CATTEDRALE, 31 DICEMBRE
SANTA MESSA – CANTO TE DEUM
DIRE GRAZIE
Siamo qui riuniti per dire “grazie”.
Questa parola è molto importante, per la nostra esperienza umana oltre
che cristiana, eppure ho l’impressione che, come tante altre parole
importantissime del nostro vocabolario più intimo e personale, rischi di subire
una svalutazione radicale.
Quante volte diciamo “grazie” ogni giorno, ma quanto poco pensiamo al
significato della parola: ci riesce difficile dirla in profondità, privata del suo
senso profondo, usata a proposito e a sproposito, ridotta a pura e semplice
consuetudine sociale. Perché questa parola è così povera di senso profondo?
Pongo la domanda perché, probabilmente, dietro alla parola c’è un significato
di grande importanza per la nostra vita. Provo a suggerire tre risposte.
La prima risposta è che, forse, abbiamo smarrito o lasciato andare sullo
sfondo piuttosto nebbioso della nostra coscienza il vero volto di Dio. Prendiamo
la cosa da lontano, ma sono convinto che il modo di concepire il volto di Dio e
la sua identità sia decisivo per poter dire “grazie” in maniera piena e onesta.
Nella prima lettura, tratta dal libro dei Numeri, già Mosè augura al popolo
questa visione: “Il Signore faccia risplendere per te il suo volto e - aggiunge ti faccia grazia” (Nm 6,25). Cosa vuol dire? Vuol dire che il volto di Dio è
accompagnato dalla manifestazione della gratuità del suo amore e della sua
amicizia. Questa è stata la grande esperienza di Israele, il motivo per cui
Israele ha imparato a distinguere, con molta chiarezza, tra il Dio che si era
fatto prossimo al suo cammino di liberazione e le divinità dei popoli
circonvicini, che invece erano dei padroni, esigevano sacrifici ed occorreva
tenerseli buoni, perché non si sapeva mai come la pensassero. Il Dio, che
aveva cominciato a manifestarsi ad Abramo e aveva poi fatto un passo avanti
con Mosè al roveto ardente, era un Dio di grazia. “Il Signore faccia risplendere
per te il suo volto e ti faccia grazia”: ecco, noi abbiamo smarrito il volto
Paterno e gratuito di Dio.
Nella seconda lettura San Paolo ci ricorda che questo Dio ci ha mandato il
suo Figlio perché anche noi diventassimo figli. “Non siete più schiavi” (Gal 4,7),
ci dice, come dire: non vivete più nella paura o nella ricerca del vostro
personale interesse davanti alla controparte divina, come se si dovesse in
qualche modo riuscire a pareggiare i conti. “Dio è Padre” (Gal 4,6), dice Paolo
in questo splendido testo della lettera ai Galati, usando anzi una parola ancora
più significativa, perché lo Spirito del Figlio, lo Spirito di Gesù, ci permette di
rivolgerci a Dio chiamandolo, con un termine meno solenne, “abbà”, “papà”.
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Quanti di noi in casa chiamano il proprio genitore “padre” o, piuttosto, “papà”,
“babbo” se di origini toscane? Ciò vuol dire che da parte di Dio c’è una
condiscendenza gratuita (teniamo bene a mente questo termine: gratuita) e da
parte nostra una confidenza, una fiducia, un abbandono alla sua amorevolezza
paterna ed è per questo, per questa gratuità dell’amore di Dio, che noi siamo
chiamati alla gratitudine. Queste due parole si richiamano a vicenda: solo
quando uno sa si avere ricevuto un dono che supera qualsiasi pretesa,
esigenza o diritto soggettivo è capace di dire un “grazie” finalmente con un
contenuto.
