PIRANDELLO (liberamente tratto da Luperini “La scrittura e l

PIRANDELLO
(liberamente tratto da Luperini “La scrittura e l’interpretazione” ed. Palumbo e
“Letteratura italiana” Bellini-Mazzoni ed. Laterza)
Pirandello muore a Roma il 10 dicembre 1936. Due anni prima aveva ricevuto il Premio
Nobel per la letteratura. Le sue ultime volontà confermano la personalità d'un uomo che aveva
sempre sfuggito la teatralità. « I. Sia lasciata passare in silenzio la mia morte. Agli amici, ai
nemici preghiera non che di parlarne sui giornali, ma di non farne pur cenno. Né annunzi né
partecipazioni. II. Morto, non mi si vesta. Mi s'avvolga, nudo, in un lenzuolo. E niente fiori sul
letto e nessun cero acceso. III. Carro d'infima classe, quello dei poveri. Nudo. E nessuno
m'accompagni, né parenti, né amici. Il carro, il cavallo, il cocchiere e basta. IV. Bruciatemi. E il
mio corpo appena arso, sia lasciato disperdere; perché niente, neppure la cenere, vorrei
avanzasse di me. Ma se questo non si può fare sia l'urna cineraria portata in Sicilia e murata in
qualche rozza pietra nella campagna di Girgenti, dove nacqui ».
La scarna solitudine espressa in queste ultime volontà è testimoniata da Corrado Alvaro, amico
di Pirandello: « Se ne andava solo come era sempre stato. Arrivò il rappresentante del
Governo e lesse sbalordito quel mezzo foglio in cui la scrittura era sicura come forse era stata
sicura nei suoi manoscritti giovanili, sicura, perentoria, compiuta. Che ne fosse sconcertato il
sacerdote, si capiva... Ma quello che era fuori di sé e per tutt'altre ragioni, era il
rappresentante del Governo. Lesse e rilesse quel foglio, se lo copiò, e si domandava come
avrebbe fatto a presentarlo al Duce. Un grande uomo, un uomo celebre che va via in quel
modo, chiudendosi la porta alle spalle, senza un saluto, senza un pensiero, senza un omaggio
sovratutto, chiedendo di essere coperto appena di un lenzuolo ma da nessuna uniforme, da
nessuna camicia nera come era di rito... Disse: "Se n'è andato sbattendo la porta". Di fronte
alla perplessità di quel funzionario c'era da misurare una condizione umana... uno, autore di un
racconto col titolo C'è qualcuno che ride, annunciava il nulla a tutta la gloria e a tutta la
potenza, ed era lui che rideva. Pirandello, nel punto supremo del suo destino terreno,
affermava di essere libero e solo».
L'asciutto testamento e la testimonianza di Corrado Alvaro evidenziano la solidità morale di un
uomo che vissuto solo, riaffermava nella morte la libertà della propria solitudine. Alieno da
sempre ai colpi di scena, Pirandello ha sempre condotto una vita estremamente riservata tra
una cerchia d'amici molto ristretta. Sono lontane le "performances" artistico-esistenziali del
vate D'Annunzio, lo stesso regime si vede sbatter la porta in faccia da chi privilegiava una vita
interiore del tutto scevra da condizionamenti.
Questa è la tappa finale ma illuminante di un cammino di vita iniziato il 28 giugno 1867.
Pirandello nasce nella villa campestre ove la famiglia si era rifugiata durante un'epidemia di
colera. Porta nel sangue le tradizioni, la linfa di una progenie tutta garibaldina ad eccezione
d'uno zio sacerdote, che, pur fedele ai Borboni, accolse in casa e mantenne i fratelli di fede
contraria. Il padre Stefano, ultimo di ventiquattro fratelli, aveva combattuto con Garibaldi sino
allo scontro dell'Aspromonte, occasione in cui luogotenente dell'irrequieto eroe era Rocco Ricci
Granitto, fratello della futura madre dello scrittore. Questo zio, che pare abbia addirittura
portato dall'Aspromonte lo stivale forato di Garibaldi, ospiterà Pirandello nella propria casa
romana allorché dall'università di Palermo egli passerà a quella della capitale. Aveva scelto di
continuare gli studi dopo una giovinezza in cui già era emersa la sua forte sensibilità verso la
vita ed i suoi casi. Ed è per studiare con maggiore concentrazione che si reca a Roma.
E' l'anno 1887: governa il paese per la prima volta il Crispi; è il periodo in cui si allarga in Italia
come in Europa la questione sociale. Cresciuto dentro le forti idealità di coloro che avevano
combattuto per l'unità, Pirandello è più che mai cosciente delle disillusioni ormai cocenti di
questi uomini. Vivrà personalmente gli scandali di questi anni, primo fra tutti quello della
Banca romana del 1893, descritto con amarezza ne I vecchi e i giovani. In questo anno (1893)
Pirandello è appena rientrato da Bonn dove ha conseguito la laurea con una discussione sul
tema Suoni e sviluppi di suono della parlata di Girgenti. Aveva lasciato la università romana
per un litigio con un professore, rientra nella capitale perché ammalato, e qui si stabilisce.
Grazie all'assegno paterno può dedicarsi liberamente alle lettere, guidato nei primi anni da
Luigi Capuana, su consiglio del quale scrive il primo romanzo: L'esclusa (1893). Negli anni
successivi la sua attività s'intensifica. Scrive numerosi articoli su giornali e riviste, compone le
sue prime novelle e il secondo romanzo, Il turno (1895).
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Nel 1897 inizia pure la collaborazione alla rivista « Marzocco ». I suoi saggi erano improntati
ad un tenace antidannunzianesimo e ciò fu la causa di non poche polemiche con il mondo
letterario del tempo, in cui il D'Annunzio imperava. Questo provocò anche la diffidenza degli
editori che solo dietro la caparbia insistenza del Capuana pubblicarono, prima con incertezze
poi con sempre più vivo interesse, le opere pirandelliane.
Nel 1894 frattanto Pirandello si era sposato con Maria Antonietta Portulano da cui ebbe tre
figli. La felicità del momento viene interrotta bruscamente dal fallimento economico del padre.
La notizia provoca nella signora Maria Antonietta una tale impressione che il suo fisico e la sua
mente cederanno. Improvvisamente Pirandello si ritrova senza alcuna sostanza e con la moglie
gravemente inferma. Lo aiuteranno il forte carattere e la determinazione dei momenti difficili.
Grazie ai proventi dell'insegnamento e delle sue, sino ad allora gratuite, collaborazioni
editoriali, lo scrittore riuscirà a salvaguardare il mantenimento della non piccola famiglia.
In questo difficile periodo la rivista « La Nuova Antologia » gli richiede un romanzo. La difficoltà
del momento solletica l'azzardo e lo scrittore promette un'opera che non c'è o meglio di cui c'è
solo il titolo: Il fu Mattia Pascal. Verrà pubblicato periodicamente e Pirandello lo scriverà « a
puntate ». E' l'inizio della grande produzione pirandelliana, sta per giungere il successo. Ma alla
fortuna dello scrittore fa da contrasto la difficile vicenda dell'uomo. Le difficoltà nascevano da
una situazione familiare piuttosto critica, in cui la malattia della moglie creava non pochi
problemi. Ciò nonostante Pirandello si lasciò convincere ad internarla in una casa di cura solo
nel 1919, dopo esserle stato sempre vicino.
Questi anni contribuiranno a rafforzare la solitudine dello scrittore il cui atteggiamento nei
confronti della vita procederà di pari passo con le sue opere. Anche negli anni della sua più
grande produzione, ormai impegnato non più solo come autore bensì anche come uomo di
teatro sui palcoscenici del mondo, Pirandello conserverà il proprio dignitoso distacco, la propria
costituzionale riservatezza. E' lui stesso a darci un quadro della sua vita in una lettera del 15
ottobre 1924: « Vivo a Roma quanto più posso ritirato; non esco che per poche ore soltanto
sul far della sera, per fare un po' di moto, e m'accompagno se mi capita, con qualche amico:
Giustino Ferri o Ugo Fleres. Non vado che rarissimamente a teatro. Alle 10, ogni sera, sono a
letto. Mi levo la mattina per tempo e lavoro abitualmente sino alle 12. Il dopo pranzo, di solito,
mi rimetto a tavolino alle 2 e mezza, e sto fino alle 5 e mezza; ma, dopo le ore della mattina,
non scrivo più, se non per qualche urgente necessità; piuttosto leggo o studio. La sera, dopo
cena, sto un po' a conversar con la mia famigliuola, leggo i titoli degli articoli, e a letto. Come
si vede nella mia vita non c'è niente che meriti di essere rilevato: è tutta inferiore, nel mio
lavoro e nei miei pensieri che... non sono lieti. Io penso che la vita è una molto triste
buffoneria, poiché abbiamo in noi, senza poter sapere né come né perché né da chi, la
necessità d'ingannare di continuo noi stessi con la spontanea creazione di una realtà (una per
ciascuno e non mai la stessa per tutti) la quale di tratto in tratto si scopre vana e illusoria. Chi
ha capito il giuoco, non riesce più ad ingannarsi; ma chi non riesce più ad ingannarsi non può
più prendere né gusto né piacere alla vita. Cosi è. La mia arte è piena di compassione amara
per tutti quelli che s'ingannano; ma questa compassione non può non essere seguita dalla
feroce irrisione del destino, che condanna l'uomo all'inganno » (Saggi).
Questa allergia alle convenienze sociali non è neppure contraddetta dallo scrittore nell'ultimo
periodo della sua vita. Egli infatti col successo si trovò ad essere suo malgrado un uomo
pubblico. Le sue opere si rappresentavano ovunque, dappertutto si richiedeva la sua presenza.
Ebbene nel parlare di sé e della sua opera egli non vendeva la propria mercé bensì difendeva la
propria arte, che, come i suoi personaggi, sentiva del resto sempre più staccata da sé. «
Eccomi qua pronto a rispondere a quelle domande che vi piacerà rivolgermi, purché siano
discrete, o sulla letteratura in genere o più propriamente sul teatro o anche intorno a ciò che
purtroppo suoi chiamarsi il mio pensiero filosofico, benché io non mi sia mai assunto nessuna
responsabilità filosofica e mi sia inteso sempre e soltanto di fare arte, secondo le mie
possibilità, non filosofia. Certo, da tutta la mia opera fantastica, si può dedurre un particolare
modo che io ho sempre avuto di considerare il mondo e la vita. Questo modo, che a me pare
naturalissimo, ed espresso nel modo che a me sembra più proprio e più chiaro, sembra invece
agli altri, spesso, strano ed oscuro. Signori, originali si è o non si è. Non si può essere originali
per forza. Chi vuoi essere originale, sarà stravagante, non originale... chi è veramente
originale non sa neppure di esserlo. Lo è perché vede il mondo e la vita con occhi nuovi; e
come vede, dice e scrive: dice e scrive parole nuove, parole sue e non d'altri. E non vuoi farlo
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apposta. Signori io vi giuro che il mio teatro non l'ho fatto apposta. Quasi, anzi, vorrei non
averlo fatto così, anche per non sentirmi più dire che esso è nuovo ».
Niente di studiato, quindi, ma tanto nella vita quanto nelle opere Pirandello è sempre fedele a
sé, perché « non si può essere originali per forza ». Lontana dai clamori e dai colpi di scena la
vita di Pirandello è stata il non facile cammino di un uomo che ha cercato, soprattutto
attraverso la propria creatività poetica, di superare le superficialità illusorie di un'esistenza
alienante e proprio per questo falsa. Tutto questo nella consapevolezza della necessità di
superare l'egoismo isolato ed isolante del « per sé », onde assegnare un senso assoluto ed
universale alla vita.
L’ opera
« Si nasce alla vita in tanti modi, si nasce anche personaggi! ».
