Il primo colloquio nell`assessment clinico

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 Parte II Diagnosi e
assessment
IL PRIMO COLLOQU IO
NELL’ASSESSMENT CLINICO
Ezio Sanavio
Nel presente capitolo verrà delineata una teoria generale del colloquio clinico in linea con un approccio sperimentale al lavoro clinico. La moderna psicologia cognitiva fornirà il quadro di riferimento generale. Gli assi portanti affonderanno nella tradizione metodologica delle scienze del comportamento e nelle applicazioni cliniche
più durature della psicologia del comportamento. In particolare, si assumerà che le
istanze di obiettività, controllo dei risultati, fondazione epistemologica dei costrutti
e delle procedure non possano essere disattese di fronte alle esigenze e alle peculiarità del setting clinico, ma siano istanze imprescindibili anche all’interno di tale
setting e all’interno di questioni cruciali quali sono quelle che affronteremo in questa sede: il colloquio clinico e tutto il lungo e complesso processo della valutazione iniziale del caso, processo che viene sempre più comunemente indicato con il termine “assessment”.
Per assessment si intende un’ampia valutazione iniziale che uno psicologo clinico
svolge in rapporto alla possibile presa in carico di un paziente, al fine di decidere un
aiuto psicologico o una psicoterapia o un reindirizzo del paziente verso interventi
che paiono più appropriati alle esigenze del caso. L’assessment, quindi, è finalizzato
alla raccolta di tutti i dati necessari per elaborare una “formulazione” (concettualizzazione) del caso, la quale consenta di:
1) ricostruire meccanismi e processi che sottendono i problemi (o disturbi) lamentati;
2) individuare e concordare con il paziente sia obiettivi immediati sia obiettivi di
lungo periodo dell’eventuale trattamento;
3) identificare modalità di trattamento appropriate per far fronte ai problemi del soggetto in maniera efficace e duratura;
4) decidere circa possibilità e/o opportunità della presa in carico.
L’assessment iniziale è costituito da ipotesi e da misurazioni. Queste ultime forniscono sia il terreno di informazioni su cui poggia la formulazione delle ipotesi sia i
dati necessari per costruire una o più “linee di base”, rispetto alle quali confrontare i
progressi che si avranno (auspicabilmente) nel corso dell’intervento terapeutico e
permetteranno un confronto con misurazioni analoghe, che potranno essere ripetute
al termine del trattamento e nei successivi follow-up.
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Diagnosi e assessment
La formulazione delle ipotesi viene effettuata in relazione a quattro diversi livelli
logici e cronologici: 1) ipotesi circa eventuali relazioni tra i principali disturbi/problemi e quelle situazioni e quegli eventi che possono suscitarli, influenzarli ecc. al
momento attuale; 2) ipotesi di ordine eziopatogenetico, le quali tendono a ricostruire i meccanismi processuali attraverso i quali si sono sviluppati i problemi e i disturbi
attuali; 3) ipotesi sulla strategia di approccio terapeutico e sugli obiettivi principali;
4) ipotesi relative alle tecniche di trattamento che possono risultare più appropriate
nel caso in esame. Naturalmente, la quota di incertezza connessa a tali ipotesi può
essere ridotta con opportuni approfondimenti, ma una certa quota d’incertezza è ineliminabile (secondo alcuni per ragioni ontologiche, secondo altri per attuali limitazioni teoriche e tecniche). L’assessment si conclude, dunque, con dei processi di decisione e scelta che si collocano al più basso livello di incertezza tecnicamente possibile e, dunque, spesso a un livello di incertezza indesiderabilmente elevato.
L’assessment non è una passiva raccolta di informazioni, ma un processo attivo,
sostanzialmente simile a un processo di problem solving e decision-making. Ho avuto
altre volte modo di descrivere l’assessment clinico come un complesso processo di
raccolta e di elaborazione di informazioni relative al soggetto in questione: man mano che progredisce questo processo, diminuisce l’incertezza circa le moltissime variabili di rilievo clinico e circa le diverse ipotesi di intervento nel caso in esame.
“Riteniamo piuttosto che lo psicologo, per tutta la durata dell’assessment iniziale, sia un
formidabile elaboratore di informazioni. Riteniamo pure che nessuna delle domande che
egli pone sia avulsa da una logica di tipo ipotetico-deduttivo. Riteniamo inoltre che lo
psicologo operi intelligentemente, per tutto il corso dell’assessment iniziale, generando
ipotesi e prendendo decisioni, controllando quindi tali ipotesi ed eventualmente rigettandole. Tali ipotesi concernono i diversi aspetti prospettati – esplicitamente o implicitamente – dal caso in esame; esse sono subordinate unicamente al vincolo di essere logicamente compatibili con le informazioni sul caso di cui si è già in possesso e con le
conoscenze relative ai principi e alle leggi delle scienze psicologiche, di cui lo psicologo
dispone per suo background scientifico-professionale” (Sanavio, 1986, pag. 7).
Quanto più ampia è la base di conoscenza (e di esperienza) dello psicologo, tanto
più ampio è il ventaglio di ipotesi alternative – che potrebbero dar ragione dei medesimi dati e delle medesime informazioni – che egli prende in esame (cioè, è maggiore l’ampiezza dell’imbuto). Inoltre, nel nostro modello generale, l’assessment procede (principalmente) per “falsificazione” di ipotesi piuttosto che per “verificazione”.
Non si tratta di un omaggio all’epistemologia popperiana, ma di un furto di termini
semanticamente utili per indicare come si restringe, nel concreto, il nostro imbuto.
Per esemplificare questi due concetti vorrei ricorrere a un esempio immaginario,
che chiamo “la storia di Pierino”:
–
–
–
–
Pierino (ha paura dei cani; a parte questo, è il bambino più sereno ed equilibrato
che mai vi sia stato);
mamma e papà (che assumiamo essere “genitori quasi perfetti”);
lo psicologo esperto;
lo studente (frequenta il primo anno di psicologia, ha appena superato l’esame di
psicologia generale, ha il brutto vizio di origliare dietro le porte).
La scena si svolge nello studio dello psicologo.
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Il primo colloquio nell’assessment clinico
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Pierino è portato in consultazione per la sua paura dei cani. Nei primi cinque minuti Pierino, mamma e papà raccontano con dovizia di particolari che Pierino è stato ripetutamente aggredito da alcuni cani: da allora ne ha una paura esagerata. Dietro la porta dello studio lo studente origlia, non visto.
