Introduzione alla Relazione di Mons. Lorenzo Leuzzi sul Capitolo III della Caritas in Veritate di Mons. Delio Lucarelli Vescovo di Rieti Sono molto lieto dell’iniziativa della Federlazio di Rieti che ha voluto promuovere questo incontro di riflessione sulla Caritas in Veritate del Papa Benedetto XVI, in vista di un approfondimento sereno e intenso di alcuni aspetti legati all’economia, soprattutto quella prodotta dalle piccole e medie imprese, e plaudo alla felice scelta del relatore che saprà addentrarci in questo documento che il Pontefice ha voluto consegnare alla Chiesa: la sua terza enciclica, dopo la Deus caritas est e la Spe Salvi. Mi preme soprattutto sottolineare come la dimensione economica dell’attività umana non possa andare disgiunta da quella morale, non per motivi ideologici soltanto, ma anche per motivi economici. Se l’economia non ha un fondamento morale, non ne risente solo la coscienza umana, ma la stessa economia, perché sarebbe come eliminare dalla persona umana, magari in piena salute, la dimensione affettiva, sentimentale, emotiva: se fossero sacrificati tali aspetti “spirituali”, a lungo andare ne risentirebbe anche un corpo sano e finirebbe per ammalarsi. Mi soffermo brevemente su questo punto, perché spesso l’opinione comune ritiene che la Chiesa proponga comportamenti e ideali talmente difficili ed esigenti da risultare, di fatto, impossibili da perseguire dall’«uomo medio» e che si tratti spesso di «pie aspirazioni» che non possono che rimanere obiettivi religiosi, perché – si dice – l’economia è un’altra cosa, si basa sul principio della domanda e dell’offerta, del mercato, del costo del lavoro e della materia prima. Gli sviluppi recenti della crisi economica mondiale ci dicono che non è così, ma prima ancora ce lo hanno detto anche illustri economisti e imprenditori illuminati che hanno avuto certamente l’obiettivo tecnico-pratico di incrementare la produzione e dunque i guadagni, ma anche di promuovere un’economia dal volto umano. Adam Smith, filosofo ed economista scozzese del 1700, considerato il primo degli economisti classici e padre della scienza economica, sosteneva che «quando il denaro diventa un idolo e si dimenticano i sentimenti morali, lo stesso mercato va a rotoli…l’etica deve essere la base naturale del mercato». Vorrei sottolineare tre passi dell’Enciclica che possono costituire l’anima dell’economia, nei quali ricorrono due termini: gratuità e dono; in particolare si parla di «principio di gratuità», «spirito del dono», «economia della gratuità». Li leggiamo. (…)dobbiamo precisare, da un lato, che la logica del dono non esclude la giustizia e non si giustappone ad essa in un secondo momento e dall'esterno e, dall'altro, che lo sviluppo economico, sociale e politico ha bisogno, se vuole essere autenticamente umano, di fare spazio al principio di gratuità come espressione di fraternità. La vita economica ha senz'altro bisogno del contratto, per regolare i rapporti di scambio tra valori equivalenti. Ma ha altresì bisogno di leggi giuste e di forme di ridistribuzione guidate dalla politica, e inoltre di opere che rechino impresso lo spirito del dono. 1 (Giovanni Paolo II) aveva individuato nella società civile l'ambito più proprio di un'economia della gratuità e della fraternità, ma non aveva inteso negarla ad altri ambiti. Oggi possiamo dire che la vita economica deve essere compresa come una realtà a più dimensioni: in tutte, in diversa misura e con modalità specifiche, deve essere presente l'aspetto della reciprocità fraterna. Ci possiamo brevemente chiedere come sia possibile un’economia della gratuità e del dono, che mi sembra tra le novità più interessanti del documento pontificio, e soprattutto come si possa conciliare il principio materialistico dell’economia con quello del dono. Il dono comporta sempre un rischio: si può donare, anzi si deve donare, senza attendersi una contropartita, una qualche restituzione. Si dona non solo perché si ama qualcuno, ma anche perché si crede in qualcuno o in qualcosa. Provo a fare due esempi. 