1) Il sentimento del contrario: II saggio sull'umorismo
Nella pausa creativa che dal 1904 al 1908 trova Pirandello intento a dare ordine al suo castello
raziocinante, si colloca tra gli altri il Saggio sull'umorismo (1908). E’ importante, per
comprendere l'opera pirandelliana, questa sorta di summa ideologica, posta com'è al centro
d'una maturazione e di una crescita letteraria che proprio in questi anni toccava vertici già
elevati (del 1904 è la pubblicazione de Il fu Mattia Pascal). In questo saggio Pirandello dà
lucida spiegazione di quel sentimento del contrario o coscienza della contraddizione che nasce
tra la vita e la forma, tra l'anelito ad una pienezza e ad una libertà del vissuto e le costrizioni
dei ruoli che vuoi la società, vuoi i doveri e le colpe c'impongono. « ... la tristizia degli uomini si
deve spesso alla tristezza della vita, ai mali di cui essa è piena e che non tutti sanno o possono
sopportare; induce a riflettere che la vita, non avendo fatalmente per la ragione umana un fine
chiaro e determinato, bisogna che, per non brancolar nel vuoto, ne abbia uno particolare,
fittizio, illusorio, per ciascun uomo, o basso o alto » (L'umorismo).
Queste finzioni nelle quali l'uomo crede di realizzarsi pienamente sono poste in crisi
dall'intervento della riflessione che le smaschera e le scopre giustapposte quali sono
veramente. Il comico, ch'è l'avvertimento del contrario, si trasforma così in umorismo, che
altro non è se non la «drammatizzazione del comico». Pirandello ce ne dà fulgida
dimostrazione nell'esempio della vecchina imbellettata oltre misura, il cui voler essere altro da
quello che realmente è, non può non suscitare, in un primo tempo, il riso. « Ma se ora
interviene in me la riflessione, e mi suggerisce che quella vecchia signora non prova forse
nessun piacere a pararsi così come un pappagallo, ma che forse ne soffre e lo fa soltanto
perché pietosamente si inganna, che parata così, nascondendo così le sue rughe e le canizie,
riesca a trattenere a sé l'amore del marito più. giovane di lei, ecco che io non posso più riderne
come prima, perché appunto la riflessione, lavorando in me, mi ha fatto andar oltre a quel
primo avvertimento o piuttosto più addentro; da quel primo avvertimento del contrario mi ha
fatto passare a questo sentimento del contrario. » (L'umorismo).
Troviamo così in questa sistemazione del pensiero pirandelliano i due elementi portanti della
sua opera: il desiderio profondo della vita, e la coscienza del vivere. La tumultuosa adesione
alle illusioni ed alle fittizie messe in scena dell'esistenza e la persuasione cosciente del sentirsi
vivere.
Nel Saggio sull'umorismo sono quindi in un certo senso codificate quelle tensioni vitali che
possiamo ritrovare nell'affollata umanità dell'intera opera pirandelliana.
- Il relativismo filosofico e la poetica dell’umorismo; i “personaggi” e le “maschere
nude”, la “forma” e la “vita”
L’elaborazione della poetica dell’umorismo avviene tra il 1904 ed il 1908, anno in cui esce il
volume L’Umorismo. Del 1904 sono le due Premesse iniziali (corrispondenti ai primi 2 capitoli)
de Il fu Mattia Pascal, che gettano già le basi della nuova poetica. Questa viene ideata sulla
base di considerazioni sollecitate dalla lettura dei maestri dell’umorismo europeo, Cervantes e
Sterne soprattutto, ma anche studiosi di psicologia come Binet. Mentre nel saggio del 1908 P.
sembra considerare l’umorismo una caratteristica perenne dell’arte, riscontrabile nell’antica
Grecia come nell’Italia moderna, nelle due Premesse esso è collegato strettamente alla nascita
della modernità e in particolare alla scoperta di Copernico.
Più in generale P. oscilla sempre, ogni volta che parla dell'umorismo, fra una visione eterna
dell'umorismo, considerato come una possibilità perenne dell'uomo, e invece una sua visione
storica, derivante da particolari condizioni che hanno posto in crisi le antiche certezze. Da un
lato infatti egli vede un limite connaturato all'uomo, che da sempre vive in un mondo privo di
senso e che tuttavia si crea una serie di autoinganni e di illusioni attraverso i quali cerca di
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dare significato all'esistenza: in questa prospettiva, l'umorismo sarebbe l'eterna tendenza
dell'arte a svelare tale contraddizione. Dall'altro egli individua invece nella caduta
dell'antropocentrismo tolemaico, che considerava l'uomo e la terra centri del creato, e
nell'affermazione del pensiero copernicano e galileiano, per il quale l'uomo e la terra sono
entità minime e trascurabili di un universo infinito e inconoscibile, la nascita di quel malessere,
tipico della modernità, che induce alla percezione della relatività di ogni fede, di ogni valore, di
ogni ideologia e all'intuizione che fedi, valori e ideologie sono solo autoinganni, utili per
sopravvivere ma del tutto mistificatori. Ne deriverebbero un disincanto, uno sbandamento, un
tendenziale nichilismo che, sviluppatisi con forza a partire da Cervantes, si sarebbero poi
accentuati con l'affermazione piena della modernità e con la crisi delle ideologie ottocentesche.
L'umorismo pirandelliano non è solo una poetica; è anche l'espressione coerente del pensiero e
della cultura del relativismo filosofico. Esso presuppone la messa in discussione sia del
Positivismo, sia delle ideologie romantiche. Del Positivismo P. rifiuta, a partire dal 1904, il
criterio della verità oggettiva, garantita dalla scienza; del Romanticismo l'idea della verità
soggettiva, della centralità del soggetto e della sua capacità di dare forma e senso al mondo.
Entrano in crisi tanto l'oggettività quanto la soggettività, ed è il concetto stesso di verità che
viene posto radicalmente in questione.
Anche se Pirandello tenta contraddittoriamente di darle un fondamento eterno, in realtà la
poetica dell'umorismo nasce in Pirandello da una riflessione sulla modernità. La stessa
contrapposizione fra arte umoristica e arte epica e tragica, di cui si parla nell'Umorismo, deriva
dalla constatazione che nella modernità la poesia fondata sul tragico e sull'eroico non è più
possibile. Le categorie di bene e di male, di vero e di falso, su cui si basavano la tragedia e
l'epica, sono infatti venute a mancare. L’umorismo è l'arte del tempo moderno in cui tali
categorie sono entrate in crisi e in cui non esistono più parametri certi di verità. Perciò
l'umorismo non propone valori, né eroi che ne siano portatori, ma un atteggiamento
esclusivamente critico-negativo e personaggi problematici e dunque inetti nell'azione pratica;
esso non risolve positivamente le questioni che affliggono l'uomo ma mette in rilievo le
contraddizioni e le miserie della vita, irridendo e compatendo nello stesso tempo.
L’arte umoristica è volta continuamente a evidenziare il contrasto fra forma e vita e tra
personaggio e persona. L’uomo ha bisogno di autoinganni: deve cioè credere che la vita abbia
un senso e perciò organizza l'esistenza secondo convenzioni, riti, istituzioni che devono
rafforzare in lui tale illusione. Gli autoinganni individuali e sociali costituiscono la forma
dell'esistenza: essa è data dagli ideali che ci poniamo, dalle leggi civili, dal meccanismo stesso
della vita associata. La forma blocca la spinta anarchica delle pulsioni vitali, la tendenza a
vivere momento per momento al di fuori di ogni scopo ideale e di ogni legge civile: essa
cristallizza e paralizza la vita. Quest'ultima è una forza profonda e oscura che fermenta sotto la
forma ma che riesce a erompere solo saltuariamente nei momenti di sosta o di malattia, di
notte o negli intervalli in cui non siamo coinvolti nel meccanismo dell'esistenza. Il contrasto fra
vita e forma (poi teorizzato da un critico di Pirandello, Tilgher) è indubbiamente costitutivo
dell'arte pirandelliana e della stessa poetica dell'umorismo, che sottolinea ironicamente i modi
con cui la forma reprime la vita e rivela gli autoinganni con cui il soggetto si difende dalla forza
sconvolgente dei bisogni vitali (cfr. L’Umorismo, parte seconda, cap. V)).Il soggetto, costretto
a vivere nella forma, non e più una persona 1integra, coerente e compatta, fondata sulla
corrispondenza armonica fra desideri e realizzazione, passioni e ragione; ma si riduce a una
maschera (o a un personaggio) che recita la parte che la società esige da lui (la parte di
Persona significa in latino “maschera d’attore” ed indica il ruolo recitato sulla scena. In italiano questa parola
significa invece “l’essere umano nei rapporti sociali, in quanto soggetto cosciente di sé, moralmente autonomo, capace
di diritti e di doveri”, e dunque, in quanto essere libero e responsabile, capace di compiere il bene o il male. In altri
termini, oggi persona indica l’integrità dell’individuo, vista come unità intellettuale e psicologica. La psicoanalisi ha
messo in crisi questo concetto di persona, mostrando come il soggetto è sempre, nel profondo, scisso e
contraddittorio. Ma nella vita pubblica, nella responsabilità civile e penale, è necessariamente rimasto il concetto di
persona, che deve rispondere come un tutto integro di ciò che fa. >>
>>Comunemente il termine personaggio indica uno dei protagonisti di un dramma, di una commedia, di un poema,
di un romanzo o di una novella. Dunque il personaggio recita una parte in un mondo di finzione. P. usa “persona” nel
senso comune di oggi. Egli nega che il soggetto possa essere una persona, in ciò concordando con la psicoanalisi (che
peraltro, nel 1908, egli non conosceva). Per P. gli uomini non sono più persone, cioè soggetti integri, coerenti,
compatti, ma personaggi, in quanto costretti a recitare una parte all’interno della commedia sociale. Ogni uomo,
insomma, porta di necessità una maschera e recita il ruolo che la società o le convenzioni o i propri ideali astratti gli
impongono. Essendo l’esistenza normale diventata forma, che blocca e paralizza la vita, le persone si sono trasformate
in personaggi, costretti a recitare uno specifico ruolo sociale.
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impiegato, di marito, di padre, di figlio ecc.) e che egli stesso si impone attraverso i propri
ideali morali. Proprio per questo nell'arte umoristica non sono più possibili né persone né eroi,
ma solo maschere o personaggi. Il termine personaggio non viene dunque usato da P.
nell'accezione comune: tutti gli uomini sono maschere o personaggi perché tutti recitano una
parte.
Il personaggio non è coerente, solido, unitario, perché non è più persona. Ha davanti a sé solo
due strade: o sceglie l'incoscienza, l'ipocrisia, l'adeguamento passivo alle forme, oppure vive
consapevolmente, amaramente e autoironicamente la scissione fra forma e vita. Nel primo
caso è solo una maschera, nel secondo diventa una maschera nuda dolorosamente
consapevole degli autoinganni propri e altrui, ma impotente a risolvere la contraddizione che
pure individua. Nel secondo caso la riflessione interviene continuamente a porre una distanza
fra il soggetto e i propri gesti, fra l'uomo e la vita: più che vivere, il personaggio «si guarda
vivere». La riflessione, la fine dell'immediatezza vitale, l'estraneazione da sé e dagli altri
diventano la sua marca esistenziale. Chi si guarda vivere, si pone fuori dall'esperienza vitale;
condannato all'estraneità, guarda da fuori e compatisce non solo gli altri ma se stesso. Questo
distacco riflessivo, amaro, pietoso e ironico insieme, è il segno distintivo dell'umorismo.