Cosa pensa e cosa fa lo studente? Pensa che quelle aride leggi dell’apprendimento,
che ha dovuto studiare controvoglia, si stanno incarnando dietro quella porta in fatti di vita vissuta. Si immagina al posto dello psicologo e fantastica. Si vede mentre
spiega, con aria competente, che la paura di Pierino è una reazione condizionale, come nel celebre caso del piccolo Albert, che si è stabilita per condizionamento classico. Per il fenomeno della generalizzazione dello stimolo, Pierino ha esteso la sua reazione di paura anche a quei cani che mordaci non sono, infatti sobbalza di paura anche al solo abbaiare d’un cane dei cartoni animati, anche alla vista di un cane di
pezza. Non deve sorprendere che, a distanza dagli episodi delle aggressioni subite dai
cani, la paura sia andata aumentando e non diminuendo. È infatti errata la teoria ingenua dei genitori, secondo i quali il passare del tempo di per sé farebbe diminuire la
paura; paure come questa vanno incontro invece ad aumento secondo il “fenomeno
dell’incubazione della paura”. Ci si sarebbe pure attesi che la paura potesse avere
estinzione, attraverso l’esposizione occasionale a cani non mordaci, a modelli senza
paura dei cani ecc.; ma tutto ciò è stato vanificato dall’adozione, da parte di Pierino
e dei genitori “quasi perfetti”, di condotte di evitamento, che notoriamente offrono
la massima resistenza all’estinzione. Nella realtà, naturalmente, lo studente nulla
dice e nulla fa, se non continuare a origliare.
Cosa pensa e cosa fa, invece, lo psicologo?
Naturalmente gli si affaccia subito alla mente l’ipotesi che la paura di Pierino sia
proprio il risultato di quelle sue brutte esperienze con i cani e che le cose siano andate più o meno nel modo sopra descritto. In cuor suo si augura che le cose stiano davvero così, perché in tal caso la linea d’intervento sarebbe semplice e molto promettente. Cosa fa? Di sicuro non parte lancia in resta e non accetta quest’ipotesi per
buona. Dice invece a se stesso: mettiamo da parte quest’ipotesi, almeno per il momento, e vagliamo le ipotesi alternative. Innanzitutto, Pierino e i suoi genitori potrebbero avere dei problemi ben più importanti e questa storia dei cani potrebbe essere il più sciocco e pretestuoso dei loro problemi. Quello che fa di sicuro, uno psicologo in carne e ossa, è approfondire a 360 gradi il caso.
Continuiamo con l’esempio e, sempre per linearità di esemplificazione, immaginiamoci che lo psicologo, al termine della sua esplorazione, giunga alla conclusione che
Pierino è proprio il bambino più sereno, equilibrato e felice che possa esserci sulla
faccia della terra, a parte naturalmente la questione dei cani. Si risolve dunque a portare l’attenzione proprio alle questioni canine. A questo punto che cosa fa? Tiene ancora in sospeso l’ipotesi “aggressioni – condizionamento classico – generalizzazione –
incubazione – evitamento – paura” e controlla quelle (non poche) ipotesi alternative
che potrebbero spiegare diversamente l’origine della paura dei cani. Forse hanno un
loro ruolo dei processi di condizionamento operante? Forse Pierino ottiene così attenzione e tenerezza a scapito, chissà, di un’odiosa sorellina? Forse detesta la scuola e salta così qualche giorno di lezione? Forse la paura è mantenuta da qualche “modello”
importante? Forse i genitori hanno linee di condotta divergenti/conflittuali di fronte
a questa situazione? Come mai danno tanto peso a questa paura? Forse utilizzano la
storia dei cani per litigare a distanza e farsi tra loro dei dispetti? Forse il pediatra ha
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Diagnosi e assessment
terrorizzato i genitori parlando loro di “proiezione” e “spostamento” della paura? Forse
la maestra, fresca di corsi d’aggiornamento, ha parlato loro di angoscia di castrazione?
E quali sono le risorse di Pierino? Come si è “tirato fuori” dalle migliaia di altre paure
che, alla pari degli altri bambini, avrà avuto pure lui? E come si sono comportati i genitori con le altre paure di Pierino? E con quelle della sorellina? Che aspettative hanno i genitori e che aspettative ha Pierino sui modi di affrontare questa sua paura? La
storia si conclude in un paio di settimane dopo che Pierino e i genitori hanno dedicato al nostro psicologo almeno tre o quattro ore del loro tempo. Lo psicologo finalmente conclude e dice ai genitori... beh, più o meno quelle parole che lo studente si
era fantasticato. Ancora una volta lo studente, dietro la porta, origlia compiaciuto.
Insomma, uno psicologo in carne e ossa arriverebbe a far propria l’ipotesi dei primi
cinque minuti (aggressioni-condizionamento-paura) solo alla fine di un lungo viaggio
durante il quale visita un bel po’ di diverse ipotesi alternative. L’itinerario del viaggio
– cioè le specifiche modalità dell’assessment e del colloquio – è suggerito da un vero
e proprio processo di esclusione: solo dopo avere escluso una miriade di possibilità
alternative, il nostro viaggiatore si arrende e fa propria l’ipotesi di partenza. Perciò
diciamo che è meglio parlare di un processo ad excludendum piuttosto che di un processo di conferma, di un processo di falsificazione piuttosto che di verificazione. Al
contrario, lo studente della nostra storia, se lasciato fare, si sarebbe subito preoccupato della raccolta di pezze d’appoggio per l’ipotesi iniziale e, solo se frustrato in questa
verificazione, sarebbe passato ad altre ipotesi (vedi Fig. 1). In conclusione, il primo
colloquio è un sottoinsieme dell’assessment, ha come propria procedura e propria
logica interna la procedura e la logica interna dell’assessment iniziale e si sviluppa
secondo euristiche simili alle euristiche che ritroviamo nei processi decisionali.
Raccolta - Analisi - Elaborazione di informazioni
Ipotesi
Massima incertezza
Minima incertezza
Figura 1 L’assessment iniziale come processo di raccolta, selezione ed elaborazione di informazioni e di formulazione e disconferma di ipotesi.
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IL MODELLO MULTIDIMENSIONALE DELL’ASSESSMENT
L’assessment, di regola, non si riduce né a un primo colloquio né a un ciclo di colloqui clinici. Le diverse informazioni che lo psicologo utilizza nel corso dell’assessment provengono in parte dai colloqui, in parte da una quantità di dati che il soggetto in causa e lo psicologo raccolgono collaborativamente: è questa già una forma
embrionale di quell’alleanza di lavoro che sarà essenziale nel corso di tutto l’eventuale trattamento.
Nell’assessment sono utilizzati tradizionalmente tre classi di indici, di informazioni cioè che provengono da fonti o “canali” distinti:
1) indici soggettivi, ricavati direttamente o indirettamente da autoreferti del soggetto
in causa (rientrano in questa classe le informazioni raccolte nel colloquio clinico
come quelle raccolte mediante questionari e inventari);
2) indici motori e comportamentali, ricavati dall’osservazione esterna del soggetto
(rientrano in questa classe le misure ottenute mediante role-playing, schede di osservazione dal vivo, l’analisi al videoregistratore di parti dei colloqui o altre procedure di osservazione e registrazione del comportamento manifesto);
3) indici fisiologici, ricavati mediante apposita strumentazione di registrazione (rientrano in questa classe le rilevazioni e le registrazioni poligrafiche delle risposte psicofisiologiche come, per es., l’attività elettrodermica, la frequenza respiratoria, la
pressione arteriosa, la frequenza cardiaca).
