Coltivazione e tessitura della canapa

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Coltivazione e tessitura della canapa
L’area del museo “La Steiva” dedicata alla coltivazione della canapa costituisce una
testimonianza molto significativa, sia perché quest’attività ha rivestito un ruolo
fondamentale nell’economia contadina, sia perché è oggi completamente scomparsa, a
causa del forte impiego di manodopera richiesto per la sua lavorazione e dell’avvento
di fibre artificiali.
La descrizione del complesso procedimento legato alla canapa si può suddividere in due
fasi:
1) Dalla coltivazione della pianta al filo
La pianta della canapa, che ha una crescita rapida in ambienti umidi (in genere piccole
strisce di terreno confinanti con altri di maggior superficie) veniva sradicata verso la
metà di agosto e fatta essiccare.
Dopo averne scartato le radici con l’aiuto di un attrezzo per trinciato (descritto nella
sezione “strumenti agricoli” di questo lavoro) veniva portata a macerare nelle acque
del lago di Viverone per una decina di giorni.
Il lavoro procedeva quindi di sera nelle stalle, quando le donne raccoglievano la
corteccia filamentosa del tronco, la sfilacciavano e la pettinavano, fino a ricavarne la
“rista”, cioè la fibra pettinata.
La rista veniva quindi filata per ottenere il filo: questa operazione, eseguita prima con
il fuso e successivamente con il filatoio, era un lavoro paziente che le donne
svolgevano con abilità.
Con l’aiuto dell’aspo, il filo veniva scaricato dal filatoio e raccolto in matasse, ancora
lavate in ampie tinozze, e infine poste ad asciugare.
2) Dal filo al tessuto
A differenza della prima fase di lavoro, che veniva condotta a livello familiare, la
tessitura avveniva invece presso il “tessitore”, poiché il telaio era uno strumento
complesso e ingombrante, che non era possibile, né redditizio, avere in ogni casa.
Ogni famiglia consegnava perciò l’insieme delle matasse ad un tessitore / tessitrice,
con le indicazioni circa il prodotto finito che desiderava ricevere.
Nel telaio, attraverso l’intreccio tra fili orizzontali (trama) e fili verticali (ordito), si
ottenevano pezze di tela di larghezza variabile tra i 70 e i 100 cm, e con un tessuto
diverso a seconda del tipo di intreccio progettato.
I documento raccolti presso il museo “La Steiva” testimoniano la presenza in Piverone
di un unico grosso telaio.
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