E’ esso a distinguerlo dalla comicità. Nel comico è assente la riflessione. Il comico nasce infatti
dal semplice e immediato «avvertimento del contrario», dall'avvertire, con un sussulto
irresistibile che provoca il riso, che una situazione o un individuo sono il «contrario» di come
dovrebbero essere. Invece l'umorismo è il «sentimento del contrario» che nasce dalla
riflessione: riflettendo sulle ragioni per cui una persona o una situazione sono il «contrario» di
come dovrebbero essere, al riso subentra il sentimento amaro della pietà (cfr. l'esempio che fa
Pirandello della vecchia imbellettata, che fa ridere solo se non si riflette sulle ragioni del suo
imbellettamento).
2) I romanzi
Il vivere ed il non vivere, l'esserci ed il non esserci, sono l'inconsueta esperienza di Mattia
Pascal, che privato della vita, di fronte al proprio « suicidio » inventa una nuova esistenza. E' la
trovata, per molti versi geniale, de Il fu Mattia Pascal, che pubblicato nel 1904 segue la
precedente uscita di altri due romanzi, L'esclusa e Il turno. In questi, come ne I vecchi e i
giovani (1909), Pirandello è mosso da quella tensione, già evidenziata per la prima stagione
novellistica, di riprendere una umanità, una società dentro la sua sofferenza e disillusione.
Ne Il fu Mattia Pascal questo stadio è superato e l'umorismo pirandelliano opera già
distesamente. Mattia Pascal, angariato da una vita opprimente, si trova graziato dalla scoperta
del proprio « suicidio ». La nuova esistenza come Adriano Meis, in un primo tempo scevra
d'ogni vincolo, lo ritrova poi di fronte alla realtà della propria nullità ed impotenza: « ...i morti
non debbono più morire ed io sì: io sono ancora vivo per la morte e morto per la vita ».
Il ritorno alla primigenia identità, frutto di un « secondo suicidio », lo ritroverà fuori della vita e
si riveleranno allora dense di significato le parole del vecchio Anselmo Paleari: « A noi uomini
... nascendo, è toccato un tristo privilegio: quello di sentirci vivere, con la bella illusione che ne
risulta: di prendere cioè come una realtà fuori di noi questo nostro interno sentimento della
vita, mutabile e vario, secondo i tempi, i casi e la fortuna. »
a) Tra Verismo e umorismo: i romanzi siciliani da L’ Esclusa a I vecchi e i giovani
L’esclusa e Il turno sono stati scritti alla fine dell'Ottocento sotto l'influenza di Capuana e del
Verismo, ma corretti e rielaborati, soprattutto il primo, quando già la poetica dell'umorismo era
in corso di maturazione. I vecchi e i giovani è stato composto invece fra il 1906 e il 1909,
quando P. stava elaborando la sua nuova poetica, ma appare ancora un romanzo di
transizione, a metà strada fra tradizione e umorismo. Tanto L’esclusa e Il turno quanto I vecchi
e i giovani riflettono - nell'argomento e nell'ambientazione - l'esperienza siciliana dell'autore.
Di questi romanzi il più datato è Il turno, scritto due anni dopo L’esclusa, nel 1895, ma
prigioniero di un facile bozzettismo veristico. Tuttavia, compaiono anche situazioni paradossali
e già pirandelliane: gli avvenimenti si succedono in un'assoluta casualità, prodotti non dalla
volontà degli uomini, ma da tiri beffardi della sorte.
L’esclusa, scritto nel 1893 con il titolo di Marta Ajala, pubblicato a puntate su «La Tribuna»
nel 1901, e poi, in una nuova edizione rivista e corretta, nel 1908. Anche in questo romanzo la
fa da padrone il caso, con i suoi paradossi: Marta Ajala, cacciata dal marito, Rocco Pentagora,
per un tradimento coniugale non commesso, e per questo esclusa dalla comunità, viene da lui
ripresa e riaccolta in famiglia quando invece è stato da lei consumato l'adulterio con Gregorio
Alvignani e addirittura la donna attende un figlio dall'amante.
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I principali motivi di interesse del romanzo sono i seguenti:
1) il tema dell'esclusione, presente già nel titolo. L'esclusione è la condizione tipica,
esistenziale e sociale, dell'intellettuale. E infatti Marta Ajala è una maestra, che cerca un
riscatto riflettendo sulla vita e studiandola dall'esterno;
2) al determinismo naturale dei veristi si sostituisce un determinismo sociale: a provocare
l'esclusione non è una condizione oggettiva, come nel romanzo naturalista, ma l'apparenza di
una condizione oggettiva: Marta non ha tradito il marito, ma basta che tutti lo pensino perché
venga emarginata. La verità non è più un prodotto della oggettività, ma è il risultato di
un'opinione;
3) il motivo esistenziale del padre, che chiude la porta della propria camera e non vuole più
vedere la figlia: è il motivo dell'incomunicabilità fra padre e figlio che tornerà anche in racconti
e romanzi (soprattutto in Uno, nessuno e centomila).
Il romanzo, accanto a elementi nuovi, presenta comunque la tradizionale struttura chiusa delle
opere naturaliste.
Più complessa e contraddittoria è la struttura di I vecchi e i giovani (1913), che oscilla fra
romanzo storico e romanzo umoristico. Ha per argomento il fallimento tanto dei «vecchi», che
avevano fatto il Risorgimento e costruito la "nuova Italia”, quanto dei «giovani», che stavano
formando la nuova classe dirigente o che tentavano di contrapporsi all'Italia ufficiale. I primi
sono travolti dalla corruzione; i secondi dall'«inanismo», dall'opportunismo cinico o
dall'avventurismo politico. Alla fine, quasi nessuno si salva dalla condanna dell'autore. La crisi
di fine secolo travolge tutti i principali personaggi, «vecchi» e «giovani», reazionari o socialisti.
b) I romanzi umoristici: da Il fu Mattia Pascal a Quaderni di Serafino Gubbio
operatore e Uno, nessuno e centomila
Il fu Mattia Pascal (1904) è il romanzo della svolta. In esso già si applica la poetica
dell'umorismo e appaiono i temi fondamentali dell'arte pirandelliana (il "doppio " , il problema
dell'identità, la critica al moderno e alla civiltà delle macchine).
Dopo Il fu Mattia Pascal Pirandello scrisse, nell'ordine, fra il 1904 e il 1915, I vecchi e i giovani,
Suo marito e Si gira... (poi Quaderni di Serafino Gubbio operatore). Contemporaneamente
lavorava a Uno, nessuno e centomila, che però sarà ripreso e completato solo negli anni Venti.
Si gira..., uscito a puntate nel 1915 sulla «Nuova Antologia» e in volume l'anno seguente,
venne poi rielaborato e pubblicato nel 1925 con il titolo Quaderni di Serafino Gubbio
operatore. E’ probabilmente, con Il fu Mattia Pascal, il capolavoro di Pirandello nel campo del
romanzo. Presenta una struttura quasi diaristica («Quaderni»). A scrivere in prima persona è
l'operatore Serafino Gubbio, divenuto muto per lo shock di una tragica esperienza collegata al
suo lavoro di operatore cinematografico: girando la sua manovella durante la ripresa di una
vicenda di caccia, ha registrato la scena in cui Aldo Nuti, innamorato follemente dell'attrice
Nestoroff, invece di sparare a una tigre, indirizza il colpo contro la donna finendo straziato e
ucciso dagli artigli della belva. La vicenda presenta le tinte melodrammatiche e vistose delle
sceneggiature cinematografiche allora di moda; ma in realtà è poco più di un pretesto per il
bilancio della vita del protagonista e per un'analisi impietosa della civiltà delle macchine. Da un
lato il bilancio esistenziale si conclude con la caduta di qualsiasi illusione, anche quella
rappresentata dal timido e d'altronde inconfessato amore del protagonista per Luisetta, e con
la riduzione del protagonista a una totale impassibilità ed estraneità, resa allegoricamente dal
suo mutismo; dall'altro lo studio della modernità induce a un rifiuto drastico dei miti della
macchina e del progresso, in implicita polemica con il Futurismo.
Questi due temi fondamentali - esistenziale l'uno, sociale l'altro - sono inseriti in una struttura
aperta e sperimentale (quella mobile dei «Quaderni»), ricca di anticipazioni, di ritorni
all'indietro, di racconti nel racconto: una struttura che dà congedo definitivo a un impianto
narrativo di tipo tradizionale.
Sin dall'inizio il protagonista è presentato nell'atteggiamento di chi, estraniato dalla vita, la
studia per cercarvi invano un significato. Il suo stesso lavoro di operatore, così impersonale,
così tecnico, mentre rappresenta la dequalificazione della professione intellettuale nell'era della
massificazione e delle macchine, contribuisce all'estraneazione di Serafino Gubbio. Non per
nulla gli unici suoi amici, come il filosofo-barbone Simone Pau e il violinista impazzito perché
costretto ad accompagnare con la sua musica un pianoforte meccanico, vivono nel sottosuolo,
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che rappresenta appunto il mondo dell'esclusione. Anche l'ideazione e l'organizzazione dello
spazio è significativa: da un lato, sotto, la società degli esclusi; dall'altro, sopra, l'universo
fatuo e colorato della Kosmograph e dell'industria cinematografica, dominato dalle leggi delle
macchine e del denaro.
Serafino Gubbio è l'intellettuale che rinuncia a svolgere un ruolo ideologico propositivo; è il
nuovo intellettuale "senza qualità": degradato alla pura mansione tecnica, alla fine si trova
ridotto a «un silenzio di cosa». L'afasia (= impossibilità di parlare) è l'ultimo approdo di una
condizione in cui l'unica salvezza possibile sta paradossalmente nella perfetta indifferenza,
omologa a quella della modernità circostante. L’individuo non ha scampo né redenzione
possibile dall'alienazione che lo circonda: la sua condizione non è che il riflesso dell'alienazione
dominante.
Uno, nessuno e centomila, iniziato nel 1909, fu pubblicato solo nel 1925-26. Come Il fu
Mattia Pascal è una narrazione retrospettiva (quando la storia viene raccontata, i fatti sono già
accaduti) condotta da una prima persona che è insieme voce narrante e protagonista della
vicenda. Anche il protagonista, Vitangelo Moscarda, ha molti punti di contatto con Pascal:
come lui, è un inetto, addirittura uno scioperato; come lui, non si riconosce nel proprio corpo
(qui, a causa di un naso non del tutto regolare); come lui, si è sposato per imposizione altrui;
come lui conduce una ribellione - più tortuosa in Pascal, più chiara in Moscarda - contro il
padre e contro la sua figura sostitutiva, l'amministratore (che in questo caso si chiama
Quantorzo). Ma, mentre nel Fu Mattia Pascal il personaggio tenta la propria affermazione e
cerca la propria identità in modo passivo, casuale e quasi inconsapevole, qui si fa protagonista
attivo e cosciente della propria liberazione. Invece di estraniarsi dalla vita e arroccarsi in un
atteggiamento critico-negativo, come fanno il «fu» Mattia Pascal e Serafino Gubbio, Vitangelo
Moscarda alla fine scopre la vita nel rifiuto della forma e nell'adesione all'indistinto naturale. La
contrapposizione alla civiltà delle macchine e delle città industriali è fortissima anche in questo
romanzo, come in Il fu Mattia Pascal e in Quaderni di Serafino Gubbio operatore, ma questa
volta si fa appello a un'altemativa positiva, quella della campagna e della natura.
Vitangelo Moscarda comincia anzitutto a ribellarsi all'opinione che gli altri hanno di lui,
all'identità che gli hanno attribuita. Per raggiungere questo obiettivo, deve dissolvere la propria
immagine pubblica di figlio scioperato di un banchiere usuraio: lui che non si era mai occupato
della banca vi penetra dentro fra lo sgomento degli impiegati e dei soci e, nonostante
l'opposizione dell'amministratore (che, dopo la morte del padre, ne gestisce gli affari),
s'impossessa degli incartamenti di una casa da cui vuole sfrattare un certo Marco di Dio.