È opinione diffusa tra i teorici dell’assessment che tali canali corrispondano a tre
sistemi di risposte non isomorfe, ma relativamente indipendenti tra di loro. Un approccio multidimensionale concepisce l’assessment come valutazione distinta di tre
sistemi di risposte che sono considerate interagenti, ma non sovrapponibili tra loro
(“relativa autonomia”): 1) cognitivo-verbale, 2) comportamentale-motorio, 3) psicofisiologico. La figura 2 rappresenta uno spazio tridimensionale all’interno del quale
si muove l’assessment clinico.
In questa “relativa autonomia” si rifletterebbero le differenze interindividuali e gli
effetti della specifica configurazione che ciascun sistema di risposta è venuto assumendo in base alle pressioni ambientali, culturali ed educative cui il soggetto è stato
sottoposto. In questa cornice, si potrebbero collocare costrutti come quello di “alessitimia”, per cui ci si imbatterebbe in una particolare povertà del lessico emozionale
in gran parte della patologia psicosomatica. È pure noto che esistono molteplici problematiche psicopatologiche dove è importante proprio la discordanza tra valutazioni soggettive, valutazioni comportamentali e valutazioni fisiologiche.
Negli anni recenti, nell’assessment, si parla quasi esclusivamente di modelli multidimensionali. Naturalmente anche in precedenza lo psicologo faceva impiego di informazioni che appartenevano a più sistemi ed era consapevole che potevano darsi
divergenze anche abissali tra, per esempio, il referto del soggetto e le risultanze dell’osservazione o il resoconto di osservatori esterni. Però tutto tendeva a essere concettualizzato all’interno di uno spazio monodimensionale. Accadeva così che il dato psicofisiologico e comportamentale venisse invocato a dare validità al dato soggettivo.
In conclusione, il colloquio clinico ha il suo senso in quanto fonte di una serie di
informazioni (prevalentemente cognitivo-verbali) che interagiscono con informazioni di altre fonti, all’interno di un assessment multidimensionale.
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Diagnosi e assessment
Figura 2 Rappresentazione del modello multidimensionale dell’assessment: uno spazio tridimensionale definito lungo un continuum cognitivo-verbale, uno comportamentale-motorio e uno psicofisiologico.
IL PRIMO COLLOQU IO
Il colloquio clinico iniziale ha, come prima finalità, l’esame del problema: tende a
identificare e specificare il problema del paziente/cliente e a collocarlo all’interno di
un più ampio scenario costituito dalle problematiche e dalle caratteristiche complessive del paziente, sia a livello individuale sia a livello familiare e sociorelazionale.
Vedremo meglio tutto ciò nel prossimo paragrafo, dove analizzeremo topografia e
struttura del primo colloquio.
Il primo colloquio non è una procedura passiva di raccolta e registrazione di dati
e di informazioni. Il colloquio, inoltre, non è un processo induttivo, come sostengono alcuni ma, al contrario, è un processo prevalentemente ipotetico-deduttivo,
come ho cercato di illustrare attraverso la storia di Pierino: si parte da una base di
conoscenza di carattere generale (leggi, principi, modelli ecc.), si passa attraverso
un processo di selezione/esclusione di ipotesi, si perviene a una formulazione specifica, che è indicata appunto come “formulazione” o “concettualizzazione” del caso e
che opera il massimo di restringimento del ventaglio di ipotesi. Naturalmente, il
numero di ipotesi razionali che possono spiegare un fenomeno dato è infinito: il
colloquio, come l’assessment, si conclude perché usa una regola di semplificazione e
assume che, nel tempo di alcune ore, siano esaminabili e controllabili ipotesi sufficienti per dare al paziente una risposta operativamente valida.
Si è detto che il primo colloquio (e tutto il ciclo di colloqui iniziali) non è qualcosa di autonomo, ma si inserisce in un assessment multidimensionale. Il colloquio utilizza, in primo luogo, materiale verbale ed esplora il sistema cognitivo-verbale. In secondo luogo, il colloquio rappresenta un setting di osservazioni specifico e ben strutturato: possiamo perciò dire che consente una (limitata) esplorazione del sistema
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Il primo colloquio nell’assessment clinico
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comportamentale-motorio. Il colloquio, in terzo luogo, costituisce un esempio di
comportamento interpersonale significativo: consente perciò l’analisi delle variabili
di relazione che si stabiliscono tra paziente e terapeuta.
Benché sia invalso l’uso di parlare di primo colloquio, è più l’eccezione che la regola che si tratti di un unico incontro e di un’unica seduta. In realtà, è più realistico
parlare di un breve ciclo di colloqui clinici: una prassi abbastanza comune prevede
2-3 colloqui nel corso dell’assessment iniziale. Inoltre, come si è detto, nell’intervallo tra tali colloqui si snodano una certa quantità di operazioni più strutturate di raccolta di informazioni: al paziente è chiesto, per esempio, di tenere dei diari o delle
registrazioni regolari per qualche giorno, di compilare dei test ecc.
Se è vero che il colloquio ha come sua finalità primaria l’esame del problema, è
parimenti vero che ha, come seconda finalità, quella di stabilire una relazione collaborativa con il paziente. Nell’ottica che sto prospettando, il colloquio va al di là
della semplice dimensione dell’ascolto, e anche nel corso di un primo colloquio il terapeuta non si limita a un ascolto empatico. Empatia e identificazione sono un risultato che si costruisce durante il colloquio, non un a priori metodologico. Una relazione efficace, come la chiamano Wolpe e Turkat (1985), si ha quando si giunge a essere in grado di vedere le cose dal punto di vista del paziente, quando si è in grado di
rivestirne i panni in un role-playing.
Nel colloquio, non dimentichiamolo, il paziente ha un ruolo attivo alla pari dello
psicologo, anche se è quest’ultimo che ha il dovere di guidare il gioco e di saper guidare il gioco. Diventa utile allora che il filo logico del colloquio sia reso trasparente
e sia talvolta esplicitato verbalmente. L’essenza del colloquio è “avere informazioni
per dare informazioni” (Goldfried e Davison, 1976, pag. 39). In questa impostazione
il colloquio è strutturalmente uno sforzo collaborativo, un esempio di problem solving affrontato da una diade interattiva. Implica un’alleanza di lavoro orientata all’analisi di problemi. Si può vedere qui un’anticipazione di quell’alleanza di lavoro che
potrebbe continuare e svilupparsi nel corso del trattamento.
