici impegnati nel Terzo settore, sia quella di propagare la logica della gratuità e l’etica del bene comune. Altrimenti la crisi di crescita e di coscienza di questi ultimi anni non potrà che aggravarsi (è come se il Terzo settore, una volta ammesso al Tavolo delle parti sociali si sia seduto senza più rialzarsi). Per fare delle cose buone bastano le fondazioni d’impresa o quelle ex bancarie, per assistere i bisognosi basta forse un’amministrazione pubblica un po’ più efficiente. Ma la gratuità e le relazioni di fraternità non le producono né lo Stato né il mercato. Nelle attuali condizioni storiche la missione specifica del Terzo settore è quella di costituire la forza trainante per la propagazione, nelle sfere sia politica sia economica, della logica della gratuità. Se invece, ci si accontenterà di svolgere meri ruoli di supplenza delle pubbliche istituzioni oppure si limiterà a presidiare la nicchia che con meritato successo si è riusciti a conquistare fino ad oggi, allora, sarà difficile che esso possa scongiurare una lenta eutanasia. E ciò per l’ovvia ragione che per assolvere a tali compiti bastano – e avanzano la filantropia compassionevole, per un verso e lo Stato assistenziale, per l’altro verso. Per dirla in altro modo, il contributo più significativo che il volontariato può dare alla società di oggi è quello di affrettare il passaggio dal dono come atto privato compiuto nelle relazioni a corto raggio, al dono come atto pubblico che interviene sulle relazioni ad ampio raggio. Il volontariato autentico, affermando il primato della relazione sul suo esonero, del legame intersoggettivo sul bene donato, dell’identità personale sull’utile può favorire la nascita di comunità, per dirla con Roberto Esposito, in cui l’accento sia posto sulla condivisione (cum-munus: donare insieme, mettere insieme i doni,) e non sull’immunità (inmunus: chiudersi per non donare). La specificità del volontariato, infatti, è la costruzione di particolari legami fra le persone. Laddove l’organizzazione filantropica fa per gli altri, il volontario fa con gli altri. Gratuità, infatti, non implica il disinteresse, ma un interesse superiore: costruire la fraternità. La forza del dono gratuito non sta nella cosa donata o nel quantum donato ma nella speciale cifra che il dono rappresenta per il fatto di costituire una relazione tra persone. E’ in ciò – come si può ben comprendere – il principio generatore della socialità umana, per distinguerla dalla socialità non umana. L’azione volontaria è quella che pratica la difficile arte di trattare con rispetto il bisogno percepito dell’altro. La logica del dono gratuito, infatti, è basata sulla circostanza che il legame sostituisce il bene donato o comunque che il primo è più importante del secondo. Come ha magistralmente scritto Benedetto XVI nella Deus est caritas: “L’intima partecipazione personale al bisogno e alla sofferenza dell’altro, diventa così un partecipargli me stesso: perché il dono non umili l’altro, devo dargli non soltanto qualcosa di mio ma me stesso, devo essere presente nel dono come persona” (n. 34). La libertà come causa politica Ripartire dalla persona e dall’io con una proposta educativa. Questo è il compito, ma c’è una seconda attenzione e urgenza verso la grande eredità che ci è stata affidata, ed è quella di rimettere al centro l’importanza, la libertà e l’autonomia delle formazioni sociali perché, come ci insegna la Dottrina sociale della Chiesa, “è lì che si svolge la personalità dell’individuo e la sua responsabilità”. L’art 2 della Costituzione (“La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”) è un caposaldo da questo punto di vista e fu proprio frutto di una visione cattolica dell’uomo e della società, fu un rovesciamento totale rispetto alla concezione precedente dello Stato liberale d’origine risorgimentale. Era il frutto di una reazione all’idea che non dovessero esserci formazioni differenti e plurali tra l’individuo e lo Stato perché quest’ultimo (e qui la concezione liberale e quella comunista si toccano) era capace di rappresentare tutti gli interessi pubblici, e quindi anche quelli individuali, lo Stato era la sintesi di tutto. Ecco come argomentò Aldo Moro la necessità della formulazione dell’art. 2: “Si mette in rilievo cioè che la fonte della dignità, dell’autonomia e della libertà umana, espressione dei diritti dell’uomo, non appartiene allo Stato. Lo Stato veramente democratico riconosce e garantisce non soltanto i diritti dell’uomo isolato, che sarebbe in realtà un’astrazione, ma i diritti dell’uomo associato secondo una libera vocazione sociale”. Sessantanni dopo (e dopo una stagione bella 1990/2000 che portò all’articolo 118 della legge di riforma costituzionale nel 2001) dobbiamo riconoscere che non solo la legittimazione dell’importanza dei soggetti sociali è sempre messa in discussione, ma che anche questi soggetti sono oggi in crisi di identità e di pensiero. Occorrerebbe al mondo cattolico il coraggio e un’intensità di visione pari a quella dei padri della Repubblica per riprendere il cammino con una nuova fase costituente. L’art 2 della costituzione, fu tenacemente voluto ed elaborato dai cattolici (da lì discendono partiti, sindacati, autonomie locali) ma non è ancora servito a garantire condizioni adeguate ad altre formazioni sociali ancora appese al Libro Primo Titolo II del codice Civile scritto nel 1942 (le persone giuridiche sotto la signoria totale dello Stato, e al libro V art 2247, in cui è prevista solo l’impresa a fini di lucro. Che battaglia culturale dovremmo fare…. Don Luigi Giussani in “L’io, il potere e le opere”) avvertiva: “Il potere diventa prepotenza di fronte all’impotenza dell’io perseguita attraverso la riduzione sistematica e la frammentazione dei desideri, delle esigenze. Nell'appiattimento del desiderio ha origine lo smarrimento dei giovani e il cinismo degli adulti. Nella astenia qual è l'alternativa? Un volontarismo senza respiro e senza orizzonte, senza spazi di libertà. Un moralismo di appoggio allo Stato?”. Ecco perché un'organizzazione politica che soffocasse, non favorisse e non difendesse la creatività sociale, darebbe vita ad uno Stato prepotente sulla società, ci ha sempre avvertito la DSC. La responsabilità personale e sociale sarebbero allora evocate semplicemente per suscitare consenso alle cose programmate. Persino la moralità sarebbe concepita e suscitata in funzione dello Status quo. Vaclav Bélohradsky, sociologo cecoslovacco avvertiva, "attenti, gli Stati si programmano i cittadini, le industrie i consumatori, le case editrici i lettori, ecc. Tutta la società un po' alla volta diviene qualcosa che lo Stato si produce". E P. P. Pasolini suggeriva che “uno Stato come assetto di potere è praticamente immodificabile se gli si permette di lasciare spazio solo all'utopia consapevole che essa non regge alla prova; oppure alla nostalgia individuale cosciente della sua impotenza a determinare qualsiasi cambiamento”.