Questo episodio, Il furto, ha il valore simbolico di un'uccisione del padre, ed è infatti uno dei
più intensi del libro. L’aggressione alla figura paterna - topos, come sappiamo, della letteratura
primonovecentesca, da Kafka a Tozzi - viene continuata anche successivamente attraverso la
liquidazione dell'eredità. Moscarda esige infatti di occuparsi direttamente della banca e dei beni
patemi che gli spettano. In modo sorprendente, stupendo la moglie, Quantorzo e tutti i
concittadini, finisce per regalare un appartamento a Marco di Dio. Poi propone di liquidare la
banca, in modo da togliersi di dosso l'immagine del figlio dell'usuraio, arricchito grazie alle
malefatte del padre. I soci della banca e la moglie lo giudicano pazzo e lo vogliono interdire.
Con l'aiuto di Anna Rosa, amica della moglie, Vitangelo si accorda con il vescovo per devolvere
i propri beni in opere di carità. Quando però Vitangelo cerca di baciare Anna Rosa, questa,
sconvolta dal suo modo di ragionare, gli spara con una pistola ferendolo gravemente. Al
processo, Moscarda la scagiona attribuendo al caso l'accaduto. Moscarda si reca in tribunale
con la stessa divisa dei mendicanti che vivono nell'ospizio che egli nel frattempo ha fatto
costruire con i soldi dell'eredità, devoluta tutta in opere di bene. Dopo aver corso il rischio di
diventare «uno» - di acquisire una identità sociale o maschera convenzionale, che ne farebbe
in realtà il riflesso dei «centomila» di una massa anonima - è diventato finalmente «nessuno»:
infatti ormai ha raggiunto la «guarigione» perché vive come un sasso, una pianta o un
animale, tutto immerso nel fluire insensato della vita, senza nome, senza identità, senza
pensieri e persino senza inconscio.
La conclusione del romanzo vuole essere dunque paradossalmente positiva. A una struttura
aperta e umoristica segue una conclusione "chiusa", che vuole ideare un percorso paradossale
di guarigione attraverso una fuoriuscita dalla forma per entrare nella vita, dalla società per
entrare nella natura. La stessa concezione della natura cambia rispetto a Il fu Mattia Pascal,
dove essa veniva concepita ancora leopardianamente come estranea e negativa. Viceversa, in
Uno, nessuno e centomila,l’estraneità della natura rispetto ai significati umani cessa di essere
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una minaccia e diventa una promessa. La natura diventa vita allo stato puro, e dunque simbolo
di positività. Siamo di fronte a un “misticismo laico-mondano” (Barilli). La natura si trasforma
in “mito”. Per questo la parte finale del romanzo segna una svolta nell’arte pirandelliana: entra
in crisi la poetica dell’umorismo e comincia, dopo il 1925, la stagione dei “miti” e del
surrealismo2.
c) Analisi del romanzo Il fu Mattia Pascal
La composizione e la pubblicazione
Il romanzo fu scritto dopo la grave crisi familiare del 1903, che pose Pirandello in cattive
condizioni economiche e scatenò la malattia mentale della moglie. Fu pubblicato a puntate
sulla rivista «Nuova Antologia» fra l'aprile e il giugno del 1904 e poi, in volume, nello stesso
anno, come estratto da questo periodico. Il romanzo fu poi ripubblicato altre volte, con ritocchi
e modifiche, dapprima a Milano, presso Treves (1910, 1912), poi a Firenze, presso Bemporad,
nel 1921, con l'aggiunta, in quest'ultimo caso, di un'Avvertenza sugli scrupoli della fantasia.
La vicenda, i personaggi, il tempo e lo spazio, i modelli narrativi
Il romanzo consta di tre parti, che corrispondono a tre diversi modelli di romanzo. La storia
comincia dalla fine. Negli ultimi due capitoli si narra la trasformazione del protagonista nel «fu»
Mattía Pascal. Ormai estraneo alla vita, egli racconta in prima persona la propria vicenda.
Prima di narrarla fa però due Premesse teoriche che costituiscono i primi due capitoli. Dunque
negli ultimi due capitoli (XVII e XVIII) e nei primi due (I e II) protagonista è il «fu» Mattia
Pascal. Egli vive in uno stato di non-vita, in una condizione di assenza del tempo, di
immobilità, di totale estraneazione rispetto all'esistenza, in un tempo fermo e in uno spazio
morto (quello di una biblioteca che nessuno frequenta e a cui egli dovrebbe accudire). Siamo in
una situazione in cui non si può sviluppare alcuna storia. Qui il modulo narrativo è quello
dell'antiromanzo, che esclude qualsiasi possibilità di svolgimento.
Una seconda parte e un secondo romanzo nel romanzo corrispondono ai capitoli III-VI. In essi
il protagonista è il giovane Pascal. Qui il modello di romanzo è quello idillico-familiare: Il luogo
è campestre, vicino al paese di Miragno, dunque lontano dalla civiltà industriale moderna.
Questa però vi penetra attraverso la figura dell'amministratore-ladro Batta Malagna che pone
in crisi il precedente equilibrio idillico. Per vendicarsi di lui, Pascal seduce Romilda da cui il
vecchio amministratore vorrebbe un figlio. La beffa erotica, che il protagonista vorrebbe
tendere all'amministratore, si complica per il fatto che Mattia ingravida anche la moglie di
Batta Malagna, Oliva. A questo punto il beffatore finisce beffato: mentre Malagna riconosce
come proprio il figlio di Oliva, Pascal deve accettare come moglie Romilda che invece puntava
a farsi sposare dal ricco amministratore. L’inferno della nuova vita coniugale, la difficoltà
economica in cui cade la nuova famiglia, le disgrazie (muoiono la madre e le due gemelle avute
da Romilda) inducono Pascal a pensare al suicidio. Ma, improvvisamente arricchitosi alla
roulette, egli approfitta di una falsa notizia della sua morte (è stato trovato un cadavere che gli
somiglia): si fa passare per morto e decide di cambiare identità (è questo il tema del cap. VII,
che serve da snodo fra la seconda e la terza parte).
Comincia a questo punto la terza parte o il terzo romanzo (capitoli VIII-XVI). Questa volta il
modello è quello del romanzo di formazione. E tempo e lo spazio cambiano ancora. Siamo
infatti in due grandi città (Milano e poi Roma). Di questo terzo romanzo è protagonista la terza
incarnazione di Pascal, il quale assume il nome di Adriano Meis, cercando di costruirsi un
nuovo io e di vivere in completa libertà, senza più obblighi di sorta. Dopo un soggiorno a
Milano e l'esperienza della modernità in una metropoli industriale, Adriano Meis si reca a
Roma, nella pensione di Anselmo Paleari, innamorandosi della figlia, Adriana, che il cognato
Papiano insidia. Ma i timori che venga scoperta la sua vera identità e l'impossibilità di avere
uno stato civile che renda possibile il suo matrimonio con Adriana lo angosciano di continuo.
Per non farsi riconoscere, si fa operare all'occhio strabico. E tuttavia, per non essere scoperto,
2 Surrealismo: movimento letterario ed artistico d’avanguardia nato in Francia dopo la I guerra
mondiale e affermatosi nel 1924 con il Manifesto del Surrealismo di A. Breton. Il surrealismo si propone di
analizzare il reale funzionamento del pensiero oltrepassando le barriere logico-razionali e indagando
l’inconscio e le sue manifestazioni ( sogno, sonnambulismo, trance) come luoghi dell’autenticità. Superato
il confine tra mondo reale e onirico, il S. dà ampio spazio all’assurdo e al non-sense.
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deve rinunciare a denunciare un furto che, durante una seduta spiritica, subisce a opera di
Papiano: si sente, cosi, ridotto a un'ombra. Accortosi di non poter sposare Adriana, per
allontanarla da sé corteggia la fidanzata di un pittore spagnolo ed è da questi sfidato a duello;
privo di identità, non trova i padrini necessari per battersi. Allora decide di fingere il suicidio
nel Tevere. La formazione di sé è fallita: si potrebbe dunque definire Il fu Mattia Pascal un
romanzo di formazione alla rovescia.
A questo punto si rientra nel primo romanzo, quello di cui è protagonista il «fu» Mattia Pascal,
che per due volte è stato giudicato morto dai conoscenti. Fuggito da Roma, egli torna a
Miragno e trova Romilda sposata all'amico Pomino con la figlia avuta da costui. Rinuncia allora
a vendicarsi contro di lei e ad avvalersi della legge (sarebbe lui il marito legittimo della donna);
decide invece di restare a Miragno «come fuori della vita». Ormai Pascal è diventato un
personaggio, una maschera nuda: non vive più, ma guarda vivere.
La conclusione del romanzo non vuole affatto affermare la necessità di una accettazione dello
«stato civile» (era questa l'interpretazione di Benedetto Croce). A don Eligio, che trova il
significato della storia appunto in tale conclusione, il «fu» Mattia Pascal obbietta, alla fine del
libro, di non essere affatto rientrato nella legge né di volervi rientrare e di avere ormai
rinunciato a qualunque illusione d'identità, sia individuale che sociale. Pascal ha capito
insomma che l'identità non può esistere né, tanto meno, può essere garantita da uno «stato
civile», che semmai riduce l'uomo a maschera, a forma. Non gli resta altro che porsi fuori dalla
vita, in una condizione di estraneità e di distacco da ogni meccanismo sociale.
La struttura e lo stile
Il romanzo presenta una notevole novità strutturale e stilistica. Anzitutto è una narrazione
retrospettiva in I persona, che comincia a vicenda conclusa e in cui l’inizio coincide con la fine.
In secondo luogo narrazione e metanarrazione, racconto e riflessione teorica sul racconto, vi si
mescolano, ponendo così in discussione la "naturalezza" e la "verità" della narrazione. L’opera
stessa è scritta - dice Pascal - solo «per distrazione» dall'unica verità a cui egli è arrivato: che
niente ha senso e che a questa legge non si sottrae nemmeno la scrittura. t una mossa,
questa, attraverso cui l'autore induce il lettore a diffidare della storia che racconta e ne
sollecita lo spirito critico e collaborativo: anche Svevo ne compie una analoga all’inizio della
Coscienza di Zeno, avvisando, attraverso la premessa del dottor S., che quanto sta per
raccontare è solo un cumulo di «verità e bugie». Mentre il narratore ottocentesco (si pensi a
Manzoni o a Verga) intende persuadere il lettore di stare raccontando la verità,quello
primonovecentesco non crede più ad alcuna verità, neppure alla propria, e invita il lettore alla
diffidenza e alla sorveglianza critica.
In terzo luogo Il fu Mattia Pascal è un romanzo-soliloquio, segnato dal ricorso continuo alle
interiezioni, alle esclamazioni, alle interrogazioni, alle domande retoriche, a espressioni come
«dico io», «pensate voi», «ecco qua». Lo stile è quello di un "recitativo" quasi teatrale, che
anch'esso contribuisce a togliere incanto, fluidità e naturalezza alla narrazione, estraniandola.
Anche la ritrattistica è grottesca, deformante, violentemente espressionista.(cfr. appunti
sull’Espressionismo)
Assumendo le forme di un esagitato soliloquio, il linguaggio di Pirandello, che potrebbe
sembrare grigio e burocratico (tale era l'opinione di un grande critico, Contini), acquista
viceversa una notevole carica di espressività.