Infine, il colloquio non è mai meramente psicodiagnostico (anche se ha da essere
precipuamente psicodiagnostico), ma tende a implicare una riformulazione del problema e processi di ristrutturazione cognitiva. Anche nel corso di un primo colloquio
si possono “sfidare” assunzioni e pattern comportamentali del paziente. Si veda il seguente esempio.
T.: Ha paura di fare degli errori? La disturbano le critiche?
P.: Nel momento in cui me le fanno no, ma dopo ci ripenso... Se sono valide le accetto.
T.: Lei è capace di lodarsi, è capace di dire a se stesso: “Ben fatto!”?
P.: Non ce ne sono state occasioni.
T.: Mi faccia capire, vorrebbe che io creda che lei non ha fatto mai nulla di buono?
P.: È vero... Tranne che per gli esami, qualche volta così...
T.: Allora, riassumiamo, le uniche cose che ho sentito dire da lei sono: “Sono insicuro, volubile, non ho scopi nella vita, non so prendere le decisioni, ma talvolta
sono comprensivo e sensibile”. Lasci che le domandi se si considera una persona
intelligente.
P.: Sì, qualche volta...
T.: Perché, allora, non lo ha messo tra i lati positivi? Pensa di essere onesto?
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Diagnosi e assessment
P.: Diciamo che delle volte, siccome ho anche dei problemi economici, penso che se
fossi in un’altra situazione... non so se sono onesto per le circostanze, oppure per il
mio carattere.
T.: V. (nome del paziente), sa cosa sta facendo? Ogni volta che si parla di una sua
buona qualità, lei cerca di minimizzarla! Lei si considera una persona fidata? Degna di fiducia?
P.: Sì.
T.: Finalmente non si è buttato giù! Si considera una persona tollerante?
P.: In genere lo sono...
T.: Ah, ah! Non ricominci a denigrarsi! Lei ha delle ottime qualità. Quante persone
conosce con queste qualità?
P.: Mi domando se è vero...
T.: Questo è proprio il suo problema! Ma quante persone ha trovato con queste qualità?
P.: Tutte le qualità?
T.: Guardi, lei ha delle ottime qualità, ma non ne è soddisfatto. In primo luogo non
riesce ad ammetterle e in secondo luogo non ne è soddisfatto. Ora, riesce a immaginare come dovrebbe essere per accettarsi completamente? Qual è la sua immagine ideale?
(Meyer, 1978, pagg. 122-123)
In particolare, una ridefinizione e riformulazione del problema sono implicite in
alcune delle fasi canoniche attraverso le quali si snoda il colloquio: le fasi di specificazione del disturbo, le fasi di analisi delle variabili funzionali, le fasi di allargamento
al di là della domanda iniziale. Al posto di un’attenzione sulla “causa” (biologica e
psico-dinamica), l’enfasi su domande quali, per esempio: “come”, “quando”, “dove”,
“in quali circostanze”. I “sintomi” comportamentali, non essendo “sintomatici” di alcunché, almeno in questa ottica, perdono qualsiasi senso se non sono contestualizzati. Inoltre, la “formulazione” conclusiva comporta una problematizzazione e una ridefinizione dei termini del problema. Il colloquio, dunque, si conclude con un avanzamento (almeno) conoscitivo da parte del paziente.
TOPOGRAFIA DEI COLLOQU I INIZIALI
Un primo colloquio ha di regola un basso livello di strutturazione: non esiste un ordine prestabilito degli argomenti e delle domande: sono le ipotesi e i dati a determinare la sequenza (Wolpe e Turkat, 1985, pag. 8). La struttura logica generale (topografia) dei colloqui iniziali è disegnata dalle domande a cui lo psicologo cerca di
rispondere.
Uso il termine topografia, invece di quello di anatomia, perché ha a che fare con
le mappe: nel corso del colloquio e di tutto l’assessment, il paziente e lo psicologo si
costruiscono insieme una mappa, la quale dovrebbe servire loro per orientarsi nel
corso di un’eventuale terapia (naturalmente un esame attento delle mappe può portare due viaggiatori a decidere di rinunciare al viaggio progettato o a non mettersi in
viaggio assieme). Questa topografia ha, ovviamente, un valore logico e strutturale;
non indica un’effettiva successione temporale né deve costituire un letto di Procu-
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Il primo colloquio nell’assessment clinico
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ste: è assolutamente vero che ogni situazione è diversa da un’altra e che la linea di
sviluppo di un colloquio non può essere ripetuta pedissequamente nel colloquio successivo senza produrre esiti ridicoli.
Si tenga pure a mente che sovente questo sviluppo logico (topografia) è distribuito su più colloqui.
0 - Presupposti. Il colloquio è reso possibile da uno specifico contesto motivazionale, nel quale:
1) esiste una richiesta di aiuto psicologico;
2) esiste un professionista con una propria competenza tecnica;
3) è condivisa l’idea che il colloquio non è una terapia e che è improbabile (benché
non impossibile) che dia luogo a una qualche forma di sollievo immediato;
4) esistono delle aspettative (condivise) circa la possibilità di ricevere/fornire aiuto,
direttamente o indirettamente.
Questi presupposti sono impliciti nel contesto e nel setting e rimandano alle
vicende che hanno portato al colloquio. Il fatto che, in genere, possano essere assunti per impliciti, non impedisce che possa essere utile esplicitarli, specie se esiste motivo di dubitare che esista sufficiente chiarezza sui presupposti.
1 - Fase dei preliminari. Il colloquio prende avvio con alcuni (limitati) convenevoli, che sono in tutto sovrapponibili ai consueti riti sociali: presentazioni, parole di
circostanza, qualche banalità ecc.
Se esistono degli antefatti (per es., una precedente conversazione telefonica),
questi vengono richiamati, o per essere riassunti ed esplicitati o per essere messi tra
parentesi. Un antefatto comune è l’esistenza di un inviante; si veda l’esempio
seguente.
T.: Il dottor Paperino mi ha parlato a lungo di lei... mi ha fatto vedere la sua cartella,
così conosco già in parte la sua storia... ma preferirei fare come se non mi fosse
stato detto niente e sapere le cose direttamente da Lei.
P.: Ma sono anni che mi fanno ripetere le stesse storie... da un dottore all’altro...
T.: ... e magari certe volte non è servito a niente...
P.: Se avessero capito qualcosa del mio disturbo non mi sarei ridotto così!
T.: Il dottor Paperino m’era sembrato abbastanza ottimista...
P.: Bah...
T.: Preferirei che mi raccontasse Lei di che problemi si tratta... se mi basassi soltanto
su quello che mi ha detto il dottor Paperino, sarebbe serietà professionale secondo
Lei?
Se il contesto è equivoco, insolito o non è sufficientemente ben definito, non
esitare a definirlo.