1) Fatti salvi i diritti sindacali dei lavoratori, che giustamente devono lavorare per un certo numero di ore la settimana, in molti casi, recentemente, ma anche nel passato, molti lavoratori hanno messo a disposizione il loro tempo e le loro competenze professionali per incrementare la produzione dell’impresa e guadagnare nuove quote di mercato; ma il datore di lavoro non si è approfittato del fatto di guadagnare di più senza retribuire i lavoratori, anzi dove ha potuto ha premiato chi ha prodotto di più. Certamente c’è un rischio di assolutizzare il lavoro a scapito del tempo da riservare alla famiglia, agli affetti, al tempo libero, e perché no, alla preghiera, alla lettura, cioè alla vita personale e di relazione. 2) Come è noto, nei Paesi islamici a stretta osservanza della sharìa, è vietato il prestito ad interesse, compreso quello delle banche, quindi le banche non possono prestare soldi verso il corrispettivo di un interesse. Allora ci si potrebbe chiedere come sia possibile la sopravvivenza delle banche senza ricevere interessi. Quando qualcuno ha bisogno di un prestito per un’ attività commerciale ad esempio, la banca diventa socio dell’imprenditore e assume su di sé i rischi e i vantaggi dell’operazione. Qui c’è di mezzo la gratuità, il rischio imprenditoriale della banca, la fiducia che viene a stabilirsi tra il cliente e l’impresa-banca. Nei nostri Paesi occidentali, invece, le banche prestano denari solo se sono sicure di non rischiare, e richiedono avalli, fideiussioni, garanzie, ipoteche. Questo è certamente un limite all’attività di impresa. Non si sviluppa il “fiuto” imprenditoriale di chi gestisce la banca e non si allarga lo spettro di coloro che investono risorse nell’attività di impresa. Spero che nessuno si scandalizzerà se cito Karl Marx, brevemente, nella sua analisi economica. Dico subito che ciò che è risultato fallimentare è stata la rivoluzione come modo di superare l’alienazione e impraticabile l’abolizione della proprietà privata. Ma l’analisi che compie del sistema economico è ancora molto attuale. L’economia borghese viene accusata da Marx di considerare il sistema capitalistico come il modo naturale, immutabile e razionale di produrre e distribuire la ricchezza mentre è soltanto uno dei tanti modi possibili. Il lavoratore, nella società capitalistica, vive in una situazione di alienazione perché la proprietà privata lo ha trasformato in uno strumento di un processo impersonale di produzione che lo rende schiavo, senza alcun riguardo ai suoi bisogni. Il proprietario della fabbrica (capitalista) utilizza il lavoro di una certa categoria di persone (salariati) per accrescere la propria ricchezza secondo una dinamica che Marx descrive in termini di sfruttamento e di logica del profitto. Nel capitalismo la produzione non è solo finalizzata al consumo ma anche alla accumulazione del denaro. 2 Non c’è dubbio che molti vedono l’economia ancora in questi termini: sfruttamento degli operai e logica del profitto sono aridi se manca la prospettiva del dono, di cui parla il Papa nella Caritas in Veritate. Non vorrei compiere forzature, ma l’analisi di Marx è condivisibile, per alcuni versi, ancora oggi e la stessa dottrina sociale della Chiesa ha fatto proprie alcune intuizioni. Non si può però proporre la rivoluzione come soluzione, né l’abolizione della proprietà privata, ma certamente un’economia del dono, cioè dal volto umano. Mons. Leuzzi, nel suo opuscolo “Educare nella fede” annota che sia il marxismo che il liberalcapitalismo «poggiano sulla scissione dualistica dell’essere umano, incapaci di promuoverne nella storia, l’identità, la stabilità e l’eternità», cioè non lo considerano, in breve, unità di anima e corpo. Un’ultima annotazione. Esistono alcune associazioni, non solo cattoliche, ma anche laiche, che si pongono come obiettivo quello di costruire pozzi di acqua per i Paesi africani che sono letteralmente alla sete. Riescono a farlo con grandi sacrifici e con l’aiuto di privati e di Enti. La loro operazione non è solo caritativa, ma economica e politica. È economica perché consente a quelle popolazioni di sviluppare l’agricoltura, quindi di sopravvivere con il lavoro delle proprie mani; è politica perché quelle persone non saranno costrette a lasciare la loro terra. Chi presta la sua opera, anche se prende uno stipendio, offre un eccesso di lavoro non retribuito, che rientra nella logica del dono. Nella prospettiva della gratuità, a piccoli passi e con grande fiducia nella Provvidenza, si può cambiare il mondo: la Caritas in Veritate aggiunge un tassello importante in questa direzione. 3