I temi principali e l'ideologia de Il Fu Mattia Pascal
I temi principali del romanzo sono i seguenti:
1. la famiglia, sentita come nido o come prigione. E’ un nido la famiglia originaria, fondata sul
rapporto di tenerezza fra Pascal e la madre e sentita come idillio minacciato dall'avidità
dell'amministratore; è una prigione il rapporto coniugale con Romilda e quello con la suocera,
la terribile vedova Pescatore. In questo secondo caso, sembra possibile solo l'evasione. Si
riflette in ciò un elemento indubbiamente autobiografico: l’idealizzazione della madre è
costante in Pirandello e si accompagna invece all'esperienza infelice del matrimonio;
2. il gioco d'azzardo e lo spiritismo. Pirandello rappresenta minuziosamente il casinò di
Montecarlo, nei pressi di Nizza, dove Pascal vince alla roulette divenendo improvvisamente
ricco. La descrizione del luogo ha del reportage giornalistico e doveva servire a stimolare la
curiosità del lettore borghese nei confronti di un posto favoloso e "proibito». Ma in realtà il
gioco d'azzardo era un tema ricorrente: esso è presente, per esempio, in Il giocatore di
Dostoevskij (1867). Esso affascina Pirandello perché l'importanza del caso e il potere della
sorte contribuiscono a rafforzare la sua teoria della relatività della condizione umana,
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sottolineando i limiti della volontà e della ragione. Nella stessa direzione va l'interesse per lo
spiritismo (una seduta spiritica è rappresentata nel cap. XIV), molto diffuso fra i due secoli e
presente anche nella Coscienza di Zeno di Svevo. La crisi del razionalismo positivista induceva
infatti a occuparsi dei fenomeni non spiegabili scientificamente;
3. l'inettitudine. Come i personaggi di Tozzi, Svevo o di Kafka, anche Pascal è un inetto, un
velleitario che sogna un'evasione impossibile e che alla fine si trasforma consapevolmente in
un antieroe, reso inadatto alla vita pratica dalla sua stessa tendenza allo sdoppiamento, dalla
sua propensione a vedersi vivere e insomma dalla sua stessa estraneità nei confronti della vita
e di se stesso;
4. lo specchio, il doppio, la crisi d'identità. Mattia Pascal ha un rapporto difficile non solo con la
propria anima, ma anche con il proprio corpo. Ha difficoltà a identificarsi con se stesso. Spia di
questo malessere è l'occhio strabico, che guarda sempre altrove. La crisi d’identità dipende
anche dalla sua duplicità, rappresentata dalla sua predisposizione a sdoppiarsi e dalla sua
inclinazione a porsi davanti allo specchio.
Inoltre egli ripete sempre la stessa situazione, raddoppiandola continuamente: seduce prima
Romilda, poi Oliva; finge di essere morto due volte; per due volte si dà una nuova personalità,
prima come Adriano Meis, poi come «fu» Mattia Pascal. E ancora: si sostituisce spesso a un
alter ego, a un "doppio" di sé: per esempio si sostituisce a Pomino nell'amore di Romilda, e poi
è questo stesso amico a sostituirsi a lui come marito; infine tende sempre a ripetere la stessa
situazione collocandosi come terzo all'interno di un rapporto di coppia (si inserisce cosi all'ínizio
fra Malagna e Romilda, e anche fra la ragazza e Pomino che ne è innamorato; poi fra Adriana e
Papiano; infine fra il pittore spagnolo e la fidanzata, e alla fine, di nuovo, fra Romilda e
Pomino). E’ stato detto che tutto il romanzo è come una «successione di specchi» (Gardair) e
che ciò deriverebbe da una «divísione schizoide» (Gioanola) della personalità di Pirandello.
Certo è che la tendenza alla autoriflessività e allo sdoppiamento sembra connaturata all'atto
del vedersi vivere e alla "riflessione" umoristica
5. la modernità, la città, il progresso, le macchine. Nel cap. IX Adriano Meis è a Milano e,
frastornato dai rumori, dai tram elettrici (introdotti da poco) e dalla vista della folla, riflette
sulle conseguenze del progresso tecnico, negando che la felicità sia prodotta dalla scienza e
che le macchine possano servire a migliorare la condizione dell'uomo. In tale critica al
progresso si avverte l'influenza di Verga e soprattutto di Leopardi. Nel capitolo successivo, il X,
Meis si sposta da Milano a Roma. La capitale viene descritta come città morta, paralizzata da
un contrasto insanabile fra il passato glorioso e il presente squallido incapace di farlo rivivere.
Roma è un'acquasantiera che la modernità ha degradato trasformandola in portacenere (così
sostiene Anselmo Paleari, esponendo ovviamente il punto di vista dell'autore). La Roma di
Pirandello è dunque ben diversa da quella raffinata ed estetizzante del Piacere di d'Annunzio.
Con il punto 5 si entra nell'ideologia di Pirandello, nel campo delle sue posizioni "politiche" e
“filosofiche". Nel romanzo appare una posizione critica nei confronti della democrazia
giolittiana, definita a un certo punto «tirannia mascherata di libertà». La posizione di
Pirandello, al fondo anarchica, è affine a quella dei sovversivi píccolo-borghesi delle riviste
primonovecentesche anch'essi fieramente antigiolittiani.
Per quanto riguarda le posizioni «filosofiche», esse sono esposte per bocca di Anselmo Paleari
nel cap. XIII, intitolato Il lanternino. Secondo Pírandello - che si ispira a un coerente e rigoroso
relativismo - l'idea stessa del mondo varia non solo da individuo a individuo, ma, nella stessa
persona, a seconda del momento e dello stato d'animo. Poíché però l'uomo ha bisogno di
verità assolute, egli vuole credere che i propri valori siano certi e che la realtà sia oggettiva:
invece sia quelli che questa non sono che proiezioni soggettive. Solo per un autoinganno,
l'uomo può ritenere che la luce del «lanternino» della propria coscienza (di qui il titolo del
capitolo) sia la luce stessa delle cose. Ne deriva il carattere illusorio di qualunque certezza,
anche di quelle date dalla religione e dalla scienza. A complicare le cose, va aggiunto che gli
stessi «lanternini» delle coscienze individuali cessano di illuminare il cammino nei momenti di
trapasso e di crisi: infatti essi prendono luce dai «lanternoni», cioè dalle grandi ideologie
collettive che orientano l'umanità e che sono storicamente determinate. Quando i «lanternoni»
cessano di fare luce a causa dello sviluppo storico che rende improponibili valori del passato,
allora anche i «lanternini» si spengono.
Il fu Mattia Pascal e la poetica dell'umorismo
P. volle collegare esplicitamente il romanzo al libro L’umorismo, che infatti usci nel 1908
portando la dedica «Alla buon'anima di Mattia Pascal bibliotecario». In effetti i due capitoli
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iniziali di Premessa e l'intero capitolo XII, dedicato allo strappo nel cielo di carta di un teatrino
e alle sue conseguenze, sono veri e propri contributi teorici alla poetica dell'umorismo, in parte
ripresi e rielaborati nel saggio del 1908. Nella Premessa seconda il relativismo moderno e il
conseguente umorismo sono fatti dipendere dalla scoperta di Copernico e dalla fine
dell'antropocentrismo tolemaico: la rivelazione che l'uomo non è più al centro del mondo ma
costituisce un'entità minima e trascurabile di un universo infinito e inconoscibile rende assurde
le sue pretese di conoscenza e di verità e "relative" tutte le sue fedi. Per questo i romanzi
tradizionali di tipo naturalistico o decadente, mondano o sociale, sono messi alla berlina da
Pascal che considera ironicamente una serie di possibili esordi romanzeschi ricorrenti nella
letteratura del tempo, come.«Il signor conte si levò per tempo, alle ore otto e mezzo precise ...
», o «La signora contessa indossò un abito lilla con una ricca fioritura di merletti alla gola ... »,
o «Lucrezia spasimava d'amore» o «Teresina si moriva di fame». Secondo Pirandello, che qui si
esprime tramite Pascal, le strutture narrative di tali romanzi li rendono incapaci di
rappresentare la reale condizione umana successiva alla scoperta di Copernico.
Nel capitolo XII si descrive, infatti, quanto succede in seguito allo strappo nel cielo di carta di
un teatrino: l'eroe tradizionale, Oreste, esempio di coerenza e di sicurezza, si distrae di fronte
all'imprevisto, all'«oltre» che gli si spalanca davanti, e perciò vede cadere ogni naturalezza e
spontaneità del proprio agire: cessa di vivere e comincia a guardarsi vivere trasformandosi in
una sorta di moderno Amleto e divenendo di fatto un antieroe, un inetto incapace di azione.
Analisi del brano: Nelle poche parole che Anselmo Paleari pronuncia prima di andarsene “ciabattando”
per i fatti suoi, è contenuta gran parte dell’ideologia pirandelliana, quella che fa da supporto all’intera sua
opera. Essa si esprime in una serie di metafore collegate fra loro, in modo che l’una prende vigore
dall’altra. Intanto c’è l’idea, non certo nuova, anzi antichissima, del teatro come grande metafora della
vita: nello spazio ristretto del palcoscenico, qualsiasi esso sia, nobile o meschino, non si rappresentano
solo commedie o tragedie, ma vengono messi a nudo, mostrati i complessi meccanismi della vita degli
uomini. Questa vita non consiste forse nel recitare una parte, rivestire un ruolo che si determina in base
al rapporto che ogni personaggio ha con gli altri, con le strutture teatrali, con le idee che rappresenta,
con le capacità e la convinzione con le quali riesce a sostenere la recita? Se il teatro è dunque la vita
stessa, la differenza tra la tragedia antica e la moderna non riguarda soltanto lo sviluppo storico di una
espressione artistica, ma la condizione umana nel suo complesso.
Ecco perciò apparire e contrapporsi i due modelli: Oreste ed Amleto; essi sono due emblemi della
situazione esistenziale, la testimonianza di una crisi e di una frattura. Non è tanto necessario stabilire
“quando” tale rivolgimento si è manifestato, ma piuttosto il “come”: Paleari-Pirandello non vuole fare un
discorso di storia della cultura, ma stabilire la natura della crisi esistenziale dell’uomo contemporaneo. E’
lo “strappo nel cielo di carta” che blocca Oreste, perché gli mostra che dietro non c’è nulla; in questo
senso la metafora pirandelliana, che richiama alla mente quella di Schopenhauer (il “velo di Maia che
viene squarciato) si colloca sullo stesso piano della morte di Dio proclamata da Nietzsche.
Infatti lo strappo vuole indicare che l’uomo moderno non può più avere punti di riferimento fissi, le sue
certezze sono cadute, sono venuti meno i presupposti metafisici sui quali si reggevano gli ideali e il chiaro
discernimento del bene e del dovere. Nella tragedia antica Oreste trova il coraggio di superare le difficoltà
e di far tacere i propri sentimenti in nome di una lealtà verso i capisaldi che reggono l’intera vita sociale,
le strutture familiari e politiche che permettono all’individuo di vivere in armonia con se stesso all’interno
della società.
L’emblema dell’uomo moderno, che vive sotto il cielo squarciato, è scelto oculatamente da Pirandello.
Amleto è posto da Shakespeare nella stessa condizione di Oreste: deve vendicare sulla madre e sul suo
amante la morte violenta del padre; ma, al contrario del protagonista della tragedia antica, egli è
tormentato dal dubbio e nessuna cosa al mondo lo può aiutare a discernere fino in fondo il bene dal male,
ciò che è dovere da ciò che è libera scelta. Questo non significa che non succeda niente: alla fine della
tragedia shakespeariana la madre è uccisa, l’amante usurpatore è ucciso, ma tutto questo si verifica
attraverso una concatenazione di circostanze dominate dal caso, che determinano anche la morte di
Amleto. Quindi non l’inerzia e l’inazione è il destino dell’uomo moderno, ma l’insicurezza e il dubbio, uniti
alla coscienza della sostanziale casualità del proprio agire.