T.: ... non faccia caso a questa montagna di medicinali (indicando la scrivania)...
devo dividere l’ambulatorio col neurologo... il mio lavoro è tutto diverso dal suo...
ma gli spazi sono quelli che sono...
P.: Sono dieci anni che prendo pillole io...
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Diagnosi e assessment
T.: (Sgombrando il tavolo dai medicinali): ma mi racconti dei suoi problemi... di che
si tratta?
Oppure [M. indica la moglie]:
T.: Vuole che sua moglie resti qui?
P.: Perché no?
M.: Non abbiamo segreti l’uno per l’altro...
P.: ... assolutamente.
T.: E nel caso che io le facessi una domanda a cui non può rispondere in presenza di
sua moglie?
M.: Può rispondere su tutto... io penso che può rispondere su tutto.
(Meyer, 1978, pag. 177)
2 - Apertura. In linea di massima, il colloquio prende avvio con una domanda
molto aperta: “Qual è il problema?”, “Di che si tratta?”, “Per quale motivo è qui?” o
una qualsiasi formulazione equivalente (anche un cenno interrogativo del volto è
una domanda).
T.: Bene... ora mi può dire in breve in che cosa desidera che l’aiuti?
(Beck, 1987, pag. 88)
Per inciso, si osservi che in queste situazioni non vengono chiesti nome, età, telefono, impegnativa ecc., tutte cose che possono essere richieste in altro momento,
per esempio alla fine. Si veda pure il caso seguente, più complesso.
T.: Può spiegare, con le sue parole, in che cosa consiste il suo problema? Non ripeta,
per cortesia, quello che ha detto il suo dottore.
P.: Allora, il mio problema dipende anche dalla situazione in cui vivo: io sto con mia
madre e mia madre ha avuto una vita difficile.
T.: La vita è difficile con sua madre?
P.: No, il fatto è che mia madre ha avuto una vita difficile, ne ha risentito psicologicamente e ora non sta bene. Fino all’età di sedici anni, mentre ero in collegio, non
mi sono reso conto di questa situazione...
T.: Ma questa è già un’interpretazione del problema, io vorrei conoscere il problema!
P.: Il problema consiste nel fatto che io sono insicuro nei rapporti con gli altri e con
mia madre.
(Meyer, 1978, pag. 120)
3 - Specificazione del problema (fase del problema iniziale). Si tratta di ottenere un’ampia e precisa descrizione del problema lamentato attualmente dal soggetto.
L’enfasi è su ciò che una persona fa, pensa e prova nelle diverse situazioni piuttosto che su attributi che la persona possa avere globalmente. Affermazioni come
“sono ansioso” o “sono depresso” vengono articolate in esemplificazioni e descrizioni multidimensionali: cosa vuol dire “ansioso” o “depresso” sul piano della
risposta cognitiva (per es., il dialogo interno che il paziente conduce, i pensieri
automatici che gli attraversano la mente), sul piano della risposta psicofisiologica
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Il primo colloquio nell’assessment clinico
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(il paziente può avvertire, per es., palpitazioni, un senso di vertigine, un nodo allo
stomaco ecc.), sul piano della risposta comportamentale (cosa fa e, soprattutto,
cosa non fa).
T.: Ora torniamo alla scrittura. Che tipo di difficoltà ha nello scrivere?
P.: Scrivere in generale...
T.: È una difficoltà legata al pensiero di ciò che deve scrivere o al comporre le singole
lettere o parole?
P.: È una difficoltà nel movimento...
T.: Ha tremore?
P.: Sì.
T.: Bene, vediamo un campione di scrittura... (Porge al paziente un foglio e una
penna e gli indica di avvicinarsi al tavolo)... No, no, non si metta così, altrimenti
avrà sicuramente dei tremori... continui, continui pure... [...]
T.: Passiamo ai caratteri della risposta. È consapevole della pressione che esercita sulla
penna? Esercita una pressione enorme sulla penna!
P.: Sì, infatti comprimendo la penna mi viene da sudare e mi scivola.
T.: Ha anche la sensazione di tensione muscolare?
P.: Sì.
T.: E si rende conto anche del tremore, mentre scrive?
P.: Sì.
T.: Che sensazioni avverte nel suo corpo mentre scrive?
P.: Mi vengono dei pensieri; mi vorrei nascondere, mi vergogno... ho un senso di inferiorità...
T.: Si considera davvero inferiore?
(Meyer, 1978, pagg. 230-231)
Molto spesso non si tratta di un problema, ma di problemi. A volte sono prospettati dal paziente come un insieme articolato e complesso, a volte come qualcosa di
assolutamente caotico. Altre volte sono prospettati secondo una gerarchia di importanza soggettiva: il paziente vede un problema fondamentale, che rappresenta il motivo per cui ha chiesto l’appuntamento, ma sullo sfondo ne vede e ne indica anche
altri (un gioco figura/sfondo che può ricordare le figure alternanti).
4 - Analisi delle variabili funzionalmente correlate (fase delle ipotesi di mantenimento). Questo segmento del colloquio tende, innanzitutto, a individuare
(eventuali) situazioni (stimoli) che possono fungere da antecedenti e avere un
ruolo determinante nell’elicitare i disturbi. Si aggiunge poi la cosiddetta analisi dei
conseguenti: i comportamenti problematici del paziente sono seguiti da conseguenze di ordine interno, di ordine familiare, di ordine sociale. Queste conseguenze possono essere elementi cruciali nel mantenimento di dati comportamenti e di dati
disturbi.
T.: Ora le spiegherò che cosa sto cercando. In questo momento mi interessa una sola
cosa: io non credo che questi attacchi sopraggiungano come fulmini a ciel sereno, ci
deve essere qualcosa che li scatena. Ora stiamo esplorando le condizioni in cui sono
forti e quelle in cui sono deboli, per poter scoprire poi che cosa li scatena.
(Meyer, 1978, pag. 180)
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Diagnosi e assessment
Gli approfondimenti procederanno poi allargandosi a tutte quelle variabili che
possono modulare l’intensità, la frequenza, il grado di interferenza, che problemi/disturbi presentano. Le regolarità presenti in queste variazioni possono permettere ipotesi circa variabili di mantenimento che sono operanti nel presente. A questo
processo di individuazione e ricostruzione di relazioni ci si riferisce, a volte, con l’espressione analisi funzionale, come vedremo meglio nel paragrafo seguente. Si osservi
che, soprattutto in queste fasi di specificazione dei problemi/disturbi, in realtà non
è lo psicologo che procede alla specificazione, ma la diade paziente/psicologo.
T.:
P.:
T.:
P.:
T.:
P.:
T.:
P.:
T.:
P.:
T.:
Un momento. Come si manifesta questo problema nella vita quotidiana?
Il più delle volte mi sento teso, a disagio.
Teso e a disagio con la gente... Quando è solo riesce a rilassarsi?
Sì.
Si sente teso con i bambini?
In genere no.
Con le persone anziane?