La cosa però non si ferma qui, ed è la seconda risposta che diamo,
perché avendo un unico Padre, noi dovremmo considerarci tutti fratelli e fratelli
di un Padre che ci fa grazia, ci concede pace, si dà da fare per noi e questo
“essere fratelli” dovrebbe essere lo sfondo di qualsiasi altra nostra relazione
interpersonale. Proviamo a pensare: quante delle nostre relazioni, non dico
personali ma tra persone, tra uomini e donne, si iscrivono in questo orizzonte
di gratuità, che dovrebbe essere tipico di una comunione familiare, di una
comunione fraterna? E’ vero, piuttosto, che ci poniamo gli uni nei confronti
degli altri come rissosi avversari o concorrenti o, nella migliore delle ipotesi, ci
rassegniamo a considerare gli altri come diffidenti soci di impresa, cercando
semplicemente di avere il nostro tornaconto, qualunque sia il rapporto, la
relazione che stiamo vivendo. Quando sparisce dal nostro orizzonte, la logica
della gratuità, sparisce anche quella della gratitudine: continueremo a dire
grazie, per qualcuno che ci apre la porta, o ci fa passare prima nell’ascensore,
ma questa parola non avrà quasi più nessun senso. La gratitudine è figlia
dell’esperienza della gratuità. Domandiamoci: che fine ha fatto l’esperienza del
dono in queste feste natalizie, quando abbiamo fatto i pacchettini, quando li
abbiamo fatti trovare ai nostri bimbi sotto l’albero, o vicino al presepe, ma
anche quando ce li siamo scambiati tra adulti? E’ stata manifestazione di
quanto c’è di gratuità nella nostra vita? Forse è più facile che questo sia
successo tra genitori e figli, perché in questo caso l’elemento di gratuità è così
spinto dalle circostanze e dalla natura, che facciamo fatica a soffocarlo, ma con
gli amici, con i parenti più o meno stretti, più o meno lontani, con i colleghi:
dove finisce la gratuità, dove il volto di un Dio che ha fatto tutto gratis per noi?
Viviamo con serenità le abitudini sociali, che non sono da demonizzare e
nemmeno buttiamo via le convenienze personali, ma non possono queste cose
prendere il sopravvento e avere quasi il monopolio nella nostra capacità di
relazione tra persone: se non c’è la gratuità, se non c’è la somiglianza con Dio,
se non riusciamo ad amare i nostri nemici, a voler bene agli antipatici, a
prenderci cura dei poveri che non avranno mai la possibilità di restituire, in una
parola se non ci muoviamo sulla linea della gratuità, ma pretendiamo sempre e
soltanto, con cuore un po’ supponente per la nostra onestà e giustizia, di
controllare sempre che, alla fine della riga, ci sia un conto in positivo, noi
perdiamo l’aspetto più bello della nostra vita, noi degradiamo la nostra
umanità.
Per finire, un cenno al terzo motivo per il quale la parola “grazia” non è
più così viva, vera e profonda dentro di noi: il motivo è che non assomigliamo
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a Maria. Cosa faceva Maria? Il Vangelo di Luca, con un’osservazione
preziosissima, per capire l’interiorità della Madre di Dio, dice: “Ella conservava
tutte queste cose, meditandole nel cuore” (Lc 2,19). Domandiamoci: cosa
meditiamo noi nel cuore? I nostri sacrosanti e irrinunciabili diritti? La necessità
di difendere la nostra dignità, minacciata dal giudizio degli altri? La
preoccupazione per il futuro? La possibilità di superare senza troppi danni
questo momento di crisi? Tutte cose giuste, ma solo queste? Sono queste le
cose più importanti della vita o non vale piuttosto la pena di meditare sui doni
che riceviamo, sul fatto che tutto ciò che noi siamo è frutto di un amore
gratuito che Dio manifesta direttamente e, indirettamente, attraverso l’amore
di tante e tante persone che hanno attraversato positivamente il cammino
della nostra vita?
Mentre mi avvio alla conclusione, mi viene in mente la prima lettera ai
Corinzi, nella quale San Paolo esprime la propria preoccupazione per una
comunità divisa, slabbrata, non fraterna, polarizzata attorno ad alcune
appartenenze rigide: in essa si litiga, si contrasta, si invidia, si è gelosi gli uni
degli altri. Cosa dice Paolo? Fratelli, “tutto è vostro” (1Cor 3,22), tutte le cose
di cui siete circondati dovete considerarle come vostre: il mondo, la vita, la
morte; non il passato, ma il presente ed il futuro: tutto è vostro. Ma - ecco la
soluzione – “voi siete di Cristo e Cristo è di Dio” (1Cor 3,23) e Cristo è colui
che è stato mandato a nascere da una donna, a nascere sotto la legge, perché
noi fossimo finalmente elevati alla dignità di figli, amati gratuitamente di Dio e
resi capaci di vivere una libertà totale da noi stessi e dall’egoismo: noi siamo di
Cristo e Cristo è dell’unico e vero Dio, che è il suo “papà” e che ci ha mandato
il Figlio perché noi smettessimo di avere paura, smettessimo di comportarci
come schiavi, rissosi nei suoi confronti e gli uni nei confronti degli altri, per
essere finalmente figli e fratelli.
Questo è allora il nostro proposito, nella sera dell’ultimo giorno dell’anno:
consegnare la nostra vita a Cristo, come maestro e come modello, Lui che ci ha
detto di essere per noi, Via, Verità e Vita.
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