Ma nel passo c’è anche un altro particolare da non dimenticare : la rappresentazione di cui Paleari parla
ad Adriano Meis non verrà compiuta da attori, ma da “marionette”; il carattere metaforico dell’intero
discorso fa sì che anche questa riduzione dell’uomo ad automa rientri nell’insieme dei significati; tanto
più che a sottolineare proprio quest’aspetto c’è il commento di Adriano Meis, che indica in una sostanziale
perdita e rinuncia alla condizione di uomo l’unica possibilità che rimane di non vedere lo “strappo nel cielo
di carta”.
L’opera di Pirandello ha, dunque, questo presupposto ideologico: in un mondo sostanzialmente privo di
certezze, nel quale domina la coscienza della perdita irrimediabile degli ideali religiosi civili e culturali ( la
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classicità è finita), l’individuo agisce alla ricerca di un equilibrio che non può essere che precario; basta un
accidente qualsiasi perché lo “strappo nel cielo di carta” si manifesti in tutta la sua angosciosa tragicità.
Infine, nell'edizione de 1921, Pirandello aggiunge al romanzo un'Avvertenza sugli scrupoli della
fantasia, per sostenere la plausibilità della vicenda raccontata. Così facendo, e cioè entrando
nel merito della verosimiglianza del racconto, di fatto svuota l'artificio del manoscritto in cui
Pascal avrebbe raccontato la propria
storia e che avrebbe dovuto essere letto ed
eventualmente pubblicato solo cinquanta anni dopo la sua morte (come si legge nella
Premessa del cap. 1). La testimonianza lasciata in un manoscritto è un espediente impiegato
nei romanzi tradizionali per dare alle storie che vi sono raccontate l'apparenza del «fatto
accaduto". vera» Discutendo invece pubblicamente sulla verisimiglianza della trama, Pirandello
sottolinea il carattere artificiale della costruzione romanzesca, togliendole ogni aspetto di
«naturalezza" e di "storicità". Abbiamo così una sorta di sdoppiamento del romanzo: da un lato
esso è presentato come storia accaduta, dall'altro si discute se tale storia può essere accaduta
o meno. Ogni verità, insomma, è relativa, anche quella romanzesca.
3) Le Novelle per un anno: dall'umorismo al Surrealismo
Le « Novelle per un anno »
Il corpus delle novelle offre da sé un panorama umano caleidoscopico ed affascinate. Esse ci
presentano una tale varietà di casi da rendere del tutto inutile la ricerca di una loro organica
unità. I molteplici aspetti che ci riservano sono equiparabili agli innumerevoli mondi che
ciascuno di noi porta con sé.
Analisi della produzione novellistica
P. scrisse novelle per tutta la vita. Il suo primo libro di racconti uscì nel 1894, nel 1922 lo
scrittore decise però di riorganizzare tutta la sua produzione novellistica e di inserire i racconti
già pubblicati, insieme con quelli che andava elaborando e che avrebbe composto in futuro,
all'interno di un unico, nuovo progetto. Pensava di riunire tutti i suoi racconti sotto il titolo
Novelle per un anno, suddividendoli in 24 volumi contenenti 15 novelle ciascuno, per un totale
di 360, all'incirca una per ogni giorno dell'anno. In questa prospettiva corresse e riordinò le
novelle estraendole dalle precedenti originarie raccolte e inserendole in nuove unità
organizzative. La morte impedì tuttavia a P. di completare l'opera: uscirono quindici volumi,
che comprendono in totale 225 racconti. Altre 26 novelle, pur pubblicate dall'autore, sono
rimaste, al momento della morte, estranee ai volumi editi. Nel loro complesso dunque i
racconti di P. arrivano a quota 251: un'opera immensa.
L’opera Novelle per un anno fu perciò concepita nel 1922, anno in cui cominciò a essere
realizzata. Essa presenta una struttura enigmatica, perché resta misterioso il criterio di
organizzazione generale. Le novelle, infatti, non sono disposte in senso cronologico e neppure
sono raggruppate in modo tematico. Da un lato P. pone ogni cura nel sottolineare il nuovo
ordine narrativo, segnato da leggi numeriche e norme costanti (una novella al giorno, quindici
novelle a volume, tante novelle quanti sono i giorni dell'anno, il titolo del volume
corrispondente a quello della novella iniziale); dall'altro lato quest'ordine appare vuoto: chiude
una molteplicità di frammenti la cui legge, in assenza di un superiore ordine interpretativo, non
può che essere quella del caos e del caso. L’opera insomma è un'allegoria della dissipazione e
della varietà della vita, del suo carattere frantumato e insensato, in cui domina incontrastato il
flusso distruttivo del tempo.
E infatti il titolo, Novelle per un anno, pone in rilievo il tema del tempo, riprendendo una antica
tradizione novellistica (basti pensare al Decameron di Boccaccio), in un modo però che vuole
essere del tutto moderno. Il tempo è vissuto come dissipazione, vortice, caos, non come
progresso rettilineo, ordine, percorso. Personaggi, vicende, paesaggi sono immersi nella
caducità caotica e casuale della vita. Da un lato abbiamo un massimo di realismo, una sorta di
articolata commedia sociale che squaderna davanti al lettore ambienti contadini, borghesi,
nobiliari, riti, convenzioni e linguaggi della società italiana, siciliana e romana soprattutto, ma
anche internazionale (non mancano, fra le ultime, alcune novelle ambientate negli Stati Uniti);
dall' altro abbiamo invece un massimo di astrazione razionale che «campa nel vuoto» (parole
di Pirandello) un'umanità gesticolante e vociferante, eternamente ragionante sulla vita: la
commedia sociale resta senza spiegazione, sprofondata in una sorta di vortice allucinato che ne
sottolinea l'assurdità, il carattere contraddittorio e paradossale, la sostanziale mancanza di
fondamenti e dunque l'intrinseca vuotezza.
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Le novelle, se si eccettua il piccolo gruppo delle ultime, hanno caratteri stilisti costanti: il
linguaggio volutamente basso e quotidiano, quasi impiegatizio, è coerente con il progetto di
desublimare la vita.
Si distinguono le 19 novelle scritte per ultime, fra il 1931 e il 1936, e comprese in parte nel
volume Una giornata, e in parte in quello intitolato Berecche e la guerra. Esse sono ormai
estranee alla poetica dell'umorismo e presentano infatti caratteri decisamente surrealistici, per
certi versi affini a quelli dei "miti" teatrali: esibiscono spesso caratteri più lirici rispetto alle
precedenti, alludendo a momenti epifanici in cui sarebbe possibile cogliere una fusione
primigenia fra uomo e natura; ma, talora, ci risultati più intensi (come nella novella C'è
qualcuno che ride, aggiungono una inedita, eccezionale fusione di tratti espressionisti e
surrealisti e di spietata denuncia delle convenzioni sociali.
Possiamo indicare i seguenti caratteri complessivi delle Novelle per un anno:
1) l'uso mimetico e tuttavia critico-negativo e dissacrante del linguaggio. P. rivela
un'estrema attenzione nel rendere realisticamente i segni di una comunità, i modi e la mimica
con cui si riconosce un gruppo sociale. I personaggi sono individuabili a partire dalla loro
accettazione, spesso esasperata ed estrema, di un linguaggio e di una mimica di gruppo, Ma
proprio tale accettazione portata alle estreme conseguenze fa esplodere la contraddizione linguistica e sociale insieme - del loro comportamento. Per esempio, in un racconto famoso, La
patente, lo iettatore, che vuole la patente per esercitare la sua funzione sociale appunto di
iettatore, esprime e usa, non solo nelle parole ma nell'atteggiamento del volto e nel vestire, i
segni della comunità di cui fa parte. Insomma, la critica e la rottura delle convenzioni passano
attraverso l’accettazione piena del linguaggio delle convenzioni, che così viene portato sino
all'assurdo mostrandone l'interna contraddizione e l'intrinseca paradossalità;
2) l'isolamento espressionistico della parte rispetto al tutto. La tecnica della “zoomata"
è frequente in P.: il particolare, ripreso da vicino e staccato dal resto, diventa mostruoso. E’
cosi, per esempio, nel racconto La mosca, dove la presentazione da vicino delle zampine
dell'insetto che portano la malattia mortale del carbonchio finisce con il risultare perturbante.
In un altro racconto, La mano del malato povero, si mostra solo la mano del malato, ma non il
suo corpo. Il particolare scisso dall'universale produce o un effetto sinistro e demoniaco (come
nel primo caso) o un'indagine investigativa e razionale per risalire dal particolare al generale
(come nel secondo caso). In ogni caso, però, il dettaglio assume un valore straniante, spesso
allucinato, e mostra l'estrema dimestichezza di P. con una tecnica tipica dell'Espressionismo.
Come negli autori espressionisti, il mondo non ha più ordine né gerarchia. La parte è ormai
tagliata via da un tutto imprendibile e sfuggente e dunque da qualsiasi possibilità di significato;
3) il paesaggio e la sua disarmonia rispetto all'uomo. Nelle novelle il paesaggio è il
distaccato e talora ironico scenario delle sventure umane. Fra natura e società si è aperta una
frattura incolmabile che rende impossibili le corrispondenze simboliche fra l'una e l'altra:
persino il paesaggio-stato d'animo, quando s'affaccia, può essere irriso. Per esempio, in Ciaula
scopre la luna, il pianeta appare del tutto lontano e ignaro degli uomini;
4) il rapporto fra nichilismo e ricerca della verità. Nelle novelle P. porta a fondo la critica
all'idea stessa di verità, sia essa concepita in termini positivistici (la verità garantita dalla
scienza), o in termini religiosi (la verità garantita dal dogma di una fede) o in termini
spiritualistici e idealistici (la verità garantita dalla realizzazione dello spirito nella storia, come
voleva Croce). L’affermazione del carattere relativo di ogni opinione e visione del mondo sfiora
in P. il nichilismo. E tuttavia di un nichilismo assoluto non si può parlare: molti racconti
sembrano nascere infatti da un bisogno di indagine e di ricerca e presupporre la funzione
dell'interprete e talora addirittura del detective (basti pensare a Il treno ha fischiato). Talora la
stessa voce narrante conduce un'indagine per opporsi alle interpretazioni convenzionali e
ossificate date dalle autorità (i tribunali, per esempio) e per proporre diverse interpretazioni
dei fatti. P. sembra credere, insomma, che sia possibile, con la forza dell'argomentazione,
usando la ragione come metodo o strumento e non come ideologia complessiva, giungere a
verità relative;
5) La struttura delle novelle. A conferma di quanto appena detto, la struttura dominante
delle novelle è quella di una "narrazione discorsiva", spesso fortemente parlata e comunque
fondata sul principio dialogico della conversazione. L’autore sembra nutrire una qualche fiducia
nell'uso critico e straniante del linguaggio o addirittura nella sua capacità argomentativa,
messa in campo per sostenere una tesi di parte e dunque per persuadere un ipotetico lettore.
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Insomma P. vuole convincere il pubblico a cui si rivolge che un'ipotesi interpretativa è
preferibile a un'altra e si batte, e si arrovella e incessantemente argomenta per raggiungere
tale scopo pratico (si veda ancora Il treno ha fischiato). Un'altra costante strutturale è la
varietà e la mobilità dei punti di vista adottati, delle focalizzazioni, delle tecniche narrative: si
va dalla forma epistolare al racconto dialogato e alla narrazione oggettiva; si passa dalla prima
alla terza persona, dall'appello al «tu» a quello al «voi».
In questo modo i racconti mettono in rilievo l'apertura e la problematicità di una ricerca in
corso.
Novelle per un anno è, insieme ai racconti di Verga e di Tozzi, uno dei risultati più alti della
narrativa italiana dopo l'Unità. Di più: insieme al Decameron di Boccaccio, a cui per certi versi
si ispira (nel tema temporale e nell'intento di rappresentare realisticamente la commedia
umana), è indubbiamente uno dei capolavori della novellistica italiana di tutti i tempi.