Qualche volta sì.
Di più con i ragazzi o con le ragazze? Con gli uomini o con le donne?
Con le ragazze.
Mi sa descrivere una persona con cui si sente completamente a suo agio?
(Meyer, 1978, pag. 120)
5 - Allargamento (fase dei problemi attuali). Si tratta di un allargamento ai problemi attuali e le domande sono volte a individuare e specificare tutti i problemi, al
di là del problema iniziale.
T.: Comunque torneremo successivamente su questo punto. C’è qualche altro problema oltre questi?
P.: Il problema principale è quello dello scrivere... perché non mi permette di sfondare nel mio campo.
T.: Ha degli amici intimi?
P.: Alcuni sì.
T.: Ha successo presso i suoi amici?
P.: Mi pare di sì.
T.: Ha una posizione di leader?
P.: In alcuni momenti so di essere io quello che ha più voce in capitolo... in altri
momenti no... alla pari.
T.: Ha delle ragazze?
P.: Sì.
T.: Ha successo con le ragazze?
P.: Sì. (Ride)
T.: Le piacciono le ragazze?
P.: (Ride)
T.: Ora, a parte il suo campo, cos’è che le sembra che le manchi nella vita? [...]
Lei fondamentalmente si accetta?
P.: Qualche volta sì.
T.: A parte la scrittura, che cosa non le va a genio in lei?
(Meyer, 1978, pagg. 238-239)
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Il primo colloquio nell’assessment clinico
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6 - Storia dei problemi (fase delle ipotesi eziopatogenetiche). Mentre le fasi precedenti di specificazione e l’analisi funzionale si rivolgono al presente, questo segmento del colloquio tende alla ricostruzione, a volte puntigliosa, del primo insorgere
dei problemi, della prima crisi, dei primi disturbi. Il conduttore tende, inoltre, a ripercorrere l’evoluzione di ciascun problema o disturbo cercando di cogliere i fattori
di interazione con altri problemi o disturbi.
L’obiettivo è formulare ipotesi che spieghino perché e come si sia sviluppato ciascun disturbo e perché si sia mantenuto fino al momento presente. Le ipotesi che si
sviluppano in questa fase mettono in rapporto tra di loro i diversi disturbi e problemi
che il paziente presenta.
T.: Da quanto tempo ha questa paura?
P.: È iniziata sei anni fa, quando ero in ospedale per la nascita del mio primo figlio.
Due giorni dopo, mio marito mi portò delle pesche e un coltello affilato per
tagliarle. Cominciai ad aver paura di poter ferire il bambino con il coltello.
T.: Per quanto tempo ha avuto il coltello con sé, prima che le sia venuto in mente
che avrebbe potuto ferire il bambino?
P.: Credo di non averglielo fatto lasciare nemmeno quella notte stessa; forse quella
notte lo lasciammo, e poi il giorno dopo... Forse, lei dirà, gli ho chiesto di portarlo
a casa, ma non ricordo con esattezza; so solo che non me lo volevo intorno. Da
quel giorno a oggi sinché sono con qualcuno non mi preoccupo di usare i coltelli,
ma se sono sola con i bambini allora non li voglio avere vicino.
T.: Riesce a ricordare in che modo le venne per la prima volta il pensiero di poter
ferire il bambino?
P.: Non ricordo.
T.: In generale, durante tutto questo tempo, la paura è sempre rimasta costante, oppure è migliorata o peggiorata?
P.: Be’, proprio dopo che venimmo a Richmond, circa cinque mesi fa, mi sentii a questo proposito un pochino meglio. Prima, quando ero tornata a casa dall’ospedale,
avevo fatto portare a mio marito tutti i coltelli via dalla casa. Non li volevo vicino, così li riportò da mia madre. Quando venimmo a Richmond ne ripresi un paio
da casa sua, ma non riuscivo - dopo averli ripresi - non riuscivo a usarli. Non riuscivo a tenerli in un posto dove li potessi vedere, e quindi prenderne uno e, capisce - usarlo in qualche modo.
T.: Così, in generale, lei dice che la paura è sostanzialmente rimasta sempre uguale?
P.: Sembra sempre la stessa. In effetti, però, ritengo che sia soprattutto peggiorata.
T.: C’è qualche cosa - qualche situazione - che lei possa associare con questo peggioramento?
(Wolpe, 1972, pagg. 51-52)
7 - Storia personale (fase del profilo complessivo). Questa parte del colloquio
mette tra parentesi gli elementi problematici e patologici che caratterizzano la storia
clinica e cerca di ripercorrere la storia personale del paziente.
T.: La volta scorsa abbiamo ricostruito assieme i problemi che la disturbano, i ricoveri
che ha avuto, le cure che ha fatto. Oggi vorrei che mi facesse conoscere qualcosa
delle altre facce della sua vita... tutto quello che non c’entra con questi guai.
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Diagnosi e assessment
P.: Non so... cosa le devo dire?
T.: Abbiamo tutto il tempo che ci serve... cominciamo pure il discorso da Adamo ed
Eva. Partiamo dai suoi genitori. Erano sposati da tanto quando lei è nato?
Questi approfondimenti tendono a una ricostruzione a tutto tondo del caso, della
sua storia di vita, dei progetti e delle intenzioni che la percorrono. In complementarietà con la fase precedente, questa serie di approfondimenti tende a identificare i
fattori di vulnerabilità presenti nella storia personale del paziente – cosa che viene
svolta avendo come impalcatura concettuale i maggiori modelli eziopatologici messi
in luce dalla ricerca. Lo stesso va detto per i fattori di mantenimento di interesse
evolutivo e storico-processuale. Lo stile di questa parte tende a essere abbastanza rievocativo e rilassato. Accanto alle informazioni storiche, che hanno tutta la loro importanza, è trasparente la rielaborazione che il paziente opera: la selettività della memoria e del racconto, le gerarchie di importanza degli avvenimenti, le teorie causali
con cui sono collegati gli eventi, le regole che hanno presieduto alle decisioni importanti ecc. Le ipotesi hanno perciò a che fare sia col ruolo di eventi stressanti e fattori
situazionali sia con ipotesi genetiche circa l’organizzazione cognitiva del paziente.
Questa attenzione alla storia personale e all’anamnesi psicologica tende a occupare una parte sempre piuttosto ampia nell’economia generale dei colloqui iniziali,
tanto che alcuni vi dedicano tutto un colloquio, in genere il secondo.
8 - Aspettative di trattamento. Essendo già ormai delineata e contestualizzata la
domanda del paziente, è ora possibile approfondire le sue aspettative riguardo al trattamento e ai suoi risultati. L’analisi delle aspettative è qualcosa di più ampio della
valutazione della motivazione al trattamento. Va considerato che il trattamento psicologico può significare un progetto di cambiamento e può implicare una disponibilità al cambiamento e una elasticità superiore a quanto il paziente possa affrontare.