4) Pirandello e il teatro
Il teatro
Tutta l'opera di Pirandello giunge alla sua esaltazione nel teatro. La stagione teatrale
testimonia l'avvenuta maturazione della coscienza pirandelliana che in tante opere, anche
grandi, era andata crescendo.
E' nei Sei personaggi in cerca d'autore e nell'Enrico IV che Pirandello tocca i punti più elevati
del suo creare. I sei personaggi ricercano un autore che dia loro la possibilità di svolgere quel
dramma per cui sono « nati »; Enrico IV, essendogli venuta meno la forza di rappresentare sul
palcoscenico della vita il proprio dramma di uomo autentico, accetta la « bollatura » di chi lo
vuole pazzo, recitando a se stesso ed agli altri la propria pazzia cosciente. Questi i poli
culminanti dell'iceberg pirandelliano. Da un lato sei figure, o meglio sei ombre la cui realtà
appare a volte più cruda, più solidamente ingenerata rispetto a chi, uomo, vive la labilità
temporale. Dall'altro un uomo, ormai ombra a se stesso, la cui vita diviene lucida pazzia per
sfuggire la normalità ipocrita di chi giudica senza pietà l'altrui vivere.
Analisi della produzione teatrale
Pirandello è l'unico scrittore italiano del Novecento famoso in tutto il mondo; e questa celebrità
si fonda in massima parte sul suo teatro. Già in vita, egli riscosse successi all'estero,
soprattutto in Francia, in Germania e negli Stati Uniti. Ancora oggi i suoi drammi continuano a
essere rappresentati e a incidere sull'immaginario collettivo.
Nel teatro P. trovò in effetti la forma espressiva che meglio poteva dare forza alla sua visione
della realtà. Il contrasto fra “vita” e “forma”, fra realtà e finzione, fra persona e personaggio o
maschera acquista sulla scena un'evidenza straordinaria, Il teatro è infatti la forma di
rappresentazione artistica che più pretende al realismo (cose, persone e fatti ci si presentano
direttamente davanti gli occhi); ma è anche quella, in cui il grado di artificio è "alto” (tutto
quello che vediamo è un inganno: gli eroi sono uomini travestiti, le passioni sono recitate, gli
eventi simulati). Pirandello esalta questa ambiguità e la fa esplodere, per indagare le
ambiguità della vita stessa.
Come nella sua opera narrativa, la riflessione ha sempre un posto centrale. I personaggi
rimangono personaggi ragionatori, e buona parte dell'azione è raddoppiata dall'indagine
sull'azione stessa e dalla ricerca del suo significato. Ma a questa riflessione si aggiunge quella
dell'autore sul teatro, in quanto allegoria della vita: ecco l'aspetto metateatrale e il " teatro
nel teatro”3
Si chiama "teatro nel teatro" una particolare tecnica teatrale nota anche con la denominazione francese di mise en
abime (messa in abisso): durante la recita si mette in scena un'altra recita. Gli attori della scena assistono a un'altra
rappresentazione teatrale e si trasformano essi stessi in spettatori. Uno spettacolo ne contiene un secondo. Realtà e
finzione in tal modo si scambiano le parti, si alternano e si mescolano, cosicché diventa difficile distinguerle. E’ questa
una tecnica che si sviluppa nell'età del Manierismo e in quella del Barocco e che infatti è messa in pratica anche da
Shakespeare nell'Amleto. A causa dello scambio fra realtà e finzione, essa sarà ripresa soprattutto dal teatro
novecentesco e da Pirandello. Questo autore, nella sua trilogia dedicata al "teatro nel teatro", se ne serve per discutere
sul teatro stesso, per porlo in questione (in Sei personaggi in cerca d'autore), oppure per considerare la possibilità che
esso anticipi la realtà (in Ciascuno a suo modo), oppure per criticarne alcune manifestazioni (in Questa sera si recita a
soggetto). Così le due rappresentazioni si estraniano e si criticano a vicenda oppure la seconda recita serve a parlare
della prima: in ogni modo la doppia rappresentazione rivela in Pirandello un'altemanza di teatro e di metateatro e cioè
di finzione scenica (teatro) e di discussione su tale finzione (metateatro). L'elemento teorico viene così portato sulla
scena e incorporato nello spettacolo stesso.
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Sovvertire i limiti fra finzione e realtà, rompendo, l'illusione drammatica e la separazione fra
scena e platea, vuol dire infatti rivelare quanto di teatrale ci sia nella nostra esistenza. Il
teatro, con i suoi specifici meccanismi, diventa così uno straordinario strumento di conoscenza
e di critica.
Dopo Il berretto a sonagli, i capolavori di Pirandello in campo teatrale sono Così è (se vi pare)
e Il piacere dell'onestà, entrambi del 1917, e Il giuoco delle parti del 1918. E’ la fase del
"teatro del grottesco". 4 In queste opere il tema tradizionale del triangolo borghese (moglie,
marito, amante) è ripreso e nel contempo rovesciato: la logica delle convenzioni borghesi è
accettata solo per essere portata, estremisticamente e paradossalmente, alle ultime
conseguenze, in modo da farne esplodere dall'interno tutte le contraddizioni. Il teatro
tradizionale diventa, così, "grottesco". Spesso, per esempio, i personaggi consapevolmente si
attengono alla norma delle convenzioni, smascherandola proprio grazie alla coerenza e al
rigore con cui la rispettano: fanno così i protagonisti del Berretto a sonagli, del Piacere
dell'onestà e del Giuoco delle parti. Nei capolavori di questa fase, i protagonisti sono caratteri
fissi, irrigiditi in maschere. Laudisi in Così è (se vi pare), Baldovino in Il piacere dell'onestà,
Leone Gala in Il giuoco delle parti sono personaggi astratti, maestri del puro ragionamento e
ad esso crudelmente fedeli. In Il piacere dell'onestà Baldovino vuole rispettare fino in fondo il
codice borghese e la parte di marito che gli è stata affibbiata. Accetta di sposare Agata solo
nella forma, in modo da poter dare un padre legittimo al figlio che costei sta aspettando
dall'amante, ma poi pretende che le forme siano rispettate sino in fondo, scontrandosi così con
il perbenismo ipocrita della madre di Agata e dell'amante di lei. Recita così onestamente e
rigorosamente la parte del marito che la situazione diventa insostenibile: alla fine Agata si
innamora di lui ed egli finisce con il diventarne marito a tutti gli effetti. Quanto a Leone Gala,
protagonista del Giuoco delle parti, egli fa sino in fondo la parte del marito: pur essendo
separato dalla moglie, ne sfida a duello, come il codice borghese impone, l'offensore; ma poi
esige che sul terreno di scontro scenda l'amante di lei, di fatto mandandolo a morte
(l'offensore della moglie è infatti un famoso spadaccino).
In Così è (se vi pare) - andato in scena per la prima volta a Milano nel giugno 1917 - Laudisi
smaschera, con la sua lucidità, con i suoi commenti paradossali, con le sue risate, la pretesa di
verità oggettiva che una comunità borghese vanamente ricerca a spese della povera famiglia di
un impiegato, il signor Ponza. Sua suocera, la signora Frola, sostiene che la moglie di lui è sua
figlia e che il genero le impedisce di vederla. Il signor Ponza, invece, afferma che la figlia della
signora Frola è morta e che la donna con cui egli vive è la sua seconda moglie. Sono in
questione qui sia la categoria di identità (chi è veramente la moglie?) sia quella di verità: è
pazza la suocera, come afferma il signor Ponza, o è proprio lui, invece, a essere pazzo? E
poiché le autorità cittadine, nell'intento di arrivare a una presunta verità oggettiva, mettono in
scena una specie di inchiesta giudiziaria e poi di tribunale, il palcoscenico si trasforma in una
sorta di «camera da tortura» (Macchia). Il dramma deriva la sua efficacia non tanto dalla sua
dimensione "filosofica", che ne fa una sorta di manifesto del relativismo gnoseologico
pirandelliano, quanto dal freddo accanimento con cui l'autore aggredisce la nozione comune di
verità e mette in scena il sadismo piccolo-borghese. La gelida impassibilità della regia
pirandelliana nasconde un furore speculare e antitetico rispetto a quello della crudeltà
borghese che si accanisce contro il signor Ponza e la signora Frola.
Sei personaggi in cerca d'autore e il "teatro nel teatro"
Dopo la notevole affermazione, nel 1920, di Tutto per bene e soprattutto di Come prima,
meglio di prima, Pirandello mette in scena, fra il 1921 e il 1922, i suoi due capolavori, Sei
personaggi in cerca d'autore ed Enrico IV, convertendosi definitivamente al teatro. Nei drammi
scritti fra il 1917 e il 1920 aveva trasformato in grottesco il tradizionale teatro borghese,
straniandolo dall'interno, attraverso personaggi come Laudisi o Baldovino. Ora va più in là.
Vuole dimostrare che il dramma borghese è irrappresentabile e che l'arte stessa è incapace di
cogliere il significato della vita.
Con Sei personaggi in cerca d'autore P. dà inizio a una trilogia di opere, scritte a distanza di
anni l'una dall'altra ma accomunate dall'autore sotto l’etichetta di «teatro nel teatro»: oltre a
Grottesco: in senso generale è sinonimo di bizzarro e deforme e perciò ridicolo. In accezione più tecnica, designa
una forma teatrale nata in Italia attorno al 1910, caratterizzata da situazioni paradossali ed enigmatiche in cui sono
denunciate, con sarcasmo ed ironia, l’assurdità della condizione umana e le contraddizioni della società.
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Sei personaggi, Ciascuno a suo modo, composta nel 1923 e rappresentata nel 1924, e Questa
sera si recita a soggetto, elaborata fra il 1928 e il 1929 e messa in scena nel 1930.
Seí personaggi in cerca d'autore segna una svolta. Sono infatti raggiunti entrambi gli obiettivi
impliciti nella ricerca teorica di P. sul teatro: l'autonomia piena dei personaggi dall'autore e la
dissacrazione del momento artistico. L'autonomia dei personaggi è tale che essi sono
addirittura portati sulla scena «in cerca d'autore», ciascuno con la sua verità in opposizione a
quella degli altri, e in assenza, appunto, di un autore, capace di dare unità di senso alla loro
vicenda. La dissacrazione giunge sino all'esibizione e alla messa a nudo degli artifici teatrali,
smascherati come paccottiglia e trucco volgari, alla negazione della materialità del
palcoscenico e cioè della tradizionale barriera fra scena e spettatori.
Anzi la formula del «teatro nel teatro" va ben al di là dell'artificio di far recitare sulla scena,
durante la recita di un dramma, un altro dramma, e diventa pretesto per una discussione sul
teatro stesso: insomma teatro e metateatro, finzione scenica e dibattito teorico su di essa si
mescolano strettamente. Così Pirandello può rappresentare la sua stessa diffidenza per il
teatro, inserendola però - almeno in Sei personaggi in cerca d'autore - in un discorso
complessivo che riguarda in realtà l'impossibilità dell'arte di conoscere e di riprodurre la vita.
La critica al dramma borghese dell'epoca, intriso di romanticismo melodrammatico, e alle
compagnie che lo mettono in scena è evidente, ma l'autore vuole colpire più in alto: è il potere
stesso dell'arte, cosi enfatizzato dalla letteratura decadente, che viene posto in questione. E
questo il legame più profondo di P. con le avanguardie internazionali di quegli anni, fra
Espressionismo e Dadaismo.