Gli psicologi che enfatizzano gli apporti costruttivisti hanno ben analizzato le resistenze al cambiamento che possono provenire dall’organizzazione cognitiva del
paziente, mentre coloro che enfatizzano gli apporti sistemici hanno ben analizzato la
vischiosità e le resistenze al cambiamento che possono provenire dagli equilibri
coniugali, familiari, sociali. Non è raro dover concludere che la disponibilità effettiva del paziente è limitata a procedure biologiche o a procedure di immediato riscontro e di breve periodo, mentre manchi (almeno al momento) un’effettiva disponibilità per un lavoro psicoterapeutico più coinvolgente. L’esempio seguente è tutt’altro
che banale.
T.: Questo è dunque il motivo per cui si è rivolto al dottor Topolino.
P.: Sì, inizialmente è stata mia madre che aveva ascoltato per radio un programma
tenuto dal dottor Pasini, quello di Milano che vive in Svizzera, e abbiamo fissato
un appuntamento con questo medico perché mia madre era stufa del fatto che io
non avessi dei miglioramenti sensibili, che io mi rendo conto erano dovuti ancora
al mio non desiderio di abbandonare questa situazione probabilmente. Perché io
praticamente vegetavo su queste persone che ascoltavo, non avevo nessuno stimolo positivo per cercare di uscire dai miei problemi.
T.: Chi erano queste persone?
P.: Tantissime... vuole avere qualche nome?
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Il primo colloquio nell’assessment clinico
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T.: (Ridendo) Però non troppi.
P.: Erano così tante che forse mi hanno dato qualcosa... forse no. Forse son maturato
io, forse son cresciuto e i problemi si sono risolti da soli alla luce della maturità
che posso aver acquisito... per cui io mi sono proprio imposto di non voler accettare di vedere più nessuno, finché non ero io in prima persona a decidere del
mio futuro o a decidere il momento in cui avrei voluto uscire da questi problemi...
e si è presentato appunto pochi mesi fa.
9 - Ipotesi di trattamento. La parte finale del colloquio è volta alla precisazione
di obiettivi di trattamento possibili e realistici sia per il breve sia per il lungo
periodo.
Questo segmento del colloquio è volto parimenti alla raccolta dei dati necessari
per valutare le diverse opzioni terapeutiche. Nel caso in cui sia possibile ipotizzare
un trattamento psicoterapeutico, gli approfondimenti si focalizzeranno sulle variabili
che hanno un ruolo discriminativo nella scelta delle tecniche di trattamento. La
scelta delle tecniche è funzione, da una parte, degli specifici obiettivi, dall’altra,
della strategia terapeutica globale. A determinare la gerarchia nella scelta delle tecniche concorre il criterio dell’efficacia, quale è riscontrata nella ricerca recente; ma
concorre parimenti una valutazione di lungo periodo di generalizzazioni e di “ritorni”
secondari.
Ricordo che una buona tecnica deve essere atta a far fronte ai problemi del soggetto specifico in maniera 1) efficace e 2) duratura; inoltre, i benefici così raggiunti
devono poter essere agevolmente 3) generalizzati ad ampi aspetti della situazione di
vita abituale del paziente e facilmente 4) mantenuti dall’ambiente familiare e sociale
in cui si trova o si potrà trovare.
T.:
P.:
T.:
P.:
T.:
Ho capito. Qualcos’altro? In che altro senso vorrebbe cambiare?
Vorrei cambiare tutto...
Anche le buone qualità?
No, ma vorrei cambiare il modo di vivere.
Senta, di cosa si lamenta: della sua insicurezza o della sua filosofia di vita?
(Meyer, 1978, pag. 123)
10 - Formulazione conclusiva e chiusura. Lo psicologo richiama il filo logico
dei colloqui svolti e dà ampie informazioni sui risultati principali di tutte le analisi
che li hanno integrati (test, registrazioni psicofisiologiche ecc.).
Prospetta poi la propria “formulazione” del caso. Espone una ricostruzione molto
generale dei principali meccanismi che possono aver dato origine ai problemi/disturbi in esame.
Indica le principali variabili che mantengono la situazione attuale. Sollecita il
paziente a fargli domande.
T.: Questa volta tocca a me parlare... vorrei presentarle l’opinione che mi sono fatta
dei suoi problemi... e cercare di rispondere a tutte quelle domande che Lei mi ha
fatto.
P.: E a cui lei non mi ha mai risposto...
T.: Adesso si può rifare: rispondo... prometto!
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Diagnosi e assessment
Naturalmente presenta la propria formulazione con un linguaggio colloquiale,
quanto meno tecnico possibile. Specifica che si tratta di “ipotesi” e precisamente
delle “sue” ipotesi, ipotesi che possono essere diverse da quelle cui potrebbero pervenire altri specialisti e altri colleghi.
T.: ... in secondo luogo, il modo in cui concettualizzerò i suoi problemi è uno dei tanti
modi possibili e non saprei dirle se è il migliore... ma è il solo modo in cui lo so
fare! Non sia perciò sorpreso se qualcuno vedrà in modo diverso i suoi problemi.
(Meyer, 1978, pag. 117)
Passa poi a illustrare le ipotesi di trattamento che sono sul tappeto. Riprende con
chiarezza gli obiettivi e le aspettative che il paziente può nutrire e mette in risalto gli
elementi di sovrapposizione e gli elementi di differenziazione. Se intravede, come
spesso avviene, diverse alternative terapeutiche, le prospetta al paziente e lo incita a
prenderle in considerazione. Invita il paziente a fargli domande. Invita il paziente a
considerare vantaggi e svantaggi delle diverse opzioni di trattamento e a prendersi
qualche settimana di tempo per riflettere prima di decidere se iniziare o meno la terapia. Esiste, insomma, una cesura sia logica sia temporale tra la conclusione dell’assessment e l’inizio della terapia eventuale.
Solo a questo punto lo psicologo ha esaurito il suo compito come diagnosta e scioglie la propria riserva iniziale relativamente all’eventuale presa in carico. L’eventuale
presa in carico richiederà un preciso momento contrattuale, una seduta contrattuale
(o un segmento di seduta) dove si delineerà un piano di lavoro e un progetto terapeutico, si preciseranno i tempi del trattamento ecc., ma questa è un’altra storia
(Sanavio, 1991).