L’opera, scritta e portata in scena nel 1921 (con insuccesso a Roma, con grande successo a
Milano cinque mesi dopo), fu poi rivista e ritoccata, soprattutto nel finale, nel 1925, per una
nuova edizione che contiene anche una lunga prefazione dell'autore. In essa P. spiega che il
vero dramma dell'opera non è quello melodrammatico portato sulla scena dai sei personaggi,
ma un altro: l'autore, pur avendoli immaginati, non è stato in grado di trovare alla loro vicenda
un «significato universale» e per questo li ha rifiutati. Questo è il vero dramma: l'impossibilità
dell'arte moderna di individuare il significato della vita e quindi anche le ragioni della propria
stessa esistenza.
Da un lato abbiamo i sei personaggi con i brandelli della loro storia esagitata, dall'altro non
solo una compagnia di teatranti incapace di darle un senso, ma anche un autore teatrale che
rinuncia al compito di conferire unità e significato alla loro vicenda, ben sapendo che assolverlo
significherebbe di necessità cadere nella finzione e nella mistificazione. Siamo perciò nel campo
dell’ allegoria vuota: i personaggi vorrebbero che la loro storia significasse qualcosa, indicasse
"altro" da se stessa, ma questo "altro" non viene mostrato. Essi sono altrettanti frantumi di un
senso possibile: vorticano alla ricerca convulsa di un significato, che però non viene
individuato. Il «fatto», con le sue componenti melodrammatiche, è solo la materia passionale
su cui agisce il progetto allegorico dell'autore che, rifiutando i suoi personaggi, trasforma il
dramma da loro vissuto nel dramma dell'impossibilità del senso.
Vicenda. Mentre una compagnia di attori sta provando “Il giuoco delle parti” di Pirandello e la
scena è ancora in corso di allestimento, fanno irruzione, passando dal fondo della sala sul
palcoscenico, sei personaggi chiedendo di vedere rappresentato il loro dramma. Dopo varie
perplessità il Capocomico accetta: dalla storia che essi raccontano, contraddicendosi
continuamente fra loro, vorrebbe ricavare un canovaccio da rappresentare. Perciò invita
dapprima i sei personaggi a mettere in scena, per prova, la loro vicenda, poi gli attori presenti
a ripeterne le battute, La storia ha tutti i tratti del drammone melodrammatico ottocentesco: il
Padre ha spinto la moglie (la Madre) ad andarsene di casa e a vivere con l'amante,
abbandonando cosi il marito e il Figlio. Dalla nuova unione sono nati altri tre figli. Morto
l'amante, a causa delle difficoltà economiche la Madre lavora come sarta nell'atelier di Madama
Pace che in realtà serve da paravento per una casa di appuntamenti. Dei tre nuovi figli, la
maggiore, la Figliastra, è costretta a prostituirsi nell'atelier di Madama Pace per mantenere la
famiglia. Un giorno, fra i clienti, appare il Padre che non la riconosce; solo l'intervento della
Madre impedisce un rapporto sessuale che sarebbe quasi incestuoso. Il dramma è reso più
tragico dalla morte della Bambina, che affoga nella vasca del giardino, e dal suicidio del
Giovinetto, suo fratello, che si uccide con un colpo di pistola.
La vicenda presenta una struttura molto complessa, articolata su piani diversi, i quali, essendo
in conflitto fra loro, invece di darle unità e organicità, hanno la funzione di destrutturarla. Un
primo piano (1) è quello del passato e riguarda quanto in effetti è accaduto. Un altro piano (2),
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strettamente intrecciato al precedente, riguarda le interpretazioni che ne danno al presente i
sei personaggi e che risultano contrastanti e comunque irriducibili a un'unica verità. Di
conseguenza il passato è reso incerto e precario dall'impossibità di distinguerlo dal ricordo che,
nel tempo presente, ne hanno i diversi personaggi. Un altro piano ancora (3) è quello
dell'equivalente scenico che ne tenta, ancora al presente, il Capocomico, con il risultato di
mettere in scena situazioni del tutto divergenti dal modo con cui i sei personaggi le hanno
vissute. Infine, un ultimo piano (4), sottinteso dal titolo, emergente da qualche battuta del
testo e reso esplicito dalla prefazione, è quello del rapporto fra i personaggi e un autore
assente e impotente. L'autore infatti non può e non vuole svolgere la tradizionale funzione di
mediatore ideologico e infatti si rifiuta di dare unità e significato alla storia dei personaggi, che
pure ha inventato, ma che ormai sono autonomi da lui.
Da Enrico IV al "pirandellismo"
La stessa dissociazione fra materia e suo significato che abbiamo notato nei Sei personaggi
ritorna in Enrico IV, l'altro grande dramma del 1921 (ma messo in scena l'anno successivo).
Apparentemente esso sembra restaurare il clima e la scenografia della tragedia: lo spazio è
quello tradizionale della reggia; le tre unità aristototeliche (di spazio, di tempo e d'azione) sono
rispettate; protagonista è un re che parla con dignità e linguaggio regali. In realtà la scena è
posticcia, la reggia è una messa in scena, il re è un comune borghese che finge d'essere Enrico
IV. Egli infatti da otto anni continua a recitare consapevolmente la parte del pazzo, agevolato
da servitori che si vestono e si comportano da dignitari medievali, dopo che per dodici anni era
stato effettivamente folle in seguito a una caduta da cavallo provocata dal rivale Belcredi, il
quale ha potuto così sottrargli la donna amata, Matilde. La tragedia insomma si rivela
degradata, e l'opera si propone piuttosto come discorso sulla tragedia e sulla sua impossibilità
al presente. Il drammone tipico della tragedia ottocentesca - con un rivale d'amore infine
trafitto dalla spada del sedicente Enrico IV - è un puro pretesto per mettere in scena la
necessità drammatica dell'estraneità. Solo ritirandosi dalla vita, rifugiandosi nella storia
passata e nella follia, è possibile conservare una lucida estraneità non solo dall'esistenza reale
ma dai propri stessi sentimenti. Cosi, quando Matilde, Belcredi e uno psichiatra, vent'anni dopo
l'episodio della caduta da cavallo, vanno a trovare il presunto Enrico IV nel tentativo di
guarirlo, questi trafigge il rivale non tanto per gelosia, quanto per cancellare il mondo del
rimosso, delle pulsioni del passato che sono tornate improvvisamente e pericolosamente a
manifestarsi, e soprattutto per conservare un'immagine di pazzo che gli consentirà di
continuare a guardare la vita da fuori e a sospenderne gli usuali, consunti significati.
Dopo il 1923 (anno anche dell'importante atto unico L’uomo dal fiore in bocca) la produzione
teatrale di Pirandello si svolge in tre filoni principali- uno è quello che abbiamo già considerato,
del "teatro nel teatro", di cui fanno parte Ciascuno a suo modo e Questa sera si recita a
soggetto; un secondo è quello del Surrealismo - in cui per esempio rientra l'atto unico Sogno
(ma forse no) del 1931 e dei tre «miti» teatrali di cui ci occuperemo nel prossimo paragrafo; il
terzo è quello del cosiddetto "pirandellismo", che comprende il grosso della produzione
teatrale pirandelliana fra il 1926 e la morte. In quest'ultimo, Pirandello imita se stesso
portando sulla scena con insistenza ossessiva gli stessi temi in modi ormai manierati e
artificiosi. Il contrasto vita/forma vi è esemplificato in situazioni e ambienti della ricca e alta
borghesia, non senza concessioni a modi dannunziani precedentemente sempre combattuti,
soprattutto nella rappresentazione dei personaggi femminili.
I «miti» teatrali: I giganti della montagna
Il recupero del momento della creazione estetica e del valore conoscitivo dell'arte caratterizza
i tre “miti”, La nuova colonia (1928), Lazzaro (1929), I giganti della montagna (1930-33) e la
fiaba in versi , La favola del figlio cambiato (1933).
Se la ricerca di P. umorista e allegorico, dal Fu Mattia Pascal al progetto delle Novelle per un
anno, dal teatro “grottesco" a Sei personaggi ed Enrico IV, era sostanzialmente razionale,
condotta sul filo del ragionamento e della logica e giocato sulla dialettica della scomposizione e
decostruzione di situazioni e ambienti borghesi, ora prevalgono invece - non senza qualche
fortunata eccezione - procedure e suggestioni di tipo irrazionale, mistico, talora addirittura
trascendente, tendenti ad affermare verità universali che dovrebbero imporsi immediatamente
attraverso processi del tutto intuitivi e per la forza delle immagini e dei simboli. Invece di
cogliere la mancanza, la scissione, la contraddizione, il Pirandello dei «miti» (soprattutto dei
primi due perché per il terzo occorre fare un discorso diverso) aspira a un'arte dell'organicità e
della naturalezza, che sia espressione di una verità arcaica e voce simbolica di un assoluto.
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Nella Nuova colonia la Madre Terra punisce con un sisma coloro che non sanno vivere
all'altezza dei valori naturali che il suo mito esprime (i contrabbandieri che sono andati ad
abitare su un'isola deserta e qui ripristinano le vecchie coercizioni della civiltà e della forma) e
invece salva, e santifica, chi resta a essi fedele, mostrandosi capace di accogliere in sé le forze
vitali della creazione: unica superstite, con il figlioletto, è La Spera, immagine della maternità.
In Lazzaro la forza di una religione immanentistica e spiritualistica fa compiere al suo
sacerdote, Lucio, il miracolo di far camminare la sorella paralizzata e a Sara e ad Arcadipane
quello di un ritorno alla sanità della natura e della campagna in un podere felice contrapposto
alla mostruosità della città e della vita meccanizzata. Anche nei Giganti della montagna
esiste un prodigio, realizzabile solo separandosi dalla vita associata: quello della liberazione
magica, a un tempo, delle forze del sogno, dello spirito e dell'inconscio e di quelle della
creazione artistica; ma in questo dramma rimasto incompiuto agiscono anche altre interessanti
controtendenze che ne fanno, insieme ad alcune novelle (come C'è qualcuno che ride), uno fra
i risultati più alti dell'ultima stagione di Pirandello e della sua intera produzione.
In I giganti della montagna da un lato abbiamo il luogo del mito, la villa della Scalogna,
separata e isolata dal mondo, dove il mago Cotrone e altri dimissionari dalla vita si dedicano a
pratiche magiche ed estetiche di tipo surrealistico facendo riemergere il mondo dell'inconscio;
dall'altro abbiamo la montagna dove abitano i Giganti insensibili all'arte e dediti solo alla
guerra, agli affari e a ciclopiche costruzioni (evidentemente, i Giganti rappresentano il potere
fascista, la sua ideologia, il suo costume) e dove Ilse, la prima attrice di una compagnia di
commedianti respinti dalla società, vorrebbe portare il messaggio dell'arte recitando La favola
del figlio cambiato. L’opposizione dei luoghi rivela dunque un'altra opposizione: quella fra
natura e civiltà, fra mito e storia.
Cotrone e Ilse sono entrambi sconfitti, cacciati dalla comunità, perché dediti ai fantasmi del
sogno, della creazione estetica, dell'inconscio; ma il primo ha ormai rinunciato alla società e
immagina il mondo del mito come autosufficiente e autonomo, la seconda non può fare a meno
del rapporto sociale e del contatto con il pubblico. Così Ilse persuade lo scettico Cotrone ad
aiutarla a portare sulla scena il proprio dramma; ma i servi dei Giganti, unici spettatori,
incapaci di comprenderne l'arte, finiranno per farla a pezzi. Questa conclusione del dramma fu
comunicata dall'autore morente al figlio e non fu mai scritta.
A differenza degli altri due «miti» teatrali, qui il conflitto fra mito e storia emerge con violenza
inaudita. Il programma dell'autosufficienza dell'arte, del sogno e della fantasia e la poetica
simbolista e surrealista sostenuta da Cotrone devono fare i conti con l'irruzione della
dimensione della socialità, e cioè di una prospettiva estranea che apre fratture e tensioni. Al
mito della natura si oppone la realtà della storia e della società, rappresentata non senza
evidenti allusioni al fascismo.
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