CONCLUSIONI
Per sua definizione, il colloquio clinico è uno strumento di indagine psicologica
molto flessibile, che può adeguarsi a scopi molto diversi. Lo scopo del primo colloquio, come si è detto, è “avere informazioni per dare informazioni”. Nel primo colloquio, come nel corso di tutti i colloqui iniziali, ha luogo quella che altri sono soliti chiamare analisi della domanda, ma anche qualcosa di più. L’espressione “analisi della domanda” ha vari usi in psicologia ed è utilizzata all’interno di framework
molto diversi: qui la consideriamo come un sottoinsieme del termine assessment e,
precisamente, come quel sottoinsieme di operazioni che, nel corso dell’assessment,
tendono a cogliere e chiarire le aspettative (esplicite e implicite) del nostro interlocutore. Merita mantenere la definizione “analisi della domanda” perché ben ricorda che, dietro l’apparenza banale di uno psicologo che fa domande e di un paziente che vi risponde c’è un cliente che consulta un professionista – per cui, alla
fin fine, l’interrogato è proprio il terapeuta.
Credo sia un limite di alcuni modelli psicodinamici leggere solo o soprattutto la
richiesta di aiuto, i desideri, la struttura relazionale, la dimensione affettiva, la dimensione controtransferale ecc., mettendo tra parentesi il contesto reale a favore
del modello di riferimento e del segmento di lavoro del terapeuta. Invece, proprio
per il suo carattere iniziale e preliminare, il primo colloquio rimanda prepotentemente al contesto reale e il contesto reale è quello di un professionista che deve
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Il primo colloquio nell’assessment clinico
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poter rispondere almeno alla parte tecnica di domande che, in qualche modo, il
paziente/cliente pone sempre e comunque: “Dati i miei problemi, data la mia situazione ecc., esiste nel dominio delle scienze psicoterapeutiche una qualche possibilità di aiuto?” Condivido perciò l’opinione di quanti pensano che, a livello di primo
colloquio, la dimensione psicodiagnostica sia ineludibile, che essa possa e debba andare al di là della domanda iniziale del paziente e della costruzione di una relazione
collaborativa e, soprattutto, al di là dello specifico orizzonte psicoterapeutico cui ci
si connette.
Il primo colloquio non è qualcosa di autonomo e a sé stante, come è teorizzato a
volte in ambito psicodinamico. Nell’ottica che ho cercato di delineare, la teoria del
colloquio clinico viene collocata all’interno di una teoria generale dell’assessment. Il
primo colloquio e tutti i colloqui iniziali si collocano temporalmente e concettualmente all’interno del più ampio contesto dell’assessment iniziale del caso, all’interno
cioè di un processo eminentemente attivo di raccolta, di selezione, di elaborazione
di informazioni, di formulazione e analisi di ipotesi.
Abbiamo visto, in secondo luogo, che il colloquio costituisce una fondamentale
fonte di informazione, ma non una fonte esclusiva. Nella nostra concettualizzazione, esso è l’asse portante di quel processo più generale e multidimensionale che siamo soliti indicare come assessment. Il colloquio clinico è fonte di informazioni
(prevalentemente cognitivo-verbali) che interagiscono con altre informazioni di
altre fonti. La scelta di ridurre le fasi di valutazione iniziale al solo colloquio crea
ovviamente perplessità. Per esprimerle attraverso una metafora, si potrebbe pensare
al disegno della figura umana da parte di un bambino: quando è più piccolo disegna
dei segmenti più o meno lunghi per indicare il corpo, le braccia ecc., mentre quando è più grandicello disegna delle figure bidimensionali e tridimensionali. Insomma, il fatto che il livello di analisi, in un ipotetico colloquio clinico, possa essere quello dei significati o dei simboli, mi pare nulla tolga al fatto che si tratti di
un’indagine psicologica che ha a che fare con un uomo appiattito a una sola delle
sue molteplici dimensioni.
Abbiamo visto, in terzo luogo, come l’assessment sia un processo eminentemente
idiografico. L’approccio comportamentale e cognitivo è volto a una terapia eziologica (anche se molti ingenui detrattori e rari ingenui agiografi insistono a non volersene rendere conto). Vuoi per questa sua natura irriducibilmente eziologica, vuoi per i
noti antefatti storico-epistemologici di matrice ambientalista e funzionalista, la clinica comportamentale e cognitiva non ha mai considerato possibili degli abbinamenti biunivoci tra “sintomi” e “tecniche” oppure tra “diagnosi” e “terapia”.
Una precisazione deve essere fatta a proposito della diagnosi psichiatrica. Una
corretta diagnosi psichiatrica è un’informazione utile e importante, a volte essenziale, ma non dobbiamo dimenticare che all’interno di una medesima diagnosi psichiatrica si aprono, di regola, percorsi psicologici e psicoterapeutici di notevole diversità.
Nel nostro modello, la diagnosi psichiatrica viene trattata come un’informazione importante, come è un’informazione importante e, anzi, necessaria, il sapere se la persona è sposata o meno, se ha figli o meno, che lavoro fa ecc. – informazioni, cioè,
che concorrono in maniera rilevante all’elaborazione delle ipotesi conclusive, senza
però determinarle automaticamente. Insomma, il colloquio e l’assessment iniziale –
qui delineati – portano a un’estrema individualizzazione nella scelta delle tecniche
di trattamento e nella valutazione della strategia complessiva.
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Diagnosi e assessment
Il nucleo centrale del presente modello è che il colloquio clinico iniziale può essere concettualizzato come un problema decisionale. Di fronte all’esigenza di trattare
compiti complessi, gli individui fanno ricorso a strategie che vengono denominate
euristiche e che da tempo sono state analizzate e studiate nelle situazioni di problem
solving. Si tratta di condotte che non garantiscono la soluzione del problema, ma
che consentono al solutore di avvicinarsi alla meta. Nel colloquio, come nei problemi studiati dalla psicologia della decisione, ci si trova davanti all’impossibilità di
trattare e manipolare una molteplicità di informazioni, e ciò impone al decisore di adottare euristiche che sono volte alla semplificazione del problema e alla riduzione
del ventaglio di opzioni possibili (ipotesi).
Nella psicologia della decisione si parla di incertezza quando ci si riferisce a situazioni in cui l’individuo conosce gli esiti della scelta, ma è all’oscuro delle probabilità
legate ai diversi esiti, mentre si parla di rischio quando si conoscono gli esiti della
decisione da prendere e anche le probabilità a essi associate. Primo colloquio e
assessment iniziale hanno a che fare sia con decisioni in condizioni di incertezza sia
con decisioni in condizioni di rischio. A differenza degli approcci umanistici e degli
approcci psicodinamici, l’approccio comportamentale e cognitivo ha riferimenti
empirici e un corpus di ricerca scientifica sufficientemente ampio e articolato per
un’analisi delle probabilità connesse ai vari esiti. Ci troviamo cioè a operare in un
contesto decisionale che, per quanto complesso, multideterminato e parzialmente
sconosciuto, non configura situazioni molto dissimili da quelle che ritroviamo in
altre discipline quali le scienze economiche e mediche. Le indicazioni che si è cercato di fornire in questa sede possono essere considerate un primo abbozzo di una euristica del primo colloquio.
BIBLIOGRAFIA
Per la bibliografia del capitolo consulta la Bibliografia web.
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